J.D. Vance – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Hard working men /4 – Hillbilly highway https://www.carmillaonline.com/2024/09/04/unepica-proletaria-senza-rivoluzione-e-con-poco-dio/ Wed, 04 Sep 2024 20:00:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84158 di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari [...]]]> di Sandro Moiso

J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024 (prima edizione italiana 2017), pp. 250, 15 euro.

«Nonna, Dio ci ama?» Lei ha abbassato la testa, mi ha abbracciato e si è messa a piangere. (J.D. Vance – Elegia americana)

Qualsiasi cosa si pensi del candidato vicepresidente repubblicano, è cosa certa che il suo testo qui recensito non potrebbe rientrare nel novero di quelli prodotti o tradotti in Italia all’ombra del brand “working class literature”, anche se contiene elementi di rappresentazione e analisi della classe operaia americana, in particolare di quella che ha le sue radici tra i montanari del Kentucky, piuttosto significativi.

Per questo vale la pena di parlare dell’epopea famigliare narrata da J.D. Vance, a metà strada tra Mark Twain e l’etnografia, cui il film diretto da Ron Howard, Hillbilly Elegy, nel 2020 non ha reso del tutto giustizia. Una narrazione in cui il Mississippi di Huckleberry Finn è sostituito dalla hillbilly highway lungo la quale una parte consistente del proletariato bianco di origine scoto-irlandese della regione dei monti Appalachi (ancora oggi una delle zone più depresse dal punto di vista economico degli interi Stati Uniti) si è trasferita verso l’Ohio, il Nord industrializzato e le sue acciaierie, tra gli anni di Roosevelt e quelli successivi alla seconda guerra mondiale.

Un fiume di asfalto che ha portato lontano dal Kentucky e dal West Virginia anche i nonni dell’autore e, in seguito, il resto della famiglia. Destinazione Middletown, Ohio, e le acciaierie della Armco, in seguito Armco-Kawasaki, che proprio recentemente ha dovuto essere rifinanziata dal governo degli Stati Uniti con un maxi prestito da cinquecento milioni di dollari per poter rimanere in piedi1. Luoghi definiti solo dal lavoro nell’industria, in cui anche i nomi delle località sono meno significativi degli impianti produttivi che li caratterizzano ancora oggi.

Luoghi sospesi tra South Belt e Rust Belt, in cui le “fortune operaie” sono state e restano sospese a un filo sottile che, comunque, negli anni ha alimentato speranze di riscatto economico e sociale, ma che a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso ha cominciato a mostrare di potersi spezzare in qualsiasi momento, ponendo fine al sogno americano e alimentando un paralizzante pessimismo molto diffuso sia tra i giovani che tra gli adulti.

Una storia di ordinaria violenza, problemi famigliari, affetti traditi, pregiudizi, armi diffuse, onore arcaico, dipendenze da droghe e alcol, religiosità primitiva, illusioni e delusioni, ideologia del “lavorar duro” (anche quando il lavoro manca), aspirazione alla redenzione sociale e rari successi individuali che ha fatto pensare a chi scrive ad una delle canzoni contenute nell’ultimo disco del cantautore australiano Nick Cave, Frogs, in cui gli esseri umani, paragonati a piccole rane, vivono tutto il tempo nelle acque torbide e fangose di uno stagno per poi riuscire, per brevissimi momenti, a saltarne fuori e illuminarsi di sole e aria pulita, prima di precipitare nuovamente nella melma dell’esistenza quotidiana.

Una storia che, però, travalica i limiti della soggettività, che caratterizza tante delle narrazioni dell’attuale working class literature (tale più per le dichiarazioni di intenti che da sempre l’accompagnano che per i contenuti reali), per trasformarsi, quasi obbligatoriamente, in narrazione epica, in cui il “noi” conta più dell’”io”. In cui le condizioni di partenza dei singoli, nella gara di sopravvivenza, sono simili, sia dal punto di vista famigliare che economico e culturale e il fatto che qualcuno riesca a rimanere sospeso nell’aria fuori dallo stagno mentre molti altri no, in fin dei conti, non modifica sostanzialmente le condizioni esistenziali della maggioranza, spesso rinunciataria nei confronti di qualsiasi possibilità di cambiamento.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di «asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la povertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità2.

