Jaume Balagueró – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 New horror. Il Male nella/della Rete https://www.carmillaonline.com/2024/12/25/new-horror-la-paura-nellepoca-del-web-il-male-nella-della-rete/ Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85602 di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Di Nicola, Nuovo cinema horror, Mimesis, Milano-Udine, 2024, pp. 180, € 18,00

Nuovo cinema horror di Emanuele Di Nicola analizza alcuni dei principali film del new horror – It Follows (2024) di David Robert Mitchell, The Witch (The VVitch: A New-England Folktale, 2015) di Robert Eggers, Hereditary. Le radici del male (Hereditary, 2018) e Midsommar. Il villaggio dei dannati (Midsommar, 2019) di Ari Aster, Scappa. Get Out (Get Out, 2017) e Noi (Us, 2019) di Jordan Peele, Raw. Una cruda verità (Raw, 2016) e Titane (2021) di Julia Ducournau – per poi soffermarsi sulle tendenze generali che caratterizzano il genere nel nuovo millennio guardando in particolare agli horror incentrati sul web, ai film realizzati da donne, ai meccanismi sequel, prequel e requel che contraddistinguono le produzioni più recenti, alle produzioni italiane tra snuff movies, contagi, mostri e vampiri, alla modalità seriale ed al Covid horror.

«Ogni tragedia epocale si porta dietro la sua elaborazione cine-narrativa. Ogni grande paura produce un nuovo cinema dell’orrore» (p. 157). Il Novecento è stato attraversato dalle paure generate dai due conflitti mondiali e dalla Guerra Fredda, dall’incubo dell’atomica sganciata in Giappone e di un suo possibile nuovo utilizzo, dal timore, soprattutto dopo l’Undici Settembre 2001, di attacchi terroristici portati nel cuore dell’Occidente, dai disastri ecologici e climatici, dallo spettro dell’Aids o di nuove e sconosciute malattie, fino al Covid. Se di tutte queste paure si sono occupate la letteratura ed il cinema, di certo non poteva mancare una loro elaborazione e messa in scena da parte del genere che più di ogni altro si occupa di paura: l’horror.

Con il proposito di tornare successivamente su alcune delle tendenze trattate dall’autore, in questo scritto ci si soffermerà sulle paure legate all’universo internet messe in scena dal cinema horror del nuovo millennio. Di Nicola indica Ringu (1998) di Hideo Nakata come il film che, con la sua “videocassetta assassina”, suggella la fine dell’epopea analogica a cui, in apertura di nuovo millennio, non mancano di riferirsi diversi film che prospettano lo sprigionarsi della paura da qualche vecchio nastro rintracciato dopo tanto tempo: una sorta di presenza inquietante contenuta in una tecnologia divenuta talmente rapidamente obsoleta da farsi, nel giro di qualche decennio, archeologia da cui, da un momento all’altro, può manifestarsi in tutta la sua potenza il maligno che la abita.

Alla serie di film focalizzati sulle vecchie videocassette analogiche introdotta da Ringu e dalla versione statunitense The Ring (2002) di Gore Verbinski succedono gli screenlife (o screenview) movies incentrati sull’universo del web, che prendono il via con Collingswood Story (2002) di Michael Costanza, in cui si prospetta la presenza di forze maligne nella rete; un universo abitato non solo da “criminali tradizionali” che sfruttano questo nuovo spazio ma anche da vere e proprie «entità ultraterrene, che vivono nei meandri della rete e risultano più inquietanti proprio perché invisibili, non individuabili, non tangibili, fluttuanti nelle schermate tra un sito e l’altro. Queste forze configurano una sorta di “rete maledetta”, uno spazio intangibile che si dimostra oscuro e ostile, pronto a colpire i protagonisti» (p. 90).

Se film come Paura.com (Fear Dot Com, 2002) di William Malone, Feed (2005) di Brett Leonard o lo stesso Smiley (2012) di Michael J. Gallagher, per quanto quest’ultimo sia un’opera a cavallo tra thriller ed horror, sono incentrati sul maniaco o serial killer che sfrutta il web per adescare le sue vittime, diverse opere danno spazio al fenomeno della condivisione via social di qualche efferatezza non mancando di sottolineare come il sadismo di qualche folle assassino trovi terreno fertile nel voyeurismo diffuso dei nostri giorni amplificato – e indotto – a dismisura dal web. Non a caso, ricorda Di Nicola, i social network hanno un ruolo importante nella serie Scream di Matt Bettinelli-Olpin e Tyler Gillet post Wes Craven, ed in Thanksgiving (2023) di Eli Roth.

Diverse sono le opere incentrate sull’universo più perverso e atroce che si immagina nascondersi nel cosiddetto dark web tra snuff movies e red rooms; tra queste Di Nicola ricorda Unfriended (2014) di Levan Gabriadze e, soprattutto, Unfriended: Dark Web (2018) di Stephen Susco che, oltre riprendere l’idea delle camere delle torture che abiterebbero il web più oscuro, introduce il topos dello spietato sistema di voto in grado di stabilire la vita o la morte delle vittime che si ritrova in diversi film e serie televisive.

Alcune produzioni horror degli ultimi decenni hanno ripreso attualizzandoli e spesso tecnologizzandoli il found footge e il mockumentary, il ricorso ad immagini che si vogliono di repertorio ed il formato del falso documentario; si pensi a The Blair Witch Project (1999) di Daniel Myrick e Eduardo Sánchez e, venendo agli internet horror, a Rec. La paura in diretta (Rec, 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza. «Insomma, l’orrore nella rete, che sia screenlife o meno, riesce a trarre una proposta tutto sommato originale e al passo coi tempi riconoscendo e metabolizzando esperienze del passato, variando sulle forme del genere e presentandole in veste inedita per fare paura parlando degli orrori di oggi» (p. 93).

L’autore sottolinea come con il tempo l’horror che scaturisce dal web divenga più complesso e stratificato, come dimostrano The Den (2013) di Zacharie Donohue, Friend Request (2016) di Simon Verhoeven, Followed (2018) di Antoine Le, Host. Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage – in cui lo screenlife si intreccia con il lockdown della pandemia di Covid – e Deadstream (2022) di Joseph e Vanessa Winter.

Alle stanze di tortura si rifà Les Chambres Rouges (Red Rooms, 2023) di Pascal Plante che, per quanto sia un thriller drammatico più che un horror, contribuisce a diffondere una paura su cui insisteranno diversi film di questo genere. Il film francese, scrive Di Nicola, «attraverso la sua sinistra leggenda lancia un tema che riguarda noi tutti e fa davvero paura: la smania di guardare, la tendenza a vedere il più possibile nel nostro mondo iper-connesso, che ormai non si ferma più davanti a nulla, neanche ad una bambina che viene fatta a pezzi per appagare i nostri occhi» (p. 95).

Se red rooms e snuff movies tendono a rifarsi più a leggende metropolitane che non a fatti reali e comprovati, le sfide tra adolescenti portate ad esiti estremi ripresi da diversi film horror recenti richiamano invece direttamente la realtà. La sfida Blue Whale Challenge tra ragazzini, comportante la prova finale del suicidio, che in Russia ha coinvolto un alto numero di giovani e giovanissimi, è stata ripresa da #Blue_Whale (2021) di Anna Zaytseva, «film privo di elementi soprannaturali ma ugualmente terrificante, forse proprio perché ancorato alla verità delle cose e in grado di scoperchiare un’altra china fatale, particolarmente spietata perché prospera sulla debolezza psicologica degli adolescenti in fase di sviluppo» (p. 95).

