Jean Genet – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Santi subito, di Antonio Veneziani https://www.carmillaonline.com/2022/05/09/santi-subito-di-antonio-veneziani/ Mon, 09 May 2022 20:38:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71587 Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. [...]]]> Fve editori, Milano 2022 pp. 112, € 17

Esce oggi questo particolarissimo testo del poeta Antonio Veneziani, una raccolta di testi poetici, sotto forma di invocazioni ad alcuni personaggi dell’immaginario, gli ultimi, o forse gli unici, santi possibili. Ognuno di loro, infatti, potrebbe essere inserito nella nostra rubrica Santi subito, personaggi da ri(s)valutare. Di seguito ne pubblichiamo alcuni, Allen Ginsberg, Jim Morrison, Marco Ferreri, Amelia Rosselli, Nico. Gli altri sono: Marylin Monroe, Henry de Toulouse-Lautrec, Carlo Coccioli, Basquiat, Copi, Pedro Lemebel, Dario Bellezza, Divine, Jean Genet, Pier Paolo Pasolini. I “santini” sono stati realizzati da Emanuela Del Vescovo, Simone Lucciola, Pietro Contento, Francesco La Penna (MB).

ALLEN GINSBERG

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Allen, grande cantore della beltà, del sesso, dell’essere contro il sistema, della strada, delle piccole cose.
Tu che scrivi: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”.
Tu che hai santo il cazzo, il culo, la bocca, la testa, le mani, gli occhi, il naso, i sogni, i sorrisi e la merda, aiuta, chi come me ti prega: a sopportare la ferocia dell’amore, spesso spinoso come il guscio di una castagna selvatica; la povertà d’animo di certe persone, ipocrita come la buccia di mela tirata a lucido; la mancanza perduta che sbiadisce i giorni come pioggia imprevista.
Tu che hai provato ad ampliare l’area della coscienza, tu che nel sudario leccavi le biglie di Jack, tu che guidavi sbronzo con Peter sui boulevard, tu che non hai mai amato le bandiere; aiuta noi, tuoi devoti a non spaurire di fronte alla magia della parola; a combattere con tutte le forze i pregiudizi razziali e sessuali, a sorprendere preghiere su cappelli a larghe falde e dentro a scarpe di gomma, magari un po’ puzzolenti; a salutare, con molta attenzione, i cani in branco all’alba, soprattutto se hanno le bocche larghe e polverose.
Tu, Santo Ginsberg che hai operato miracoli in tutto il globo terrestre e sei stella mattutina come Marlowe, Kabir5, Whitman, Wilde, Bellezza, Penna, l’amico Burroughs; aiuta i tuoi devoti, dal cuore infranto, dal culo rotto, dal cazzo stanco, a non tradire mai la gioia anche se minima, aiutali ad asciugare le lacrime dal cielo con
mani lievi, ma sicure; insegna loro a posare il corpo, senza fretta, su pance che avvicinano alle favole, a farsi imprigionare dalla libertà di un battito di ciglia.
O Santo Allen, tu che riuscivi a cogliere negli intonaci del Kansoso di Benares, la sanscrita preghiera dei leoni per recitarla poi a camerieri, spingendoli a sfogliare Platone e Buddha, aiutaci a sfilarci la pelle con grazia.
O Santo Allen, aiuta chi come me ha idee smagliate e lotta con la pagina bianca ed ha una vita stanca; aiuta chi spetala l’erranza e chi si attorciglia alle braccia cravatte sgualcite, che però contengono le mappe di isole dove la commare secca è morta stecchita.

JIM MORRISON

Mi congratulo, sempre che mi sia permessa questa confidenza indegna, con te Santo Re Lucertola, che hai oltrepassato infinite porte, sempre con la purezza e la limpidezza dei giusti.
Tu che hai provato l’entità fisica e mentale di tutti i personaggi che diventavi sul palcoscenico, aiuta i tuoi poveri fedeli scissi, sbreccati, che si tagliano le vene per capire fino in fondo la consistenza del sangue, ad abitare, senza ornamenti, le loro anime e i loro corpi.
Tu che ogni giorno compi il miracolo di ridare speranza e respiro a qualche sfigato, come me; tu protettore degli schizofrenici, degli alcolizzati, degli eroinomani, risucchiati dai buchi, dei bipolari gravi, tu che hai detto che: “Nessuno uscirà vivo da qui” ed è semplice verità, aiutaci a rimanere vigili e vitali fino all’ultimo respiro, aiutaci a non annegare il nostro sorriso nella pioggia, neppure in quella estiva.
Tu, elettrico sciamano, tu re acido, tu imbevuto di sensi di colpa, più del più pio chassidim, consiglia i tuoi devoti in modo che riescano a scansare il senso del peccato, e fa’ in modo che i desideri d’amore non si trasformino, sempre o quasi, in cenere.
Tu che racconti sorella morte come pallida donna, salvaci dalla signora in nero e dai muri che ci sovrastano e ci imprigionano, permettici di giocare e offrici improvvisi rapimenti.
Tu che “avevi un sorriso da tenersi stretto” parole di John Desmore, aiutaci ad essere sereni, ogni tanto, quel poco che basta; anche se siamo costretti ad addossarci il feretro del mondo in piena New York, o nella Beirut sventrata, o nella gelida Mosca, o nella impossibile Roma.
Tu che hai buttato giorni come lattine vuote di birra; tu che restavi muto per lunghissimo tempo, di fronte a una parete umida e scrostata; tu che volevi vivere cento anni in un’ora.
San Morrison aiuta chi ti venera a capire che le risate degli amanti sono sempre portate via da qualche macchina, nave o aereo, che la violenza altro non è che un mozzicone mal spento. Tu che guidavi la voce nell’arsura del ricordo, guidaci fra le braccia smisurate dei cipressi. Tu, che come perfetto interprete artaudiano del disagio
offrivi coppe di lacrime agli amici; tu che con malinconici blues svelavi la magia di certe attese, aiuta i tuoi devoti a scrollarsi dai capelli la rabbia; a sopravvivere ai tradimenti e alle defezioni, ad accarezzare e afferrare l’effimero.
Allontana il letale sorriso degli stupidi, dilaziona il dolore e infrangi
gli orologi, tutti, tu stella lucente, tu puoi.

MARCO FERRERI

San Marco Ferreri, nel 150, in Cappadocia, dirige il circo Nitrato d’Argento, con settanta giumente turche, settanta cavalle baie, settanta leonesse, settanta gatte d’angora, settante volpi rosse, settanta pantere nere, settanta tigri del Bengala; questione di batticuore? Bizzarrie di santo?
Il circo Nitrato d’Argento Marco Ferreri lo porta nella tasca interna del rosso mantello, sta infatti racchiuso in un guscio di noce. Ulteriore stravaganza, lo possono vedere solo i poeti, i puri di cuore, i liberi di mente.
I santi sono strani.
San Marco Ferreri ricompare a Parigi nel 1643, dove aiuta la pia e buona Maria Magdalene de Blémont ad avere una vita. Maria Magdalene possiede: un ditale, un ago, una piuma d’oca.
San Marco Ferreri, conoscendo il terso animo di Maria Magdalene, inscena uno spettacolo nel quale passa ben settecento volte nella cruna dell’ago.
Nel frattempo è sopraggiunto anche il cavaliere Sebastian Salazar de Quechua1, che, esausto, si è fermato per chiedere un po’ d’acqua; ne sorbisce un ditale.
Salazar, profondamente impressionato, chiede la mano di Maria Magdalene, recitandole la poesia: “Io allevo una mosca / dalle ali d’oro, / dagli occhi di fuoco. / Vaga nella notte / come una stella; / ferisce mortalmente / con il suo bagliore rosso, / con i suoi occhi di fuoco.”
Con la piuma d’oca, Maria Magdalene Salazar Bondy compone il capolavoro, ancora inedito, Lo scrigno delle parole, dal quale hanno attinto e attingeranno tutti gli scrittori che, con le loro magiche parole, hanno saputo e sapranno innalzare il canto del mondo.
San Marco Ferreri, protettore della gola e della spola, dei cavalli scossi e dei cavalieri senza cavallo, dei fallofori, degli eccessivi, dei sans papier e dei senza fissa dimora, trascorse l’ultima vita terrena nascosto dietro un obiettivo, ritmando la sua preghiera quotidiana con un Ciak.
Gli fu strappata la lingua, come succede ogni giorno a tutti i dissidenti.
Fu per questo, forse, che si rifugiò nel cinema, saggiando i desideri più segreti, aprendo anime e tastandole con mano sfrenata, eppur casta, inseguendo, senza vergogna, poemi dissoluti.
I miracoli, le vite, i sorrisi, i sogni, i sospiri, i silenzi, i cammini di San Marco Ferreri furon più di settantamila e chi lo venera non morirà: di miseria, di fame, di discordia, di rabbia, di guerra, di bugie, di crepacuore. Anzi, non morirà affatto.

