Jean Améry – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 23:50:05 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

]]>
Intellettuale ad Auschwitz. Appunti su un libro da rileggere e per uno da scrivere https://www.carmillaonline.com/2015/01/22/intellettuale-ad-auschwitz-appunti-su-un-libro-da-rileggere-e-per-uno-da-scrivere/ Wed, 21 Jan 2015 23:10:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=20167 di Daniele Orlandi

AméryAnche quest’anno, in occasione della giornata della memoria, l’industria dell’Olocausto – secondo la definizione di Norman Finkelstein, vale a dire lo sfruttamento commerciale della tragedia ebraica – proporrà i suoi modelli avveniristici con l’aiuto di registi e sceneggiatori, romanzieri e “annafrankisti” dell’ultim’ora, a uso e consumo di morbosi, fornendo nuove sponde ai revisionisti vecchi e nuovi. Primo Levi, d’altra parte, lo aveva capito anzitempo che “il racconto del reduce è un genere letterario”[1] e temeva che da quel ramo geminassero sottoprodotti grotteschi e falsi .

A partire dal termine [...]]]> di Daniele Orlandi

AméryAnche quest’anno, in occasione della giornata della memoria, l’industria dell’Olocausto – secondo la definizione di Norman Finkelstein, vale a dire lo sfruttamento commerciale della tragedia ebraica – proporrà i suoi modelli avveniristici con l’aiuto di registi e sceneggiatori, romanzieri e “annafrankisti” dell’ultim’ora, a uso e consumo di morbosi, fornendo nuove sponde ai revisionisti vecchi e nuovi. Primo Levi, d’altra parte, lo aveva capito anzitempo che “il racconto del reduce è un genere letterario”[1] e temeva che da quel ramo geminassero sottoprodotti grotteschi e falsi .

A partire dal termine ormai comunemente ma impropriamente scelto di Olocausto che, stando per “tutto bruciato”, connota lo sterminio in senso esclusivamente religioso, sacrificale. Eppure i maggiori testimoni della strage razzistico-industriale nazista confessano di aver sperimentato l’ ”obbligo e impossibilità di essere ebreo”[2] proprio in Lager. Allo scoppio del secondo conflitto mondiale è, questa, una caratteristica comune a molti ebrei occidentali, integrati da secoli nei paesi europei. Obbligo, poiché non è dato cancellare un’origine nemmeno davanti al pericolo della deportazione né di non riconoscersi come appartenente a un popolo martoriato davanti una camera a gas. Impossibilità, poiché non ci si può imporre una fede o la condivisione di una determinata cultura. Figli laici di un universo familiare e culturale laico, tali sono rimasti. Di formazione umanistica, illuminista, positivista, hanno fatto del dramma tutto umano del campo di concentramento, la base dei propri racconti. Più che “la morte di Dio”, per questi reduci il Lager è stata la conferma di un ateismo preesistente (“C’è Auschwitz”, rifletteva Levi, “dunque non può esserci Dio”). A guerra finita non si sono trasferiti a Gerusalemme, preferendo tornare alle proprie case ed affrontare l’irrisolvibile trauma del reinserimento oppure hanno vagato per il Vecchio Continente alla ricerca di uno spazio, fisico e interiore, da poter chiamare Heimat. Sono stati difensori del diritto all’esistenza dello Stato ebraico ma spesso critici sulla politica estera israeliana e ne hanno scontato duri anatemi e profondi isolamenti.

È accaduto – e accade ancora – anche al filosofo austriaco Hans Mayer, che dal 1945 aveva iniziato a firmarsi Jean Améry, anagrammando il suo nome. Il più complesso e urticante sopravvissuto, autore, nel 1966, di un libro capitale della littérature de temoignage, nato dalla fusione dei due lunghi saggi Jenseits von Schuld und Sühne (Aldilà della colpa e dell’espiazione) e Bewältigungsversuche eines Überwältigten (Tentativo di superamento di un sopraffatto) tradotto in italiano con il titolo programmatico di Intellettuale a Auschwitz. L’accademia non lo studia, i giovani laureati in filosofia non ne conoscono l’esistenza, le comunità ebraiche non lo ricordano, i librai non lo consigliano e la storiografia non gli ha ancora dedicato una monografia che ne tenti un ritratto a figura intera. Améry è morto suicida nel 1978 e nessuno ne parla più. La stessa penetrazione in Italia dei suoi libri dà la misura di questa lunga incuranza. Fu Primo Levi – col quale Améry era sceso in polemica definendo il chimico torinese un “perdonatore” dopo aver letto Se questo è un uomo – a proporsi come traduttore ma nell’aprile del 1987 Levi moriva nel modo che sappiamo e Giulio Bollati mandava in stampa la versione italiana tradotta da Enrico Ganni, in omaggio all’amico scomparso. Da allora, i libri di Améry pubblicati in Italia saranno quattro, scelti come i più rappresentativi, in un corpus di nove volumi raccolti nei Werke.