Cam (2018) di Daniel Goldhaber è un horror incentrato sulle vicissitudini di una camgilr che richiama l’esperienza vissuta in prima persona dalla sceneggiatrice Isa Mazzei nell’universo del sesso online raccontata nel memoir Camgirl (Rare Bird Books, 2019). Il film, tecnicamente non proprio uno screenlife movie, si concentra sull’inquietante e conturbate generarsi in rete di un doppio della protagonista da cui questa non riesce più a liberarsi/differenziarsi. Anche in questo caso, al di là della vicenda riguardante il mondo delle camgirl, il film tocca una problematica importante e reale della vita quotidiana nell’epoca in cui questa si è espansa sulla rete attraverso «una variazione spiazzante sul tema del doppio che si appropria della nostra vita come un predatore fino a portarci alla rovina» (p. 100).

Di Nicola sottolinea un altro aspetto importante posto dal film di Goldhaber: l’idea, presente in filigrana anche in diversi altri film del genere, sin dal pionieristico The Collingswood Story di Costanza in apertura del nuovo millennio, che nella rete abiti qualcosa di diabolico che sfugge alle possibilità razionali di comprensione e risoluzione: «c’è qualcosa di male nella rete, una forza che può replicare la tua essenza, trascinarti nel gorgo e condurti alla perdizione» (p. 101).

Che si pensi al paranormale o ad «un algoritmo impazzito magari gestito da un oscuro burattinaio», scrive Di Nicola, la «percezione della paura si sposta solo dall’esistenza della “cosa”, nascosta non tra i ghiacci ma nelle maglie invisibili del web, verso l’orrore dell’algoritmo, anticipando il timore e la paura che l’intelligenza artificiale è in grado di incutere» (p. 101). Che si tratti di paranormale o di deriva tecnologica, il risultato conduce ad una nuova ed inquietante forma di orrore incentrata sul web in cui si vive una parte sempre più importante della quotidianità e che concorre alla costruzione dell’identità.

Trattando delle paure che hanno contraddistinto il periodo più recente, il nuovo cinema horror non poteva esimersi dall’affrontare il Covid. Se il sottogenere orrorifico pandemico ha lunga tradizione, ad anticipare il Covid degli anni Duemila è stato Contagion (2011) di Steven Soderbergh, dunque un film non appartenente al genere horror. Lo stesso regista introduce invece direttamente il Covid nel suo Kimi – Qualcuno in ascolto (Kimi, 2022), film, anche in questo caso non di genere horror, in cui la scoperta di una cospirazione da parte di una giovane informatica è ambientata durante il lockdown imposto dalle autorità a seguito della pandemia.

Ad introdurre il Covid nel genere horror è invece il mediometraggio indipendente britannico Host – Chiamata mortale (Host, 2020) di Rob Savage che, in formato screenlife, sullo sfondo di uno schermo a mosaico, racconta di una seduta spiritica in streaming di un gruppo di giovani alle prese con uno spirito maligno che abita l’universo del web. Anche The Harbinger (2022) di Andy Mitton collega l’horror al Covid.

Qui, di nuovo in presa diretta e con un’impostazione di finzione tradizionale, senza desktop né computer, il virus diviene letteralmente un fantasma, un incubo da cui non ci si può svegliare, un novello Freddy Krueger dei tempi moderni. Ed è il primo horror che rende il Covid un elemento di genere, lo ri-forma nel senso che ne cambia forma – peraltro eterea – e lo rende un mostro visibile e verificabile, almeno nella psiche dei personaggi. Insomma qui il Covid è un umore, una sensazione dell’orrore (pp. 162-163)

Lo stesso Savage trona sul Covid con Dashcam (2021) intrecciando in questo caso la figura dell’influencer con il lockdown pandemico ed il classico inseguimento tra la nebbia della campagna inglese. Da Taiwan vine invece The Sadness (2022), opera d’esordio di Rob Jabbaz, in cui il desiderio di ritorno alla normalità, dopo un anno di pandemia, rivela un’evoluzione del virus che conduce alla follia dei cittadini «seminando tristezza e pulsione di uccidere» (p. 163).

Altri film horror in cui compare la pandemia citati da Di Nicola sono: Songbird (2020) di Adam Mason, Lethal Virus (2021) di Daniel H. Torrado, Virus 32 (2022) di Gustavo Hernández e Sick (2022) di John Hyams, che, secondo l’autore, può essere considerato, almeno al momento, l’horror definitivo sul Covid. Il questo ultimo caso, il regista «non si limita a usare la pandemia come sfondo, a raccontare una storia nel tempo del virus, ma tematizza il virus stesso, lo ingloba dentro il flusso, ossia prende le stimmate del Covid e le rende elementi compiuti di genere» (p. 165).

Sick può essere letto «come metafora del Covid: ci sono tre persone chiuse in casa, un pericolo esterno prova ad entrare, loro tentano di resistere attraversano spray e tamponi, ma quando una particella infettiva sembra sconfitta ne arriva subito un’altra, perché il male può sempre colpire» (p. 165). Più di altri il film di Hyams può, secondo Di Nicola, inaugurare un nuovo tipo di horror incentrato sulla questione pandemica.

Cogliendo alcune delle paure contemporanee più diffuse, il legame che diversi film hanno istituito tra le mostruosità online e i pericoli offline, contagio compreso, potrebbe rivelarsi una delle strade su cui insisterà maggiormente l’horror del futuro.

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Esperienze audiotattili tra dispositivi panottici e panacustici https://www.carmillaonline.com/2018/08/10/esperienze-audiotattili-tra-dispositivi-panottici-e-panacustici/ Thu, 09 Aug 2018 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42109 di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere [...]]]> di Gioacchino Toni

il tema della sorveglianza e del controllo sostanzia una della “emozioni culturali” più forti del nostro contemporaneo, capace di toccare i nervi scoperti di un apparato politico-ideologico che dal cinema del complotto degli anni Settanta (pre- e post-Watergate) arriva fino ai giorni nostri (Antonio Iannotta)

In alternativa all’approccio oculocentrico con cui le teorie filmiche hanno storicamente indagato il cinema, Antonio Iannotta, nel suo saggio Il cinema audiotattile. Suono e immagine nell’esperienza filmica (Mimesis, 2017), riprendendo la convinzione di Maurice Merleau-Ponty che vuole la percezione come un’esperienza sempre sinestetica, propone un’interessante riflessione sul cinema come esperienza audiotattile. Per avere un esempio del coinvolgimento plurisensoriale dello spettatore al cinema, basti pensare a come le basse frequenze diffuse in sala dalle tecnologie contemporanee siano in grado di permettere allo spettatore di «percepire i suoni attraverso il corpo e le sue terminazioni nervose, vibrando fisicamente all’unisono con quello che si propone di definire cinema audiotattile» (p. 10). Lo studioso si propone, in particolare, di indagare la reciproca relazione tra sonoro e visivo nell’esperienza cinematografica, rintracciando quei momenti topici nella storia del cinema capaci di evidenziare tale relazione ricorrendo a un approccio metodologico in cui interagiscono le teorie della comunicazione audiovisiva con le teorie e filosofie dei media.

