Italpizza – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:26:33 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 É la lotta che crea l’organizzazione. Il giornale “La classe”, alle origini dell’altro movimento operaio / 8 https://www.carmillaonline.com/2023/09/22/e-la-lotta-che-crea-lorganizzazione-il-giornale-la-classe-alle-origini-dellaltro-movimento-operaio-8/ Fri, 22 Sep 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78490 di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La [...]]]> di Emilio Quadrelli

Da Valdagno a Italpizza, per un nuovo giornale operaio

Dalle ceneri di “La classe” nascono come si è detto Lotta Continua e Potere Operaio che saranno i soli gruppi capaci di dare corpo e testa all’autonomia operaia. Le due ipotesi politiche e organizzative sono sicuramente diverse mantenendo tuttavia una certa affinità tra loro tanto che solo pochi anni dopo, quando Potere Operaio si scioglierà e la svolta neo-istituzionale di Lotta Continua darà vita alla diaspora delle principali sezioni operaie, gran parte dei soggetti che avevano coabitato all’interno de “La classe” si ritroveranno dentro le ipotesi che fanno da sfondo alla costituzione del soggetto politico dell’autonomia operaia.

Nell’esperienza di «Linea di condotta» si ritrovano pezzi de “La classe” confluiti in Potere Operaio nel momento in cui il giornale chiude i battenti, insieme a gran parte della diaspora operaia di Lotta Continua che non poche “affinità elettive” mostrava di avere con l’esperienza de “La classe”, invece una parte di Potere Operaio darà vita, attraverso il giornale «Rosso», a un modello di autonomia operaia che si lasciava alle spalle la centralità della fabbrica focalizzando l’attenzione su quel soggetto, l’operaio sociale, che secondo l’area teorico–politica di «Rosso» era diventato il cuore della nuova composizione di classe. In questa area finirono per confluire, anche se in misura minore rispetto a coloro che si posizionarono dentro «Linea di condotta» prima e «Senza tregua» poi, non pochi militanti di Lotta Continua che alla spicciolata abbandonavano l’organizzazione la quale aveva assunto tratti sempre più neoriformisti e neoistituzionali1.

Indipendentemente da tutto, ciò che appare evidente è come “La classe” abbia tenuto a battesimo gran parte della storia degli anni settanta di questo paese e questo sembra essere un motivo più che sufficiente a giustificare il senso di questo lavoro così come, per altro verso, sulla base delle argomentazioni portate appare del tutto forzata per non dire fuorviante la contrapposizione tra classe e ceto politico–intellettuale. Uno sguardo minimamente obiettivo ci restituisce, al contrario, una sostanziale sinergia tra classe e intellettuali il che è ben distante, come non poche narrazioni del presente tendono a fare, dall’assolutizzare il ruolo di questi nelle vicende e nella storia dell’autonomia infine, sulla base di quanto esposto, pare sensato sostenere il peso che una ritraduzione di Lenin ha comportato nell’elaborazione teorica e analitica del movimento dell’autonomia operaia e come proprio intorno a detta ritraduzione si siano costruiti i principali passaggi politici dell’autonomia operaia.

Giunti a questo punto facciamo un salto nel presente. Sicuramente, oggi, il panorama delle lotte non è dei più rosei, ma non è neppure vero che le lotte operaie e proletarie siano assenti. In un settore strategico come quello della logistica, solo per fare un esempio non proprio irrilevante, in questi anni abbiamo visto lo sviluppo di lotte di notevole intensità in grado di ribaltare, almeno in parte, condizioni lavorative prossime al lavoro coatto. Abbiamo assistito all’affermarsi di un potere operaio di non modeste dimensioni attraverso la pratica costante del blocco dei cancelli e la rimessa in atto del picchetto operaio. Per altri versi, a macchia di leopardo, lotte operaie autonome si verificano con una certa continuità dentro fabbriche, officine e cantieri mentre nuove figure operaie come quelle dei riders e degli operatori della sicurezza più noti come buttafuori, pur in situazioni di estrema difficoltà, iniziano a lottare. Da parte loro i braccianti agricoli hanno dato vita, nonostante condizioni di vita e di lavoro durissime, a lotte ed embrioni di organizzazione operaia non proprio indifferenti. Dentro le prigioni e nei campi di concentramento un proletariato in condizioni di marginalizzazione ed esclusione estrema ha continuato a lottare e resistere infine, ma certamente non per ultimo, si è assistito come nel caso delle lotte di Italpizza2 a una nuova Valdagno3 a opera di operaie immigrate. Proprio su questo ultimo aspetto è opportuno soffermarsi poiché può essere assunto come un vero e proprio paradigma del presente.

Chiedersi il perché una lotta come quella di Italpizza, che pure ha interessato un colosso della gastronomia e un numero cospicuo di operaie, sia rimasta sostanzialmente confinata in sé stessa è un modo per affrontare alcuni snodi centrali del presente. Il fatto che in questa lotta un ruolo centrale lo abbiano svolte donne immigrate, ruolo sostanzialmente ignorato, lascia, almeno in apparenza, ancor più stupefatti poiché è innegabile che, da tempo, uno dei movimenti con maggiore capacità di mobilitazione sia proprio quello femminista. Eppure intorno alla lotta di Italpizza si è costruito ben poco e non è neppure troppo lontano dal vero sostenere che la notizia di quella lotta sia rimasta ignota ai più. Colpa delle femministe? Asserirlo sarebbe un abbaglio colossale e significherebbe non cogliere il cuore della questione che merita ben altra spiegazione; del resto ciò che vale per le donne di Italpizza vale per le donne impiegate in condizioni di sfruttamento estremo nell’agricoltura. Anche in questo caso si tratta prevalentemente di donne immigrate le quali, in non pochi casi, ai livelli di sfruttamento estremo devono associare molestie sessuali se non veri e propri stupri ma, nonostante ciò, anche su questo tende a calare un sostanziale velo di silenzio. Non diversamente che su Italpizza anche qui assistiamo al silenzio del movimento femminista e alla sua assenza di intervento ma è colpa del femminismo in quanto tale oppure, il femminismo, al pari di gran parte degli ambiti del movimento antagonista, tace perché la dimensione del lavoro operaio gli è estraneo? Quello che vale per il movimento femminista non è forse moneta corrente per gran parte degli altri ambiti del presunto antagonismo?

Non abbiamo visto, per esempio, di fronte a braccianti uccisi dalla fatica, l’assunzione della condizione dei lavoratori agricoli come ambito di intervento militante, se si escludono alcune iniziative del sindacalismo di base, di una qualche consistenza da parte di alcun settore di movimento e coevi ceti politici–intellettuali eppure, in agricoltura, siamo di fronte a un dominio che vede chiamate in causa direttamente le grandi multinazionali agroalimentari e non una qualche nicchia residuale e arcaica del capitalismo. Nel settore agroalimentare si concretizza il punto più alto del comando, si dipana il modello per antonomasia del dominio, non il mondo di ieri ma la storia del presente4. A fronte di tutto ciò si potrebbero aggiungere una serie infinita di fatti più o meno analoghi come, tanto per dire, la condizione di lavoro neoschiavile in cui versano i rider o gli invisibili della ristorazione. Insomma la non attenzione del movimento femminista nei confronti delle operaie di Italpizza ha ben poco a che fare con il movimento femminista in sé ma rientra in una non visione delle cose che sembra accomunare i più.

Per dirla in parole semplici e chiare, il lavoro operaio è stato espunto da ogni agenda politica e l’interesse nei suoi confronti di fatto è nullo anche se, a uno sguardo solo un poco più attento, non è difficile osservare come la lotta operaia e proletaria sia tutto tranne che inesistente. Insomma, la sconfitta operaia non c’è così come dimostrano la quantità di denunce, fogli di via, cariche della polizia, impiego di vigilantes di pochi scrupoli, sino ad arrivare agli omicidi avvenuti in occasione di un qualche sciopero, sono fatti che hanno riempito le cronache operaie di questi anni ma di queste cronache, questo è il punto, vi è ben scarsa traccia5. Scioperi, picchetti, blocchi stradali e via dicendo non trovano alcuna risonanza dentro i ceti politici–intellettuali, il che fa sì che le cose rimangano prive di parole. Indubbiamente i fatti esistono e hanno anche la testa dura ma fatti privi di un linguaggio e di una narrazione finiscono con il rimanere semplici cose.

Facciamo un esempio: abbiamo detto che la lotta di Italpizza presenta assonanze non distanti dai fatti di Valdagno ma che a differenza di questi hanno lasciato un po’ il tempo che avevano trovato. Perché Valdagno sì e Italpizza, no? Che cosa differenzia i due momenti? La risposta la possiamo facilmente trovare confrontando gli ordini discorsivi che fanno da sfondo ai due fatti. Nel primo caso abbiamo, da parte della quasi totalità del ceto politico intellettuale e militante una attenzione costante sul mondo operaio e le sue lotte, poiché la centralità operaia è l’ordine discorsivo che egemonizza per intero il dibattito politico, teorico e culturale. Sulla scia di ciò, allora, un fatto come quello di Valdagno assume velocemente i tratti di un paradigma: ecco le donne operaie in atto e questo inizia a essere ripetuto, da nord a sud, dentro tutte le realtà operaie, ma non solo. Il paradigma Valdagno attraversa la scuola, l’università, i quartieri. Quel fatto viene amplificato all’inverosimile tanto che, con quella realtà, tutti saranno obbligati a misurarsi. Le parole non si sono inventate nulla, non si sono sostituire alle cose hanno però permesso alle cose di raccontarsi.