AMELIA ROSSELLI

Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi della vicinanza di Sant’Amelia, protettrice dei malati di Parkinson e dei violinisti, dei coloristi e degli anarco-comunisti, di enigmatici memorialisti e di granitrici sessual scambisti, di Fate Morgane e di Farfalle, le più strane. Uno dei primi miracoli di Sant’Amelia fu proprio quello di
ridare vita a migliaia di farfalle imprigionate su sadici spilloni, con la lettura di una sua sola poesia, eccone un frammento: “una musica insonne ci farà / sentinella nell’ora vertiginosa / mentre un sole pallido sfilerà / reti.”
Sant’Amelia protettrice dei perseguitati dalla CIA e dal Mossad e da qualsiasi servizio segreto, aiutaci ad allontanare la guerra, il sangue, la smania di potere, tu sorella di Rachmaninoff, tu che facevi ritmare le parole tra Campo dei Fiori e Piazza dell’Orologio, aiutaci a conquistare chi amiamo, tienici stretti gli amici, allontana da noi gli importuni, i noiosi, gli spocchiosi e soprattutto chi vuole ferirci nell’animo e nel corpo, e rendi impotente chiunque voglia sezionarci la mente e magari con “lacrime e sangue su cristallo, la serenità sfasciata e a rammendar l’esistenza, laicamente” aiutaci, tu che puoi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, perché Sant’Amelia saprà, impromptu, farci raggiungere, anche ai confini del mondo, la persona amata, lei rabdomante della parola ci guiderà dentro tutti i vocabolari e sceglierà con noi la parola giusta, sempre, e ci aiuterà a spolverare gli specchi dai nostri segreti.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegratevi perché Sant’Amelia lei così vera, così nuda e cruda, ci insegnerà a non piangere per i tradimenti e ci dispenserà dallo scrocco di avverbi e aggettivi.
Rallegratevi fratelli e sorelle, visto che lei riusciva ad apprezzare le rigide zinie abbarbicate ai muriccioli di sasso e le dalie rosse come gocce di sangue, saprà indicarci la via per arginare lo sfaldamento della natura.
Sant’Amelia ci sorveglierà per aiutarci a non porre speranza in persone dal cuore troppo duro e dalla testa troppo tenera. Sant’Amelia ci permetterà di dare animo alla carne, ci aiuterà a non aggrapparci al danaro, ma ci concederà di averne tanto da non
doverci prostituire.
Rallegratevi, amici, perché Sant’Amelia ci indirizzerà mentre ficchiamo le mani tra aggettivi e avverbi per spiegare la nostra ansia d’amore, perché è a noi vivi che tocca tenere la porta aperta e la poeta, sorella, Amelia, ben lo sa; e allora insieme “dentro una casa sibillina, lasciamoci sfuggire la morte, ubiqua”.
Rallegriamoci tutti, Santa Amelia è tra noi, al bar del Fico, su un foglietto ho trovato scritto: “Traluce nello specchio, / predestinata, l’alba: di lente figure, / in un angolo la notte / ci farà tremare di dimenticate febbri d’amore”.
Rallegratevi fratelli e sorelle, rallegriamoci tutti, perché Santa Amelia ci svelerà il segreto dell’acqua che ci scivola fra le dita e del sangue che appanna la semplicità.

NICO

Santa Nico, protettrice di usignoli, allodole, cinciallegre, voci bianche, rockettari, cantori gregoriani, ugole liriche; di tatuati e tatuatori, delle donne dalla pelle di luna e di chi non ha fortuna.
Santa Nico santificò la sua vita con gli amici Andy Warhol, Candy Darling, Holly Woodlawn, Lou Reed; a New York tramontava, oltre la strada, il ventesimo secolo.
Si martirizzava con spilloni e mollette, nascondeva nelle fossette dei bagni ero e morfina, donna divina.
Già nel periodo Assirobabilonese, Nico: dettava “usignolo lunare”, si contornava di poeti, danzatori, di suonatori di ocarine del desiderio, di rollatori che svelavano segreti, di organisti che pizzicavano, con tocco celestiale, animo e carne.
Una sera coperta di veli d’oro, d’argento e rame, con piume fra i capelli si strappò la pelle di braccia e gambe, dopo averci scritto: “C’è un tempo per nascere e uno per morire, / un tempo per piantare e un tempo per sbarbare il piantato. / C’è un tempo per uccidere e uno per curare, / un tempo per demolire e un tempo per costruire. / C’è un tempo per piangere e uno per ridere, / un tempo per gemere e uno per ballare.”
La offrì ai presenti e fu subito miracolo: i ricchi calpestarono i loro vestiti, i poveri si strapparono gli stracci che indossavano e tutti si abbracciarono, si baciarono e si abbigliarono di rugiada e coralli.
Era il 1612: Nico, travestita da uomo, era in pellegrinaggio verso Roma, insegnava a un saltimbanco, mangiatore di fuoco, ad incendiarsi i capelli rasta, senza che prendessero fuoco. Suonarono insieme viole d’amore e sitar e tutto si fermò, ed il silenzio si mise ad ascoltare.
Le principesse: Carmilla, Millarca, Mircalla2, gelose fradice, la fecero cercare e poi condannare per stregoneria.
Mentre la stavano conducendo al rogo, Nico intonò: Femme fatale e tutti gli animali: uccelli, giraffe, cicale, pesci, persino i cani, risposero. Le piante e le foreste inneggiarono all’assoluto.
Passò una Balena Bianca e Santa Nico le saltò in groppa. Le tre sorelle Carmilla, Millarca, Mircalla si convertirono e diventarono le sue coriste.

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Doccia fredda https://www.carmillaonline.com/2018/08/21/doccia-fredda-per-il-perbenismo-democratico-e-di-sinistra/ Tue, 21 Aug 2018 20:30:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47822 di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine [...]]]> di Sandro Moiso

Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017, pp. 128, €12,00

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

La citazione tratta dal poeta della Martinica di origine francese Aimé Césaire può servire, fin da subito, a dare la cifra esatta del ragionamento condotto da Houria Bouteldja sul rapporto tra colonizzatori e colonizzati, tra bianchi e popoli “colorati”, tra civiltà europea e culture altre. Una autentica doccia fredda, soprattutto per il perbenismo democratico e preteso di “sinistra”, nella soffocante calura di agosto. Ma non soltanto.

Houria Bouteldja è nata in Algeria nel gennaio del 1973, figlia di immigrati algerini in Francia. Figlia di proletari, è la portavoce del Partito degli Indigeni della Repubblica (PIR) ed è una militante anticolonialista che si batte sia per la ridefinizione dei rapporti politici, storici e culturali tra l’Occidente e i paesi e i popoli colonizzati che per quella della condizione delle donne e soprattutto di quelle “indigene” nelle metropoli occidentali. Il suo lavoro di ricerca e la sua verve polemica, in particolare contro l’islamofobia, hanno suscitato numerose controversie che hanno spinto i suoi avversari, spesso provenienti dalle fila della “sinistra” come il quotidiano francese «Liberation», ad accusarla di antisemitismo, omofobia, sessismo, razzismo e comunitarismo.

L’opera, tradotta in italiano da Maria Rita Prette e accompagnata nell’attuale edizione da una preziosa Prefazione della traduttrice e da una Postfazione di Marilina Rachel Veca, è stata pubblicata per la prima volta in Francia nel 2016 dalle edizioni La fabrique (le stesse che hanno pubblicato le opere del Comitato invisibile) e successivamente tradotta in varie altre lingue. Era stata preceduta, nel 2012, da un testo, scritto insieme a Sadri Khiari, intitolato Nous sommes les indigenes de la République, citato più volte nelle pagine del libro.

In realtà il testo attuale costituisce una folgorante, lucida e potentissima intuizione sul cammino della Rivoluzione a venire: una Rivoluzione in cui non si tratterà soltanto di rovesciare un ordine socio-economico e un modo di produzione. Si tratterà, piuttosto, di scardinare l’intero sistema di valori, l’immaginario e la cultura che ne costituiscono i fondamenti ultimi. Non soltanto per le classi dirigenti, ma anche e subdolamente per il proletariato bianco e per gli immigrati e i popoli oppressi.