Dopo aver ricostruito le tappe tecnologiche che hanno condotto al cinema «compiutamente sonoro» e alla messa punto del linguaggio cinematografico attraverso il montaggio, e dopo aver analizzato il cinema dagli anni Trenta ai Settanta – soffermandosi sull’avvento del Dolby, sull’innesto del medium radiofonico sul cinema muto, sull’affinarsi della teoria del montaggio audio-visivo, sulle caratteristiche del cinema contemporaneo caratterizzato dall’high fidelity e dal concetto di verità del cinema -, nella parte conclusiva del volume Iannotta si sofferma sui cambiamenti tecnologici che hanno riguardato il cinema a partire dagli anni Settanta, dal perfezionamento dei meccanismi di fonofissazione fino all’avvento dell’era digitale. Secondo l’autore, tali trasformazioni tecnologiche metterebbero «in questione alcuni nodi capitali del cinema strettamente contemporaneo, in particolare il realismo in connessione con l’ontologia nell’epoca della produzione digitale, e il cinema della sorveglianza e del controllo nell’esperienza del cinema audiotattile» (p. 11).

Un esempio paradigmatico di come il cinema audiotattile faccia dell’iperestesia auditiva il proprio centro nodale, è indicato dallo studioso nell’incipit di Short Cuts (America oggi, 1993) di Robert Altman: la macchina da presa, che sbuca dal nero dello schermo, anticipata dal rumore di un elicottero, sorvola la città dominandola dall’alto e controllando le conversazioni dei cittadini.

Short Cuts ci conduce all’interno del dispositivo audiovisivo dall’alto, dalla posizione privilegiata di chi può sorvegliare il mondo sonoro del film […] Altman ci invita a prestare attenzione a quello che si dice per sciogliere una matassa narrativa ricostruendo le vicende dei tanti personaggi inquadrati dalla storia a partire dal sonoro e in prima istanza dalla voce, a volte in altre over altre ancora off dell’opinionista televisivo […] La voce entra in ogni casa e il dispositivo audiovisivo coinvolge in maniera totalizzante le nostre orecchie. Si tratta a tutti gli effetti di un dispositivo e di un film panacustico (p. 186).

Risulta evidente il riferimento all’ambiente panottico e panacustico pensato da Jeremy Bentham che sarà alla base degli studi di Michel Foucault sui dispositivi di sorveglianza e sui meccanismi di sapere e potere. Ai dispositivi di controllo visivo vanno aggiunti quelli di ascolto. Non stupisce che il termine “monitor” sia passato dall’iniziale significato di «istruttore e controllore carcerario», a designare un «apparato tecnologico di informazione» e, dunque, sottolinea Iannotta, di «sorveglianza e controllo». Secondo l’autore, l’esperienza cinematografica sarebbe legata «all’esperienza del controllo: non siamo più in grado di percepire il mondo in cui viviamo come un universo dotato di un senso decifrabile ma ci percepiamo (come) percepiti da altri» (p. 188).

Nel cinema contemporaneo non sono pochi i film che ricorrono alla sorveglianza come dispositivo narrativo. Si pensi a film come: Lost Highway (Strade perdute, 1997) di David Lynch; Gattaca (Id., 1997) di Andrew Niccol; Enemy of the State (Nemico pubblico, 1998) di Tony Scott; The Truman Show (Id., 1998) di Peter Weir; Caché (Niente da nascondere, 2005) di Michael Haneke; Paranormal Activity (Id., 2007) di Oren Peli; REC (Id., 2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza; Cloverfield (Id., 2008) di Matt Reeves… È «il fantasma dell’ascolto» ad essere sempre al lavoro in questi film, e, sostiene Iannotta, occorre seguire l’invito di Gilles Deleuze circa la necessità di affiancare allo studio foucaultiano delle società disciplinari l’analisi di un «più invasivo e strisciante meccanismo di sorveglianza posto in essere dalle società di controllo», da qui l’invito del filosofo francese a dotarsi di «nuove armi».

In Enemy of the State il fuggiasco viene mappato ininterrottamente oltrepassando qualsiasi barriera e, suggerisce Iannotta, nel film il controllo spaziale continuo ha un equivalente sonoro preciso.

Grazie al pan pot (panoramic potentiometer) è possibile creare l’illusione pressoché perfetta che la fonte sonora fluttui circolarmente nello spazio uditivo. La spazializzazione quadrifonica mette in cortocircuito l’idea che esista un unico e determinato punto di ascolto. Il suono satura lo spazio come se fosse una nube di vapore. È qui che si situa il cambio di paradigma: le teorie oculocentriche, pur nella loro sofisticata varietà, individuavano l’esperienza cinematografica in maniera abbastanza univoca, come se ci si trovasse tutti in un unico grande peep-show, con il senso dell’udito pronto ad ascoltare ciò che viene diffuso dallo stesso luogo della visione in correlazione con l’immagine. Sussiste qualcosa di più di un’analogia tra il punto di vista, che al cinema è per lo più genericamente assimilabile al punto di vista della macchina da presa, e un punto di ascolto, che invece non coincide mai espressamente con la posizione delle orecchie dello spettatore. Chi ascolta quello che noi ascoltiamo? Il suono sembra attribuire delle orecchie virtuali alla macchina da presa rendendola un personaggio dotato di una strana concretezza. Non si sta negando la nozione di punto di ascolto; per quanto la si presupponga necessaria, è solo a partire dalle differenze strutturali più volte ribadite tra suono e immagine che si deve chiarire il concetto di rappresentazione uditiva al cinema (pp. 190-191).

Iannotta presenta un interessante confronto tra due importanti film incentrati sul controllo: The Conversation di Francis Ford Coppola e Die 1000 Augen des Dr. Mabuse (Il diabolico dottor Mabuse, 1960) di Fritz Lang. Nel film di Coppola l’esperto di intercettazioni Harry Caul (Gene Hackman), dopo aver intercettato la conversazione di una coppia in Union Square a San Francisco, si trova catapultato in una situazione da cui non riesce a venire a capo. Il ruolo svolto dalla coppia intercettata da Caul, secondo lo studioso, rimanda ad un’analoga funzione rintracciabile nella coppia al centro del film di Lang.

L’ultimo film del regista tedesco marca una differenza importante tra la fine di una fase che si è detta moderna, con al centro la relazione mediale tra cinema e schermo televisivo, e l’epoca del controllo diffuso di un film come Enemy of the State, sull’asse della relazione mediale tra cinema e computer. Il fantasma di Mabuse, che sapevamo essere morto dal secondo film della trilogia, viene evocato da quello che scopriremo essere il suo nuovo erede, il sedicente visionario cieco Peter Cornelius, alias dottor Jordan (Wolfgang Preiss). La coppia di amanti al centro dell’escamotage diegetico del film è composta dal ricco industriale Henry Travers (Peter van Eyck) e da Marion Ménil (Dawn Addams), donna apparentemente disperata che finge il suicidio nell’albergo dove risiede Travers, con l’obiettivo di irretirlo. Con un carrello all’indietro, scopriamo che i due sono spiati su un monitor. La cabina di regia di chi sorveglia quanto accade nell’albergo possiede più videocamere: da qui i 1000 occhi (e orecchie) del titolo. Mabuse, o chi per lui, può vedere e sentire qualsiasi cosa. Un doppio livello di sorveglianza si impone nel film: quello della storia d’amore (Travers spia Marion da una stanza attigua) e quello di Mabuse. Il miliardario sta partendo con Marion ma nutre ancora qualche sospetto su di lei. Incalzata dalle sue domande, la donna confessa di essere un’agente della banda di Mabuse e di averlo ingannato per sposarlo, impadronirsi della sua ricchezza e soprattutto delle sue ricerche sulla bomba atomica. Ma Marion dice di amarlo davvero e implora di essere creduta. L’albergo, rivela, ha occhi e orecchie che osservano e ascoltano: “Loro vedono e sentono tutto!”. Alle richieste di spiegazioni di Traverse, Marion mostra il luogo dell’ascolto. Eccolo al lavoro il sistema di sorveglianza di Mabuse. Il dispositivo panottico e panacustico presente dovunque nell’albergo nel finale disvela tutta la potenza audiovisiva del suo potere occulto (pp. 192-193).