Quello che vale per Valdagno vale un po’ per ogni contesto di lotta più o meno radicale, le parole ne consentono la immediata socializzazione. Con ogni probabilità senza la presenza di un ceto politico–intellettuale in grado di farsi carico di ciò ben difficilmente, non solo i fatti di Valdagno, ma la stessa centralità operaia avrebbe potuto diventare l’elemento intorno al quale tutte le agende politiche finirono con il doversi misurare. Oggi, invece, neppure gli omicidi riescono a trovare le parole. In questi anni non pochi operai sono caduti nel corso di scioperi e picchetti, ma le loro morti sono cadute nel silenzio e la stessa cosa vale per la quantità impressionante di morti sul lavoro, morti che, come non poche inchieste ufficiali confermano, hanno ben poco dell’incidente casuale ma sono il frutto maturo di una organizzazione del lavoro tutta declinata alla massima estrazione di profitto a scapito della protezione della vita operaia. A conti fatti non sono le cose a mancare, sono le parole a essere assenti, ma questo è esattamente il frutto di un interesse delle parole verso altri ambiti i quali hanno finito con l’occupare ed egemonizzare l’agenda politica e culturale dei vari ceti politici e intellettuali.

Mentre le retoriche dominanti nei mondi militanti oscillano tra la narrazione di tutta l’area post operaista e della nuova sinistra, che hanno decretato la fine del lavoro operaio e la morte della classe operaia o quella reducista, tutte le aree vetero-comuniste capaci solo di vivere del e nel ricordo della mitica classe operaia delle grosse concentrazioni di questi e che, mentre ne loda e incensa i fasti, riesce solo, mentre si piange addosso, ad andare alla ricerca del tempo perduto, le lotte operaie continuano a esistere, però, purtroppo, nel più totale isolamento. Con isolamento, nel contesto, si intende la dimensione politica e culturale in cui queste si danno e l’obiettiva incapacità di imporre la centralità operaia come elemento cardine dell’agenda politica. Esattamente qui sembra delinearsi la principale differenza con l’epoca presa in considerazione da questa trattazione della quale, con ogni probabilità, “La classe” ne ha rappresentato uno degli aspetti più interessanti e significativi.

Nelle osservazioni precedenti si è molto insistito sul rapporto classe operaia/ceto politico–intellettuale mostrando come detta relazione rimanga sostanzialmente indispensabile per la messa in atto di un ordine discorsivo in grado di esercitare egemonia e direzione politica. “Senza teoria rivoluzionaria, niente movimento rivoluzionario.”, con ciò si vuole ribadire che il Che fare? mantiene inalterata tutta la sua freschezza e continua a essere l’unico orizzonte possibile e realistico intorno al quale rideterminare il partito dell’insurrezione nel presente ma, una volta detto ciò, occorre comprendere come questo passaggio sia possibile.

Intanto dobbiamo prendere atto di come, sicuramente in questo paese e in buona parte del mondo occidentale, il novecento sia del tutto finito. Quel tipo di organizzazione del lavoro che presupponeva sempre più massicce concentrazioni operaie è andato in archivio tanto che, osservatori a dir poco superficiali, sulla scia di ciò hanno decretato la fine del lavoro operaio. In realtà ciò che è accaduto veramente è il cambiamento di pelle del lavoro operaio e della sua condizione. Una condizione che nella giungla delle disparità contrattuali ha trovato la sua forma fenomenica maggiormente significativa. A fronte di ciò il proliferare, ormai come condizione normale, del lavoro irregolare per quote non secondarie di operai o, per altro verso, l’obbligo di diventare imprenditori di sé stessi attraverso la massificazione delle partite IVA è una condizione operaia e proletaria sempre più maggioritaria. Il novecento è stato archiviato e non pochi tratti della cosiddetta post modernità, per quanto riguarda la condizione operaia, hanno non poche assonanze con la condizione subalterna ottocentesca e questo è il dato dal quale occorre partire.

Come nell’Ottocento, per altro verso, classe operaia e proletariato sono politicamente esclusi, non bisogna infatti dimenticare che l’inclusione politica delle masse inizia a delinearsi nel corso della Prima guerra mondiale e occorrerà attendere la Costituzione di Weimar6 perché, sul piano giuridico formale, tale inclusione diventi legittima.

Oggi possiamo dire che il Trattato di Weimar è stato stralciato insieme a tutta quella costruzione che Keynes e lo stato–piano avevano messo in forma dopo il crack del ’297. Ciò che in realtà è successo è stata la ricollocazione dei subalterni nell’ambito della marginalità ed esclusione sociale e conseguente privazione della loro legittimazione storico–politica tanto che, per molti versi, la loro condizione si approssima a quell’essere massa senza volto propria dei colonizzati. Occorre riconoscere che nei confronti di queste masse non vi è alcuna empatia da parte dei ceti politici–intellettuali. In altre parole sembra veramente impensabile che, all’orizzonte, si possa paventare una operazione in qualche modo simile ai Quaderni rossi e a tutto ciò che li ha seguiti, se classe operaia e proletariato romperanno l’isolamento, questa volta, potranno contare solo su sé stessi e direttamente dal suo interno si dovrà formare un ceto politico–intellettuale, almeno per tutta una fase.

Se la centralità operaia riconquisterà il cuore dell’agenda politica lo potrà fare solo partendo da sé stessa ma, una volta preso atto di ciò, l’ipotesi di un giornale operaio, un “La classe” del presente, è utile o no, è fattibile o meno, assume una valenza strategica o è un’ipotesi del tutto peregrina? Un luogo deputato anche alla teoria della classe operaia rimane o meno un aspetto strategico della lotta operaia? Un luogo dove provare a far vivere l’ordine discorsivo della centralità e direzione operaia rimane o no un aspetto ineludibile per la costituzione dell’organizzazione operaia? Gli operai hanno o no bisogno di elaborazione teorico–politica o possono farne tranquillamente a meno? Dobbiamo tentare una nuova ritraduzione di Lenin o possiamo considerare il pensiero strategico leniniano del tutto inutile nel presente? Dobbiamo imparare a essere anche ceto politico–intellettuale o rimanere quelli dei picchetti? Dobbiamo essere in grado, contando solo sulle nostre forze, di riattivare la triade marxiana prassi/teoria/prassi o limitarci a una sorta di prassi in permanenza tanto eroica e volenterosa ma sicuramente poco capace di caricarsi sulle spalle tutto il peso dei passaggi politici che la lotta operaia si porta appresso? Dobbiamo essere in grado di agire e funzionare anche come supplenza politica nei confronti della classe o inibirci per intero la dimensione del politico? Dobbiamo tentare una battaglia per riconquistare l’egemonia politica o accontentarci di vivere tra le marginalità del presente? Queste le domande e le sfide che dobbiamo provare ad affrontare oggi.

Per rispondere cominciamo con il dire, intanto, che il giornale è uno strumento di organizzazione, non certamente l’organizzazione operaia ma sicuramente un passaggio importante, perché mette in collegamento le lotte operaie, ponendo in primo piano i punti di vista di queste. Dal momento che sviluppa dibattito tra gli operai, costruisce una serie di tasselli non secondari dell’organizzazione e dell’insieme di problematiche che questa indubbiamente si porta appresso. Dentro la classe questa funzione diventa strategica, perché, infatti, bisogna tener presente che, in non pochi casi, le numerose lotte esistenti non comunicano tra loro, così come è del tutto impossibile trovare un luogo comune dove esplicitare il punto di vista operaio e per la classe questo è un limite che contribuisce non poco, a renderla monca.

Non è difficile da immaginare che un giornale operaio andrebbe a ricoprire un ruolo essenziale dentro la classe; pensiamo all’impatto che potrebbero avere delle semplici cronache operaie tra gli operai in lotta, pensiamo alle pagine fitte di corrispondenze operaie de “La classe” negli scenari di lotta attuali. Forse che nel ’69 il coordinamento e la socializzazione delle lotte era un qualcosa che si raccoglieva sugli alberi? Forse che la classe operaia viveva una condizione di minor isolamento di oggi? Gli operai della fabbrica X conoscevano ciò che accadeva nella fabbrica Y per volontà divina e ancora gli operai di Torino cosa sapevano di quelli di Porto Torres se non ci fosse stata l’organizzazione di una narrazione. Certo, le notizie di notevole spessore non potevano essere eluse, Avola e Battipaglia non potevano essere ignorate dalla stessa informazione di regime, ma non è questo il punto, ciò che rimaneva costantemente celato era il livello di lotta e conflittualità che attraversava le fabbriche, gli obiettivi che gli operai perseguivano, le forme di lotta adottate. Il giornale, quindi, è in prima istanza uno strumento del dibattito operaio che consente sia di fissare i punti delle varie situazioni, sia di individuare collettivamente i passaggi necessari per il loro prosieguo. Va anche detto che il giornale, oltre che funzionare come elemento di organizzazione della classe, rimane uno strumento, non secondario, in grado di rompere la sensazione di isolamento e accerchiamento in cui, in non pochi casi, la classe ritiene di trovarsi. Percezione non così fantasiosa come chiunque abbia un minimo di familiarità con le lotte, può testimoniare.