Un modello culturale che ha fatto della modernità e dei suoi vizi pericolosi l’unico modello di sviluppo sociale. Un sistema di valori religiosi, etici e politici che ha fatto dell’Uomo bianco il centro di un universo cartesiano in cui il motto «Penso dunque sono» nasconde in realtà «Penso come un individuo bianco e quindi sono», contribuendo così a de-umanizzare tutte quelle forme di socializzazione, di conoscenza, di religione e di solidarismo comunitario che caratterizzavano e caratterizzano le culture altre.

Un sistema in cui, come già affermava Jean Genet, occorre uccidere il Bianco che è in Noi. Sia come Bianchi/e che come appartenenti ad altre etnie attirate nel girone dell’Inferno capitalistico occidentale. Sia come semplici appartenenti alla specie umana che come proletari, donne, omosessuali. Ed ebrei, perché, nonostante le stimmate imposte dallo Stato sionista agli appartenenti all’ebraismo, essi hanno già provato più volte nel corso della Storia, e soprattutto nel corso del Novecento, cosa significhi davvero la persecuzione e, allo stesso tempo, il fallimento di ogni integrazione formale, basata sui principi della “grande” rivoluzione francese.
Integrazione che comunque, guarda caso, chiede sempre per prima cosa agli “integrabili” di rinunciare alla propria identità politica e culturale per abbracciare totalmente gli ideali e la cultura dell’Uomo bianco, cristiano, illuminato e moderno.

Un libro che guida il lettore attraverso i labirinti di una presunta modernità, basata principalmente sullo sfruttamento occidentale di altri popoli e di altri continenti; in cui una data, il 1492, può essere ben più significativa, come inizio dello sterminio e dello sfruttamento dei popoli indigeni, di quell’altra, il 1789, con i suoi ideali di eguaglianza, fraternità e libertà presunti universali, ma in realtà riservati ai bianchi, occidentali, europei e nordamericani, anche se più per alcuni che per altri.

Un proletariato bianco, ad esempio, che ha dovuto conquistarsi duramente alcuni diritti che ha creduto essere definitivi, ma che, nella crisi economica e politica dell’Occidente attuale, li ha visti sbiadire nuovamente, se non addirittura scomparire del tutto dal suo orizzonte di vita. E che, proprio per questo motivo, una volta privato, in cambio di quei diritti, di una propria autonomia di classe politica e culturale, si ritrova a rivendicarli sulla pelle degli altri, i non bianchi presenti nella società.

“La dissoluzione della nostra identità ne testimonia. Fino a un po’ di tempo fa sapevamo definire un africano, un algerino, un mussulmano. Il nostro sapere era deciso. Oggi, tutto si confonde […] Che vuol dire «algerino» dopo una guerra civile che ha fatto più di duecentomila morti? Che vuol dire «mussulmano» quando la Mecca è sotto la tutela dei sauditi e l’Islam è minacciato di macdonaldizzazione? Che vuol dire francese quando il popolo è spossessato della sua sovranità a profitto del potere finanziario? Che vuol dire europeo quando i popoli d’Europa non hanno mosso un dito per salvare la Grecia?”1

Una perdita di identità che coinvolge ormai la stragrande maggioranza degli abitanti degli stati occidentali, ma che non può essere certo risolta da un ritorno al nazionalismo e alla sua difesa intransigente. Non saranno i modelli imitativi, come quelli abbracciati dai giovani che si arruolano nelle file di Daesh, in nome di una civiltà scomparsa di cui non sono nemmeno gli eredi, a far superare agli oppressi di ogni genere e colore della pelle l’attuale situazione di malessere economico, psichico e sociale.

No, Houria ci invita a liberarci del peso della bianchità, della sua concezione falsamente razionale del mondo e della convinzione di essere individualmente superiori agli altri e all’ambiente che ci circonda. Ci chiede di tornare alla Natura, di sapere amare come Malcom X chi ci ama e allo stesso tempo a non odiare per partito preso.
Un appello buonista? Tutt’altro, un appello al superamento del presente, che non può essere eterno come i suoi difensori vorrebbero, per costruire identità collettive e sociali nuove, oltre le divisioni di classe, genere, colore, religiose e culturali che ci sono state imposte come modello “unico”. Un invito a combattere con ogni energia fisica ed intellettuale per l’affermazione di ciò che l’autrice definisce un autentico “amore rivoluzionario” che non venga dal cuore, ma dalla comune unità di intenti.

“Ciò che mi piace di Genet è che […] non vi è alcuna traccia di filantropia in lui. Né in favore degle ebrei, né delle Pantere Nere o dei palestinesi. Ma una collera sorda contro l’ingiustizia che è stata loro fatta dalla sua propria razza […] La posizione di Genet cade come una mannaia sulla testa dell’uomo bianco […] Ciò che mi piace anche di Genet è che egli non prova alcun sentimento ossequioso nei nostri confronti. […] Egli sa che tutti gli indigeni che si ergono contro l’uomo bianco gli offrono, simultaneamente, l’occasione di salvarsi. Egli intuisce che dietro la resistenza radicale di Malcom X c’è la sua propria salvezza”.2

Un NOI che non definisce più una comunità etnica, nazionale o partitica, ma un’umanità dolente ed oppressa che deve sapersi liberare a partire dai demoni che abitano il suo immaginario, per ignoranza o per sopruso. Un nuovo internazionalismo che non ha bisogno di appartenenze partitiche per esprimersi, ma dello slancio immediato verso il rifiuto dell’esistente e dei suoi fantasmi. Psichici, politici e culturali.

“Io parlo a due categorie tra voi; prima di tutto ai proletari, i disoccupati, i contadini, i declassati che progressivamente rinunciano alla politica o scivolano inesorabilmente dal comunismo verso l’estrema destra, le minoranze regionali schiacciate per qualche secolo dal centralismo forsennato e l’insieme degli emarginati, che ci amiate o no. In una parola, i sacrificati dall’Europa dei mercati e dello Stato, sempre meno provvidenziale e sempre più cinica.
Poi, ai rivoluzionari che hanno coscienza della barbarie in arrivo”.3

Un testo fondamentale con cui, coraggiosamente e senza pregiudizi, occorrerà saper fare i conti. Che si pone molto al di là e al di sopra delle attuali querelle da filantropi, preti e catto-comunisti sulle migrazioni, il razzismo e le loro conseguenze nel presente e per il futuro. Oltre il femminismo liberale delle donne in carriera e libere di essere sessualmente sfruttate attraverso un’immagine deviata del corpo femminile e del suo utilizzo nell’immaginario collettivo. Al di là di un universalismo dei diritti che confonde coscientemente il sionismo con l’ebraismo e l’anti-sionismo con l’anti-semitismo, dimenticando e cancellando la lezione del Bund.

E che ancora ci ricorda costantemente la lezione del Black Panther Party e dei nativi americani, la loro testimonianza e le loro innegabili certezze. Così come quella di tutti gli altri movimenti di resistenza contro l’imperialismo e il colonialismo. Di cui oggi occorre, allo stesso tempo, far tesoro e superarne gli elementi di bianchità in essi ancora contenuti.


  1. Houria Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, pp. 109-110  

  2. H. Bouteldja, op.cit., pp19-20  

  3. H. Bouteldja, op.cit., pag. 37  

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Qualcuno sa chi è Jean Sénac? https://www.carmillaonline.com/2018/06/23/qualcuno-sa-chi-e-jean-senac/ Sat, 23 Jun 2018 21:15:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46165 di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato [...]]]> di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato fin dal 1959 con il grandioso e ineffabile titolo “Libro della vita”.

«Andare fino al fondo di uno sforzo mi è sempre costato. Non mi sono concesso che con lentezza e pena» scrive Sénac imprimendo nel lettore un’immagine di sé e un modo di essere dell’opera. Ma c’è di più. L’incompiutezza di disegno e il carattere esemplare di una lingua-stile da collocare ai vertici estetici più esemplari della letteratura mediterranea, figura finalmente un’immagine aurorale, qualcosa di unico nell’orizzonte delle scritture autoteliche nel secondo Novecento. Quel che resta del colossale proposito di scrivere un Libro della vita, il tassello Ritratto del padre. Per finire con l’infanzia, appare dunque come un astro venuto da un altro cielo, un objet étranger caduto come in una plaga terrestre.