Il film di Coppola, in cui il protagonista deve ricostruire il significato della conversazione della coppia amanti, «offre anche un efficace discorso sul (cosiddetto) reale e sulla rappresentazione che il medium cinematografico è chiamato a dare». Captando la frase «He’d kill us if he got the chance», Caul viene catapultato all’interno dei problemi della coppia e del committente dell’intercettazione fino a comprendere, sul finale del film, che egli stesso è vittima di intercettazioni, scoprendo, in preda alla paura, di non sapervi, né potervi, porre rimedio.

Nell’epilogo delle narrazione, Caul, rientrato a casa, si dedica al suo hobby prediletto, suonare il sax tenore duettando con un disco jazz, improvvisando le note che si accavallano a quelle dello strumento solista. A rompere il fraseggio è il suono insistente di una telefonata […] Harry, spazientito, abbassa il volume del giradischi, risponde e ripete per due volte «Pronto», senza alcun esito. Dall’altra parte del ricevitore si ode solo il suono muto della linea telefonica. La macchina da presa ferma l’inquadratura per qualche secondo sul primo piano del telefono, mentre Caul si sposta nuovamente sulla sedia e riprende a suonare, rialzando il volume del disco. A quel punto la cinepresa si sposta con un carrello laterale per riprendere Harry nuovamente al centro dell’inquadratura. Dopo pochi secondi il telefono squilla nuovamente. Questa volta Caul è visibilmente in ansia, tanto da non prendersi la briga di abbassare, come aveva fatto prima, il volume del giradischi. Si alza e risponde nuovamente: “Pronto”. Questa volta il suono di un nastro che si riavvolge è immediato: “Noi sappiamo che lei sa tutto, signor Caul. Per il suo bene le consigliamo di non immischiarsi. Noi la sorvegliamo”. La musica del giradischi cessa e Caul si mette al lavoro. Con tutta la perizia tecnica di cui è capace cerca di capire come sia possibile che il miglior spione in circolazione sia stato messo sotto controllo. Con metodica professionalità, fa a pezzi la casa in cui vive. Nulla è lasciato al caso, anche la carta da parati viene rimossa. Senza esito alcuno, però. “Noi la sorvegliamo”. Alla fine, evidentemente senza più speranza, anche se si sente ancora sorvegliato, rimette il disco e ricomincia a suonare, tra le macerie, mentre la cinepresa percorre in lungo e largo la stanza dove si trova. L’ultima scena del film lo ritrae mentre continua a suonare il sax, con una panoramica dall’alto. È il cinema del controllo che lo sovrasta e noi con lui siamo sotto il suo dominio (pp. 193-194).

L’abile intercettatore non trova la microspia forse perché questa si colloca fuori dalla sua portata: il sistema di sorveglianza adottato «è irreperibile e irrimediabilmente sottratto agli occhi di Caul perché è allogato nello stesso dispositivo della macchina cinematografica» (p. 195). A differenza di quanto accade nel film di Lang, qui sembra emergere un «dispositivo vedente e senziente che non si interfaccia né identifica con nessun personaggio del film […] Qui l’identificazione è con la stessa macchina da presa, con un occhio e un orecchio capaci di dominare quanto viene visto e udito nella diegesi […] Il luogo del controllo si è spostato, ha cambiato direzione in maniera impercettibile quanto decisiva muovendosi dallo spazio della storia alla condizione primigenia che ogni storia possa essere raccontata» (p. 195).

La sorveglianza è divenuta la vera protagonista della narrazione filmica. Più il protagonista cerca il dispositivo senza trovarlo, più si sente in balia della sorveglianza e in preda alla paura: «il cinema audiotattile si dispiega come un rizoma difficile da decodificare, dove la minaccia è permanente e si fa allarmante metafora dell’ontologia dell’ascolto. Immersi in questa foschia fibrillante, un compito infine sembra spettare a ciascuno di noi: a ogni spettatore audiotattile la propria cimice da trovare» (p. 196).

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Nemico (e) immaginario. Il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo https://www.carmillaonline.com/2016/09/20/nemico-e-immaginario-il-ritorno-del-mostruoso-tra-cattiva-coscienza-coloniale-e-neocolonialismo/ Tue, 20 Sep 2016 21:30:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33294 di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) [...]]]> di Gioacchino Toni

la-hordeNel corso della serie “Nemico (e) immaginario” abbiamo sottolineato come nelle diverse produzioni audiovisive di norma lo zombie non sia identificato come individuo quanto piuttosto come massa indifferenziata esattamente come vengono presentati e trattati i migranti che sbarcano sulle coste europee prontamente  concentrati in spazi di isolamento all’interno o ai confini della “Fortezza Europa”. Nella più recente rappresentazione distopica, ove il carnefice è artefice della disumanizzazione schiavista, la memoria della violenza sembra riemerge materializzandosi in corpi dalla brutale aggressività.

Continuiamo la nostra serie “Nemico (e) immaginario” ripratendo da una scena del film La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1986) di George Romero in cui l’eroe nero viene scambiato per uno zombie ed ucciso dagli uomini bianchi. Si tratta di un errore “del tutto comprensibile”, visto che nella società bianca il nero è uno zombie, è una presenza priva di soggettività. Quello subito dal personaggio nero può dirsi dunque un processo di de-umanizzazione ed a ben guardare è il medesimo processo a cui sono sottoposti i migranti sugli schermi televisivi e fuori da essi.

Nel saggio di Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi (Le Monnier, 2016), meritoriamente recensito da Luca Cangianti nel suo “I mostri dell’accumulazione originaria”, l’autrice ha, tra le altre cose, particolarmente approfondito il ritorno del mostruoso tra cattiva coscienza coloniale e neocolonialismo. Il «nemico si manifesta come l’Altro e l’Altra esterni, mostrificati, deumanizzati, che si moltiplicano all’infinito, che non cessano mai di attrarre/sbarcare e opprimere l”umanità’ con la propria invadenza o con la propria incontrollabile ‘pazzia’ e/o sete di vendetta. Egli è l’Altro assoluto che ha attraversato le acque per venire a capovolgere una nave già piena, come nel caso dei sopravvissuti al disastro del 3 ottobre 2013 al largo di Lampedusa, o in quello dei pescatori di perle (migranti irregolari cinesi) che muoiono nel totale silenzio mediatico al largo delle coste britanniche […] È l’Altro-assoluto contro cui la società – quella fatta di ‘simili’ per cultura, religione, spirito democratico e, parrebbe conseguirne, appartenenza razziale – si rinsalda e si muove compatta» (pp. 10-11).

