IV Internazionale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 25 Apr 2025 13:14:38 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un mondo meglio di così. La sinistra rivoluzionaria in Italia https://www.carmillaonline.com/2023/11/06/un-mondo-meglio-di-cosi-la-sinistra-rivoluzionaria-in-italia/ Sun, 05 Nov 2023 23:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79865 di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da [...]]]> di Luca Cangianti

Eros Francescangeli, «Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978), Viella, 2023, pp. 364, stampa € 32,00, ebook € 18,99.

«Il rossore del cielo da assaltare non era quello della tanto attesa alba. Era, in realtà, un tramonto.» Eros Francescangeli riassume in questo modo la storia della sinistra rivoluzionaria italiana, cioè di quell’insieme di organizzazioni che si prefissero di costruire «un mondo meglio di così», come cantava Vasco Rossi. Da un punto di vista sociologico si tratta di soggetti che praticarono autoriduzioni, obiezione coscienza, scontri con le forze dell’ordine, occupazioni di case, stabili e fabbriche. Da un punto di vista politico ritenevano necessario un rovesciamento istituzionale mediante l’esercizio della forza, piuttosto che tramite il gradualismo riformista.

«Un mondo meglio di così». La sinistra rivoluzionaria in Italia (1943-1978) circoscrive il perimetro di studio alle componenti specificamente “politiche”, non affrontando i movimenti e le strutture fluide (per esempio l’autonomia operaia), le formazioni militari della partigianeria dissidente (Bandiera rossa, Stella rossa) e le organizzazioni armate degli anni settanta (Brigate rosse, Prima linea ecc.). Il saggio contesta il paradigma della “sessantottogenesi”, quello che vedrebbe nascere la sinistra rivoluzionaria nel corso del biennio 1968-69. Francescangeli sostiene infatti che non vanno trascurati i presupposti, che hanno una storia antecedente di venticinque anni e che pur in forma molto minoritaria avevano strutturazione organizzativa. Il sessantotto fece uscire dall’isolamento la sinistra rivoluzionaria, ma non può esser concepito come il suo anno zero. Si spiega così l’attenta periodizzazione che suddivide gli anni che vanno dal 1943 al 1978 nella «la stagione del vetero-libertarismo e del dissenso eterodosso» (1943-1964) e quella «della contestazione e dell’insubordinazione diffuse» (1965-1978). La prima fase a sua volta è suddivisa negli anni dell’opposizione all’Unità nazionale (1943-1948), del terzocampismo e del filo-titoismo (1949-1955), della destalinizzazione (1956-1960), dell’incubazione dell’operaismo e del marxismo-leninismo (1961-1964). La seconda fase è suddivisa negli anni della politicizzazione terzomondista e della contestazione studentesca (1965-1968), della protesta operaia e della radicalizzazione dello scontro (1968-1974), del declino e della “violenza diffusa” (1975-1977), del terremoto politico-organizzativo, cioè del ritorno alla marginalità da parte della sinistra rivoluzionaria (1978).
Un altro grande pregio del libro, oltre alla sua scorrevolezza (per nulla scontata, visto la natura articolata del tema), è l’utilizzo di una mole impressionante di fonti: bibliografiche, emerografiche, documentarie e soprattutto “fiduciarie”. Si tratta, in quest’ultimo caso, di informatori infiltrati che ci restituiscono il profilo del soggetto analizzato da una prospettiva feconda e spiazzante: la rete dell’intelligence di stato si rivela sorprendentemente vasta, interna e spesso costituita da amici e conoscenti.

E veniamo ai protagonisti della narrazione. Si parte dagli anarchici, divisi negli anni ’40 tra individualisti e organizzatori, cioè disposti a intervenire sia nel Comitato di liberazione nazionale che nella Cgil. Secondo un rapporto del Pci raggiungono le 30 mila unità concentrandosi nelle città di Milano e Carrara. Negli anni ’50 alcuni settori si avvicinarono alla dissidenza comunista e attraverso varie metamorfosi contribuirono a fondare sia la filocinese Federazione marxista-leninista d’Italia (Fmldi) che Lotta comunista, un’organizzazione che fondeva «oggettivismo messianico e rivendicazionismo sindacale».

