Israele – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 24 Dec 2024 23:01:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il tempo del genocidio https://www.carmillaonline.com/2024/11/15/il-tempo-del-genocidio/ Fri, 15 Nov 2024 22:40:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85392 di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente [...]]]> di Edoardo Todaro

 

Samah Jabr, Il tempo del genocidio, Ed. Sensibili alle foglie, 2024 pag 152 € 13

Dopo “ DIETRO I FRONTI “ e “SUMUD”, le edizioni Sensibili alle foglie ci porta, attraverso Samah Jabr con “ IL TEMPO DEL GENOCIDIO “, dentro ciò che l’entità sionista sta compiendo nei confronti del popolo palestinese. Dire che quanto avviene è un qualcosa di mai accaduto prima, che ci fa restare frustrati ed inadeguati, che non possiamo accettare che ancora qualcuno possa dire :“non lo sapevo”; dire:“cos’altro deve accadere per scuotere la coscienza collettiva?”; voltarsi dall’altra parte, tutto questo è certamente giusto. 

Allo stesso tempo leggere il contributo di Samah ci rende ancor di più consapevoli del fatto che la solidarietà internazionale verso i palestinesi è quanto mai necessaria ed indispensabile; che la solidarietà verso il popolo palestinese è terapeutica  per tutti noi, è un imperativo morale ed etico, che la loro resistenza  è sostegno ed aiuto anche per noi, e coniugare questi due aspetti può essere un percorso proficuo per mettere fine alla più lunga e sanguinosa occupazione attualmente in corso, la solidarietà rende i palestinesi consapevoli del non sentirsi soli.

La solidarietà ha un potere curativo reciproco.  L’essere impegnata nel campo della psichiatria, Samah dirige l’unità di salute mentale del Ministero della Sanità palestinese, fa sì che quanto descritto sia inserito in un contesto storico di quanto avviene. Se vi è ancora bisogno di capire che quanto ci viene raccontato dalla propaganda di guerra: “tutto è iniziato il 7 ottobre” è pura demagogia utile solo a far schierare l’opinione pubblica a sostegno dell’entità sionista delle complicità occidentali, leggere “Il tempo del genocidio” ci permette, con una descrizione lucida, di valorizzare ulteriormente il perché ci schieriamo da una parte, quella di chi non accetta di vivere da schiavi e si ribella, nonostante che Gaza venga lasciata morire. Poco sopra dicevo della sua descrizione lucida, ma mi sento di aggiungere che niente concede. Lei, del ministero della sanità palestinese, non si sottrae, con un notevole pensiero critico, al criticare quanto di negativo si annidi all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese, dall’illusione degli accordi di Oslo alla conseguente delusione,  e del vivere quotidiano in Palestina, con il patriarcato, il sessismo, andando al di là dell’occupazione. Un popolo, quello palestinese, che è stretto tra il sopravvivere e la resa all’oppressore. Samah è ben cosciente del suo contributo alla lotta di liberazione e del volerne dare mano.

Samah ci rende chiaro, in tutto e per tutto, cosa significhi Gaza: una prigione a cielo aperto con le sue infrastrutture deteriorate, le strade distrutte, gli spazi abitativi sovraffollati, la povertà, l’anemia, l’insicurezza alimentare, l’assenza di carburante, di elettricità, di assistenza sanitaria, dove dire: “non ci sono luoghi sicuri” è la normalità e nei volti di chi sta sopravvivendo è fotografata la schiavitù moderna, dove si va accentuando il consumo di droghe e l’abbandono scolastico con tutto ciò che comporta, i suicidi in aumento e la perdita di un positivo desiderio tra i giovani. Samah usa la lente della psichiatria per leggere lo stato d’animo degli oppressi, mette mano a Fanon, entra dentro i meandri della salute fisica e mentale dei palestinesi, quello che i palestinesi vivono è un trauma psicologico e collettivo che è il risultato di decenni di oppressione, di violenza, umiliazione, ingiustizia. Detto questo, ovviamente  Samah non può non riconoscersi nel diritto di un popolo occupato a resistere. Un diritto sia legale dal punto di vista della legge internazionale e sia un diritto umano basilare, perché dove c’è oppressione ci sarà sempre resistenza. A proposito di resistenza, Samah evidenzia il significato dello sciopero della fame portato avanti dai prigionieri politici palestinesi come ultimo tentativo di opporsi alla sopraffazione.

L’aspetto che più dobbiamo far emergere dalla lettura di queste pagine, e lo vediamo in questi lunghissimi mesi, è che i palestinesi non si considerano assolutamente vittime ma soggetti attivi e combattenti per la libertà, terminologia che piacerà sicuramente agli statunitensi come il passato ci insegna. Quanto avviene in Palestina non è la «guerra» che ci viene propinata, ma bensì la guerra alla storia palestinese, è parte della guerra alle menti, la continua, e per certi versi silenziosa pulizia etnica per riscrivere la storia. Non è un caso che l’occupazione scelga di distruggere i simboli  che sono psicologicamente importanti per la resistenza e la memoria collettiva, in un odioso tentativo di memoricidio.