L’opera di Pier Paolo Pasolini, autore dalla critica talvolta associato a Jean Sénac, con Petrolio fornisce un modello di non-finito, in cui però l’infinibilità è l’esito naturale della contingenza, che comunque riflette un’estetica compiuta. Si potrebbe parlare – così di Petrolio come del Ritratto – di compimento del non-finito intendendo però il Ritratto, non più Petrolio, come un corpo letterario estraneo alla generale convenzione della finibilità, qualcosa che richiama, proprio per questa sua intrinseca natura, un preciso statuto interiore, una qualità psicologica incarnata nello scrittore di Béni Saf. Non finisce, alla lettera, il Ritratto. Anzi, Sénac si autointerroga sull’esperienza stessa di scrivere, d’avere scritto: «Comen avons nou pu écrire?». Nei fatti, il Ritratto appare come un miracolo volontaristico, il sovrumano sforzo di scrivere qualcosa di predestinato a non finire. E anche nella mera apparenza tipografica, non finisce ancora perché il Ritratto si sgretola, esplode. Ciò che era la parola poetica è ora l’esito di una deflagrazione al di là della quale sulla pagina resta sparsa una marea di scorie, di detriti, la polvere di un’apocalisse:

XWZU
Vnoqrstv ssss
Nmonmnopnopmoupmnopmnop
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Ristabilire l’equilibrio, Ristabilire un ordine disequilibrato
La rivolta L’infanzia pura Ma vivere Ristabilire

Non ricordo, a memoria, andando ora all’altro capo del libro, un incipit più potente del Ritratto, forse qualcosa di altrettanto epifanico lo si potrà leggere in un altro libro della vita, Oga Magoga, il romanzo-universo del gran cuntista Giuseppe Occhiato. Ma leggiamo questa prima pagina del Ritratto, ritroveremo insieme il tratto inconfondibile di Journal du voleur di Jean Genet (per Sénac il «più grande scrittore di questo tempo», cui è dedicato proprio il Ritratto) e la rara presenza di quella écriture des astre, la cui memoria rimanda alla pagina indimenticabile di Maurice Blanchot e il cui significato ultimo rinvia a Emmanuel Levinas, nel luogo dove è saldata in uno l’intercambiabilità tra des astre e désastre:

Uno strano esilio il nostro! Tra fuochi spenti, cammino, sogno, parlo. Ricompongo all’uso del mio cuore una terra che già si sfuoca. Strano esilio. Molto lontano, verso la falesia, mia madre accende il suo fornello a petrolio. Leva delle grida nel mentre mia sorella, di fronte allo specchio frantumato, si trucca. Anch’io sono là, tra gli specchi dell’esilio, cercando nella memoria frivola i temi che, proiettando la mia leggenda, ripetono a mezza voce niente meno che le sillabe della mia verità.

Non un «romanzo» il Ritratto, un «poema» in prosa verrebbe da scrivere, da un lato per la presenza ingombrante della lingua poetica e della poesia, dall’altro per la dimensione astrale di uno stile di scrittura scintillante, un mosaico di balenanti frammenti, qualcosa di formalmente inclassificabile. Al Ritratto, per stare alla palpitante materia del suo contenuto, si potrebbe affibbiare una formula nietzscheana, cioè l’opera è una corda tesa tra la figura platealmente presente della madre di Sénac (Jeanne Comma, prima dedicataria del libro, insieme a Jean Miel, Patrich Mac’Avoy, René Char, Antonin Artaud, per l’appunto Jean Genet, e nel nome neanche tanto occultato di un altro dimenticato della cultura francese del Novecento, Paul Nizan), e il grande assente e insieme il vero duende del Ritratto, il padre, la «mia sete e il mio nulla» come si legge a inizio di narrazione. Non diversamente dall’idea di rivelarsi nella parola autobiografica, questo (in parte) journal intime sembra infoltire una linea maestra, la grande dorsale, il meridiano passante tra le Confessions di Jean-Jacques Rousseau e Mon cœur mis à nu di Charles Baudelaire, con il quale il Ritratto condivide – tra le altre cose – l’identità di opera-relitto, cioè di un restante simbolo di una realtà che forse è stata (o di ciò che forse dovrà ancora essere).
La madre e il padre o l’immagine della paternità, la patria, l’Algeria, queste sono per Sénac le orme su cui rincamminare, su cui rincamminarsi per ricomporre, nel Ritratto, i segnavia del perduto paesaggio dell’origine e della memoria. Come in Proust, anche in Sénac («Ho vergogna di non aver letto completamente Proust»), rincamminare è per così dire la promessa, alla fine, di un «Temps retrouvé», qualcosa che permette al vissuto di rifluire sulla pagina, alla vita di diventare letteratura, di diventare cioè un potenziamento stesso della vita e non una sua mendace o tradita riproduzione.

La madre, Jeanne Comma, è la presenza e l’interlocutrice prima del Ritratto. Se il poema è l’incompiuto ritratto del padre, la figura materna vive nel segno della compiutezza, è un organismo vivente, una creatura del sacrificio e la portatrice stessa della sopravvivenza. Il Ritratto dunque è un libro a due superfici riflettenti, l’evidence o la scena in luce è per la madre, la zona di intercapedine destinale, la filigrana del vissuto è per il padre. Entrambi, però, concorrono a comporre il ritratto del figlio, Jean Sénac, anzi la madre e il padre realizzano una cifra di destino, qualcosa da cui è scaturito propriamente l’indeterminabile, il poema chiamato a contenere la «mitologia» di sé tra due forme del tempo, il tempo perduto e il tempo ritrovato. Se allora il Ritratto è anche una recherche, essa è anzitutto l’esperienza di una riscoperta mitologica, cioè riguarda l’esposizione di una realtà materno-paterna al cui centro il diarista tratteggia l’icona del sé. Nel disegno troviamo collocata la materia prima e creaturale di una scrittura automitografica venuta all’evidenza, ciò perché lo scrivente scrive di sé dalle regioni profonde e oscure di un desiderio autoanalitico. La scrittura è dunque uno strumento del raccontare e del capirsi, un mezzo maieutico in cui non conta più estrarre la verità dall’altro ma solo quel che veramente conta, cogliere in boccio una verità, la verità di sé.

Tra orfanità di padre e senso di spaesamento esistenziale, forma della relittitudine, Sénac domanda alla realtà del mondo quale sia infine il mondo della realtà. Qui è esposta la ferita meno medicabile, quella coscienza dell’assurdo che tiene in una sola culla l’esistenza del diarista e il pensiero di Camus, l’interlocutore paterno di un’«amicizia impossibile». Alla memoria e alla tessitura di un ordito disorganico di eventi, laceranti lutti, giochi erotici, visioni, deliri e sogni Sénac affida il compito di develare proprio il mondo della realtà, develarlo non per comprenderlo ma per comprendersi nel profondo, donarsi un nome abitando il sacro mistero della realtà del mondo. Qui la figura assente del padre, il «non-visto, non-nominato», è una sorta di demoniaca divinità, una creatura perturbante venuta ad assumere il ruolo di demiurgo dell’immaginario filiale. Per essere, il figlio dovrà penetrare in quell’«Essere» superiore che è il padre. Non uccidere il padre però ma sopravvivere, divorandone il nome, alla sua mitologia. Il Ritratto allora si rovescia nel suo ideale contrario, diviene cioè un autoritratto in forma di figlio alla recherche del padre, in forma di figlio alla ricerca di una patria, l’Algeria (o le patrie che l’Algeria è), e che resta sempre una terra abitata e anche da abitare, il luogo dell’abitabile espresso nella sua radicalità, nella sua identità rinviante per l’appunto a inestirpabili «radici»: «La felicità, talvolta è questo attimo di radici» scrive Sénac.

Un radicale canto, un canto delle radici, anche questo è il Ritratto. E la forma stessa del poema, la sua struttura poematica, rimanda l’immagine del rizoma. Qui la scrittura incede seguendo una ramificazione visionaria, è propriamente innescata da uno stile per l’appunto rizomatico, questo così mosaicale di Sénac, specie quando la memoria del padre e della madre espone il narratore al recupero (memoriale) non di una narrazione lineare ma come di una costellazione, un informe aggregato, un insieme molecolare di balenii, di pulsanti brani di vita ricamati infine in un arazzo automitografico. Non si è dinanzi a un delirio narcisista né qui è in scena il monologo egotista di un velleitario del ricordo, tra le pagine del Ritratto troviamo un Sénac tutt’altro che imprigionato nel sé, semmai il teatro del sé espone in luce anche uno scrittore sensualmente coinvolto nella vita algerina, una vita per così dire erotizzata in ogni momento della sua afrodisiaca espressione esperienziale.
La più efficacie definizione del Ritratto è fornita proprio dallo scrittore quando parla en passant dell’arte del pittore serbo Petar Omcikous, «macchie appena modulate ma che procedono per sortilegi fino alla sinfonia, all’unità, all’universo». Qual è allora la condizione unica e immodificabile di un siffatto sortilegio? Per una volta, alla ricerca del sortilegio, e per un’icastica occorrenza, Sénac sembra non soccorrere il lettore. Ritratto incompiuto del padre, nel sottotitolo occulta la chiave stessa del diario. Non più allora Per finire con l’infanzia ma il suo speculare e stravolto contrario, non dover mai finire con l’infanzia. Proprio in questa resa alla verità sembra collocarsi il sortilegio. La sua vita infinibile traccia allora l’esemplare via di questa scrittura di abbandono e patimento, di dolcezza e ferocia, questa scrittura votata alla miseria, alla preghiera e al sole, al cuore, al sacrificio, questa visione che procede in circolo dall’infanzia anagrafica in direzione di un’altra infanzia, uno stato di fanciullezza destinato a durare oltre ogni possibile fine.