I militanti «internazionalisti» si riorganizzarono a partire dal 1942-43 cercando di mettere in pratica l’insegnamento di Amedeo Bordiga: «considerando fascismo e democrazia come due facce della medesima medaglia, giudicarono lo scontro allora in atto come riconducibile a un conflitto armato inter-imperialistico e, conseguentemente e a differenza delle altre aree della sinistra rivoluzionaria, si opposero alla lotta partigiana (e all’antifascismo) in nome dell’affratellamento dei proletari e della trasformazione della guerra in rivoluzione sociale.» Il Partito comunista internazionalista si divise presto in due organizzazioni omonime: una “attivista”, sostenitrice dell’intervento nelle lotte operaie, e l’altra “attesista” che «giudicando lontana una ripresa rivoluzionaria, riteneva una necessità prioritaria e inderogabile l’opera di ridefinizione della teoria marxista attraverso lo studio.»

Dal canto loro i trockisti presenti nel Psiup giudicarono la sua linea politica subalterna al Pci stalinista e nel 1947 condivisero con i riformisti di Saragat l’esperienza scissionista del Partito socialista dei lavoratori italiani (chiamati scherzosamente “piselli” dalla sigla Psli e in seguito denominatisi Partito socialdemocratico italiano). Quando divenne palese l’orientamento moderato e filo-atlantista di questa formazione i trockisti se ne separarono e inaugurarono una tattica di “entrismo”, principalmente nel Pci, parallelamente alla costituzione di un’organizzazione esterna: i Gruppi comunisti rivoluzionari (IV internazionale). L’arrivo del sessantotto disgregò velocemente tutta l’area: alcune componenti (per es. l’associazione Falcemartello di Aldo Brandirali) finirono per fondare l’organizzazione stalino-maoista Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti), meglio nota con il nome del suo diffusissimo giornale “Servire il Popolo”; altre contribuirono alla nascita di Avanguardia operaia, un gruppo milanocentrico che fuse istanze maoiste, guevariste e operaiste in chiave antistalinista, arrivando a organizzare tra i 7 mila e i 12 mila militanti.

Alla base della diffusione del maoismo ci fu la rottura, consumatasi tra il 1960 e il 1964, tra Repubblica popolare cinese e Unione sovietica. Il contendere riguardava la “coesistenza pacifica” con il capitalismo e aveva come suo versante ideologico la difesa della figura di Stalin. Se all’inizio la simpatia verso la Cina attecchì principalmente nelle fila staliniste più ortodosse, con l’inizio della Rivoluzione culturale anche molti settori antiautoritari iniziarono ad apprezzare il maoismo. Le organizzazioni di stretta osservanza “emmelle” (marxiste-leniniste) ebbero un breve, ma intensissimo periodo di crescita, arrivando a contare molte migliaia di militanti e oltre un centinaio di sezioni. Ciò nonostante si caratterizzarono per una frammentazione dai tratti surreali: si arrivarono a censire fino a tre Partiti comunisti d’Italia (marxisti-leninisti)!

Il gruppo più influente e numeroso della sinistra rivoluzionaria italiana fu Lotta continua. Esso sorse alla fine degli anni sessanta dalla spaccatura del “movimento” sulla questione del rapporto tra avanguardia e massa. Nonostante la comune provenienza operaista, i “partitisti” di Potere operaio sostenevano il rifiuto del lavoro, declinato in termini di radicale conflittualità salariale, e la costruzione di un partito leninista che avrebbe dovuto guidare il proletariato all’insurrezione; di contro Lotta continua esaltava la spontaneità, l’autorganizzazione, la democrazia assembleare con l’obiettivo di sviluppare il contropotere operaio. Il successo di questa formazione (150 sedi, una forza militante di 10-15 mila unità che secondo i servizi segreti poteva arrivare a 50-60 mila considerando l’area simpatizzante) è attribuito da Francescangeli alla capacità di «adattarsi – ecletticamente, quanto populisticamente – ai temi “trainanti” di culture politiche differenti dalla propria matrice, ossia quella operaistica… il diritto alla casa, la ribellione al rincaro del costo della vita (da cui la pratica delle autoriduzioni e delle “appropriazioni”), il diritto alla salute (dalla nocività del lavoro alla salubrità del territorio), la condizione dei carcerati e dei soldati di leva, ma anche le questioni legate alla fruibilità dell’arte e della cultura».