Pensiamo, ad esempio, ai conflitti nel settore della logistica: i magazzini sono dislocati in autentici territori del nulla dove per chilometri si dipanano attività produttive che non hanno alcuna comunicazione l’una con l’altra. Il magazzino X sciopera e picchetta i cancelli, ma intorno a questo nessuno si accorge di niente. Se, come in non pochi casi avviene, si arriva allo scontro con i guardiani o alle cariche della polizia, tutto rimane circoscritto a quel contesto e può accadere che, il giorno seguente, si ripeta uno scenario simile a un paio di chilometri di distanza, anche questo in maniera del tutto isolata. L’assenza di comunicazione produce isolamento e inibisce non poco l’attività di agitazione e propaganda. Andare davanti a una fabbrica o un magazzino con un giornale operaio non è proprio come andarci a mani vuote e questo è un aspetto importante della questione.

Accanto a questo ve ne è un secondo, non meno rilevante e anzi, per alcuni versi, forse più decisivo: la funzione che il giornale può e deve assolvere dentro le aree politiche antagoniste, rivoluzionarie e comuniste, in altre parole il giornale è uno strumento essenziale per la conduzione della battaglia politica al fine di portare sul terreno della centralità operaia un ceto politico–intellettuale in grado di entrare in relazione dialettica con le lotte operaie, assumerle come centrali dell’agenda politica del presente, imporre la questione operaia come asse portante del dibattito di tutto il movimento antagonista. Compito titanico? Forse. Ciò non toglie che è una partita che occorre tentare. Se ci guardiamo intorno possiamo facilmente osservare come, ad esempio, nei mondi studenteschi e intellettuali vi sia un dibattito politico e culturale sui più svariati temi tranne che sulla classe operaia e le sue lotte. Questo è certamente il frutto di tutta una serie di retoriche che hanno preso campo negli ultimi decenni ma, occorre riconoscerlo, è anche e soprattutto il frutto di una assenza. Come si fa a parlare di classe operaia, di lotte operaie se queste non sono in grado di produrre uno straccio di narrazione? Su quali basi diventa possibile provare a forzare una situazione se per le mani non si ha nulla di teoricamente consistente? Pensiamo alla quantità non proprio irrisoria di giovani che si avvicinano, con intenti radicali e rivoluzionari, alla politica. Che occasione hanno di conoscere il mondo operaio se questo, sul piano organizzativo e comunicativo, si avvicina di molto al modello carbonaro?

È ovvio che, in uno scenario simile, queste migliaia di possibili militanti verranno cooptati dagli unici ordini discorsivi che hanno visibilità. Occorre sia dare visibilità alle lotte operaie ma non solo bisogna far sì che, intorno a queste lotte, si focalizzi l’attenzione e l’azione di tutto ciò che si considera e autorappresenta come ambito antagonista e conflittuale e questo è possibile solo se la centralità delle lotte operaie ritorna a essere il punto di riferimento del punto di rottura del rapporto sociale capitalista. Senza questo passaggio le lotte operaie corrono il concreto rischio di una endemicità priva di qualunque prospettiva e, nostro malgrado, torneremo a non essere troppo diversi da quell’operaismo che aveva bellamente eluso il rapporto delle lotte con il momento di rottura ignorando così la dimensione propria della politica. Questa l’ottica nella quale dovrebbe collocarsi l’ipotesi di un nuovo giornale, da “La classe” a “La classe”, per una nuova stagione del potere operaio.

(8Fine)


  1. L’esperienza di «Linea di condotta» è riportata per intero in, E., Quadrelli, Autonomia operaia, cit. Sull’esperienza di Rosso si veda: T. De Lorenzis, V. Guizzardi, M. Mita, Avete pagato caro non avete pagato tutto. Antologia della rivista Rosso (1973–1979), Derive Approdi, Roma 1979.  

  2. Al proposito si veda, «Il Manifesto», 120 operai di Italpizza a processo, 13/9/2020.  

  3. Il 19 aprile 1968 gli operai, ma soprattutto le operaie della Marzotto entrarono autonomamente in lotta contro il padrone Marzotto il quale gestiva la fabbrica apertamente patriarcale e paternalista. Tra le prime cose che le operaie fecero fu distruggere la statua del padre–padrone. Nonostante i duecento arresti e i violenti scontri con le forze dell’ordine la lotta continuò in maniera sempre più dura e determinata. Le donne furono la testa del movimento, dall’inizio alla fine. L’evento, in un batter d’occhio, diventò il simbolo della nuova stagione delle donne operaie e della loro radicalità. Sugli eventi di Valdagno si veda, L. Guiotto, La fabbrica totale. Paternalismo e città sociali in Italia, Feltrinelli, Milano 1979.  

  4. Una buona documentazione di ciò è reperibile sul sito di “Campagne in lotta”, campagneinlotta.org.  

  5. Una rara eccezione è data dal testo scritto dal Si.Cobas, Carne da macello, Red Star Press, Roma 2016.  

  6. Su questo passaggio si veda il fondamentale lavoro di S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  7. In particolare, John, M. Keynes, La fine del laissez–faire e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1991.  

]]>
Maxiprocessi, zamponi e tortellini https://www.carmillaonline.com/2020/09/04/maxiprocessi-zamponi-e-tortellini/ Fri, 04 Sep 2020 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62618 di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Dici “maxiprocesso” e vengono alla mente le memorie complicate degli anni ’80 – Michele Greco e Pippo Calò dietro il gabbione dell’aula bunker di una Palermo insanguinata, centinaia di imputati, gli elicotteri volteggianti sui tetti del palazzo di giustizia. Bene, dimentichiamoci di quell’anticaglia. Ci sono un paio di nuovi maxiprocessi in pista; lo scenario sarà meno melodrammatico e di telecamere ne vedremo pochine. Anche Modena è meno affascinante, come location criminal-giudiziaria. Però è proprio nell’amena cittadina estense che si celebreranno due surreali maxiprocedimenti giudiziari: alla sbarra non ci saranno boss mafiosi e sicari, ma padri e madri di famiglia – classe operaia del segmento modenese più povero e precario –, accusati di aver lottato per difendere la propria condizione.

I processi riguarderanno due vertenze importanti, quella consumatasi ai cancelli dell’azienda Alcar Uno di Castelnuovo Rangone, e quella relativa alla rinomata Italpizza di Modena – vertenze assurte agli onori della cronaca nazionale, in tempi diversi e per ragioni diverse. La Alcar Uno, storico marchio della lavorazione carni suine, è stata anche il teatro, oltre che di una dura battaglia sindacale, del gaglioffo tentativo di incastrare Aldo Milani, incappato nel 2017 in una provocazione dagli esiti fallimentari; mentre la vertenza Italpizza, ha investito un’eccellenza dell’export italiano, vezzeggiata e iper-protetta dalla politica locale .

Gli inquisiti-operai sono sostanzialmente accusati di aver picchettato i cancelli di aziende in cui hanno speso anni e anni della loro vita – ivi producendo valore e profitti. Nell’impostazione della Procura, lo sciopero è l’arma del reato. La busta paga e la dignità, il movente. La scena del delitto: la precarietà, i cambi appalto, le finte cooperative, l’abuso di contratti penalizzanti – le storie tristemente comuni, ormai di massa, dell’Emilia di oggi.

C’è maxiprocesso e maxiprocesso. A Modena, sul banco degli imputati non troveremo il ghigno torbido di Luciano Liggio: bensì le facce spaurite, scocciate e vagamente perplesse di Maria, Hamed, Salvatore, Johnny, Fariba e chissà quanti altri, increduli circa la loro collocazione sul banco degli accusati. Ognuno di loro dovrà rispondere dei consueti reati di piazza – resistenzaoltraggiolesioni – aggravati dal sovraccarico penale dei decreti Salvini.

Per ognuno di questi imputati sono state raccolte e depositate dettagliatissime notizie di reato: tutto quello che nel corso dei picchetti, dei canonici “tafferugli” o dei normali presidi, nel corso di mesi, hanno fatto, non fatto, e persino quello che hanno detto, parola per parola; tutto riportato (con esiti qua e là di involontario umorismo), nero su bianco nell’avviso di conclusione delle indagini. Quasi duecento persone, sommando i due processi. Uno sforzo di trascrizione enorme che avrà tenuto impegnato un esercito di funzionari per chissà quanto tempo. Ce li immaginiamo a sbobinare e visionare ore e ore di filmati e discutere circa l’attribuzione dei reati: “Tizio ha detto ‛sbirro di merda’, Caio ha dato una spinta al sovrintendente…“.