Ma l’occupazione non fa uso solo di questo; la fame come arma di guerra; la distruzione delle infrastrutture essenziali, del sistema sanitario, la carestia per compromettere lo sviluppo mentale e fisico dei bambini, le sepolture negate come arma psicologica per immettere una sensazione di impotenza in coloro i quali la subiscono, il sopravvivere che se può sembrare un qualcosa di positivo, in realtà è un qualcosa che trasmette profondo disagio psicologico; la tortura, attraverso le finte fucilazioni, la detenzione in condizioni umilianti e degradanti, la privazione del sonno ecc … con i traumi fisici e psicologici che trasmette per spezzare la resistenza  e creare impotenza,  far perdere la stima di sé e creare un clima di diffidenza all’interno della comunità di appartenenza, il bendare gli occhi non solo per non identificare i torturatori ma come deprivazione sensoriale creando, così, gravi problemi di salute mentale e conseguenze traumatiche de umanizzando la vittima; le punizioni collettive privando la popolazione dei beni di prima necessità.

Quanti immagini abbiamo visto in questi mesi che ritraggono gli occupanti in modalità festeggiante dopo aver compiuto molteplici nefandezze, ebbene non siamo in presenza di killer psicopatici ma bensì di chi prova piacere e/o gratificazione psicologica nel dare ad altri dolore e/o sofferenza. All’inizio abbiamo parlato del 7 ottobre, non potevamo non farlo visto il continuo, assillante martellante, propinare la narrazione di quel fatto; ma se vogliamo dare una corretta lettura di quei fatti, perché non dire che si è passati dall’umiliazione alla vendetta contro tutto ciò che è palestinese. Certo l’esempio è palestinese, ma la lezione non può che essere globale. Quanto avviene in Palestina è una lotta che non potrà che proseguire fino a quando la Palestina non sarà libera ed arrivare a far sì che le tendenze sadiche dell’occupante siano rimosse e trionfi l’umanità di coloro che lottano per la liberazione.

 

]]>
Sparse riflessione ferragostane https://www.carmillaonline.com/2024/10/10/sparse-riflessione-ferragostane/ Thu, 10 Oct 2024 20:40:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84730 di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della [...]]]> di Giacono Casarino

Una doverosa premessa per chi vorrà leggere questo testo, breve ma alquanto ruvido se non urticante: ci sono momenti, per lo più non cercati, in cui l’otium vede  precipitare  e prendere forma in un discorso compiuto frammenti di pensiero maturati in tempi diversi e che si predispongono e che chiedono una qualche forma di sistematizzazione.   Probabilmente  gli adepti del post-moderno cui ripugnano le “vecchie (?) ideologie” faranno fatica ad entrare in quest’ordine di idee: ad essi chiedo tolleranza (e perdono!). Rimarcando anche il fatto che io non intendo avventurarmi nell’esercizio sciocco delle previsioni, destinate alle facili repliche della storia, ma semplicemente  provo a mettere a fuoco fatti e tendenze difficilmente oppugnabili. Fatti e tendenze che mi paiono vistosamente assenti in quel poco di dibattito pubblico che possiamo riscontrare nel nostro Paese.

Il pessimismo della ragione

“Sentinella, a che punto è la notte?” Una domanda oggi più che mai angosciante,  tra il “vecchio” in affanno, ma che non muore,  ed il “nuovo” (un’alternativa di sistema) che tarda a profilarsi.

Del resto, in quanto a transizioni sistemiche, abbiamo alle spalle una pesante eredità di fallimenti o, meglio, di regressioni a forme, diverse, di capitalismo di Stato o di capitalismo tout court: persino laddove le condizioni soggettive erano più favorevoli  (la Cina di Mao carica  delle pulsioni egualitarie derivanti dalla “rivoluzione culturale”) si è registrata la sconfitta della “sinistra”.

Salvo pensare, come fanno non pochi illusi, che un’economia pianificata, meglio se gestita da un partito  comunista al potere,  sia sinonimo di socialismo.

En passant, come è stato che la classe operaia pretesa al potere, nell’ultima Unione Sovietica, si sia lasciata depredare fabbriche ed aziende senza colpo ferire?

Di fatto, la rottura storica dell’Ottobre ’17 ha realizzato una duplice eterogenesi dei fini: da una parte lo sviluppo economico (industria pesante) è stato provvidenziale, risolutivo nella guerra contro l’aggressione nazista, dall’altro, e su una più lunga lunghezza d’onda, è stato ispiratore delle lotte di liberazioni anticoloniali in tutto il mondo: su questo aspetto è stato  lungimirante il genio di Vladimir Lenin.