Di matrice diversa, proveniente dal togliattismo di sinistra, è invece il gruppo del Manifesto, strutturatosi nel 1970 dopo la radiazione dal Pci e attestatosi su una sintesi «elitarioleaderistica» tra tradizione comunista, maoismo antistalinista e filosofia di Francoforte. Fusosi con il Partito di unità proletaria nel 1974, parteciperà con cartello elettorale di Democrazia proletaria alle elezioni amministrative del 1975. Infine, va annoverato il caso unico della trasformazione in organizzazione politica della stragrande maggioranza del movimento studentesco dell’Università Statale di Milano. L’esito di questa anomalia unitaria fu la nascita di un gruppo denominato genericamente Movimento studentesco (e poi Movimento lavoratori per il socialismo), sostenitore di una riedizione tardiva della strategia stalinista dei fronti popolari. Questa organizzazione «assumeva la minaccia fascista (e, più in generale, l’involuzione autoritaria dello Stato) come “pericolo principale” e […], conseguentemente, vedeva nelle forze della sinistra operaia tradizionale e finanche di quella “borghese-progressista” un alleato “naturale” e, viceversa, nelle componenti “estremiste” della sinistra rivoluzionaria – in particolare quelle giudicate (a torto o a ragione poco importa) trockiste, consiliariste, anarchiche o riconducibili alla sinistra comunista – un altrettanto “naturale” nemico da battere».

Alla fine di questa analisi approfondita, bilanciata, mai pedante, anzi godibile sia per lo storico di professione che per il lettore interessato, Eros Francescangeli mette il dito in una piaga etico-politica per niente estranea al discorso scientifico: «il fatto che coloro che si erano candidati a nuova leadership del proletariato italiano abbiano sottovalutato che per una parte degli attivisti il “ritorno al privato” o la “politica con altri mezzi” non avrebbe coinciso con l’avvio di una carriera professionale più o meno gratificante (giornalista, docente, studioso, funzionario, consulente) e/o con l’individuazione di altri percorsi emancipatori o di vita (il neofemminismo, l’eco-comunitarismo, le filosofie ‘altre’), ma avrebbe significato il ritorno alla desolazione della loro condizione di sfruttati o alienati, con scarse prospettive di miglioramento della propria qualità del vivere. Pur in mancanza di studi specifici, da una pur sommaria analisi delle fonti è possibile affermare che una parte di questi ultimi entrò nell’orbita della lotta armata e un’altra parte di costoro abbracciò le pratiche della consolazione autodissolutoria a suon di alcol ed eroina.»
Sono considerazioni che lo storico svolge riferendosi al personale dirigente di Lotta continua, quando fu chiaro che l’agognata rivoluzione non era più all’ordine del giorno. Tuttavia, la fecondità del ragionamento non va limitato a un singolo gruppo politico, ma generalizzato sociologicamente: anche le organizzazioni rivoluzionarie sono sottoposte agli influssi materiali che presiedono agli interessi specifici dei propri funzionari, alla riproduzione delle proprie strutture e dei propri redditi. Il materialismo storico, insomma, va applicato anche ai materialisti storici.

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Studiare le radici delle guerre (per tagliarle) https://www.carmillaonline.com/2022/12/21/studiare-le-radici-delle-guerre-per-tagliarle/ Wed, 21 Dec 2022 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75027 di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera [...]]]> di Sandro Moiso

Ernest Mandel, Il significato della seconda guerra mondiale, Associazione Punto Critico, Sacrofano (RM) dicembre 2021, pp. 316, euro 15,00

Il saggio sul secondo conflitto mondiale, le sue origini, i suoi sviluppi e conseguenze, appena pubblicato in Italia da Punto Critico era uscito in lingua originale già nel 1986; eppure, visto il momento storico che il mondo sta attraversando, si rivela ancora di estrema attualità. Ciò è dovuto al fatto che lo studio di Ernest Mandel, condotto sulla base delle categorie marxiste e di una militanza rivoluzionaria e anti-stalinista, supera di gran lunga tante analisi precedentemente condotte sullo stesso argomento, anche se «raccolti tutti insieme, i libri dedicati alla Seconda guerra mondiale occuperebbero centinaia di metri sugli scaffali di una biblioteca».