Sarebbe bello quantificare i costi di queste delicate operazioni di intelligence giudiziaria. Confrontarli con tutta la retorica imperante sulla sicurezza. Chiamare la Corte dei Conti a farli, due conti, per capire dove e come si decide di investire le risorse del sistema giustizia, sempre cronicamente deficitario: chi ha deciso che le “priorità dell’azione penale” in questi territori dovessero riguardare scioperi e presidi? Negli atti si citano gli immancabili referti medici prodotti dalla polizia – in massima parte i classici “tre giorni” (che non si danno neanche per un unghia incarnita). Un certificato di 30 giorni lascia a bocca aperta: qualche farcitrice di pizza karateka deve essere esplosa in una rabbia incontrollata, in mezzo al fumo perenne dei centinaia di lacrimogeni che erano la vera costante di quei presidi in località S. Donnino.

C’è l’Italia, in quelle carte della Procura di Modena. L’Italia che non compare mai nei tiggi, l’Italia profonda, della provincia estrema, dove sembra che non accade mai niente e invece sta succedendo tutto. Tante volte la lettura delle carte giudiziarie ha raccontato questo paese, meglio di giornalisti e scrittori; basti ricordare proprio gli atti del processo Milani, in cui poche intercettazioni fulminanti, finite sui giornali, spiegavano senza equivoci che tipo di rapporto intercorre tra i vertici delle aziende e quelli di certe questure italiane. Raccontare in modo spietato e dolente il presente di un paese mai così livido, cupo, diviso: siamo sicuri che i maxiprocessi di Modena assolveranno egregiamente a questa funzione.

Tra cent’anni, gli storici del futuro rileggeranno questi “avvisi di fine indagine” e cercheranno di capire quale pericolo criminale incombesse nella terra dei motori e del lambrusco, per organizzare processi così maniacalmente persecutori; si chiederanno chi fossero queste centinaia di imputati, perché meritassero tante attenzioni, quale pericolo sociale incarnassero, a quale scandalo avessero dato corpo, per meritare un simile sforzo delle legittime autorità. Sì, quale scandalo? Vallo a raccontare ai posteri. La colpa di quei reprobi è stata quella di aver dato visibilità alla condizione operaia oggi; l’aver reso pubblico quello che tutti – ispettorati, sindacati complici, amministratori, magistrati, economisti – sapevano e fingevano di ignorare. Con la loro iniziativa, hanno rivelato che nei primi vent’anni del Ventunesimo secolo, il miracolo del manifatturiero emiliano – arrambante ed esportatore – ha prodotto dipendenti precari, poveri, ricattati, nell’illusione che la “competitività” si potesse fare ormai solo giocando sulla condizione e i costi della forza lavoro.

Lo scandalo è aver scoperchiato un pentolone di cui nessuno voleva sentire l’odore; perché gli insaccati sono saporiti ma guai a guardarci troppo dentro: agli ingredienti come ai rapporti di lavoro. E così è la società emiliana – un grande cotechino ripieno, succulento e rigonfio: ma vai a mettere il naso, dentro quelle statistiche, vai a scomporle e trasformare i numeri in vite umane, in braccia, storie, intelligenze mortificate, abbrutite dal lavoro e dai bassi salari. Una cartografia dell’Italia reale, un paese dei balocchi in cui le guardie tengono il sacco ai ladri e chi denuncia le illegalità, novello Pinocchio, rischia di finire in galera.

Si perché la cosa buffa è che con i loro scioperi, soprattutto dentro tante aziende dell’agroalimentare modenese, questi lavoratori lanciavano delle denunce assai precise e dettagliate: attenzione, istituzioni, il problema non è solo la nostra condizione di sfiga e sfruttamento; perché lo Stato italiano sta perdendo da anni fior di milioni in elusione fiscale e contributiva, con i soliti giri marci di cooperative e appalti interni. Tanto per capirci, il patron della Alcar Uno, il vecchio signor Levoni, è finito nei guai, accusato di una maxievasione da 80 milioni – con sequestro monstre di fabbricati, terreni ed auto d’epoca; ed è stato pure rinviato a giudizio per corruzione – insieme a un giudice tributarista accusato di fargli da gentile consulente. Eppure quelli che hanno denunciato per anni queste nefandezze, finiranno a processo prima di lui. Bello no?

200 operai alla sbarra. Sembra una vecchia storia della Spagna franchista. Ma questo numero riguarda solo i due procedimenti principali citati all’inizio. Ci sono poi gli 11 relativi agli scioperi Emilceramica, i 22 della Bellentani, i 60 della GLS, i 40 della GM e molti molti altri (dati gentilmente forniti dai Si Cobas modenesi che ormai stanno perdendo il conto). Il processo Aemilia, quello contro la ‘ndrangheta, per capirci, ha contato solo 240 imputati. La strage del carcere di Sant’Anna, ci scommettiamo, non ne vedrà manco uno.

Quanto costa ai contribuenti italiani questo music-hall antioperaio, con tutte le sue ritualità? Quanto costa continuare a mantenere presidi polizieschi a difesa delle aziende, oltre che in termini di credibilità democratica di un sistema? Tra l’altro, trovando sempre solide sponde nelle Questure, i padroni, negli anni, si fanno sempre più arroganti; talune vertenze che qualche anno fa si sarebbero chiuse con qualche ora di sciopero e un po’ di normali trattative, si trasformano in una sfida all’Ok Corral; se la forza pubblica è gentilmente messa a disposizione gratuitamente dalla Repubblica, perché farsi ricattare da questi cenciosi proletari, spesso stranieri, che osano contestare il genio imprenditoriale italiano? Più polizia c’è ai cancelli, più si allungano e si complicano le vertenze, è scientifico.

Nelle accuse contro i manifestanti, il vero elemento disturbante è il blocco dei cancelli. È quello che proprio non va giù ai padroni: il fluire delle merci in entrata e in uscita – più sacro del Gange – non va interrotto per nessuna ragione. Non si scherza con i fatturati: la merce è tutto, la vita umana poco, la Costituzione niente, i contratti meno di niente.

Un normale sciopero con astensione del lavoro si può ancora tollerare – tanto ormai la folla dei precari ipericattati (stagisti, appalti, contratti variamente a termine, somministrati), garantisce una base di “fidelizzati obtorto collo”, che non può permettersi di scioperare. Gli strumenti di ricatto sulla condizione attuale della classe operaia – in certi settori più simile al Diciannovesimo secolo che al Ventesimo appena trascorso – sono tanti e facilmente esigibili dalle imprese. I blocchi no. Quelli non se li possono proprio permettere. Sono sommamente diseducativi. Se diventassero pratica di massa, l’Italia andrebbe sottosopra entro qualche settimana: vogliamo più soldi o blocchiamo tutto; più diritti; più sicurezza; più assunzioni; più ospedali, più scuole pubbliche… Bel casino, sarebbe. Sono i blocchi delle merci e dei cancelli a trasformare l’irritazione padronale in vendetta istituzionale.

Dopo le paginate della stampa sui 67 inquisiti della lotta Italpizza, persino la CGIL è dovuta intervenire per dire che – Cobas o non Cobas –, i lavoratori non scioperano mai per diletto, è l’oggettiva asprezza della condizione attuale a imporre il conflitto. La confederazione si è sentita chiamata in causa perché qua e là, i blocchi ai cancelli – soprattutto di multinazionali che vogliono abbandonare il territorio smontando e traslocando gli impianti – è costretta a farli pure lei, e qualche denuncia ha cominciato a beccarsela. Oggi tocca agli scapestrati sindacati di base: ma domani? Le vecchie garanzie concertative sono saltate, il “grande sindacato di Di Vittorio” non incute né timori né rispetto, nel fronte datoriale.

Non è un caso che queste degenerazioni si consumino proprio a Modena. Questa città è l’ultimo baluardo spelacchiato di quello che fu il “modello emiliano”: è la città che ancora elegge il sindaco piddi al primo turno, quella dove le grandi cooperative e i gruppi privati concertano una minuziosa copertura di tutti gli spazi di mercato; privati ai quali è stato generosamente concesso per vent’anni di avere mano libera nella scomposizione e ricomposizione delle filiere produttive, all’insegna del “precarizza e competi”.

Degli elementi virtuosi o avanzati di quel modello, sotto i colpi della crisi, non è rimasto in piedi quasi più niente – welfare inclusivo, eccellenze sanitarie, cittadinanza attiva; l’unico fattore di continuità è l’idea dell’espulsione del conflitto e dei corpi sociali autonomi, giudicati sempre eccedenti ed estranei rispetto alla bontà del modello – quarant’anni fa come oggi. Abbiamo conservato il peggio. E bene ha fatto chi ha coniato l’espressione “sistema Modena”, per definire questa rete progettuale di connivenze tra imprese e istituzioni. La parola “sistema” evoca una realtà anonima, funzionale, indefettibile nelle sue leggi e nei suoi meccanismi – non per niente questo termine, a Napoli ha sostituito l’arcaica espressione “camorra”.