La studiosa ricorda come contemporaneamente all’appello alla solidarietà democratica, europea, occidentale, contro l’attacco alla redazione di “Charlie Hebdo” del gennaio 2015, in difesa della libertà d’espressione, nelle società occidentali è stata riadattata «la narrazione dello scontro di civiltà contro i ‘cattivi extraterrestri’ (gli stranieri simmeliani trasformati in potenziali criminali) e lungo il perimetro degli spazi nazionali e comunitari si rafforzano le misure di protezione delle frontiere contro l’immigrazione» (p. 11). Secondo Giuliani è esemplare l’intreccio francese tra “costruzione dell’Altro-assoluto” e “costruzione del Sé nazionale”: un paese dal violento passato coloniale plurisecolare contraddistinto da un’amnesia di Stato a proposito dello schiavismo e dal riprodursi di una narrazione istituzionale di stampo coloniale della “missione civilizzatrice” e del Progresso. Nel saggio, a tal proposito, si ricorda come la legge francese n.2005/158 del 23 febbraio 2005, nell’articolo 4, richieda espressamente che agli studenti della scuola dell’obbligo venga spiegato il «ruolo positivo della colonizzazione francese […] specialmente in Nord Africa».

Convinta dell’idea che il mostruoso rimandi, a maggior ragione oggigiorno, «alla mutazione interna dell’organismo umano e all’incapacità cartesiana di ristabilire il controllo su di essa» (p. 12), Giuliani definisce l’alterità (alieno/a, non-morto/a, mutante, cyborg ecc.) come post-umana. Inoltre, la studiosa definisce neocoloniale il tentativo di ristabilire il controllo su tutto ciò che è mutato, producendo alterità, trasgredendo alle regole della razionalità sovrana.

Nel saggio si ricorda come la narrazione distopica non abbia mancato di soffermarsi sull’ambivalenza della mutazione determinata dalla scienza e dalla tecnologia, a tal proposito si può far riferimento, ad esempio, alla produzione cinematografica di David Cronenberg degli anni Settanta ed Ottanta o, nel decennio successivo, a film come 12 Monkeis (1995) di Terry Gilliam od ancora, nel nuovo millennio, ad opere come I am Legend (2007) di Francis Lawrence, District 9 (2009) di Neill Blomkamp e World War Z (2013) di Marc Forster.

Esiste un’evidente continuità tra il “subumano” proprio del periodo coloniale e schiavista ed il “non-umano” o “post-umano” neocoloniale; in entrambi i casi la sua eliminazione solleva da responsabilità e lo sterminio diventa “naturale” nel suo essere presentato come la “soluzione finale” che permette il ritorno ad un’ontologia di un particolare tipo dell’umano di nuovo al centro dell’universo. Molte narrazioni recenti insistono sul fatto che il non-umano, o post-umano, conviva già con l’umano e tale convivenza, sostiene la studiosa, rimanda «alla codificazione della cosiddetta ‘società multirazziale’ del mondo reale, con le sue divisioni e contraddizioni sociali e culturali» (p. 16).

cover_zombie_alieni_e_mutanti_giulianiRifacendosi ad «una prospettiva genealogica che tende a rintracciare la paura nella storia delle sue rappresentazioni e dei suoi significati a partire dalla modernità, dalla nascita dello Stato nazione e dagli albori del movimento coloniale delle potenze europee verso ovest» (p. 18), il saggio affronta tematiche che vanno dal “ritorno del mostruoso” al “rapporto tra modello multiculturale ed Alterità assoluta” (tra “normalizzazione della diversità” e costruzione di una “diversità inconciliabile”), dalle “fantasie di bianchezza” presenti nelle narrazioni della catastrofe (utopiche e distopiche) alla “cittadinanza emotiva” concentrata «sull’incontro con l’alterità da parte delle diverse incarnazioni (culturali, sociali istituzionali) della ‘norma bianca’ in Europa e nelle ex colonie di popolamento» (p. 19).

Da parte nostra, in questo scritto, ci limiteremo alla questione del “ritorno del mostruoso” – affrontato dall’autrice nel primo capitolo del volume – rimandando per le altre questioni trattate dal denso ed interessante saggio al quadro d’insieme ricostruito nella già citata recensione stesa da Luca Cangianti [su Carmilla].

Giuliani legge alcune figure del cinema di genere horror e dintorni come allegorie della violenza coloniale e del suo ripresentarsi attraverso narrazioni distopiche sotto le sembianze di morti viventi. In generale il mostruoso coincide con la rappresentazione della finis mundi e se tale funzione può essere intesa come componente importante nella costruzione della “comunità antropologica”, nel corso dei secoli, sostiene la studiosa, si è strutturata nei termini dei confini dell’Ecclesia cristiana e, nella modernità, nei termini della separazione cartesiana e rinascimentale tra conoscente e conosciuto. Il satanico, bestializzato dall’iconografica della Scolastica sino a metà del Trecento, viene incorporato nelle leggende dei viaggiatori cinquecenteschi che toccavano i lontani territori del Pacifico, africani, caraibici, amazzonici… fino al Calibano shakespeariano. Ancora a cavallo tra Otto e Novecento Cesare Lombroso colloca proprio a tali latitudini la “barbarie calcificata” inestirpabile, incline al cannibalismo ed in epoca ancora più recente, ricorda Giuliani, sopravvivano tracce di tali “storie antropologiche” utili all’auto-rappresentazione dell’occidente che si vuole civilizzato e civilizzatore, si pensi a tal proposito il film Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato.

In età rinascimentale il cannibalismo (vero o presunto) dei nativi è inteso come prova evidente della loro “bestialità” o sottomissione all’anti-Cristo. La mostruosità del cannibalismo gioca un ruolo importante nella legittimazione del primo colonialismo divenendo “l’estremo male” da combattere in funzione dell’edificazione dell’Utopia. La bestia umana deve essere eliminata o sottomessa «alle leggi della Cristianità, dell’istituzione politica e, infine, del capitale […] La conquista e la realizzazione di nuove società abitate solo dagli elementi migliori (cristiani, bianchi e proprietari) necessitava di un’”accumulazione originaria” nel senso più marxiano del termine, ossia, da un lato, la cannibalizzazione della forza lavoro, il suo addomesticamento mediante lavoro servile o schiavo» (p. 27). Ed è proprio a questo secondo fine «che adempierà la costruzione di un nuovo mostruoso (lo/la schiavo/a ‘negro’, il coolie e il/la migrante ‘bruna’ del Mediterraneo, della Cina e dell’Asia meridionale sovente descritti mediante riferimenti a bestie ed insetti) utile a dividere e governare la forza lavoro mediante statuti (razziali) differenziali» (p. 27).

La donna sin dal Medioevo viene collocata tra le mostruosità per poi divenire nell’epoca del razionalismo settecentesco, dell’imperialismo e della moralità vittoriana, «la diversità assoluta all’interno degli spazi domestici dell’intimità borghese e della sua riproduzione. Diverrà non solo l’oggetto di violenze mediche, culturali e di polizia […] ma la sua diversità diverrà uno dei dispositivi di inferiorizzazione all’interno della comunità coloniale e imperiale della Modernità» (p. 27).