L’autore evita infatti di dipingere il quadro in bianco e nero, semplice e rassicurante, ma allo stesso tempo reticente e falso, con cui quel conflitto è stato troppo spesso ridotto, a fini propagandistici, a una titanica lotta tra il “bene” e il “male” ovvero tra la democrazia e la barbarie e il totalitarismo nazifascista. Modello storiografico cui si è, invece, abituati fin dalle frequentazioni scolastiche, utile a rappresentare l’attuale come il solo e il “migliore” dei mondi possibili, da difender “ad ogni costo” contro qualsiasi minaccia o attacco proveniente dall’esterno (o dall’interno).

Ottica adattissima a fomentare nuove guerre in difesa delle “libertà occidentali”, tacciando di barbarie criminale qualsiasi potenziale avversario. In modo da tracciare a priori linee di differenziazione tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra chi è amico e chi nemico e costruire un comune immaginario su cui costruire un’identità adatta a supportare le esigenze del capitale occidentale e a giustificarne le conseguenze. In parole povere: la situazione di oggi a livello propagandistico e narrativo dei media mainstream e dei guru politici europei ed americani.

Ernest Mandel, nato in Germania nel 1923, da genitori appartenenti alla Lega di Spartaco di Karl Liebneckt e Rosa Luxemburg, e morto a Bruxelles nel 1995, ha dedicato la sua vita, fin dalla più giovane età, alla militanza politica rivoluzionaria. Svolta fin dal 1938 nelle file della IV Internazionale ispirata da Lev Trotsky, seguendone tutte le vicissitudini ideologiche ed organizzative successive, come mette ben in luce Pietro Acquilino nella sua introduzione al testo.

Mandel, per una parte del pubblico italiano meno giovane, è noto soprattutto per alcuni testi editi durante il ciclo di lotte operaie e studentesche a cavallo tra anni ’60 e ’70, che servirono ai più come primo avvicinamento al marxismo: Trattato di economia marxista (Samonà e Savelli 1967)1, La formazione del pensiero economico di Karl Marx (Laterza 1968) e Neocapitalismo e crisi del dollaro (Laterza 1973), solo per citarne alcuni.

L’opera qui presentata, però, si rivela, almeno in gran parte, come una delle sue più efficaci e interessanti, soprattutto, si scusi la ripetizione, se vista alla luce dell’attualità odierna. Poiché, come si afferma nell’introduzione al testo: «Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico». E studiare i motivi reali e lo svolgimento del secondo macello imperialista planetario non significa soltanto, anche se sarebbe già importante di per sé, superare d’un balzo tutte le narrazioni banalizzanti e di comodo che su quel conflitto si sono accumulate sugli scaffali delle biblioteche e nell’immaginario collettivo, ma anche studiare, comprendere e affrontare il conflitto che, dopo decenni di guerre neo-coloniali mascherate da operazioni di polizia internazionale, più si avvicina, per condizioni generali di partenza, pericolosità e possibile estensione su scala planetaria, a quello attualmente in corso sulle frontiere orientali d’Europa. Come si afferma ancora nell’introduzione:

Occorre quindi studiare le guerre del passato, soprattutto prossimo, non perché convinti ingenuamente che gli avvenimenti di allora possano ripetersi negli stessi termini, ma perché le loro cause profonde, che possono condensarsi nelle lotte per i mercati insite nel modo di produzione capitalistico, sono tuttora operanti e potranno portare a nuovi conflitti. Perciò la guerra non sarà solo un problema che le prossime generazioni dovranno affrontare, sarà il problema che coinvolgerà tutti gli aspetti del vivere umano, da quello sociale e a quello ecologico, dissolvendo le ultime vestigia di quel confine tra militare e civile che i grandi conflitti mondiali del ‘900 hanno già fortemente intaccato2.