Adesso però c’è da giocarsi una scommessa, in quelle aule di tribunale. Sul banco degli imputati, Maria, Salvatore, Hamed, Frank, Fatima ecc. dovranno rovesciare la loro condizione di imputati e trasformarsi in accusatori. E lo potranno fare solo se intorno a loro si costituirà un fronte di sostegno largo, plurale e consapevole. È necessario che il processo antioperaio si trasformi in un processo di massa contro il moderno sfruttamento in salsa emiliana, i suoi complici politici, i suoi consulenti, i suoi reggicoda, i suoi cani da guardia. Una “costituzione di parte civile” contro chi negli anni della crisi – persino dentro la pandemia – ha continuato ad arricchirsi e a pretendere indulgenza fiscale e protezione ai propri abusi.

Se Modena è stata il laboratorio avanzato della repressione, dovrà diventare il contro-laboratorio della solidarietà militante e della intelligenza collettiva: usare la macchinazione giudiziaria, contro le retoriche d’impresa e le ideologie securitarie, che sono i gemelli degeneri di questa epoca. Bisogna fargli passare la voglia di istruirli, i processi contro il lavoro.

]]>
A proposito di Italpizza… Ho visto cose che voi umani… https://www.carmillaonline.com/2019/09/17/a-proposito-di-italpizza-ho-visto-cose-che-voi-umani/ Tue, 17 Sep 2019 21:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54723 di Redazione

Ho visto cose che voi umani… cose come l’Amministratore Delegato di Italpizza Andrea Bondioli che presenta presso la Procura della Repubblica di Modena una querela per diffamazione contro Giovanni Iozzoli per i suoi articoli su Carmilla, riguardanti la vertenza tra la ditta e le lavoratrici e i lavoratori in lotta, ritenendo che ad infangare il buon nome dell’azienda siano stati questi scritti e non i vergognosi contratti, i trattamenti sul lavoro e la repressione a cui l’azienda ha sottoposto chi ha osato rivendicare dignità.

Ho visto cose che voi umani… cose come ritrovare chi lotta, chi parla, chi si [...]]]> di Redazione

Ho visto cose che voi umani… cose come l’Amministratore Delegato di Italpizza Andrea Bondioli che presenta presso la Procura della Repubblica di Modena una querela per diffamazione contro Giovanni Iozzoli per i suoi articoli su Carmilla, riguardanti la vertenza tra la ditta e le lavoratrici e i lavoratori in lotta, ritenendo che ad infangare il buon nome dell’azienda siano stati questi scritti e non i vergognosi contratti, i trattamenti sul lavoro e la repressione a cui l’azienda ha sottoposto chi ha osato rivendicare dignità.

Ho visto cose che voi umani… cose come ritrovare chi lotta, chi parla, chi si oppone sul banco degli imputati con i padroni del territorio seduti dalla parte degli accusatori.
Ho visto sul territorio l’antifascismo vero, mentre sugli schermi sfilava l’antifascismo di facciata.

Giovanni, delegato e attivista sindacale, si è sempre speso attivamente in solidarietà con chi ha affrontato le difficili condizioni di vita e di lavoro lottando a testa alta, con dignità, e lo ha fatto portando il suo contributo davanti ai cancelli delle ditte, negli incontri pubblici e scrivendone raccontando i fatti guardandoli dalla parte opposta a quella degli amministratori delegati, dei compiacenti personaggi della politica locale e delle truppe in assetto antisommossa (che non possono lamentare carenza di lacrimogeni). Lo ha fatto su Carmilla e su altre testate, così come sulle pagine dei suoi romanzi che, pur essendo opere di finzione, in filigrana hanno saputo raccontare della vita agra di tanti e tante.

Ci sarà modo di tornare sulla questione, intanto occorre dire che se la sua colpa è quella di raccontare la quotidianità posizionandosi dalla parte degli sfruttati, allora come redattori e redattrici di Carmilla siamo orgogliosi della presenza di Giovanni in redazione.

 

]]>
Pizza e coscienza di classe https://www.carmillaonline.com/2019/09/15/pizza-e-coscienza-di-classe/ Sat, 14 Sep 2019 22:01:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54670 di Giovanni Iozzoli

Arriva Anastasia, con la sua sobria pacatezza di giovane madre di famiglia – un filo di accento moldavo che sguscia tra le consonanti, mentre ringrazia la platea – e prende il microfono. L’ha già fatto tante volte, in queste settimane, è diventata disinvolta nel parlare in pubblico – non l’avrebbe mai creduto possibile un po’ di tempo fa, come molte altre cose. In pochi minuti racconta alla cinquantina di persone presenti, della sua esperienza lavorativa dentro lo stabilimento di un rinomato marchio modenese del “food” – la pressione dei turni impossibili, la fatica del lavoro, i guadagni così [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Arriva Anastasia, con la sua sobria pacatezza di giovane madre di famiglia – un filo di accento moldavo che sguscia tra le consonanti, mentre ringrazia la platea – e prende il microfono. L’ha già fatto tante volte, in queste settimane, è diventata disinvolta nel parlare in pubblico – non l’avrebbe mai creduto possibile un po’ di tempo fa, come molte altre cose. In pochi minuti racconta alla cinquantina di persone presenti, della sua esperienza lavorativa dentro lo stabilimento di un rinomato marchio modenese del “food” – la pressione dei turni impossibili, la fatica del lavoro, i guadagni così striminziti da creare sospetti nel marito, che vedeva la sua busta paga e diceva: ma lavori davvero? Anastasia è un’addetta di linea alla preparazione delle decine di migliaia di pizze che, surgelate e confezionate, vengono esportate ogni giorno ai quattro angoli del globo dall’azienda, leader europea del settore. Non ha imparato i trucchi delle retoriche da assemblea, non ce n’è bisogno quando parli della tua vita, delle tue verità. Racconta di sé, della loro dura lotta, degli scioperi, dei licenziamenti, della repressione e conclude il suo intervento senza grandi proclami, dicendo semplicemente: “adesso hanno capito che io sono Anastasia!” Ed è palesemente soddisfatta, mentre rilascia all’assemblea questa affermazione apparentemente poco significativa.
Io sono io. Certo, chi altro volevi essere? Potrebbe suonare criptica, buffa o surreale.
Invece tutti applaudono. Tutti hanno capito perfettamente cosa voleva dire Anastasia.

Prima che cominciassero le lotte alla Italpizza, lei era un ingranaggio invisibile e anonimo di quella grande impresa, dipendente, tra l’altro, di una cooperativa in appalto interno, perennemente schiacciata tra le rigidità degli orari, le esigenze domestiche, il malessere di un lavoro malpagato e mal vissuto. Forse il caposquadra non ricordava neanche che si chiamasse così, Anastasia: la sua mansione, la sua busta paga, il suo contratto “multiservizi”, tutto serviva a ricordare alla signora (extracomunitaria) che lei era un elemento infimo, sostituibile, intercambiabile. Che come lei ce n’erano migliaia in attesa davanti ai portoni degli stabilimenti: siete fortunati se avete un lavoro – questa scritta in ferro battuto dovrebbe troneggiare sui cancelli elettronici delle ditte, promemoria perenne a cui educare la moderna classe operaia, senza neanche il bisogno di raccontare perverse bugie sul fatto che il lavoro rende liberi.

Poi succede qualcosa nelle vite delle persone e delle aziende – una vertenza aperta, alcuni mesi di scioperi, botte, denunce, sulfumigi quotidiani a base di lacrimogeni, interviste (chi aveva mai parlato con un giornalista??), analisi di contratti scaduti e ipotesi di accordi, tavoli e riunioni in prefettura: e così l’operaia delle pizze realizza una qualche verità ineffabile, sottile, circa se stessa e il suo stare al mondo. All’inizio le sfugge, questa consapevolezza, è solo una del gruppo di donne che ha deciso di rivendicare un contratto adeguato e qualche soldo in più. Ma poi capisce che c’è anche altro in gioco. E dopo settimane che valgono come anni, oggi riesce disinvoltamente a prendere la parola in un assemblea pubblica, davanti a gente che non conosce, per dire serenamente: “io sono Anastasia”. Rivendicazione altissima, quasi estrema.
“Sono Anastasia”. “Non sono quella della linea 2”. “Non sono lavoro morto, non sono neanche lavoro vivo”: manganellate e gas hanno realizzato la combinazione alchemica, l’illuminazione – “sono Anastasia, lo sono sempre stata, solo che me ne ero dimenticata, perché tra l’affitto, la rata dell’asilo, le minacce del capoteam, tutto il mondo mi aveva istruito da sempre alla sottomissione di classe, da quando ero piccola, giù al mio paese e avevo dimenticato l’essenziale”. Rivendica, più che un contratto da alimentarista, il dato semplice e nudo della sua irriducibile umanità, della sua singolarità. “Sono Anastasia, una persona, sono una cosa complessa, esplosiva, da maneggiare con cura ed estremamente preziosa: cioè l’esatto opposto di come mi vedete voi, una insignificante farcitrice incuffiata (matricola Inps 41346)”.