Dunque, continua Giuliani, il mostruoso è il prodotto della cattiva coscienza coloniale che si ripresenta a noi tramite la figura del non-morto, è il Calibano che si ripresenta per vendicarsi dello stigma e della violenza. È la “coscienza nera” che si incarna sottraendosi alla rimozione dell’esperienza coloniale e dello schiavismo, che si ripresenta prendendo a morsi chi ha massacrato in nome del progresso e chi oggi lucra erigendo “confini razzializzati” contro l’umanità migrante. «Questo cannibalismo in lettere e celluloide ribalta il cannibalismo fisico e simbolico dei conquistadores, dei padri pellegrini, degli schiavisti e di chi possedeva le piantagioni, ma anche quello dei ‘capitalisti’ descritti da Marx nel frammento dei Grundrisse del 1858, avidi di sangue – di denaro, di carne da lavoro – come ‘vampiri’» (p. 28).

Già in diversi scritti abbiamo fatto riferimento alla comparsa haitiana della figura dello zombi ed alla nascita di quella “Repubblica nera” incubo degli Stati Uniti segregazionisti. Abbiamo anche visto come le prime pellicole americane che affrontano gli zombie inevitabilmente abbiano a che fare tanto col senso di colpa nei confronti delle sofferenze inflitte agli schiavi, quanto col timore che infondono i neri nella società bianca. Abbiamo anche preso atto di come, tra gli anni ’30 e ’50, attraverso la figura dello zombie, l’immaginario cinematografico americano richiami la questione della “perdita di di volontà e controllo su se stessi”; l’epoca è quella della Depressione, dei conflitti mondiali, della Guerra fredda e della minaccia atomica. Nel corso degli anni ’60, con i movimenti di lotta per i diritti civili, il cannibalismo degli zombie portati sullo schermo da Romero pare legarsi al riscatto dei morti viventi contro la violenza razzista operata dal capitalismo.

I film di Romero «tematizzano il ritorno dei diseredati, dei subalterni e dei reietti della società statunitense sotto forma di zombie cannibali, i quali sono gli unici in grado di svelare […] come ricchezza e consumismo, fondati su violenza e marginalizzazione, non siano altro che realtà fragili, transeunti, ‘grondanti di sangue’» (p. 30). I linving dead romeriani vengono raffigurati come “moltitudine rivoluzionaria”, oscillando tra “massificazione” e “individuazione” e questi, pian piano smettono di essere massa indistinta per divenire “moltitudine di identità”. Se nella produzione romeriana si ricorre alla figura del morto vivente per riflettere sulle contraddizioni e sulle diseguaglianze americane, nelle produzioni più recenti, sostiene Giuliani, non si tratta più tanto di fare i conti con il “lato mostruoso” della società umana ma di “invocare un nuovo inizio”, di fondare un nuovo mondo con ogni mezzo necessario. Il nemico venuto dal passato, “il nuovo Calibano” che ha voce ma non linguaggio, deve essere eliminato attraverso una “guerra fondativa” di esseri superiori. Come esempi di ciò la studiosa cita il film spagnolo REC (2007) di Jaume Balagueró e Paco Plaza, ove l’origine satanista dell’epidemia legittima la “guerra giusta” contro il demone zombie, la saga Resident Evil (2002-2012) di Paul W. S. Anderson, ove la guerra è mossa contro zombie derivati da un’epidemia batteriologica determinata da esperimenti farmaceutici e World War Z (2013) di Marc Forster, ove l’apocalisse zombie porta ad uno “stato di guerra permanente”.

In questo ultimo caso la studiosa evidenzia come a tale “stato di eccezione permanente senza confini” non pare accompagnarsi alcuna critica alla società presente mentre circa la società a venire, il film, sembra indirizzarsi verso fantasie di supremazia eteronormativa di classe (borghese) e di razza (bianca). «Essa appare come lo spettro di quella guerra che il filosofo italiano Carlo Galli ha chiamato ‘globale’, all’alba della Guerra al Terrore di George Bush Jr. In questo quadro la guerra non è più quella tra Stati, come per tutta la Modernità e in particolare, su scala globale, sin dalla prima guerra mondiale: in esso riaffiora l’idea di guerra ‘giusta’ invocata da san Tommaso e dalla cristianità medievale, e successivamente dal colonialismo, contro vecchi e ‘nuovi barbari’» (p. 34).

Nell’età globale la legittimazione della guerra pare poggiarsi sul confronto tra morali decisamente semplificate e, nella visione occidentale, si stabilirebbe così, secondo Galli, una sorta di gerarchia di valore tra la guerra a difesa (o portatrice) di diritti e democrazia mossa da poteri legittimati dall’ordinamento internazionale ed il terrorismo fondato sugli istinti più bassi. A tal proposito Giuliani preferisce rifarsi alla tesi di Tasal Asad (Sull’attentato suicida) sulla linea di continuità che l’inferiorizzazione coloniale del nemico traccia tra modernità e post-modernità. Tale impostazione la si ritrova anche in Judith Butler (Sexual politics, torture and secular time) quando a proposito della “Guerra al Terrore”, soffermandosi sulle torture nei campi di detenzione americani, sostiene che tali pratiche coercitive, violente ed umilianti possono essere considerate l’esplicitazione di una logica già presente “a monte” nella stessa idea di “missione civilizzatrice”.

28daysÈ dunque in tale contesto culturale e geopolitico che si viene a dare una particolare mutazione dello zombie a partire dall’inizio del nuovo millennio: «il mutante è soprattutto un infettato che viene ad essere il pericolo numero uno, incontrollabile attentatore suicida che per contagio trasforma gli altri in terroristi. Di fronte a lui la sovranità statuale si manifesta come totalmente impotente» (p. 35). Il morto vivente di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle rappresenta un’umanità animalizzata regolata dalle leggi del branco e della forza che ha in sé tanto le caratteristiche dei mutanti che della bestia rabbiosa. Tali caratteristiche le ritroviamo nel francese La horde (2009) di Yannick Dahan e Benjamin Rocher, ove più che camminare gli zombie corrono velocemente: il walking dead si è mutato in un running dead.

La natura mutante risignifica la figura del morto vivente quale risultato del dilagare del virus e secondo Peter Dendle (The Zombie Movie Encyclopedia) i timori incarnati da questi nuovi zombie non sono espressione della perdita del sé ma di una sua sovraesposizione. Se le vecchie generazioni di zombi sono contraddistinte dalla mancanza di affettività, dall’irrazionalità, dalla semplificazione e dalla lentezza, ora palesano un’energia senza precedenti.

Secondo Giuliani il nuovo morto vivente incarna anche la figura del pericolo post-11 settembre 2001 e post-massacri vari da Columbine ad Utøya, fino agli episodi più recenti. Si tratta di un pericolo errante ed incontrollabile che proviene dal vicino di casa, dai propri compagni di scuola o di lavoro che improvvisamente palesa una forza ed una violenza inimmaginabili.

La studiosa sottolinea come in queste produzioni si evochi l’idea che a sopravvivere possano essere le figure più adattabili, più avvezze a difendersi, come i giovani, le donne ed i marginali, quasi a palesare «una speranza di un’umanità futura che chiude con i debiti le sperequazioni (di genere, classe, razza) che hanno da sempre infestato la storia dell’Occidente» (p. 41). Non sfugge, però, continua la studiosa, come in diverse produzioni audiovisive recenti questi sopravvissuti, per fondare una nuova società, finiscano col piegarsi nuovamente a regole e consuetudini conservatrici: nel film di Boyle, «Selena smetterà di essere la guerriera autonoma e coraggiosa per divenire (o tornare ad essere) la femmina bisognosa di protezione […] e dispensatrice di cure materne» (p. 41).