Soprattutto in un contesto in cui, come hanno rilevato due esperti di strategia del’esercito cinese, in un testo del 1999: «Con il nuovo secolo i soldati devono chiedersi: che cosa siamo? Se Bin Laden e Soros sono soldati, allora chi no lo è? Se Powell, Schwarzkopf, Dayan sono politici, allora chi è un politico? Questo è il quesito fondamentale del globalismo e dellaguerra nell’era della globalizzazione.»3. Affermazione che, tra le altre cose, non fa che confermare l’osservazione già fatta da Michel Foucault, nel 1976, che «il potere è la guerra continuata con altri mezzi. Così facendo si ha il rovesciamento della tesi di Clausewitz e si afferma che la politica è la guerra continuata con altri mezzi»4.
Il motivo di tali trasformazioni della politica e della guerra può essere facilmente individuato in ciò che scrive Mandel fin dall’inizio del suo studio:

Il capitalismo implica la concorrenza. Con la nascita delle grandi corporations e dei cartelli – cioè con l’avvento del capitalismo monopolistico – la concorrenza assunse una nuova portata. In termini quantitativi divenne più economico-politica e, dunque, economico-militare. […] In gioco c’erano colossi industriali e finanziari i cui interessi si misuravano in decine o centinaia di milioni (oggi miliardi, spesso migliaia – NdR). Gli Stati e i loro eserciti, perciò, si impegnarono sempre più direttamente in questa gara, presto diventata competizione imperialistica alla ricerca di nuovi sbocchi per gli investimenti e l’accesso a materie prime a basso prezzo o rare. Il carattere distruttivo di questo antagonismo si accentuò sempre più, in una crescente tendenza alla militarizzazione e al suo riflesso ideologico: la giustificazione e la glorificazione delle guerra. Al contempo la crescita della manifattura, l’aumento della capacità produttiva delle imprese tecnologicamente più avanzate, la produzione complessiva delle principali potenze industriali e, in particolare, l’espansione del capitale finanziario e della capacità di investimento, si riversarono ben oltre le frontiere degli Stati-nazione, persino dei più grandi5.

Questi però vanno considerati ancora come i prodromi ottocenteschi dei grandi macelli imperialistici del ‘900 e del loro prolungamento nel XXI secolo. Se, infatti, non sorprende che il primo tentativo di mettere in discussione lo status quo ottocentesco, favorevole al colonialismo e al controllo dei mercati di stampo inglese e francese, fosse intrapreso, all’alba del Primo conflitto mondiale, dalla Germania «che aveva raggiunto la supremazia industriale in Europa ed era nella condizione di sfidare con la forza delle armi la suddivisione delle colonie favorevole alla Francia e all’Inghilterra»6 oltre che quella del mercato mondiale, non c’è nemmeno da stupirsi che il motore del secondo conflitto mondiale, più che nel Trattato di Versailles e affini, fosse ancor auna volta determinato dalla «necessità dei principali Stati capitalisti di controllare l’economia di interi continenti attraverso gli investimenti di capitale, gli accordi commerciali privilegiati, le regole monetarie e l’egemonia politica. L’obiettivo della guerra fu sottomettere alle priorità dell’accumulazione di capitale di una singola potenza egemonica, non solo i paesi sottosviluppati, ma anche gli altri Stati industrializzati, sia nemici che alleati»7.

Ora cambiati, almeno in parte, gli interpreti del dramma destinato a andare nuovamente in scena, è possibile verificare non solo che tale prospettiva è ancora quella in atto, ma che le stesse motivazioni stanno da anni spingendo al conflitto in ogni area del mondo. Dall’Africa al Medio Oriente, dal Mar della Cina all’Ucraina passando per i processi mai riusciti completamente di centralizzazione del capitale europeo intorno a suo “cuore tedesco” e i vari tentativi di quello statunitense di sabotarne la realizzazione. Mentre nuovi soggetti politici e progetti imperiali scalpitano per sostituire il dominio occidentale e del dollaro sulle risorse, le ricchezze e i mercati globali del pianeta.