Quelle come Anastasia hanno doppiato il capo di Mala Speranza, nel giro di un paio di generazioni: i suoi genitori sono scappati dalla bancarotta del socialismo reale per approdare carichi di easpettative nel paradiso occidentale venduto dalle Tv commerciali; e qui i figli sbattono il grugno contro il capitalismo reale, chiedendosi dov’è l’errore, cos’è che non capiscono, perché l’Eden è pieno di buche, di trappole, di merda; e reimparano le parole-tabù del lessico rimosso dopo l’89, nei loro luoghi d’origine – i padroni, la giustizia sociale, lo sciopero – proprio come chi esce dal coma deve ricominciare a sillabare con pazienza.

Ai cancelli degli stabilimenti della logistica o dell’agroalimentare, nei picchetti e durante gli scioperi, capita spesso di sentire lavoratori egiziani, ghanesi o bengalesi, che scuotono la testa increduli e dicono: non pensavo che da voi fosse così. Vengono da realtà dure, socialmente difficili, eppure sono stupiti delle bastonate della polizia italiana, dall’uso spropositato dei lacrimogeni, dagli alambicchi truffaldini ai tavoli di trattativa, dalle denunce, dalle minacce sui rinnovi dei permessi di soggiorno, dalla facilità con cui si imbrogliano i dipendenti, si ruba il TFR, si elude il fisco. Sono meravigliati da quanto siano labili ed elastici i confini del presunto “primo mondo”: anzi, da come i sistemi siano intrecciati, connessi, sovrapponibili – e il terzo mondo dei diritti può cominciare nel reparto logistica o nel rione in fondo alla strada. Non nutrivano attese puerili o messianiche, sull’occidente, ma erano convinti che qui, in qualche modo, si giocasse pulito: che la polizia non fosse smaccatamente al servizio dei ricchi, che gli operai non fossero numeri e che il lavoro fosse mortificato o spremuto o sfruttato, solo nei paesi dagli assetti sociali primitivi o premoderni. C’è da interrogarsi sull’immagine che l’Occidente offre di sé, ai popoli del mondo, anche in relazione all’intensificarsi frenetico dei flussi migratori: le nostre pay tv, le nostre fiction, il nostro star system, raccontano di un mondo in cui è stata bandita la fatica, l’insuccesso, un regno delle pari opportunità in cui tutti possono competere e raggiungere la piena felicità materiale – oasi di progresso, libertà, uguaglianza. Praticamente, l’opposto di ciò che siamo realmente.

Perciò è così rivoluzionaria e solenne, quasi una dichiarazione d’indipendenza, quell’affermazione: “io sono Anastasia” – c’è tutto un disvelamento, una conquista per niente scontata, un approdo faticoso, dietro quelle parole. Non è ancora l’assimilazione di un’ideologia – cioè di una concezione compiuta del mondo. Ma è già un cambio di immaginario, uno scarto significativo del modo in cui una persona guarda se stessa, la sua relazione con gli altri e con quella cosa oscura e gelatinosa chiamata società.

Già, l’immaginario. Lo tiriamo in ballo in continuazione e lo diamo sempre per scontato – anche se, per la verità, ognuno lo definisce a suo modo. L’immaginario è “quella cosa là”, che sta “sotto” il cielo statico delle ideologie e sopra il flusso caotico e schizoide della connessione permanente – e interagisce con entrambe le dimensioni. È una regione misteriosa e lussureggiante, fatta di simboli, segni, codici, visioni, un non luogo dove si formano le griglie attraverso cui interpretiamo e ordiniamo la nostra esperienza del mondo.

Quando sei totalmente succube, ricettivo, ubbidiente e passivo rispetto ai valori odierni – al feroce esprit du temps – quella regione diventa un deserto di desideri frustrati, aspettative irrealistiche e fuorvianti, inadeguatezze, speranze, odio competitivo. Quando invece Anastasia comincia a interrogarsi sulle sue pizze, sul suo contratto, sulla sua condizione di madre lavoratrice, sulle sue ragioni e la sua rabbia, sull’assurdità di un sistema in cui devi farti bastonare per rivendicare un minimo di legalità, allora il suo immaginario comincia ad aprirsi, esce dalle ristrettezze del micro mondo familiare, dal solipsismo del consumatore povero: vede se stessa in un altro modo, comincia ad essere orgogliosa di quello che capisce e che fa, vorrebbe spiegarlo al figlio (ma è ancora piccolo), vorrebbe coinvolgere sempre più i colleghi – spesso le mancano le parole, per esprimere quella nuova ricchezza. Magari le torna in mente un vecchio film che parlava di scioperi, oppure i racconti di suo cugino che lavora in una fonderia nella Ruhr; opera connessioni in autonomia, formula domande sempre più complesse: abbozza a se stessa delle prime spiegazioni. Anche se farcisce le pizze e guadagna 750 euro al mese, adesso sente di non essere una sfigata, è consapevole della ricchezza di cui è portatrice – e soprattutto ha capito di non essere sola. Le viene in mente che la vita forse non è solo sfangare il fine mese, pagare le bollette, curare la famiglia e sperare in un po’ di salute: forse c’è altro, un respiro più ampio e ardito, la solidarietà degli sconosciuti che vengono a stringerti la mano ai presidi, c’è la soddisfazione di contare, pesare, spiegare anche al sindaco o ai politici che “sei Anastasia” e che da oggi bisognerà fare i conti anche con te – e c’è la coscienza che sembra allargarsi, espandersi, quasi affamata di conoscenza. Il mondo non è come te lo avevano raccontato. “Elevazione spirituale della classe operaia” – così recitavano i bignamini di formazione marxista. Si può aggiornare il vocabolario, ma ancora lì siamo, dentro quello sforzo necessario di educazione ed autoeducazione.

Quando Anastasia, e quelli come lei, ai cancelli dell’Italpizza o davanti a magazzini, centri commerciali, stabilimenti, prendono la parola – e lo fanno non solo con la voce, ma anche e soprattutto attraverso i loro corpi – stanno realizzando un piccolo miracolo laico. Un atto di fede in se stessi e nel futuro – e come ogni fede, comporta l’assunzione di doveri e rischi. Conquistare la responsabilità della scelta. Uscire dalle linee di produzione. Staccarsi dal nastro, rendersi autonomi dalla macchina e dal logaritmo, sottrarsi alla quantificazione della prestazione ma soprattutto alle retoriche minacciose dell’aziendalismo, ai suoi ricatti o alle sue lusinghe paternalistiche.
La cosa interessante è che, attraverso la voce di chi lotta, in qualche modo, prendono parola anche gli altri: i crumiri, i fidelizzati, i complici, i rassegnati, gli sconfitti, quelli che durante gli scioperi entrano a testa bassa da un cancello laterale. La voce di Anastasia qualifica e getta luce anche su quel silenzio triste – parla anche di loro, che non hanno il coraggio di negare la propria mortificante condizione di merce a buon mercato.

Cosa c’è adesso, dentro l’immaginario di Anastasia, dopo mesi di battaglia davanti a quei cancelli e una faticosa, contraddittoria vittoria sindacale? La lotta cosa cambia, quale chimica, quali meccanismi innesca dentro la biografia di un individuo? Scoprirsi corpo collettivo deve essere esaltante e pauroso. Forse inizia a germogliare un barlume di consapevolezza circa l’appartenenza a un movimento storico, lento, ineluttabile, di emancipazione dell’umano dal lavoro salariato: la tua piccola vita acquista un valore luminoso, diventa un microscopico episodio di quella prometeica lunghissima marcia.

La mobilitazione all’Italpizza non è finita, è solo entrata in una fase nuova. Qualche settimana fa l’azienda è stata piegata – dalla lotta, solo dalla lotta – alla firma di un accordo complesso, pieno di ombre e criticità: che però contiene la reinternalizzazione di massa di buona parte dei lavoratori degli appalti interni. Quindi: non era vero che la precarietà è inevitabile, che è modernità, è necessità oggettiva. Quando i padroni cominciano ad aver paura, il senso della storia diventa reversibile, si aprono mille scenari, i rapporti di potere forzano e ridisegnano i confini del possibile. Ogni progresso, in fin dei conti, si fonda sulla paura.

Intanto è necessario che le parole di Anastasia escano dalla linea 2 del reparto farcitura, arrivino al confezionamento, alle spedizioni, alle celle frigorifere: e poi via, fuori, negli stabilimenti scalcagnati e nelle vetrine prestigiose dell’industria 4.0, verso le ciurme precarie di ogni colore e di ogni risma; giungano alle orecchie scettiche e pacificate dei lavoratori diretti, degli pseudo garantiti; fino ad arrivare all’attenzione dei giovanottini in camicia bianca che entrano adesso nelle nuove fabbriche integrate, nelle nuove mansioni massificate del lavoro tecnico-intellettuale, più o meno disarmati di storia e diritti, come lo erano le farcitrici di pizza fino a pochi mesi fa.