Anche a seguito del naufragio del “socialismo reale”, oggi l’umanità sembra avviarsi senza freno alcuno verso l’autodistruzione  vuoi per un ecatombe nucleare vuoi per un’inarrestabile, progressiva catastrofe climatica. Il movimento pacifista, vent’anni fa protagonista su scala mondiale, è annichilito, colpito ingiustamente, tra l’altro, dall’accusa di filoputinismo.

Quel che poteva convenzionalmente essere creduto come diritto internazionale, per quanto precario, è a pezzi; il potere regolatore dell’ONU annullato, sostituito artatamente dalla potenza, aggressiva in ogni continente, della NATO; l’Unione Europea sopravvive in quanto autolesionisticamente “sdraiata” sugli USA. L’assenza di un vero ordine internazionale è tale  che Israele può impunemente continuare nei suoi sistematici massacri del popolo palestinese, al limite del genocidio.

Tuttavia, a livello globale si manifesta la tendenza, contrastata dall’Occidente (in opposizione al “resto del mondo”),   verso il multipolarismo, agìto in particolare dai Paesi BRICS, che attuano nei loro scambi commerciali un processo di de-dollarizzazione, cioè di concreta contestazione  di una incontrastata egemonia non solo economica. Ovviamente un’alternativa di società è altra cosa.

La logica ineluttabile dell’accumulazione capitalistica confligge con la realtà di un “mondo finito”, della limitatezza di risorse naturali, non riproducibili: iato acuito  dall’accresciuta produttività assicurata dall’automazione  e dall’intelligenza artificiale. E’ come dire che la contraddizione capitale – lavoro, pur permanendo ed allargandosi, trascenda producendosi nella forma di una non più ricomponibile crisi ambientale, nel disastro.

Nel contempo un equilibrio quasi secolare connotato dall’egemonia USA (Bretton Woods) si è rotto, l’unipolarismo  imperiale è incrinato dall’emergere prepotente di nuovi centri ed economie-mondo: un passaggio lungo e tormentato quanto inevitabile che solo una guerra generalizzata può bloccare,  a spese dell’intero pianeta e a costo della sua rovina. Poiché la Cina è l’obiettivo vero e finale dell’offensiva occidentale, chi si augura una sconfitta della Russia in Ucraina  non si rende conto che essa può indurre quel Paese asiatico ad anticipare le mosse dell’avversario entrando direttamente in guerra a fianco della Federazione Russa.

La globalizzazione, oggi in crisi per ragioni geopolitiche di cui sopra, ha visto imporsi  a livello mondiale il modello neoliberista, onnipervasivo e tendenzialmente totalitario,  modello che ha ridefinito in senso fortemente individualistico il profilo dell’homo oeconomicus (la concorrenza purchessia come paradigma, variante  economico/politica del conflitto armato: vincitori e vinti, vivi e morti): da qui la privatizzazione dei beni comuni ed il venir meno dell’welfare. Di più il predominio della finanziarizzazione,  se da un lato espone il sistema mondiale a ricorrenti crisi speculative, dall’altro oscura, rende anonima l’identità, il volto del padrone di turno (fondi di investimento) rendendolo sfuggente ad un potenziale scontro di classe.

Sul piano delle forze politiche le vecchie discriminanti, come quelle in Occidente tra europeisti e sovranisti, sono ormai un ricordo del passato; nell’affermarsi delle democrature e della “società del controllo” la vecchia discriminante antifascista post-seconda guerra non può che cadere, l’estrema destra rientra dunque pienamente nel gioco politico, anche se con una postura di alternativa neo-reazionaria. Quando il declino di una società incombe, come è ora il caso degli Stati Uniti d’America, la collaudata alternanza di potere assicurata dal bipartitismo perfetto entra irrimediabilmente in crisi, tanto che l’auspicata vittoria presidenziale della democratica Kamala Harris non è pensabile possa avvenire senza gravi sconvolgimenti, al limite della guerra civile.

L’alternativa “socialismo o barbarie” sembra sciogliersi in maniera inequivocabile.

Nel tentativo di governare la spinta neoliberista e di addomesticarla in una “terza via” (Tony Blair), i due poli in cui classicamente si era diviso il movimento operaio, stalinismo e socialdemocrazia, entrambi inchiodati su un paradigma sviluppista, si sono degradati in social-liberalismo:  è il caso di dire, come in effetti è accaduto, simul stabunt vel simul cadent.

L’imperialismo persiste nella forma di economie di rapina nei confronti del Terzo e del Quarto Mondo (quasi una seconda accumulazione originaria?), anche se prosegue la tendenziale unificazione capitalistica del pianeta (l’Africa?) nel segno di un’altissima socializzazione del lavoro, segnata da una diffusiva economia della conoscenza e da una crescente produttività garantita dalle tecnologie, specialmente da quelle derivanti dalla rivoluzione informatica e robotica.

Nel contempo il lavoro precedentemente concentrato in grandi agglomerati di manodopera risulta ora spazialmente frantumato  e governato da algoritmi unilateralmente imposti e dunque di difficile controllo e contestazione; mentre riemergono forme di lavoro schiavistico, permane il lavoro gratuito di cura, specialmente ad opera delle donne. A queste asimmetrie corrisponde un’inaudita concentrazione verso l’alto delle ricchezze ed uno sventagliamento delle diseguaglianze  che non si era storicamente mai verificato.