Chi volesse vedere nelle osservazioni dell’autore sul senso di sconfitta e rassegnazione che accompagna gran parte dei componenti della classe sociale da cui proviene soltanto come una semplice esaltazione della capacità dell’individuo di realizzarsi attraverso il sogno americano pur che lo voglia, tema sicuramente presente nella conduzione della narrazione, coglierebbe soltanto un aspetto, forse il più marginale, tra i tanti contenuti nel libro. In cui, più che di rifiuto del lavoro in senso politico, si parla invece di perdita di fiducia nella capacità del lavoro di offrire una reale via di uscita dalla condizione di miseria, ancor prima morale e culturale che economica, del proletariato bianco del Midwest e degli Appalachi.

Per i miei nonni, Armco era sinonimo di benessere: il motore economico che li aveva portati dalle colline del Kentucky alla classe media americana. Mio nonno amava quell’azienda e conosceva tutte le marche e tutti i modelli di automobili costruite con il suo acciaio. Anche dopo l’abbandono delle scocche in acciaio da parte di quasi tutte le case automobilistiche americane, il nonno si fermava di fronte a una rivendita di auto usate tutte le volte che ci vedeva una Ford o una Chevy. «Questo acciaio l’ha prodotto l’Armco», mi diceva, lasciando trasparire un sincero orgoglio. Al di là di quell’orgoglio, però, non ci teneva proprio che andassi a lavorare lì3.

Una situazione che ha contribuito a cancellare e rimuovere anni di battagliere tradizioni di lotta e resistenza per sostituirli con dipendenze e traffici di sostanze medicinali prossime agli stupefacenti, come nel caso della contea di Harlan, cui l’autore accenna per la memoria delle lotte dei minatori4, che Alessandro Portelli ha reso di importanza centrale per comprendere l’evoluzione o l’involuzione dello scontro di classe in America con il suo saggio America profonda5.

Quello di Vance è un proletariato più vicino a quello descritto da Marx ed Engels nella Sacra famiglia, che a quello sempre combattivo e cosciente immaginato dai teorici dell’autonomia operaia; prossimo anche a quello descritto in altri romanzi semi-autobiografici come, ad esempio, quello di James Still, Fiume di terra, sempre ambientato tra i lavoratori poveri e i minatori degli Appalachi6. Ed è anche un proletariato lontano dalle note trionfalistiche dell’ideologia liberale dell’ormai beatificata Kamala Harris, motivo per cui le autentiche stronzate guerrafondaie e politically correct espresse da quest’ultima non possono nemmeno lontanamente sfiorarne gli interessi materiali.

Sono nato alla fine dell’estate del 1984, pochi mesi prima che il nonno desse il suo primo e unico voto a un repubblicano, Ronald Reagan. Portando dalla sua parte tanti democratici della Rust Belt come il nonno, Reagan ottenne la più grande vittoria elettorale della storia americana contemporanea. «Reagan non mi è mai piaciuto molto» mi disse tempo dopo il nonno. «Ma odiavo quel Mondale.» L’oppositore di Reagan, un democratico colto e raffinato del Nord, era l’antitesi culturale di mio nonno7.

Una distanza culturale che si mostra anche nelle aule giudiziarie, dove talvolta transita il narratore insieme ai suoi famigliari.

Sedevo in quell’affollata aula giudiziaria, circondato da una mezza dozzina di altre famiglie, identiche alla nostra. Le mamme, i papà e i nonni non indossavano completi come gli avvocati e il giudice. Indossavano pantaloni della tuta e magliette a maniche corte. I loro capelli erano un po’ crespi. Ed era la prima volta che notavo “accenti televisivi” neutri come quelli di tanti presentatori. Gli assistenti sociali, il giudice e l’avvocato avevano tutti un accento televisivo. Nessuno di noi lo aveva. Gli amministratori della giustizia erano diversi da noi, chi veniva giudicato era uguale8.

Un proletariato bianco che, in termini di emarginazione, non ha nulla da invidiare a quello afro-americano di cui spesso ha condiviso il destino sociale.