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Fassbinder. Una vita spesa per “creare disagio nelle strutture della borghesia” https://www.carmillaonline.com/2015/10/02/fassbinder-una-vita-spesa-per-creare-disagio-nelle-strutture-della-borghesia/ Fri, 02 Oct 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24581 di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un [...]]]> di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un trentennio cruciale della sua storia, periodo in cui il paese si trova a fare i conti con tante contraddizioni interne, tra queste il suo doversi confrontare tanto con quel passato nazista difficile da metabolizzare, quanto con una nuova Germania che, restia a cambiare davvero nel profondo, viene attraversata da una cruenta stagione di conflittualità. L’intrecciarsi di tutti questi fattori rendono questa biografia di Fassbinder una storia che, pur nella sua parzialità, racconta un trentennio cruciale della vita della Repubblica federale tedesca prima che questa si indirizzi, nel decennio successivo, verso la riunificazione.

Il rapporto tra Fassbinder ed il cinema ha un inizio tormentato, visto che gli viene rifiutato l’accesso ai corsi cinematografici sia per le carenze tecniche dimostrate nell’uso della macchina da presa che, secondo l’autore della biografia, per la scarsa politicizzazione delle prove presentate, “premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca”. La politica in senso stretto e diretto non è tra gli interessi del giovane regista, tanto che, a differenza di diversi coetanei, quando finisce nei guai con la giustizia non è a causa della militanza. Il testo riporta un aneddoto emblematico di come il cineasta tedesco e le vicende politiche di piazza si intreccino: nel 1968, in pieno Maggio francese, proprio a Parigi, il regista viene arrestato e rinchiuso in carcere per cinque settimane. In Germania il fatto desta scalpore e tende ad essere ricondotto ad una sua supposta presenza sulle barricate mentre, in realtà, l’arresto è dovuto ad una retata in una sauna gay irregolare. L’omosessualità di Fassbinder, come quella di tanti altri, è costretta a fare i conti con un clima culturale ed una legislazione che in Germania, come in altri paesi europei, appare estremamente retrograda. Soltanto nel 1969, in Germania, si danno alcune modifiche di legge che cancellano l’onta dell’illegalità per gli omosessuali consentendo così, in tutto il paese, la proliferazione di locali aperti alla comunità gay.
L’impressione di un artista egocentrico e disinteressato ad interagire con le vicende che gli stanno attorno, si sviluppa anche a causa di un atteggiamento che il regista, all’inizio della carriera, manifesta negli incontri con la stampa, quando ama mostrarsi del tutto indifferente all’opinione pubblica. Per certi versi il suo presentarsi come giovane ribelle anticonformista diviene una sorta di maschera indossata al fine di celare una certa timidezza. Soltanto negli anni in cui il successo gli conferisce maggior sicurezza, il regista inizia a mostrarsi più disponibile nei confronti dei media, evitando di mettere in scena sempre e comunque il ruolo del ribelle indifferente.

fassbinder 01Trimborn ricostruisce egregiamente come l’idea di Fassbinder di dar vita ad una sorta di comune creativa, un luogo in cui vivere e lavorare con persone di idee affini, si scontri con una personalità che appare sì smaniosa di vivere in maniera comunitaria ma, come sul lavoro, si dimostra poco propensa ad interagire realmente con gli altri. Per certi versi emerge il ritratto di un uomo che, sfruttando la sua forte personalità ed il fascino esercitato sugli altri, sembra più ambire a circondarsi di una corte adorante da plasmare a piacimento che non a confrontarsi realmente con gli altri. A tal proposito, nella biografia si trovano diversi aneddoti che narrano, ad esempio, del piacere provato dal regista nel dimostrare ad amici e collaboratori il potere incondizionato esercitato nei confronti di alcuni di essi, atteggiamenti che mal si confanno proprio a colui che ama sottolineare come il tema centrale dei suoi film abbia a che fare con lo “sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo”. Nel corso della lettura del libro, appare evidente come non ci si trovi di fronte ad una biografia di santificazione dell’uomo Fassbinder; occorre rendere merito all’autore di aver ricostruito un personaggio a tutto tondo, decisamente contraddittorio, in cui convivono spinte estremamente libertarie ed anticonvenzionali e condotte a tratti ciniche, egocentriche ed autoritarie. Nel testo viene testimoniato anche uno spiccato interesse per il denaro ed il lusso ostentato del quale, dopo i primi successi cinematografici, pare non riuscire a fare a meno. Per certi versi si può dire che il “nemico numero uno” della mentalità borghese si rivela così spietato nell’attaccare il nemico perché, tutto sommato, lo conosce bene, proviene dalle sue fila e, di certi suoi aspetti, probabilmente, non è risuscito, non ha potuto, o non ha voluto, liberarsi del tutto.

Gli insuccessi nei corsi di cinema spingono Fassbinder verso il teatro anche se l’approccio con cui lo affronta è decisamente cinematografico; è lì che vuole arrivare ed il teatro rappresenta una sorta di prova generale. Il rapporto tra l’iniziale produzione teatrale e quella, successiva, cinematografica risulta fecondo, tanto che lo stesso regista, dopo aver operato in entrambi gli ambiti, ha modo di affermare di aver messo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e di aver girato film come se si fosse trattato di teatro. Nel testo viene passata in rassegna, nel dettaglio, l’intera produzione teatrale di Fassbinder a partire dal 1967, anno in cui avviene l’importante incontro con il gruppo dell’Action-Theater di Monaco, collettivo fortemente influenzato dall’esperienza del Living Theatre americano. Ad interessare Fassbinder è più la modalità innovativa di fare teatro che non l’intervento politico esplicito dell’Action-Theater. Le tematiche affrontate dal regista, una volta ottenuta la direzione, si concentrano sulle questioni della diversità, sulla difficoltà di comunicare, di intrecciare rapporti sinceri e sulla mentalità retrograda piccolo borghese. Anche quando decide di attuare un teatro più politico, il regista opta per farlo attraverso la messa in discussione della cultura dominante.
Katzelmacher (tr. appros. Terrone), la sua prima opera teatrale, è la storia dell’ostilità di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese nei confronti di un lavoratore straniero greco da poco arrivato. L’opera è contraddistinta da una narrazione asciutta, uno stile minimalista e dialoghi brevi e concisi.
Le vicende di Fassbinder narrate dalla biografia, si intrecciano con gli eventi che scuotono il paese alla fine degli anni ’60, quando si susseguono azioni di protesta da parte degli attivisti contro il gruppo editoriale Springer, i cui giornali sono visti come i principali responsabili del clima repressivo. Anche l’Action-Theater, con i suoi spettacoli, partecipa alla campagna contro la stampa di Springer. Fassbinder, però, tende a prestare poco credito alle possibilità del teatro di influire sulla vita politica del paese. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire, secondo Fassbinder, diviene quello di “creare disagio nelle strutture della borghesia”. Questo è il modo con cui il regista intende far politica.
Le discrepanze con alcuni dei fondatori dell’Action-Theater, portano la compagnia a trasformarsi adottando il nome di “antiteater”, scritto con lettere minuscole e senza la “h”. Gli scandali iniziano ad accompagnare ad ogni passo l’attività del gruppo teatrale. Ad esempio, quando viene messa in scena, nel 1968, la pièce Orgia Ubu, in cui si narra di una festa in un ambiente piccolo borghese che termina con un’orgia di gruppo, nel momento in cui gli attori iniziano a denudarsi sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, il direttore del locale interrompe lo spettacolo.
Nel 1971, è la volta della messa in scena di Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto), ove un personaggio proveniente da qualche lontano pianeta, viene inviato sulla terra per indagare le modalità con cui gli esseri umani comunicano tra loro. Così Fassbinder presenta lo spettacolo: “La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro”. Durante il breve periodo, nei primi anni ’70, in cui ha la direzione del Theater am Turm di Francoforte, Fassbinder scrive una pièce intitolata Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte) in cui vengono messi in scena degli antisemiti ed un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i classici cliché. Tale opera suscita una marea di proteste e la pesante accusa di antisemitismo.