In passato era il conflitto, agito dai sindacati e non solo, a frenare tali tendenze e a garantire tramite il fisco una certa  redistribuzione verso il basso: oggi, anche laddove la sinistra ha assunto connotati liberali regna l’atomizzazione sociale:  essa in qualche modo subisce l’ideologia americana del  “siamo tutti (e ciascuno in maniera diversa) proprietari, tutti imprenditori di se stessi”,  ciò che rende impossibile la ri-formazione di una coscienza di classe. La  contraddizione capitale – lavoro viene oscurata anche laddove, sotto regimi ferocemente autoritari (tipicamente in Estremo Oriente), lo sviluppo delle forze produttive e della manifattura è decisamente più intenso, manifestandosi sotto forme fabbrichistiche.

Se parliamo dell’Occidente, in particolare dell’Italia la contraddizione capitale – lavoro evoca il movimento operaio, una soggettività antagonista, comunista, ma oggi del tutto latente: nel breve/medio periodo non si intravedono le condizioni della rinascita di una coscienza di classe, per le ragioni già enunciate. Forse quando diventasse egemone la consapevolezza per via ecologica dell’intollerabilità del sistema, nuove ragioni antagonistiche potrebbero arricchire e fare riemergere la contraddizione capitale – lavoro.

]]>
Laboratorio Palestina https://www.carmillaonline.com/2024/09/30/laboratorio-palestina/ Mon, 30 Sep 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84660 di Nico Maccentelli

Laboratorio Palestina di Antony Loewenstein, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo

Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi [...]]]> di Nico Maccentelli

Laboratorio Palestina di Antony Loewenstein, Fazi Editore, 2024, pg. 336, € 20,00

Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo

Per prima cosa due premesse. La prima: oggi più di ieri a fare qualsiasi critica a Israele si viene tacciati di antisemitismo. Nulla di più falso per quanto riguarda la gran parte di coloro, soggetti, movimenti od organizzazioni che sostengono la Resistenza Palestinese e il diritto del popolo palestinese ad avere una sua terra. Tanto più che i palestinesi sono semiti, per cui l’accusa oltre che essere falsa è pure demenziale, se non si sapesse che chi la formula è in perfetta malafede. Se l’hasbara, ossia quella rete ben organizzata dal sionismo per screditare e buttare fango su tali realtà solidali con il popolo palestinese e che è ramificata in ogni partito istituzionale, in ogni redazione mediatica, insomma ovunque viene prodotta informazione e politica, è così potente una ragione c’è.

E qui passiamo alla seconda premessa: la ragione sta nel fatto che senza Israele, l’Occidente collettivo, ossia quella parte di mondo dominata dall’unipolarismo atlantista a dominanza USA, avrebbe seri problemi di tenuta davanti all’avanzare di quell’altra parte di mondo che si sta affermando sul piano economico e geopolitico e con i conflitti in corso anche sul piano militare. La questione palestinese non è qualcosa di a sé stante ma è parte di quella guerra mondiale a pezzi, per parafrasare il papa, che rischia ogni giorno di più di diventare mondiale e nucleare. Per questa ragione, al di là degli appelli pelosi e ipocriti di tale Occidente a una tregua in Palestina e in Libano, la potenza militare di questo cane da guardia che non conosce limiti e regole, serve eccome.

Fatte queste premesse, ora posso iniziare a parlare di questo libro fondamentale per chi voglia non solo comprendere cosa sia diventato lungo tutti questi decenni Israele, ma anche la forte correlazione con il militarismo bellicista occidentale e le sue tecnologie di guerra, come di controllo e sorveglianza sulle popolazioni in funzione di prevenzione controrivoluzionaria.

Di quest’opera, scrive su Haaretz Gideon Levy (e che abbiamo a commento in retrocopertina), giornalista e massimo oppositore della politica d’apartheid dei governi sionisti di estrema destra del suo stesso paese:
“Un libro ammirevole, documentato e basato su prove sul lato meno conosciuto dell’occupazione. Fornisce un ritratto di Israele, uno dei dieci maggiori esportatori di armi al mondo, che commercia in morte e sofferenza e le vende a chiunque le voglia comprarle.” Qui le specifiche del libro e una spiegazine sintetica data dalla casa editrice.

La prefazione è di Moni Ovadia, nella quale osserva:
“Oggi l’opera di Antony Loewenstein (…) illumina un aspetto parallelo consustanziale della pratica sionista: la ripulsa dei grandi valori etici, spirituali e universalistici dell’ebraismo, per imboccare il cammino idolatrico della forza, della prepotenza, di un nazionalismo fanatico, dell’idolatria della terra.” E definisce il sionismo: “ … un progetto colonialista di impianto etnonazionalista che ha sempre mirato a cancellare l’identità palestinese.”
E tornando alla prima premessa della mia recensione, chi si batte per il popolo palestinese è ben conscio che ci sono nel mondo associazioni ebraiche e intellettuali ebrei che si oppongono in vari modi al sionismo razzista delle classi dirigenti estremiste israeliane. E questo ci porta a iniziare inquadrando l’autore, che sicuramente appartiene a questa opposizione ebraica.