Middletown è una delle cittadine più antiche dell’Ohio, sviluppatasi nell’Ottocento grazie alla sua prossimità con il fiume Miami […] Sotto il profilo socioeconomico è prevalentemente operaia. Sotto il profilo razziale, è abitata soprattutto da bianchi e da neri (questi ultimi sono il prodotto di un’altra migrazione di massa). [Ma] La strada che era l’orgoglio di Middletown è diventata un punto di incontro di drogati e spacciatori. Oggi Main Street è il tipico posto dove nessuno ha il coraggio di avventurarsi dopo il tramonto.
Questo cambiamento è sintomo di una nuova realtà economica: la segregazione residenziale. Il numero di bianchi della classe operaia che vivono in quartieri degradati è in continuo aumento. Nel 1970, il 25 per cento dei bambini bianchi viveva in un quartiere in cui il tasso di povertà superava il 10 per cento. Nel 2000, quella percentuale è salita la 40 per cento. E oggi, quasi certamente è ancora più elevata. Come ha rivelato uno studio effettuato nel 2011 dalla Brookings Institution, « rispetto al 2000, tra il 2005 e il 2009 era più probabile che gli abitanti dei quartieri più poveri fossero bianchi nati localmente, diplomati o laureati, proprietari di casa che non beneficiavano della pubblica assistenza». […] Le ragioni sono complicate. La politica abitativa del governo federale ha incoraggiato attivamente l’acquisto di case, dal Community Reinvestment Act di Jimmy Carter alla “ownership society” di George W. Bush. Ma nelle Middletown di tutto il mondo la diffusione della proprietà immobiliare ha un costo elevatissimo: quando i posti di lavoro vengono meno in una determinata zona, il calo delle quotazioni immobiliari intrappola le persone in certi quartieri. Anche se vorreste trasferirvi, non potete, perché le case di livello più basso sono ormai fuori mercato: il valore nominale, quello su cui è stato erogato il mutuo, è superiore alla somma che sarebbero disposti a pagare i possibili acquirenti. I costi di trasferimento sono così elevati che molti rimangono dove sono9.

Ma questa segregazione e ghettizzazione forzata, che trasforma il sogno della casa di proprietà in un incubo senza risveglio, è ancora soltanto uno degli aspetti che potrebbero avvicinare il proletariato bianco povero a quello afroamericano10. Un altro era costituito (è ancora costituito?) dal rifiuto del nuovo arrivato nei luoghi in cui gli hillbilly migravano in cerca di lavoro,

Poiché le economie del Kentucky e del West Virginia erano cronicamente depresse rispetto a quelle degli altri stati vicini, le montagne avevano solo due prodotti appetibili per le fabbriche del Nord: carbone e robusti montanari. E gli Appalachi esportavano grosse quantità sia dell’uno che degli altri.[…] Negli anni Sessanta, sui dieci milioni di abitanti dell’Ohio, un milione erano nati in Kentucky, West Virginia o Tennessee. Questo dato non tiene conto del gran numero di immigrati in arrivo da altre zone degli Appalachi meridionali; e non include i figli o i nipoti di migranti che scendevano dalle montagne. Ce n’erano sicuramente tanti, perché gli hillbilly avevano tassi di natalità notevolmente superiori a quelli della popolazione indigena. [Ma] su chi lasciava le colline del Kentucky per cercare una vita migliore gravava un grosso pregiudizio negativo […] Per la classe media tradizionale dei bianchi dell’Ohio quegli hillbilly erano come alieni. Avevano troppi figli e ospitavano famigliari per troppo tempo […] Come si legge in un libro, Appalachian Odissey11, sulla migrazione di massa dei montanari nella città di Detroit: «il problema non era solo che gli immigrati in arrivo dagli Appalachi, ex-contadini “fuori posto” in quella grande città, davano fastidio ai bianchi metropolitani del Midwest. Il problema era che quegli immigrati venivano a confutare tutta una serie di assunti su come si presentavano, su come parlavano e come si comportavano i bianchi […]. La cosa inquietante degli hillbilly era la loro appartenenza etnica. Evidentemente appartenevano alla stessa razza di coloro che detenevano il potere economico, politico e sociale a livello locale e nazionale. Ma gli hillbilly avevano anche molti tratti in comune con i neri del Sud che affluivano a Detroit»12.

Non potrebbe esservi formulazione più chiara del fatto che linee del colore e linee di classe si sovrappongono talmente spesso da diventare sostanzialmente la stessa cosa. Dimenticarlo significa soltanto partecipare al grande gioco dei diritti umani usati come strumento di separazione e divisione all’interno del proletariato. Così ben espresso dalle politiche liberali in voga oggi sia in America che in Europa.