Vi sono però alcune importanti differenze tra i due film citati tanto a proposito dell’estensione del contagio che delle cause scatenanti. Da una parte l’insularità britannica del film di Boyle può lasciar pensare che il contagio non si sia propagato “al di fuori” dell’isola mentre diverso è il rapporto tra la Parigi in fiamme di Yannick Dahan e Benjamin Rocher e le sue periferie postcoloniali prive di barriere al contagio. Circa le cause, in 28 giorni dopo l’origine dell’epidemia è palesata nella sperimentazione laboratoriale, mentre La horde sorvola totalmente sulle cause scatenati concentrandosi sulla vita degli umani di fronte alla possibile fine dell’umanità così come conosciuta. Inoltre, se nel film britannico l’umano-rabbioso è mortale, non è un non-morto, nel lungometraggio francese il linving dead rappresentata “l’intramontabilità della catastrofe”.

In comune i due film hanno l’ambientazione urbana e Londra e Parigi rappresentano la metropoli europea centro del potere coloniale in passato e luogo di attrazione per migranti, oltre che di sperimentazione di “pratiche di governabilità”. «La mobilitazione/dislocazione dei corpi secondo le regole del controllo biopolitico e del mercato salta all’arrivo del cannibale la cui corsa frenetica e in gruppo sembra non ammettere barriere di classe, razza e genere. È una marea distruttiva e fagocitante che annulla i dispositivi della segregazione spaziale e della produzione capitalistica incarnate dalle metropoli europee. Lo scenario urbano svuotato dei significati che fondano l’ordine sociale è così la massima espressione del sovvertimento delle regole alla base della società umana come polis» (p. 42).

Come abbiamo visto affrontando il saggio di Federico Boni, American Horror Story. Una cartografia postmoderna del gotico americano (Mimesis, 2016) [su Carmilla], l’ambientazione rurale è tipica del gotico americano, ad essa, sostiene Giuliani, si accompagna una vera e propria disumanizzazione cannibalistica rimandante al conflitto tra la costruzione nordista della nazione e dei suoi “altri-interni”. A tal proposito tra gli studi più interessanti occorre citare, anche se datato, il saggio di Sacvan Bercovitch, The american Jeremiad (1978).

Nella serie britannica Dead Set (2008) ideata da Charlie Brooker, da noi affrontata nuovamente grazie a Federico Boni, The Watching Dead. I media dei morti viventi (Mimesis, 2016) [su Carmilla], la ruralità rimanda all’isolamento, all’impossibilità di controllare e difendere il territorio e, più in generale, nelle produzioni europee, sostiene Giuliani, l’ambiente agreste rinvia alla «costruzione della barbarie-interna in conflitto con l’urbanità ‘civilizzata’» (p. 42). Vale la pena notare come anche in Dead Set, al pari di 28 giorni dopo e La horde, i cannibali corrano veloci ed in questo caso è evidente l’analogia con la velocità di trasmissione televisiva.

Il film 28 settimane dopo (28 Weeks Later, 2007) di Juan Carlos Fresnadillo, sequel del film di Boyle, si concentra sulla questione della “molteplicità” che caratterizza la società londinese, sulla difficoltà di definire una demarcazione netta volta ad escludere il nemico esterno ed a neutralizzare quello interno e sull’immunizzazione della popolazione attraverso la quarantena.

Giuliani segnala come analizzando in sequenza cronologica, i film affrontati – 28 giorni dopo (2002), 28 settimane dopo (2007), Dead Set (2008) e La horde (2009) – è possibile «affermare che la speranza di sopravvivenza infusa dal primo, e tematizzata dal secondo come olocausto del mostruoso, viene drammaticamente distrutta dal terzo e dal quarto, i quali sacrificano progressivamente ogni sogno di sopravvivenza dell’idea di umano – e del suo rapporto tra corpo e mente, vita e morte» (p. 47).

Se in diverse produzioni americane recenti, come World War Z (2013) di Marc Forster, si rintracciano alcune caratteristiche tipiche del cinema di guerra, come ad esempio il palesare una netta dicotomia spaziale, etica e politica tra i contendenti e la possibilità di ripristinare l’ordine internazionale modernamente inteso (meglio se entro la fine del film), nelle produzioni europee come 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set e La horde, secondo Giuliani, non abbiamo l’eroe unico e non vi è superamento definitivo della crisi.

In World War Z quella che inizialmente sembra una critica ad un uso scriteriato delle tecnologie e della scienza si risolve in un’esaltazione delle capacità del maschio bianco occidentale e della razionalità scientifica e militare. Se si confrontano World War Z e Land of the Dead di Romero, si vede come entrambi «pongono al centro la rottura della geometria spaziale umana – spazzata via da un take over zombie irresistibile, per Romero la rottura con la geometria/gerarchia significa una nuova idea di progresso che […] include il post-umano o ha nel post-umano il proprio attore principale. In WWZ la rottura è solo una sospensione di un ordine sociale e politico che viene subito ristabilito e che vede vincitori ‘i migliori, i più bianchi, i più ricchi, i più tecnologici abitanti dell’Occidente civilizzato’» (p. 48).

In una serie di recenti produzioni audiovisive il vivo si deve riconciliare col non-morto e, riprendendo Michel Foucault, si può dire che il potere di “uccidere” (lo zombie) da parte dello Stato lascia il posto al potere di “lasciarlo vivere” (recluso) ed, infine, al potere di “farlo vivere” riabilitandolo, governando il bios dei post-zombie. Dunque i walking dead subiscono un processo di individualizzazione e soggettivazione, divengono “oggetti governamentali” e «devono vivere, al fine di permettere ai vivi di riconciliarsi col trauma dell’apocalissi. E allo stesso tempo essi divengono nuda (post-)vita – un bios molto particolare – la cui ricodificazione sociale e biologica in quanto ‘membri della società’ dipende da medicine che prima i dottori, poi i famigliari, iniettano nella loro spina dorsale. Lo Stato governa sulla loro costruzione biologico-corticale e così facendo, permette alle persone di ricostruire le proprie comunità» (p. 36). I morti viventi si trasformano da minaccia a manifestazione della mutazione (da umana a post-umana) che ha investito le società contemporanee.

Giuliani vede nelle fantasie di vittoria sul contagio presenti in tanta narrazione distopica contemporanea una volontà di riscatto mossa dal senso di colpa «di chi è stato all’origine contagio di se stesso». Abbiamo visto in altri scritti della serie “Nemico (e) immaginario” come il contagio derivi spesso da interventi umani sulla natura. «È il senso di colpa che produce mostri, come lo era in quelle descrizioni dei tropici di fine Ottocento da parte dei medici australiani che sostenevano che l’uomo bianco là desiderava l’indesiderabile, aspirava a ciò che non sarebbe mai riuscito ad ottenere: la sopravvivenza in un ambiente già, o diventato, ostile. Con la differenza che là la natura non doveva essere violata, e nelle narrazioni distopiche contemporanee è la natura violata che si vendica» (p. 36).

revenants456Nel volume vengono passate in rassegna tre recenti realizzazioni audiovisive – Fido (2006) di Andrew Currie, Les revenantes (2012 – in produzione) ideata da Fabrice Gobert ed In the flesh (2013-1914) scritta da Dominic Mitchell e diretta da Jonny Campbell – che pur nella loro diversità, in un modo o nell’altro, risultano contraddistinte dal grado di precarietà in cui versa un’umanità ormai incapace di governare le conseguenza della guerra e/o della tecnica e del Progresso.