Antony Loewenstein è un ebreo cresciuto a Melbourne, in Australia, “… dove il sostegno a Israele”, scrive, “ senza essere una religione imposta, era dato per scontato” (1). I suoi nonni erano arrivati in Australia fuggendo dalla Germania e Austria naziste nel 1939.
Ha preso coscienza di cosa fosse Israele andando in Palestina. E la sua ricerca ha preso corpo con analisi e dovizia di dettagli sulla macchina bellica e tecnologica sulle armi e i dispositivi repressivi dell’entità sionista. Ne fa anzitutto la storia, partendo dall’ideologia sionista che non va confusa con l’ebraismo, anche se la prima falsifica la seconda in modo strumentale. È lo stesso padre del sionismo, Theodore Hertzl, menzionato dal Loewenstein, a dare la spiegazione più esauriente della funzione politica di Israele: “… scrisse ne Lo Stato ebraico, il suo influente pamphlet del 1896:«Lì [in Palestina] saremo un settore del muro dell’Europa contro l’Asia, fungeremo da avamposto della civiltà contro la barbarie» (2)
Non ricorda forse, a distanza di 130 anni la definizione data da Borrell sul giardino europeo e la giungla tutto il resto? La logica è la medesima ed è esattamente il suprematismo di cui si nutrono le élite dominanti in Occidente e spiega in parte la mia seconda premessa sul piano ideologico.

La tecnologia militare israeliana ha supportato e supporta con la vendita di armi e istruttori militari i peggiori regimi totalitari: il Guatemala di Rios Montt, El Salvador, Colombia, Haiti dei Doc padre e figlio, Birmania dei militari, Paraguay (che aveva dato per altro rifugio a Mengele! pecunia non olet), il Cile di Pinochet, il Nicaragua di Somoza e altri, la lista è lunga, tanto che Loewenstein scrive: “Il “Sud globale” è stato e controllato e pacificato con le armi (principalmente) israeliane e statunitensi. Né che l’antisemitismo né l’estremismo hanno impedito la collaborazione con Stati che depredano le risorse o le persone. A distanza di decenni dalla sua creazione, questo sistema di collusione è ancora in piedi e opera senza problemi. Niente ha mai ostacolato seriamente lo sviluppo, né durante la guerra fredda né nel contesto dopo l’11 settembre 2001.” (3)

Scrive Loewenstein: “Chiaramente Israele desiderava essere un complice compiacente negli obiettivi di dominio di Washington nell’America Centrale degli anni Ottanta. Un ministro israeliano dell’Economia, Yaakov Meridor, nei primi anni del decennio disse che Israele voleva essere un mandatario degli interessi statunitensi laddove la superpotenza globale non poteva o era restia a vendere armi direttamente. «Noi diremo agli americani : non fateci concorrenza nei Caraibi o in altri posti dove non potete vendere armi direttamente. Lasciate che lo facciamo noi. […] Israele sarà il vostro intermediario.” (4)

L’attività di ricerca e produzione riguarda le armi in senso classico, sempre più sofisticate, ma anche la cybersicurezza e tutte quelle tecniche del controllo sociale e sulle persone. Lascio ai lettori la copiosa documentazione di quest’opera. Mi limito a fare un paio di considerazioni che non possono sfuggire o essere sottovalutate in chi intende contrastare la guerra interna ed esterna che USA-UE-NATO-Israele stanno conducendo nei vari quadranti e al proprio interno.

Israele si vanta in campo pubblicitario vero e proprio dell’efficacia dei suoi prodotti, avendoli sperimentati sui campi di battaglia, come sosteneva David Ivri, che è stato direttore generale del ministero della difesa israeliano (5) Questo aspetto non è secondario: la migliore promozione delle tecnologie belliche e cyber israeliane è la sperimentazione sul campo sulle popolazioni, le persone in genere, in una sorta di mengelismo a fini di profitto e di sostegno al dominio Occidentale.

Foto tratta da Infopal: www.infopal.it

La prima considerazione è nella “sorveglianza di massa israeliana”, ossia nel trattare in particolare e con un certo piglio scientifico da laboratorio-lager il popolo palestinese in Cisgiordania. Infatti lo spezzettamento del territorio che dovrebbe essere secondo risoluzioni ONU di pertinenza dell’Autorità Palestinese, non è solo al servizio di un’inarrestabile colonizzazione da insediamento, ma è funzionale alla sperimentazione e applicazione di tecnologie del controllo e della sorveglianza, molte delle quali in modalità soft e molto meno invasiva, ci ritroviamo anche nei nostri territori. Colonizzazione, controllo in loco ed export di metodologie, applicativi cyber, dispositivi d’ogni tipo integrati tra loro trasudano sangue e sofferenza palestinesi.