Un ultimo elemento di interesse, tra i tanti che si potrebbero ancora rilevare dalla lettura del testo di Vance, è quello sulla presunta religiosità del proletariato bianco, sempre e soltanto dipinto come misogino, razzista e ultraconservatore dal punto di vista religioso e politico, facendo come al solito di tutta l’erba un fascio come ben conviene ai difensori dell’ordine capitalistico dal “volto umano”. In realtà, come ci avverte ancora l’autore,:

nel cuore della Bible Belt, la pratica religiosa non è affatto diffusa. Contrariamente a quanto si crede, nella regione degli Appalachi — in particolare dall’Alabama settentrionale e dalla Georgia fino all’Ohio meridionale – le chiese sono molto meno frequentate che nel Midwest, in diverse zone del Mountain West e in gran parte del territorio compreso tra il Michigan e il Montana. Stranamente, noi ci crediamo più praticanti di quanto siamo in realtà. In un sondaggio effettuato recentemente dalla Gallup. gli abitanti del Sud e del Midwest dichiaravano tassi più elevati di frequentazione delle chiese di tutto il paese.
Questa ipocrisia ha a che fare con la pressione culturale. Nell’Ohio sudoccidentale, dove sono nato, sia l’area metropolitana di Cincinnati sia l’area metropolitana di Dayton fanno registrare tassi molto bassi di frequentazione della chiese, quasi nella stessa misura dell’ultralaica San Francisco. A San Francisco nessuno si vergognerebbe di non andare in chiesa. In Ohio è esattamente il contrario. [Così] in una parte del paese afflitta dalla deindustrializzazione, dalla disoccupazione, dall’abuso di alcol e di droghe e dal disgregarsi delle famiglie, la pratica religiosa è crollata13.

Lasciando ai soliti cospirazionisti di sinistra il compito di indagare i motivi che hanno spinto Vance in passato a scrivere questa elegia hillbilly, come recita il titolo originale, prima di convertirsi a Trump, il recensore non può far altro che consigliarne la lettura a tutti coloro che intendono ancora occuparsi degli Stati Uniti e delle contraddizioni sociali e “razziali” che li agitano, raccomandandolo a chiunque intenda occuparsi ancora di lotta di classe, poiché è sempre più utile e necessario meditare sulle contraddizioni della stessa, piuttosto che sulle facili e troppo spesso ambigue certezze trasmesse dagli slogan o dalle Convention di Chicago o Milwaukee.

Così. mentre gran parte della critica ne ha spulciato le pagine alla ricerca di indicazioni riguardanti il possibile risultato delle prossime elezioni presidenziali americane, l’impressione che se ne ricava è che il dibattito politico e letterario riposi, ancora, sulle rive di uno stagno in cui milioni di rane restano sul fondo in attesa, magari inconsapevole, di spiccare il prossimo salto, verso la luce e la rivincita di classe.


  1. M. Basile, Middletown e San Francisco, nuove città simbolo di sogno e disillusione americana, «la Repubblica» 25 agosto 2024  

  2. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2024, pp. 10-12.  

  3. Ibidem, p. 58.  

  4. In proposito si veda qui  

  5. A. Portelli, America profonda. Due secoli raccontati da Harlan County, Kentucky, Donzelli Editore, Roma 2011.  

  6. J. Still, Fiume di terra, Mattioli 1885, Fidenza 2018.  

  7. J.D. Vance, op. cit., p.50.  

  8. Ivi, pp. 81-82.  

  9. Ivi, pp. 51-55.  

  10. Su questa vicinanza che potrebbe dare inizio a diversi riposizionamenti nell’ambito della lotta di classe, come aveva previsto il presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere Nere Fred Hampton, poi ucciso, nel 1969 a soli ventuno anni, dalla polizia e dal FBI nella sua casa di Chicago, si veda il film di Shaka King: Judas and the Black Messiah (2020)  

  11. Philip J. Obermiller, Thomas E. Wagner ed E. Bruce Tucker, Appalachian Odissey: Historical Perspectives on the Great Migration, Praeger, Westport 2000.  

  12. J.D. Vance, op. cit., pp. 33-36.  

  13. Ibidem, p. 96.  

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Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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