]]>
Manganelli quattro stagioni. Capitolo II – Il Mostro di Modena https://www.carmillaonline.com/2019/06/27/manganello-quattro-stagioni-capitolo-ii-il-mostro-di-modena/ Thu, 27 Jun 2019 21:00:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=53468 di Giovanni Iozzoli

In un’escalation micidiale, preoccupante ed esaltante, la lotta ai cancelli dell’Italpizza sta continuando giorno dopo giorno – sotto le piogge dispettose di maggio come sotto il caldo torrido e spossante di questo fine giugno. Ormai da mesi, i bravi cittadini modenesi – almeno quelli non abituati a girare sempre la testa dall’altra parte – stanno assistendo a un crescendo di cariche poliziesche, pestaggi e lanci di lacrimogeni, sparati addosso – principalmente – a donne armate solo della loro tenacia, che cercano di strappare a questa azienda perla dell’agroalimentare italiano, condizioni [...]]]> di Giovanni Iozzoli

In un’escalation micidiale, preoccupante ed esaltante, la lotta ai cancelli dell’Italpizza sta continuando giorno dopo giorno – sotto le piogge dispettose di maggio come sotto il caldo torrido e spossante di questo fine giugno. Ormai da mesi, i bravi cittadini modenesi – almeno quelli non abituati a girare sempre la testa dall’altra parte – stanno assistendo a un crescendo di cariche poliziesche, pestaggi e lanci di lacrimogeni, sparati addosso – principalmente – a donne armate solo della loro tenacia, che cercano di strappare a questa azienda perla dell’agroalimentare italiano, condizioni un minimo dignitose di vita e di lavoro: perché in questi tempi cupi, la divisione sindacalese tra contrattazione “acquisitiva” e “difensiva” non esiste più – nelle aziende spesso si lotta per sopravvivere, per strappare al padrone qualche centesimo in più di paga oraria, il diritto alle pause, ai bagni, al non essere considerata merce disponibile 24 ore su 24. E la sproporzione drammatica tra la quantità di lotte necessarie e la qualità modesta delle rivendicazioni, dà la cifra dello sprofondamento di questo paese di merda nel suo passato più regressivo.

Il sindaco – appena rieletto – tifa per l’azienda, così come la stragrande maggioranza del quadro politico e dei mezzi di informazione. La Cgil si è impantanata in un tavolo che le porterà solo ulteriore discredito e perdita di iscritti dentro quel sito. Ogni giorno un reparto di energumeni in divisa, bardati come se andassero in missione all’estero, attacca questi presidi sostanzialmente indifesi: ad animarli sono cobas, sono stranieri, sono donne – la loro incolumità e la loro fedina penale vale poco, sul mercato della cittadinanza in cui tutti noi, oggi, siamo pesati per censo e potere sociale – nella modernità “castale” che caratterizza le nostre società. Associazioni come Non una di meno, Case del Popolo, comitati per il boicottaggio di Italpizza, realtà di base, delegati sindacali del territorio – chi può sta cercando di esprimere solidarietà a questa cruciale battaglia popolare: il resto di quel che residua della famosa “società civile” (di cui fino a qualche anno fa si favoleggiava ampiamente, insieme all’altra chimera: il ceto medio riflessivo…), tace e acconsente, dando ormai per scontato che il mercato del lavoro debba essere strutturato a gironi – come l’inferno dantesco – e che sia necessaria e fisiologica per il funzionamento del sistema, una massa – crescente – di neoschiavi “multiservizi” (com’è denominato il loro contratto prevalente).

La tensione sta salendo, dicevamo. Il caldo torrido, la disperazione, gli scioperi che falcidiano stipendi già miserabili. Ormai è in gioco la dignità: le persone hanno fatto quel famoso “scatto” che trasforma i mesi in anni e fa crescere la coscienza di sé oltre la miseria della propria condizione di merce. L’atmosfera è quella che è, pesante, acida. Ci si butta davanti alle ruote dei camion. Si è storditi dai fetentissimi gas CS, si ruzzola sul tappeto di lacrimogeni che ormai nessuno raccoglie più, come fossero un arredo stradale. Basta poco. Forse il 14 settembre del 2016, davanti alla GLS di Piacenza, il clima era anche migliore di quello che si registra oggi all’Italpizza; probabilmente nessuno si aspettava quello che successe quella mattina piena di luce padana. Ahmed Abdel Salam, nel corso di un presidio davanti a quell’obbrobrio di capannone grigiastro, fini sotto le ruote di un Tir che stava cercando di bypassare i manifestanti schierati davanti ai cancelli, per portare fuori il suo preziosissimo carico di cianfrusaglie e salvarlo da quell’embargo dei poveri che è il picchetto operaio. E quando ci scappa il morto, tutti – dopo – corrono a prendere posizioni responsabili e pacificatrici: inni al dialogo, recriminazioni, associazioni datoriali costernate, solenni denunce sindacali, ispezioni ministeriali. Ecco, sulla vicenda Italpizza oggi – chi vuole, chi se la sente, chi ha ancora un po’ di sangue nelle vene o di coraggio civile o di consapevolezza del suo ruolo se fa il sindacalista, o anche se è un semplice cittadino che non si rassegna al ruolo assegnatogli di pubblico televisivo e platea elettorale – ebbene, sulla vicenda Italpizza, dicevamo, facciamo in tempo a parlare prima che il sangue operaio bagni l’asfalto come successe a Piacenza tre anni fa.

Non è scontato lo schieramento. Il nemico è solido. L’azienda è agguerrita, attrezzata, unge molte ruote, cura i rapporti con la stampa, gestisce finte informatissime pagine Facebook che incitano al crumiraggio e all’ostilità antioperaia. E la Questura è criminalmente determinata a fornire la sua manovalanza al servizio del padrone – e queste cose, si sa, sono decise a Roma, perché quando Salvini parla di sicurezza è precisamente della sicurezza delle tante Italpizza d’Italia, che si preoccupa, altro che i barconi. Quindi, la partita a San Donnino è cruciale, di sicuro spessore nazionale, di valore esemplare – sui temi degli appalti interni e dell’assetto del mercato del lavoro italiano. Si può provare a farlo diventare davvero un terreno ricompositivo, generale, per tutti quelli che in questo lungo anno di governo hanno arrancato nel tentativo di capire qual è il “punto d’attacco” con cui contrastare l’esecutivo gialloverde: Salvini è lì, dietro le inferriate di Italpizza, ci sta sfidando, ci fa ciao con la manina, ci invita a giocarcela fino in fondo. Sa che fino a quando le operaie e gli operai di Italpizza restano soli, il suo Governo non deve temere nulla – perché vuol dire che il paese è ancora in stato neurovegetativo, che nessuno potrà scuotere il laido consenso di cui gode.

Qualche giorno fa, un docufilm realizzato e trasmesso da Sky – Il Mostro di Modena – ha rilanciato in città la memoria di un presunto serial killer che agì sul territorio negli anni ’80 e poi sparì nel nulla, ignoto e impunito. Il prodotto è risultato di grande qualità e ha coinvolto molto l’opinione pubblica, che aveva rimosso quelle antiche storie. Chi ci pensava più, al Mostro di Modena?Suggestionato da questa visione televisiva, il nuovo Capo della Procura Giovagnoli, ha chiesto alla sua polizia giudiziaria di tirare fuori i vecchi faldoni delle inchieste di 35 anni fa, per verificare se sussistano oggi elementi utili per riaprire le indagini sul Mostro.

Certo, con la folla di mariti e fidanzatini assassini che continuano a “mostrificare” gli ambienti familiari, seminando morte e violenza, l’idea di questo vecchio serial killer in circolazione non spaventa più nessuno. Anche su quel terreno, ne abbiamo fatta di strada. Però viene da chiedersi: se basta un programma televisivo a riattizzare gli interessi della Procura su vecchie tragedie, perché non proviamo a spedire a Giovagnoli almeno una parte delle molte inchieste giornalistiche (anche televisive) che hanno raccontato in questi anni il distretto carni, la filiera agroalimentare e altre velenosissime specialità in salsa emiliana? Perché non gli mostriamo il racconto drammatico e rabbioso delle vite piegate e spremute di migliaia e migliaia di operai e di operaie che lavorano nella vetrina dell’eccellenza emiliana, ricavandone meno del minimo vitale? Se basta la visibilità televisiva, per occuparsi dei crimini, i “mostri” dell’imprenditoria modenese – quelli che stanno forgiando un nuovo perverso “modello emiliano” – hanno già accumulato un bel po’ di meriti e celebrità. Già, mentre cerchiamo di scovare i fantasmi dei vecchi killer della nostra memoria, cerchiamo di chiederci: chi sono oggi i nuovi Mostri di Modena? Chi ci sta uccidendo, lentamente, ogni giorno, corrompendoci e assuefacendoci alle sue brutture e alle ragioni dei suoi profitti?