La cyber “sicurezza” israeliana, di cui Pegasus della NSO Group, società di cybersorveglianza è emblematica di come le aziende high tech israeliane siano alla base sia della sorveglianza nell’apartheid in Palestina, ma anche nell’export verso altri stati alleati di queste tecnologie del controllo a fini di spionaggio, e terrorismo, come si è visto nell’attacco ai dispositivi cerca persone in Libano a metà settembre. Uno stato canaglia come Israele che disprezza ogni risoluzione ONU, che compie massacri indiscriminati sui civili, da Gaza al sud del Libano, ha in mano e su questo collabora con gli USA, con MOSSAD e CIA insieme (6), ha il potere di condizionare le politiche per esempio di stati africani che acquistano i sistemi di sorveglianza israeliani e in cambio assicurano il loro voto in sede ONU (7).

Lowenstein scrive (8): “Il whistleblower dell’NSA Edward Snowden definisce NSO e altre aziende simili «l’industria dell’insicurezza». Ci v giù duro:
«Il telefono nelle vostre mani esiste in uno stato di perpetua insicurezza, aperto a infezioni a opera di chiunque sia disposto a investire in questa nuova “industria dell’insicurezza”. I suoi affari consistono nell’inventare nuovi tipi di infezioni capaci di aggirare i più recenti vaccini digitali – noti anche come aggiornamenti di sicurezza – per poi venderli paesi che occupano l’intersezione incandescente di un diagramma di Venn tra «desidera disperatamente gli strumenti dell’oppressione» e «Gli manca totalmente la capacità avanzata di produrli al proprio interno». Un’industria così , il cui unico obiettivo è la produzione di vulnerabilità andrebbe smantellata.»

E infatti Pegasus, scrive Lowenstein lo ritroviamo anche nell’intreccio tra stato messicano e organizzazioni criminali, come accaduto a Griselda Triana, giornalista, attivista dei diritti umani e moglie di Javier Valdes Cardenas, assassinato dal cartello di Sinaloa per l’attività del suo settimanale ch indagava su corruzione e criminalità legata al traffico di droga (9). Triana dopo la morte del marito è stata spiata attraverso Pegasus e lo stato messicano non ha mai voluto dare spiegazioni in merito, del perché queste attenzioni nei confronti di una cittadina non certo pericolosa per le autorità messicane. O forse sì…

Nel capitolo 7. “le società dei social media non amano i palestinesi”, diviene chiaro come Meta (Facebook, ecc.) censurino tutto ciò che proviene dalla Palestina e che sia critico verso Israele, emerge la collaborazione tra colossi social e l’Unità Cyber sionista, che ha carta bianca dalla Corte Suprema israeliana per operare dietro le quinte e di tenere dietro le quinte rapporti segreti con società come Meta (10). La scusa “di prevenire atti di violenza” suona piuttosto ironica, se consideriamo la sproporzione in termini di violenza tra uno stato genocida e avvezzo alla pulizia etnica e una Resistenza esistenziale da parte di un popolo. Dunque non solo gli stati in capo al dominio USA, ma anche le multinazionali dei vari settori (in questo caso i tecnologici della comunicazione) cooperano attivamente con Israele, secondo il fine posto nella mia seconda premessa.

Sappiamo benissimo come la censura su Facebook operi in modo sistematico anche sui nostri account. Su questo tema non sono riuscito a spiegare a un “compagno”, tra l’altro con la professione legata alla comunicazione (illustratore, ma tant’è…), che infestando la mia bacheca sosteneva che se non voglio essere censurato basta solo che non usi Facebook (sic!), che il fatto di censurare e filtrare a milioni di persone le notizie spacciando le critiche per fake news, significa che dei grandi privati per conto dei governi imperialisti controllano l’opinione pubblica mondiale. A questo punto è arrivata certa inconsapevolezza.

Ma possiamo dire con una certa e documentata da Loewenstein ragione, che gli apparati scientifici e di ricerca (quelli che vedono la collaborazione delle nostre università con quelle israeliane), quelli militari e industriali sono parte di una enorme e ramificata rete di controllo e gestione nel mondo di ogni ambito con cui la sovrastruttura di potere dell’imperialismo si regge: delle tecnologie di guerra alla produzione di armi, alla produzione di sistemi di sorveglianza e spionaggio, alle comunicazioni e al controllo selettivo della rete, in una sorta di marketing totalizzante e goebbelsiano sulla pubblica opinione occidentale.
,
E qui arriviamo alla questione finale, che dà il sottotitolo di questo libro: Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo. Non mi soffermerò sulla parte che riguarda il controllo e la sorveglianza sionista sul popolo palestinese: dai tornelli alla biometria, dalle banche dati alle attività di spionaggio elettronico, alla selettività discriminatoria su milioni di cittadini che ogni giorno devo attraversare i check point israeliani per andare a lavorare o all’ospedale, con restrizioni nei movimenti nel territorio. Un incubo. Tanto che lo stesso Ovadia, sempre nella sua prefazione inquadra questo aspetto ben documentato da Loewenstein:
“I governi sionisti scelgono la cultura delle armi più distruttive, delle più sofisticate tecnologie militari e di spionaggio sperimentate nel laboratorio Palestina per dominare, opprimere e terrorizzare il popolo più solo del mondo e sterminare migliaia di donne e bambini…”