Intrecciandosi con le vicende di Fassbinder, nel testo viene anche ricostruito il rinnovamento del cinema tedesco a partire dai primi anni ’60, quando la produzione tradizionale viene messa sotto accusa da diversi giovani registi. Nel 1962, ventisei registi, capitanati da Alexander Kluge, firmano il Manifesto di Oberhausen: l’obiettivo è contrastare tanto il cinema tedesco del dopoguerra, giudicato superato e reazionario, quanto lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che, dal 1945, opprime le cinematografie nazionali dei paesi europei. I riferimenti propositivi guardano al Free Cinema inglese ed alla Nouvelle Vague francese. Il nuovo cinema tedesco intendere nascere libero dai condizionamenti culturali del mercato e dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi. L’ambizione è quella di evitare il film d’evasione in favore, piuttosto, di opere in grado di confrontarsi con la realtà e con il tragico passato nazionalsocialista. Nel testo è sottolineato come, con la fine della guerra, in Germania, così come in altri ambiti della vita del paese, anche a livello cinematografico, non si ha una vera e propria rottura con il periodo nazionalsocialista: persone, strutture e contenuti restano i medesimi e buona parte del mondo del cinema ha lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels. Nemmeno dal punto di vista formale c’è una vera e propria rottura, “l’estetica di Goebbels”, ancora negli anni ’50, resta alla base del cinema tedesco occidentale, così come contenuti, personaggi, divi e filoni restano saldamente permeati dal retaggio nazionalsocialista. Nata nel 1965, la Commissione del giovane cinema tedesco, grazie al sostegno economico statale, finanzia diversi film di giovani autori della seconda generazione del movimento. Nonostante i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, questi film non riescono a conseguire successo nelle sale tedesche, restano un fenomeno di nicchia, per una cerchia ristretta di intellettuali. Nel corso degli anni ’60 le sale cinematografiche tedesche sono in grave crisi anche a causa della televisione e, ben presto, le collaborazioni del cinema con le emittenti televisive, in grado di garantire finanziamenti, diventano indispensabili. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco comprende autori come Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders. La capacità di realizzare film low budget, mostrata da Fassbinder col suo primo lungometraggio, diviene una delle strade percorribili al fine di produrre film senza sottostare all’industria cinematografica ed alle imposizioni statali.

germania in autunnoNuovamente la politica torna ad intrecciarsi, prepotentemente, con la vita di Fassbinder. Nel 1977 il clima che si respira in Germania diviene sempre più pesante; mentre è in corso il processo alla prima generazione della Raf nel carcere di Stuttgart-Stammheim, il gruppo armato dispiega una serie di azioni volte alla liberazione dei propri compagni prigionieri che culmina con l’uccisione del direttore della Dresdner Bank ed il sequestro del presidente degli industriali. A tali episodi eclatanti segue il dirottamento di un aereo diretto a Francoforte, da parte di un commando palestinese, che si risolve con l’irruzione di un’unità antiterrorismo della polizia federale tedesca che libera gli ostaggi ed uccide i dirottatori. Lo stesso giorno Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, vengono trovati morti. Poco dopo viene fatto rinvenire il cadavere di Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, membro dell’Unione Cristiano Democratica e presidente della confindustria tedesca. In seguito a questi fatti, alcuni registi del Nuovo cinema tedesco decidono di realizzare, autofinanziandolo, il film collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno) al fine di riflettere sul clima che si vive nel paese lacerato dall’interminabile scia di sangue. Dopo le immagini d’apertura sui funerali di Schleyer, il film inizia con l’episodio di Fassbinder che lo vede confrontarsi direttamente sulle questioni di attualità politica in un colloquio con la madre ove si discute dello stato di diritto, del passato nazista e della svolta autoritaria. Il regista, con ragionamenti alquanto contraddittori, nel deplorare l’uso della violenza della Raf, auspica un non meglio precisato intervento energico da parte dello stato ed, al tempo stesso, si dice comprendere le ragioni profonde che hanno portato il gruppo armato ad attaccare il “fascismo latente” presente nella Germania occidentale.
L’anno successivo Fassbinder torna ad occuparsi direttamente della Raf con il film Die dritte Generation (La terza generazione). Relativamente alla terza generazione di militanti della formazione armata, il regista attacca il loro agire perché lo vede privo della benché minima prospettiva. L’intento profondo dell’opera è forse quello di contestualizzare l’uso sconsiderato della violenza da parte dei militanti evidenziando come, secondo il regista, ciò sia determinato dalla società tedesca dell’epoca. Il film viene accolto negativamente tanto dalle istituzioni statali quanto dai militanti di sinistra che, in diverse occasioni, contestano la proiezione dell’opera.

Nel libro viene, ovviamente, passata in rassegna puntualmente anche l’intera produzione audiovisiva del regista individuando nello “sfruttamento dei sentimenti” il filo conduttore di buona parte delle opere. Nella prima parte della produzione cinematografica i personaggi, pur avendo la possibilità di reagire alle situazioni umilianti in cui si trovano a vivere, tendono a non farlo, a restare inerti. Dal punto di vista della scelta poetica, Fassbinder dichiara la propria contrarietà ai film che imitano eccessivamente, soprattutto nei dialoghi, la realtà ed, a tal proposito, nel corso di un’intravista, afferma: “Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa (…) l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria”.
L’itinerario che porta Fassbinder a realizzare audiovisivi inizia, come per molti della sua generazione, dall’interesse per le opere della Nouvelle Vague francese e per le riviste cinematografiche più innovative come “Cahiers du Cinéma” e “Sight and Sound”. Ne 1966 il giovane regista passa finalmente all’azione e gira, a Monaco, il suo primo cortometraggio in Super 8 raccogliendo in maniera avventurosa i fondi necessari a coprire le spese. Preclusa la strada dell’imparare il mestiere facendo assistenza ad un regista esperto, visto che in Germania,  all’epoca, non vi sono grandi personalità, e scartata, per ragioni economiche, l’ipotesi di trasferirsi in Francia, paese di maggiori prospettive per un giovane cineasta, a Fassbinder non resta che visionare film a ripetizione. Nel 1966 il regista gira il cortometraggio, Der Stadtstreicher, (t.l. Il vagabondo) opera di una decina di minuti concepita come omaggio a Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) di Éric Rohmer. Il secondo cortometraggio arriva poco dopo, nel 1967 gira Das Kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), opera in 35 mm, in cui rende omaggio a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) di Godard. In questo caso inizia a palesarsi la passione per i gangster movies hollywoodiani di cui ama soprattutto White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Proprio tale cinematografia americana è alla base della storia poliziesca su cui Fassbinder costruisce il suo primo lungometraggio del 1969, Liebe ist kälter als der Tod (t.l. L’amore è più freddo della morte). L’intenzione è quella di mettere in scena un poliziesco non convenzionale, in grado di mostrare il ruolo delle strutture sociali nella trasformazione delle persone in criminali. Sin da questo primo lungometraggio è presente il tema dell’attrazione omoerotica tra due personaggi. Dal punto di vista narrativo, la mancanza di mezzi tecnici e finanziari, costringe a lunghi piani sequenza, spesso privi di dialogo. Diverse scene, ad inquadratura fissa, si svolgono in ambienti minimali in modo da concentrare l’attenzione sulla mimica e la gestualità degli attori. Le inquadrature sovraesposte, quasi senza ombre, contribuiscono a creare un’atmosfera irreale e claustrofobica. Per la recitazione Fassbinder evita di dare istruzioni precise agli attori, non ama provare a lungo prima di girare e si mostra poco incline alla rielaborazione collegiale delle parti. Molto viene lasciato alla capacità istintiva dell’attore. Tale metodo ha il vantaggio di risultare economico e ben si accorda con le ristrettezze finanziare degli esordi. Le reazioni sia di pubblico che critica sono generalmente negative.