Complesso, dicevamo, poiché Améry è e resta un filosofo. I suoi temi sono la tortura che incrina il “mondo interno” dell’essere umano, la vecchiaia che lo offende senza scampo e lo fa estraneo a se stesso (vedi Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, 1968), la morte come scelta o fortunoso scampo, l’ipocrisia della cultura borghese dominante in ogni epoca (vedi il saggio del 1978, Charles Bovary, medico di campagna) ed egli svolge le sue riflessioni intorno al Lager, presente ma sottilissimo fil rouge di tutta la sua produzione, a partire da questa irrinunciabile forma mentis. Urticante, poiché inconsolabile e non consolatore. Perché uomo di sinistra radicale (venne arrestato dalla Gestapo in quanto partigiano di una formazione comunista) sempre contro la sinistra del suo tempo, scomodo nella DDR come nella BRD; perché contro gli storici e la loro pretesa di accostarsi allo sterminio con obiettività e distacco; contro i revisionisti e i moderati costruttori di dubbie identità politiche e di facili assoluzioni. Infine, scostante. Poiché esterno collaboratore della testimonianza, estremamente soggettivo, “senza pace e senza ricerca della pace”[3], portatore sano di contagiosa disperazione. In tutti i suoi libri egli analizza un dramma culturale prima ancora che fisico, prima ancora che storico. Il Lager è stata la tomba dell’uomo di lettere, dell’uomo dello spirito (non dell’uomo di fede) come egli intendeva l’intellettuale. Un reduce scrittore e insieme muto. Una monade leibniziana chiusa nel suo universo, che non comunica con altre monadi vicine – un “testimonade”, se è consentito coniare un vocabolo ad hoc – che percorre il desolato, quasi autistico tragitto dei versi ungarettiani: “Da quella solitudine di stella/ A quella solitudine di stella”.

Intellettuale ad AuschwitzFu erroneamente definito “teorico del suicidio” per via del suo ultimo libro, Levar la mano su di sé (1976, ma in Italia dal 1990), dove non teorizza affatto il sui ceadere come forma di coercizione assoluta ma la Freitod, la libera morte, quando “il mondo di chi è felice è altro da quello di chi è infelice”, senza rimedio alcuno, seguendo il suo amato Wittgenstein del Tractatus logico-philosophicus. In Intellettuale a Auschwitz, con argomentare calmo e spietata requisitoria, ci racconta la condizione del letterato in un KZ hitleriano: un’etica senza estetica dove la filosofia falliva l’incontro con la realtà e la poesia celebrava le proprie esequie: “Nel Lager era più facile rendersi conto che l’Ente e la luce dell’Essere erano del tutto inservibili”, scriveva come a ridimensionare Heidegger, “si poteva essere affamati, essere stanchi, essere ammalati. Affermare semplicemente che si era, non aveva senso” (pp. 52-53). E ancora, “nessun ponte conduceva dalla morte ad Auschwitz alla Morte a Venezia” (p. 50), perché in Lager qualsiasi forma di arte, di manifestazione dello spirito e dell’intelletto era inservibile, anzi dannosa. La morte in Auschwitz non aveva nulla di eroico, di poetico o anche di decadente: era una morte nuda, ignominiosa e immonda. Nel suo romanzo-saggio del 1974, Lefeu oder der Abbruch (Lefeu o della demolizione), non disponibile in italiano, Améry sembra rovesciare definitivamente i termini della terzina dantesca dedicata a Brunetto Latini, “m’insegnavate come l’uom s’etterna” (Inf. XV, 67). Il Novecento di Améry ha insegnato come l’uomo si demolisce e come si demolisce un uomo.

Tra presentimento della tragedia e sentimento della testimonianza (come nel caso di Primo Levi o di Elie Wiesel o di Jorge Semprún), Améry chiama in causa il concetto di risentimento e ne fa una sorta di morale. Il reduce deve risentirsi fino alla fine, consapevole, certo, che nessuno ascolterà quel grido, ma suvvia: cos’altro gli resta? Non ha nostalgia del passato, oscurato dall’ombra retroattiva del Lager; si nega il senso del futuro – a chi gli chiedeva perché non mettesse in pratica le sue teorie suicidarie rispondeva: “Un po’ di pazienza, caro amico”; la sua è una continua guerra intellettuale. Contro la Kultur che ha prodotto il mostro che lo ha masticato e rigettato (Germania), contro i collaborazionisti di Vichy, e spesso anche contro gli araldi della memoria (Israele), vale a dire contro carnefici e vittime, quando queste raccolgono, puntandola altrove, la spada dell’intolleranza. Lo scorso anno, la pellicola Anita B., di Roberto Faenza, citava Améry all’interno di un contesto che rendeva quel passo fuorviante: “Dio ha dato gli uomini la dimenticanza”. Solo per chi ne legge, evidentemente. Chi è stato in Lager ha perduto per sempre la benedizione dell’oblio. Nel caso di Améry, tra vivere e morire, scrivere è stato dal 1945 al 1978, un pretesto per rimandare il più possibile la decisione. Sono passati trentasette anni dal suo ultimo pasto a base di barbiturici in un hotel di Strasburgo. È tempo di ricordarlo leggendolo o rileggendolo, e magari scrivendoci su.

[1] P. Levi, Prefazione a A. Bravo – D. Jalla, La vita offesa, in P. Levi, L’asimmetria e la vita, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, 2002, p. 138.

[2] J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, trad. it., Bollati Boringhieri, 1987, p. 137.

[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, (1986), Einaudi, 1991, p. 102.

]]>