Voglio solo osservare come queste tecnologie si estendono anche nei nostri territori. Il periodo pandemico ha ben dimostrato di essere terreno di sperimentazione sul controllo e la sorveglianza di un’intera popolazione. L’Italia è stato forse il laboratorio più avanzato di queste tecniche.
Premialità e discriminazione anche solo per verificare la virtù in un condominio o nel fare la differenziata, sono solo un piccolo assaggio delle potenzialità che il sistema di potere capitalistico, i suoi apparati possono mettere in opera quando e come vogliono, oltre ogni immaginazione distopica. Gran parte di queste metodologie e tecnologie portano il simbolo della Stella di David e sono state sperimentate sulla pelle del popolo palestinese.

Qualcuno per esempio può vedere l’agenda 2030 “per lo sviluppo sostenibile” messo in cantiere dall’ONU(11) come un programma virtuoso, così come la città dei 15 minuti. Ma se ben lo guardiamo, il 1984 di Orwell è dietro l’angolo. Le limitazioni di movimento nello spazio urbano, l’obbligatorietà di azioni da compiere nella vita quotidiana sono l’ultima frontiera di un capitalismo che ci riduce a palestinesi che devono solo lavorare, consumare e crepare.

Il saggio di Loewenstein aggiunge un importante tassello nel darci il quadro di questa proiezione autoritaria globale, perché il tassello sionista è parte integrante e imprescindibile di tutte le pratiche totalitarie che l’Occidente (e non solo) sta mettendo in opera per contrastare l’altra parte del mondo, quella dell’80% che si sta affermando con il multipolarismo. Ma i rischi non sono solo in Occidente unipolare: ogni classe dominante, anche nel nome di nobili ideali collettivistici nasconde sul piano della più neutra tecnologia una volontà di dominio sulla popolazione. E questo potrà accadere finché esisteranno classi al potere (che siano composte da grandi privati, o burocrazie di stato, o un loro mix) e classi subalterne nel sistema mondo della riproduzione sociale capitalistica.

NOTE:

1. Laboratorio Palestina, pag. 7

2. Ibidem pag. 44

3. Ibidem pag. 43

4. Ibidem pag. 54

5. Ibidem pag. 40

6. Ibidem pag. 185

7. Ibidem pag. 186

8. Ibidem pag. 187

9. Ibidem pag. 184

10. Ibidem pag 234

11. Qui e qui .

Inoltre:

Per approfondire l’Agenda 2030, due contributi di Enzo Pennetta, docente di scienze naturali:
https://www.youtube.com/watch?v=LL3e6vHbLxI
https://www.youtube.com/watch?v=eSD3tc5UGyc

Infine, qui un’analisi di Manlio Dinucci sulla strategia del terrore israeliano, dove la copiosa documentazione di Loewenstein trova riscontro a partire dal prima citato episodio dell’attacco esplosivo a Hezbollah per mezzo dei cercapersone: una preparazione di anni (che quindi nulla c’entra con l’attuale escalation, ma molto con la vocazione terroristica dell’entità sionista) con sofisticate tecnologie, con l’uso di aziende fittizie create apposta e di prestanome, con un lavoro dei servizi di intelligence che facciamo fatica a pensare che siano limitati al solo Mossad.

(Apprendo in questo momento, in cui sto predisponendo questo articolo alla pubblicazione, dell’assassinio di Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah insieme a svariati comandanti della resistenza libanese in riunione nel quartier generale a seguito di un attacco terroristico di Israele che, neanche a dirlo, ancora una volta viola ogni regola riconosciuta a livello internazionale.)

Sergej Lavrov, ministro degli affari esteri della Federazione Russa ha definito “disumano l’attacco di Israele al Libano mediante l’uso di dispositivi mobili esplosivi” e ha sollecitato un’indagine. Inoltre ha dichiarato che “Gli Stati Uniti erano a conoscenza dei preparativi di Israele per l’attacco con dispositivi mobili esplosivi in ​​Libano” (fonte: l’Antidiplomatico).

Israele, con il suo governo di terroristi assassini e genocidi, e con il pieno appoggio degli USA e dei suoi ignobili vassalli, tra cui il protettorato, come definirlo, il bantustan italiano, ci sta portando dritti alla terza guerra mondiale.