Il secondo film, Katzelmacher, (tr. appros. Terrone) del 1969, riprende l’omonima opera teatrale scritta per l’Action-Theater l’anno precedente. Se il testo teatrale si concentra sulla figura dell’immigrato greco, il film, invece, si sofferma sulle condizioni di vita dei bavaresi che gli sono ostili. La questione delle costrizioni sociali ed i principi morali insisti nella società, la noia e l’immobilità piccolo borghese, il perbenismo, insieme alla questione dell’incomunicabilità contemporanea, sono al centro dell’interesse del regista. Anche in questo caso i dialoghi risultano molto scarni e volutamente artefatti. L’opera ottiene un’ottima accoglienza da parte della critica e, da parte dalla prestigiosa rivista anglosassone “Sight and Sound”, viene celebrato il ricorso ad un linguaggio nuovo. Anche nel film Götter der Pest (t.l. Dei della peste) del 1969, ricompare un rapporto tra i due protagonisti improntato all’omoerotismo. Se i due primi film hanno un’evidente derivazione teatrale, qua l’impianto è, finalmente, cinematografico.
Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa), è un film del 1970 che affronta i problemi di una troupe cinematografica che deve iniziare le riprese di un film. I diversi personaggi sono ritratti in modo davvero poco lusinghiero, “Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della ‘puttana santa’. Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare”.
Der Händler der vier Jahreszeiten (t.l. Il mercante delle quattro stagioni) del 1971 è il primo film in cui decide di sperimentare le modalità narrative sirkiane che impongono che la storia sia raccontata in maniera semplice e sobria ma con empatia per le vicende umane messe in scena. Il film ottiene un buon successo di pubblico e critica.

fassbinder lacrime_amare_petra_von_kantNel 1972 Fassbinder riprende una sua precedente realizzazione teatrale, Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), per trasformarla nell’omonimo film. La storia mostra la difficoltà di una donna, che pur si pensa emancipata, nel liberarsi dalle strutture culturali tradizionali. Il film viene accusato dagli ambienti femministi di essere una critica rivolta alle donne emancipate. Altre interpretazioni vedono nell’opera un tentativo di dimostrare come, anche nei rapporti omosessuali, la protagonista ha infatti una relazione con un’altra donna, tutto si riduca ad una questione di possesso e dipendenza. Nella lettura proposta dal Trimborn, Fassbinder, ancora una volta, intende affrontare piuttosto l’isolamento dell’individuo nella società contemporanea e la sua incapacità di apprendere a comunicare.
Dopo essere riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano come regista d’avanguardia con i primi film influenzati dai gangster movies americani e dalla Nouvelle Vague francese, Fassbinder decide che è giunto il momento di provare a conquistare anche “il grande pubblico”. Il riferimento diviene a questo punto il cinema del maestro del melodramma: Douglas Sirk. Del grande autore hollywoodiano, di origini tedesche, ammira la perfezione artigianale con cui realizza i film e l’impianto narrativo. Nelle sue opere vede un’incredibile capacità di scandagliare la sfera privata e gli stati d’animo senza trascurare il ruolo del contesto sociale. “Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo”, afferma Fassbinder, riferendosi alle opere del vecchio maestro del melodramma.

Una parte della biografica è dedicata alla produzione televisiva del regista. Nella televisione Fassbinder vede le possibilità di realizzare produzioni veloci ed a basso costo, su questioni legate all’attualità, pensate appositamente per le specificità del mezzo e non derivate dal teatro, come invece è consuetudine nel cosiddetto “teledramma” tedesco degli anni ’50 e ’60. Le prime produzioni ottengono scarso entusiasmo e non mancano di suscitare scandalo a causa delle tematiche affrontate.

Con la serie Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno), del 1972, la classe operaia fa la sua comparsa sul piccolo schermo attraverso un melodramma socio-romantico. I tradizionali sceneggiati televisivi tedeschi a sfondo familiare, sempre di tono leggero, risultano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi ma sull’onda del clima post ’68, anche la televisione inizia a dare spazio alle questioni sociali che attraversano la società. Per rendere la serie più realistica, l’equipe di Fassbinder realizza, per quasi un anno, ricerche tra i lavoratori delle fabbriche e le sceneggiature vengono fatte leggere ad operai della Ford di Colonia. La realizzazione fassbinderiana, oltre a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia in maniera autentica, dando spazio, ad esempio, a questioni come l’emergenza abitativa e la mancanza di posti negli asili, intende suggerire chiaramente allo spettatore che ribellandosi le cose si possono cambiare. Nonostante il buon successo di pubblico, ma non di critica, la serie non prosegue a lungo anche a causa di una feroce polemica scatenata dal regista nei confronti dei sindacati accusati, nella serie televisiva, di non avere più nulla da dire alle persone e  di dover piuttosto tornare ad ascoltare la base operaia. A tale produzione televisiva segue, nel 1973, Welt am Draht (Il mondo sul filo), un visionario film di fantascienza diviso in due parti basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dell’americano Daniel F. Galouye. L’opera, oltre a riflettere sul ruolo del progresso tecnologico, approfondisce soprattutto le possibilità di autodeterminazione dell’uomo in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato dal potere.

fassbinder berlin alexanderplatzNel 1979 è la volta della serie per la tv Berlin Alexanderplatz, la produzione probabilmente più impegnativa realizzata dal regista. Si tratta di una trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Alfred Döblin, seppure riletto in maniera del tutto personale da Fassbinder che, anche in questo caso, si sofferma nuovamente sul tema dell’amore impossibile tra due uomini a causa delle convenzioni sociali. Il progetto Berlin Alexanderplatz, all’epoca la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, prevede tredici episodi ed un epilogo trasmessi con cadenza settimanale in prima serata. Nonostante il successo di critica ottenuto alla proiezione in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia del 1980, in Germania le polemiche non tardano ad arrivare soprattutto a causa del, solito, gruppo editoriale Springer che parla, a proposito dell’opera, di “orgia di violenza, perversione e blasfemia”, “atmosfera da orinatoio”, “sesso sporcaccione”, “sottofondo sadomaso” ecc. Trasmessa, dopo tante pressioni, ad orario più tardo, la serie risulta essere troppo complessa per il pubblico televisivo .

Tornando alla produzione cinematografica, l’opera Angst essen seele auf (La paura mangia l’anima), ottiene un grande successo internazionale ed una vera e propria acclamazione al Festival di Cannes del 1974. La tematica, come in Katzelmacher, riguarda i rancori della società nei confronti dei lavoratori stranieri. Nel film, ispirato ad All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk, ad essere trattato da Fassbinder è il tema dei pregiudizi a cui si espone una donna di modeste condizioni sociali nel legarsi ad un uomo, per di più straniero, molto più giovane di lei. In tale opera la crisi tra i due inizia a manifestarsi proprio quando a livello sociale cresce la tolleranza nei confronti della loro unione; in quel momento iniziano a palesarsi i veri conflitti tra i due. Ancora una volta un’opera che manifesta l’impossibilità di una relazione amorosa felice.
Nel testo viene evidenziato come, nei opere di Fassbinder, le donne siano spesso innamorate senza speranza, figure che che crollano al cospetto del loro amore non corrisposto. Nel film Martha si insiste sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui si trovano a vivere. Anche in Effi Briest, tratto dal romanzo di Fontane, si affrontano i rapporti di dipendenza all’interno di una coppia: contro la sua volontà una ragazza viene data in moglie ad un barone di vent’anni più vecchio di lei in passato innamorato di sua madre. L’infelicità matrimoniale porta la giovane a legarsi clandestinamente con un giovane amico del marito. Scoperto casualmente il tradimento della moglie, quando ormai da parecchi anni i due si sono trasferiti in un’altra città, il barone decide di seguire le convenzioni sociali e, sfidandolo a duello, uccide il giovane rivale e ripudia la moglie che, respinta anche dai genitori, muore di tubercolosi. Girato in bianco e nero, il film nelle intenzioni del regista deve presentare la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo di Fontane.
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) del 1974, è invece il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale ove si racconta di un giovane che vive mestamente lavorando in un parco divertimenti e prostituendosi, grazie ad una vincita alla lotteria, il ragazzo diviene improvvisamente ricco e, finalmente, accolto da quell’ambiente omosessuale piccolo borghese che fino a questo momento lo ha sostanzialmente escluso per la sua provenienza proletaria. Nasce così una relazione tra il giovane ed il figlio di un imprenditore che poi finisce per derubarlo di tutta la sua vincita. La disillusione porta il ragazzo a suicidarsi, solo come un cane, in una stazione della metropolitana non soccorso dai vecchi amici che preferiscono far finta di nulla e, persino, derubato, ormai cadavere, da due ragazzini che gli svuotano tasche. Nuovamente Fassbinder sceglie una storia utile a ribadire l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due individui. Diverse associazioni omosessuali contestano il film che, nelle intenzioni dell’autore, denuncia come anche in ambito omosessuale, esattamente come avviene nella società eterosessuale, i sentimenti sono oggetto di sfruttamento.
Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, (t.l. Il viaggio in cielo di mamma Küsters) del 1975, è un atto di accusa nei confronti della sinistra tedesca sia istituzionale che radicale. La storia narra di un operaio che, temendo di essere licenziato, dopo aver sparato al capo del personale, si toglie la vita. La vedova viene emarginata dai famigliari, dai conoscenti ed anche dai comunisti del Dkp che preferiscono non avere a che fare con la vicenda del marito. La donna, che intende riabilitare la figura del marito, finisce col dare credito ad un giovane estremista che la coinvolge in un’azione armata sconsiderata dal tragico epilogo. In occasione della proiezione del film alla Berlinale scoppiano disordini.
Nell’opera del 1975 Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), si narra di come, in una donna, nel corso della gravidanza, si generi un’inspiegabile inquietudine che le provoca un’inguaribile stato di depressione. Pian piano emarginata dal marito e dai conoscenti, la donna finisce sempre più isolata senza che il film suggerisca alcuna ipotesi come causa dell’improvvisa deriva emotiva della donna.