Il film Fido, di produzione americana/canadese, è un horror-comico in cui «la memoria incarnata dalla violenza a cui rimanda la figura dello zombie è quella della schiavitù» (p. 54). Alla fine di una cruenta guerra dell’umanità contro gli zombie una grande azienda realizza un collare in grado di neutralizzare gli istinti aggressivi degli zombie rendendoli mansueti servitori della comunità piccolo-borghese nordamericana. Il film è ambientato tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 e questi “zombi addomesticati” sostituiscono quella componente sociale, razziale e di classe maggiormente sfruttata. La nuova figura di schiavo non deve essere riprodotta, non sporca, non mangia ed è ubbidiente al padrone. La tranquilla vita piccolo-borghese della cittadina viene interrotta dall’attacco omicida di cannibali in libertà e la storia «si conclude con il sovvertimento dell’ordine sociale (razziale e di genere) ma non di classe» (p. 56). Il nuovo mondo che pare far capolino a fine narrazione pare essere di quelle «donne per bene, pur sempre angeli del focolare ma ora anche capofamiglia, in cui l’uomo gioca la parte del ‘sottosviluppato’ addomesticato» (p. 56).

Il tema principale della serie Les revenantes è individuato da Giuliani nel “dono” del ritorno dei morti tra i loro cari. Il fatto che i morti tornino alla spicciolata per riprendere il loro posto tra i loro cari nella piccola comunità montana situata accanto ad un’enorme ed inquietante diga crea immediatamente problemi di comprensione e di convivenza a cui si aggiunge il riaffiorare del vecchio paesino dalle acque del bacino idrico che si abbassano misteriosamente. Il riemergere del passato, secondo la studiosa, potrebbe essere «simbolo del riscatto dalla violenza umana sulla natura e il sovrannaturale, la valle sembra utilizzare il ritorno degli oltrepassati come una sorta di vendetta contro chi in quell’area ha continuato a vivere» (pp. 56-57). Resta misterioso il motivo per cui alcuni personaggi tornino in vita più volte così come sono ignote le ragioni per cui questi revenants vengano reclamati da loro simili privando nuovamente le famiglie dei propri cari.

Nella serie In the flash, prodotta dalla BBC, si ha una narrazione molto intimista tra zombie e “scomparsi e poi ritornanti”. Giuliani sottolinea come qui si scavi nei conflitti famigliari di una piccola comunità ed il ritorno di Kieren Walker ha tutte le sembianze di un dono offerto alla famiglia per riparare agli errori commessi precedentemente. Il tutto pare ruotare attorno alla trasformazione dello zombie in una nuova possibilità d’amore e di riscatto. «La storia di Kieren e sua madre ci inducono alle ragioni della scelta, da parte del regista e narratore, del genere zombie e del post-umano per raccontare una storia di marginalità e sofferenza (cagionata da discriminazione di genere, classe e sessualità) all’interno di una piccola comunità inglese: il post-umano e l’Apocalisse, in particolare, sembrano permettere infatti, seguendo le teorie del femminismo materiale, di tematizzare la critica all’epistemologia maschile e bianca, all’antropocentrismo eterosessuale e illuminista e al patriarcato (etero) sessista che è sia matrice della secolarizzazione sia pilastro del potere spirituale della Chiesa» (p. 60). Il ruolo della chiesa è qui decisamente ambivalente; da una parte essa ha contribuito a mantenere unita la comunità nel corso dell’insurrezione ma ha basato tale coesione sull’odio nei confronti dei ritornanti.

Giuliani si sofferma anche sulla sovversione femminile dell’ordine costituto presente sia nel film Fido che nella serie In the flash. Nell’horror-comico Fido le donne americane intendono abbandonare il ruolo di «passive domestiche dedite alla riproduzione del maschio e della sua egemonia tipico dei primissimi anni Sessanta (si pensi alla rappresentazione della domesticità femminile nella serie americana Mad men): sono anche quelle che più nettamente infrangono i tabù sessuali legati alla linea del colore e di classe, e le regole sociali che stabiliscono il confine tra normalità e anormalità» (pp. 60-61). Nel caso di In the flash abbiamo donne che segretamente «costruiscono le reti affettive che sembrano garantire materialmente l’avvento di un futuro ‘migliore’: le madri e mogli dei ritornanti si incontrano in una stanza buia, separata, insieme all’infermiera e madre di Philip, il segretario del vicario (La ragazza madre del paesino), che ha deciso di insegnare loro come ‘medicare’ i propri famigliari PDS [Partially Deceased Syndrome, sindrome del parzialmente deceduto]. È sempre lei che ha creato questo gruppo di ‘autocoscienza’ e ‘autoaiuto’, perché le donne possano raccontare che cosa provano e come riescono a fare i conti con i PDS e la società attorno» (p. 61). Dunque, in qusto ultimo caso, le donne hanno un “ruolo ponte” tra umano e post-umano.

Nella serie la milizia, nonostante comprenda anche donne, secondo la studiosa rappresenta lo spazio semantico della virilità, del maschio, del soldato che custodisce la purezza della nazione e si fonda sulla convinzione che la minaccia è ancora presente pur certificando che la mutazione non è eliminabile. «La milizia si nutre dell’emergenza e, al contempo, la combatte: come per le polizie anti-terrorismo a cui è demandata parte della gestione governamentale del ‘nemico’ all’interno delle società reali, anche nella narrazione distopica il permanere del ‘mostruoso’ come parte integrante della società legittima il controllo di polizia su persone e relazioni. Come per le prassi e il discorso securitario e anti-terrorista posti in vigore dagli apparati di sicurezza britannici a partire dalla guerra in Afghanistan e in Iraq e dagli attacchi suicidi del luglio 2005, così anche nel racconto horror di In the flash tutti sono chiamati a fare i delatori e a manifestare, anche dentro le proprie case, la presenza di un PDS. Ma non devono agire da soli contro ‘i ritornanti’: devono piuttosto affidarsi alla milizia, alla polizia, auto-dichiaratasi in charge dell’eliminazione del risorto, come in una ‘società totale’ che non ammette critica né diversità» (p. 61).

Dunque, conclude Giuliani, se guardiamo 28 giorni dopo, 28 settimane dopo, Dead Set, La horde, Fido, Les revenants ed In the flash «in continuità con le guerre ‘coloniali’ del secolo scorso […] queste produzioni insistono sul backlash, sugli effetti di ritorno, di una condotta che può, in queste distopie, essere definita coloniale: il nemico è divenuto ‘inestirpabile’, ed è una costante intrinseca all’Europa ‘sin da quando essa è uscita da se stessa per reinventarsi sugli altri continenti. Al suo pari, il mondo degli uomini, nelle narrazioni distopiche prese in considerazione, ha ‘superato i propri confini’. A meno di una guerra che come quella ‘atomica’ potrebbe cancellare l’umano, insieme al post-umano, dalla faccia della Terra, l’apertura ‘della porta coloniale’ ha permesso all’altro, persino al non-morto che viene dall’aldilà, di varcare l’uscio e restare» (p. 62).

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