Non esiste la benché minima prova che il Giappone, la Germania e gli Stati Uniti, i veri sfidanti dello status quo nella Seconda guerra mondiale, ponessero limiti ai loro obiettivi bellici. […] si stabiliva fin dall’inizio che per l’esercito giapponese l’occupazione della Cina era soltanto il trampolino verso la conquista del dominio mondiale, che sarebbe stato raggiunto dopo aver soffocato la resistenza degli Stati Uniti. L’alleanza giapponese con la Germania in effetti non fu che momentanea e rimase fragile e inefficace durante tutta la guerra, perché era considerata come una tregua provvisoria con un futuro nemico. Per Hitler la comprensione della guerra in arrivo era altrettanto chiara: «La lotta per l’egemonia mondiale in Europa sarà decisa dal possesso dello spazio russo. Qualsiasi idea di politica mondiale sarà ridicola [per la Germania] fintanto che non dominerà il continente (…) Se saremo i padroni dell’Europa, allora occuperemo una posizione dominante nel mondo. Se l’Impero britannico dovesse crollare adesso grazie alle nostre armi, non ne saremmo noi gli eredi, perché la Russia si prenderebbe l’India, il Giappone l’Asia orientale e l’America il Canada8. Anche l’imperialismo americano era cosciente del suo “destino” di leader nel mondo. […] Per gli Stati Uniti la guerra dveva essere la leva con cui aprire allo sfruttamento americano l’intero mercato e le risorse mondiali9. […] Se dunque il significato della Seconda guerra mondiale, come di quelle precedenti, si può comprendere solo nel contesto della contesa mondiale per il domino imperialista, la sua importanza sta nel fatto che si trattò della decisiva verifica dei reciproci rapporti di forza per gli Stati imperialisti in competizione. Il suo esito ha determinato per un lungo periodo la forma specifica dell’accumulazione mondiale del capitale. Nel mondo organizzato dal capitale, fondato sugli Stati-nazione, la guerra è lo strumento per la risoluzione definitiva delle divergenze10.

Si lascia naturalmente qui, ai lettori più attenti e interessati, la comprensione di quali siano oggi i propositi e i protagonisti principali del conflitto apertosi in Ucraina, sottolineando, però, come ancora una volta l’ideologia liberal-democratica costruirà, e stia già costruendo, un proprio modello di paesi e comportamenti “amici” per individuare il fronte dei “cattivi nemici”. Operazione che, ormai ben rodata da anni di sbandieramento democratico e discorsi politically correct, viene portata avanti quotidianamente sui media mainstream occidentali. Mentre sul fronte opposto, ancora una volta profondamente diviso nella sostanza, l’unico discorso unificante pare ancora esser quello “anticoloniale” arbitrariamente sventolato da nazioni altrettanto imperialiste negli intenti ultimi. Motivo per cui, forse, era più sincero Goebbels quando, con il suo solito stile diretto e cinico, descriveva così gi obiettivi dell’imperialismo: «Obiettivamente il senso di giustizia e il sentimentalismo sarebbero soltanto un ostacolo per i tedeschi nella loro missione mondiale. Questa missione non consiste nell’estendere la cultura e l’educazione nel mondo, ma nel sottrarre grano e petrolio»11.

Per ragioni di lunghezza occorre chiudere qui la recensione di un libro la cui lettura, in quasi tutti gli aspetti, esclusi forse quelli relativi al controverso ruolo dell’URSS nel conflitto 1939-1945 e ai movimenti di Resistenza antifascista e antinazista inquadrati dagli interessi delle borghesie nazionali e del capitale imperialista occidentale, può rivelarsi particolarmente utile ancora oggi. Specie per tutti quei militanti che dal loro campo di interessi e di azione hanno precedentemente escluso la storia militare ed economica dell’imperialismo mondiale.

Avvertenza

Poiché il testo non è di facile reperibilità, si indica qui di seguito l’indirizzo e-mail da contattare per richiederlo o ordinarlo: assopuntocritico@gmail.com


  1. Ora disponibile qui  

  2. P. Acquilino, Introduzione a E. Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Punto Critico, 2022, p.10  

  3. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2001  

  4. M. Foucault, Corso al Collège de Franc del 7 gennaio 1976 ora in M. Foucault, “Bisogna difendere la società”, Feltrinelli, Milano 2009 (prima edizione 1998), p. 22  

  5. E, Mandel, op. cit., p. 21  

  6. Ibidem, p.22  

  7. Ibid, pp. 25-26  

  8. Discorsi nel Quartier generale del Führer 1941-1944, Heine, Monaco 1986, p. 110 – NdA  

  9. All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, nel 1941 in Life Magazine, Henry Luce ha scritto: «Roosvelt è riuscito dove Wilson aveva fallito (…) Per la prima volta nella storia il nostro mondo di due miliardi di abitanti formerà un’unità indissolubile. Perché questo mondo sia sano e forte il XX secolo deve diventare il più possibile il Secolo americano» – NdA  

  10. E. Mandel, op. cit., pp. 26-29  

  11. Cit. in Mandel, p. 28, n. 15  

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