Le accuse di antisemitismo ricevute in occasione della sua attività teatrale francofortese, si ripetono anche nei confronti della sceneggiatura tratta dal romanzo Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond di Gerhard Zwerenz scritta per un nuovo film. Il sostegno economico promesso dalla Filmförderungsanstalt salta in quanto la commissione giudicatrice inizia a temere che il film possa confermare i “pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura”, tanto da esprimersi in questo modo nella lettera di rifiuto: “Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf”. A tali accuse il regista reagisce scompostamente, tanto che, seppure da ubriaco, arriva, in alcune circostanze, a vaneggiare di congiura ebraica, ad intonare canzoni naziste od a dichiarare, provocatoriamente, di essere la reincarnazione di Hitler.
Successivamente, nel 1976, Fassbinder gira Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana), opera incentrata nuovamente sulla denuncia di come tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. Nel film è presente anche una riflessione sull’industria culturale ed una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Dopo il grande successo di pubblico di Effi Briest, i film successivi segnano, da questo punto di vista, una crisi profonda tanto di botteghino che di critica. La stampa inizia a vedere nei suoi nuovi film, sempre più autobiografici, un eccesso di autocommiserazione. Nel film del 1976 Ich will doch nur, dass ihr micht liebt (In fondo voglio soltanto che mi amiate), Fassbinder riflette, seppure indirettamente, sulla propria infanzia infelice priva di affetto.

A metà anni ’70, di pari passo alle critiche piovute in patria sulle ultime opere ed a un consumo di alcol, medicinali e droghe sempre più smodato, Fassbinder inizia ad essere celebrato in America come la figura più importante del nuovo cinema tedesco e come il maggior talento europeo dopo il mostro sacro Godard. Nel 1977 il regista gira per il mercato internazionale, direttamente in lingua inglese, il film Despair – Eine Reise ins Licht (Despair), presentato a Cannes si rivela un insuccesso mentre in patria ottiene miglior accoglienza.
fassbinder marriage-of-maria-braunDie Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), uscito nel 1978, realizzato col fine di ottenere un “film tedesco in stile hollywoodiano”, ottiene un successo internazionale sia di critica che di pubblico. Il film è ambientato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime nazionalsocialista, “quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949”. La storia racconta delle vicissitudini di Maria Braun, interpretata da Hanna Schygulla, donna che, dopo un periodo di miseria nera, credendo il marito morto in guerra, se lo vede ricomparire quando ormai ha tentato di ricostruirsi una vita insieme ad un militare americano di colore. Ucciso il nuovo amante per dimostrare il perdurare dell’amore nei confronti del marito, la donna si trova nuovamente sola quando, quest’ultimo, autoaccusandosi dell’accaduto, viene incarcerato. Si viene successivamente a creare un complesso triangolo di rapporti tra la donna, il suo nuovo e facoltoso amante ed il marito. La vicenda, in cui si intrecciano patti segreti tra i vari protagonisti, ha un epilogo tragico che, stavolta definitivamente, impedisce ai due sposi di vivere assieme. Attraverso la figura della protagonista, Fassbinder mette in scena la forza e la caparbietà di tante donne tedesche che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, sono riuscite ad abbandonare quel ruolo passivo imposto loro dalla tradizione e sopravvivere con autodeterminazione. Il film termina con l’eco della vittoria tedesca dei mondiali di calcio del 1954, quando nella società tedesca non solo si conclude la prima fase del dopoguerra, ma, sottolinea Trimborn, si tornano a relegare le donne alla storica sudditanza nei confronti dei mariti. Il ruolo attivo femminile, sviluppatosi tra le macerie, vine soffocato dalla ricostruzione che sembra, per certi versi, voler riportare tutto entro i ruoli tradizionali.

Concepito non certo per essere un film di cassetta, nel film del 1978, In einem jahr mit 13 monden (Un anno con 13 lune), di cui Fassbinder firma soggetto, sceneggiatura, produzione, scenografia, montaggio, fotografia e regia, si raccontano gli ultimi giorni di vita della transessuale Elvira, suicida a causa della solitudine e dell’indifferenza da cui è attorniata.
Lili Marleen è un film, ad alto budget, realizzato nel 1980, sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen, diva del Terzo Reich. Fassbinder trasforma la vita della cantante tedesca, interpretata, ancora una volta, da Hanna Schygulla, nella storia di un amore contrastato negli anni della guerra. Una volta uscito il film ottiene giudizi contrastanti, perlopiù negativi. L’opera viene accusata di essere superficiale, piena di cliché, e troppo comprensiva nei confronti di chi ha fatto carriera negli anni nazionalsocialisti. Fassbinder viene accusato di aver reso omaggio all’estetica nazista mentre egli afferma di voler “far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi”.
Lola, del 1981, racconta la storia di come un funzionario all’edilizia, giunto a fine anni ’50 in una cittadina del nord della Baviera, finisca per tradire i suoi propositi di contrastare il malaffare e la corruzione a causa di Lola, una cantante e prostituta che lavora nel bordello di uno squallido personaggio che controlla buona parte della cittadina. L’amore per questa ragazza finisce col renderlo parte di quel sistema corruttivo che inizialmente intende combattere. “Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale”, scrive Trimborn. Lola, nelle intenzioni di Fassbinder, sottolinea anche come nella Germania del miracolo economico, lo sfruttamento della donna non sia affatto cambiato rispetto al passato.

veronika vossLa protagonista di Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss), film in bianco e nero girato nel 1981, cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico ma è destinata al fallimento. La protagonista, un’attrice divenuta morfinomane per continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui è stata una stella, è totalmente succube di una dottoressa che approfitta del suo stato di dipendenza. Temendo che le indagini di un giornalista, che nel frattempo ha conosciuto l’attrice, possano crearle problemi, la dottoressa decide di eliminarla. Presentato alla Berlinale del 1982 il film è un successo, viene visto come una sorta di risposta tedesca a Sunset Boulevard (Viale del tramonto), capolavoro di Billy Wilder.
Nell’ultimo film di Fassbinder, uscito nel 1982, Querelle, tratto dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet, tornano le tematiche a lui più care: amore, tradimento, dipendenza, violenza, solitudine, ricerca di una propria identità e di condivisione con un altro essere umano. Il film viene realizzato da un autore ormai fortemente condizionato dall’uso di droghe che, per non smentire il gusto della provocazione, per quanto concerne le foto di scena, contatta addirittura Leni Riefenstahl, che, ammalata, non è in grado di accettare l’offerta. Lo stato di alterazione con cui gira il film è pari soltanto al ritmo forsennato che decide di dare alle riprese, quasi una gara con la morte che sembra avvicinarsi sempre più velocemente.

Nel giugno del 1982, dopo aver assunto una dose eccessiva di cocaina pura, insieme a medicinali vari in grande quantità, nel corso della notte, il cuore di Fassbinder cessa di battere. Con lui se ne va un uomo contrastato, inquieto, contraddittorio ma capace, con il suo lavoro, di sferzare le coscienze di quel mondo piccolo borghese tedesco che forse non è riuscito, o non ha voluto, debellare fino in fondo quelle strutture sociali e culturali non sparite per incanto con la fine della guerra. In Germania e nel resto dei paesi in cui sono stati proiettati i suoi film, certamente Fassbinder è riuscito nel suo scopo: “creare disagio nelle strutture della borghesia” e le sue riflessioni sull’incomunicabilità e sull’esercizio del potere sui, ed attraverso i, sentimenti restano del tutto attuali.

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