Manganelli quattro stagioni – Cap. I

 

]]>
Manganelli quattro stagioni https://www.carmillaonline.com/2019/06/01/manganelli-quattro-stagioni/ Sat, 01 Jun 2019 21:30:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52849 di Giovanni Iozzoli

La pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di mani sapienti et voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come modello di una qualità riconosciuta nel tempo.

Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza, orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché [...]]]> di Giovanni Iozzoli

La pizza e il fascismo sono due esempi dell’estro inventivo degli italiani. Entrambi prodotti poveri – un po’ di farina, mozzarella e pomodoro; un po’ di agrari, reduci e sottoproletari –, il condimento di mani sapienti et voilà: la creatività italiana si esporta in tutto il mondo, diventa tradizione, diventa trend. Il “Made in Italy” come modello di una qualità riconosciuta nel tempo.

Da alcuni mesi, dentro una grande industria modenese, la Italpizza, orgoglio del territorio e del nostro export, la continuità produttiva è assicurata da un reparto celere messo cortesemente a disposizione dell’azienda. Il presidio poliziesco pressoché permanente, il sistema sanzionatorio, la sicurezza interna e un clima pre-bellico, rendono Italpizza un’azienda sostanzialmente militarizzata, come capita alle industrie strategiche in tempo di guerra. Gas tossici, mazzate, denunce, gipponi lampeggianti, provvedimenti disciplinari, licenziamenti. Tutto questo non avviene in una maquiladora messicana; e neanche nelle campagne brumose che nascondono arretrate microimprese “old manners”. Siamo a Modena, poco lontano dal centro, lungo un asse viario strategico che risulta spesso bloccato dalle cariche poliziesche o dai blocchi dei manifestanti: gli automobilisti, nei momenti peggiori devono tirare su i finestrini per evitare che il gas CS entri negli abitacoli. Sullo sfondo, ben visibile dalla strada, il grande marchio Italpizza svetta su uno stabilimento moderno e blindato, in cui in passato politici e amministratori hanno fatto spesso visite devote.

Insomma, tutti sanno quello che sta succedendo in località San Donnino, tutti sono consapevoli di questo bizzarro segno dei tempi: un’azienda che da mesi resta aperta e fa uscire i suoi prodotti, solo perché decine di robocop mascherati, bastonano e gasano una parte del personale che sciopera e picchetta.

La storia dell’organizzazione del lavoro in Italpizza è tristemente comune: circa 600 dipendenti, di cui solo 80 assunti direttamente; il resto tutti precari in capo a un paio di pseudo cooperative riconducibili alla proprietà; ritmi, turni, orari massacranti decisi in modo unilaterale dal committente, sottoinquadramento contrattuale (contratti delle pulizie for ever) che garantisce risparmi anche del 40% sui costi del lavoro vivo. Vivo e povero.

Italpizza, come da tradizione marchionnesca, decide unilateralmente chi sono gli interlocutori sindacali, in un gioco a geometrie variabili, che comunque lascia fuori qualsiasi rappresentanza che metta in discussione i suoi interessi. Queste pratiche accumulano un enorme ammontare di elusione fiscale e contributiva (già 700.000 euro sono stati comminati dagli organi ispettivi), ma queste sanzioni sono evidentemente messe nel conto dall’azienda, come altrettante multe per divieto di sosta .

Italpizza sta diventando metafora del modello emiliano 4.0: uffici stampa, presenza social, adesione a tutti i blandi protocolli che rimandano a una qualche memoria concertativa nella ex Emilia rossa. E operai sfruttati, precarizzati, mortificati e gestiti manu militari. In sovrappiù l’azienda si permette anche di disertare una convocazione presso il Ministero del Lavoro, perché non gradisce al tavolo la delegazione Cobas: una specie di dichiarazione d’indipendenza dalle vecchie pastoie sottogovernative, una rivendicazione dell’autonomia del comando d’Impresa. Abbiamo il grano, i programmi di investimento, gli accordi sul piano regolatore: non rompete i maroni sulla forza lavoro – quella è roba nostra. Per un sottosegretario Cinquestelle che convoca tavoli, c’è un sottosegretario leghista che manda la polizia. È il governo dei tempi moderni.

Centinaia di ore di sciopero, centinaia di candelotti lanciati addosso ai presidi, decine di cariche, un numero indefinito e crescente di denunciati, secondo le regole del nuovo Decreto Sicurezza.

Il bello è che i lavoratori in agitazione – spesso donne e straniere – stanno solo chiedendo la corretta osservanza di leggi e norme: l’applicazione del giusto contratto collettivo, un minimo di confronto sulla prestazione. Insomma: i bastonati/gasati/denunciati stanno oggettivamente difendendo il feticcio della legalità borghese, mentre l’imprenditore e gli organi polizieschi, garantiscono ogni giorno la reiterazione del reato – con un enorme investimento di spesa, peraltro, a carico del contribuente (anche dei mazziati, evidentemente). Ecco il genio italico in azione: la Giornata della Legalità in prima pagina e nel contempo l’esibizione pubblica e muscolare dell’Impunità d’azienda.

Si dice in giro che il gigante Italpizza (120 milioni di fatturato esportazioni in 55 paesi del mondo) per difendere il privilegio di fare quello che gli pare, olii generosamente la politica e la stampa: sponsorizzazioni, inserzioni, piani di sviluppo scritti di concerto all’amministrazione, una fama “democratica” che traballa ma gode ancora di solidi supporti politici. Gente organizzata, insomma – non i pirati della logistica con le loro cooperative spurie. Dio solo sa come abbiano convinto la Questura a mettersi sostanzialmente a disposizione dell’azienda come una qualsiasi agenzia di guardie giurate – non solo, immaginiamo, con sostanziose donazioni alla Befana della Polizia, ma anche grazie alla consapevolezza che a quei cancelli si gioca una partita importante sulla rappresentanza e sui diritti: e che, su questo crinale, è meglio che le truppe armate dello Stato diano una mano agli intrepidi esportatori di pizza e alla benemerita opera di modernizzazione che stanno promuovendo.

Come potremo definire questa allucinante quarta dimensione del degrado italiano, questa metafora dell’eccellenza che ha, come al solito, nell’enorme moloch post-moderno del “food” il suo terreno originale di coltura? “Pizza e Fascismo”, sarebbe una buona sintesi?

Oggi “l’antifascismo”, soprattutto nei periodi di fibrillazioni pre-elettorali, conosce rinnovati momenti di gloria: l’Espresso e Repubblica in testa, si sbracciano per evocare il pericolo rappresentato dai gruppuscoli di destra, ne raccontano con raccapriccio e sincero sdegno democratico le gesta e i canali di finanziamento, ne ingigantiscono il peso e il profilo (vedi le incursioni anti-rom nei quartieri romani raccontati come l’invasione dei mongoli secondo un format mediatico ormai collaudato). Si sa che questa esaltazione del “fascista all’attacco” è funzionale alla costruzione di ipotetici “fronti antisovranisti” – ormai è un giochino svelato. Questi antifascisti della tredicesima ora, nel calduccio delle loro redazioni, non colgono (o colgono fin troppo bene) l’essenza dei tempi: il fascismo vero oggi è rappresentato dai reparti celere che sparano gas lacrimogeni addosso ai lavoratori che presidiano sindacalmente la loro azienda; altro che Casapound e simili utili idioti – di volta in volta legittimati o mostrificati alla bisogna.

I nuovi assetti di potere stanno manifestando, oggi, un approccio pragmatico, moderno, assolutamente estraneo alla demagogia sulla “cacciata dello straniero”, buono solo per le campagne elettorali – ma poco utile nelle campagne del foggiano o del crotonese, dove lo schiavo nero è alla base della filiera agroalimentare. Nessuno li vuole cacciare, quello che si vuole è la loro sottomissione, l’invisibilità sociale, il disciplinamento nelle loro funzioni: a spennellare pizze o pulire cessi (tanto il contratto è lo stesso). Il razzismo, la xenofobia “der popolo” è solo folclore. La forza lavoro è petrolio: si è mai visto qualcuno gettarlo via? Bisogna solo saperlo incanalare nelle tubature giuste. È fascismo, questo? È post-fascismo? Pre-fascismo? Lo leggeremo sui libri di storia. Intanto la polizia e la magistratura italiana stanno dando il loro contributo al dibattito, attraverso una stretta repressiva silenziosa, infame e implacabile, che conosce pochi precedenti. Purtroppo avremo il tempo di riflettere ed elaborare, circa questo nuovo stato delle cose.

Per il presente, ricordiamo a noi stessi che il manganello sulla schiena operaia è l’essenza del fascismo, quello metastorico, che attraversa le epoche: oltre le mitologie, le coreografie, le estetiche decadenti o virulente, il fascismo è fatto sempre degli stessi genuini ingredienti di una volta: il contrasto alla lotta di classe, il sabotaggio degli scioperi, il crumiraggio organizzato, il disciplinamento della forza lavoro, la bastonatura di chi mette in discussione le gerarchie di classe.

Tutta roba semplice, cose di una volta. Come gli ingredienti della pizza.

]]>