]]>
Andare oltre “l’indicibile” https://www.carmillaonline.com/2024/06/18/andare-oltre-lindicibile/ Tue, 18 Jun 2024 20:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83106 di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor [...]]]> di Sandro Moiso

Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 311, 20,00 euro

“A me sembra che l’Olocausto venga venduto, più che insegnato (Rabbi Arnold Jacob Wolf – Yale University)

Ben venga il ritorno nell’attuale panorama editoriale italiano del testo di Norman Finkelstein, già pubblicato da Rizzoli nel 2002. L’edizione attuale è arricchita da un saggio dello stesso autore dal titolo “Neo-anti-semitismo” è davvero così nuovo?, da una postfazione alla seconda edizione e da un’appendice contenente una replica al saggio di Stuart E. Eizenstat intitolato “Imperfect Justice: Looted Assets, Slave Labor and the Unfinished Business of World War II”.

Un testo necessario in un momento in cui, a partire dall’operazione condotta dall’Idf nella striscia di Gaza e dal revanscismo dell’ultradestra sionista, qualsiasi critica allo stato di Israele e al colonialismo espansivo sionista è assimilata all’antisemitismo dai gazzettieri di regime e da tutti coloro che ritengono inammissibile l’esistenza di uno stato palestinese indipendente e della stessa resistenza anticoloniale del popolo gazawi.

Il testo non è direttamente collegato agli avvenimenti attuali, ma è ancora utilissimo per destrutturare il discorso sull’Olocausto sviluppatosi non dalle reali sofferenze degli ebrei d’Europa nel corso del secondo conflitto mondiale, ma dalla necessità di rafforzare l’immagine del baluardo costituito da Israele nel medio e vicino oriente a favore degli interessi imperialistici statunitensi e occidentali. Come sostiene l’autore, infatti:

“L’informazione sull’Olocausto”, osserva Boas Evron, rispettato scrittore israeliano, è in realtà “un’operazione d’indottrinamento e di propaganda, un ribollio di slogan e una falsa visione del mondo il cui vero intendimento non è affatto la comprensione del passato, ma la manipolazione del presente”1. […] Due assiomi centrali stanno a sostegno dell’impalcatura ideologica dell’Olocausto: il primo è che esso costituisce un evento storico unico e senza paragoni; il secondo è che segna l’apice dell’eterno odio irrazionale dei gentili nei confronti degli ebrei. Nessuna delle due affermazioni appare in interventi pubblici prima della guerra del giugno 1967, né, per quanto esse siano diventate la pietra angolare della letteratura sull’Olocausto, figurano negli studi critici sull’Olocausto nazista2. D’altro canto, i due assiomi attingono a componenti importanti dell’ebraismo e del sionismo.
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto nazista non era considerato un evento unicamente ebraico, tanto meno un evento storico unico. L’ebraismo americano, in particolare, si diede cura d’inserirlo in un contesto di tipo universalista. Ma dopo la guerra dei Sei Giorni la Soluzione Finale fu radicalmente ridisegnata. “La prima e più importante convinzione che emerse dal conflitto del 1967 e che divenne l’emblema dell’ebraismo americano” fu, come ricorda Jacob Neusner, che “l’Olocausto […] era qualcosa di unico, senza paragoni nella storia umana”3. In un saggio illuminante, lo storico David Stannard mette in ridicolo la “piccola industria degli agiografi dell’Olocausto che sostengono l’unicità dell’esperienza ebraica con tutta l’energia e l’ingenuità di zeloti della teologia”2. Il dogma della sua unicità, dopotutto, non ha senso3.

Anche se si potrebbe facilmente provare che «qualunque evento storico è unico, se non altro in virtù del tempo e del luogo in cui accade, e presenta tanto caratteristiche sue proprie quanto tratti comuni ad altri eventi storici. L’anomalia dell’Olocausto consiste nel fatto che la sua unicità è ritenuta assolutamente decisiva […] Come è evidente, i tratti distintivi dell’Olocausto vengono isolati allo scopo di porre l’evento in una categoria completamente separata. »4.

Cosa che si rende particolarmente evidente quando, a causa del furore della difesa dell’unicità dell’Olocausto, si dimenticano gli infiniti tratti di sofferenza e distruzione che potrebbero accomunare il popolo ebraico a quello palestinese proprio in virtù di due tragedie, di fatto, speculari e complementari: la distruzione nazista degli ebrei d’Europa e la Nabka, ovvero la cacciata degli arabi palestinesi dalle loro terre a seguito della prima guerra arabo-israeliana del 19485.

Ebreo americano e figlio di deportati nei campi di concentramento, Norman Finkelstein è uno storico, politologo e attivista statunitense. Ha compiuto i suoi studi alla Binghamton University di New York, all’École pratique des hautes études di Parigi, conseguendo infine un dottorato in Scienze politiche all’Università di Princeton. I suoi principali campi di interesse sono l’Olocausto e il conflitto arabo-israeliano, due temi strettamente intrecciati tra di loro, rispetto a cui si pone in antitesi. Sostenendo, con vigore e onestà, la necessità di liberare la memoria dell’Olocausto dalle distorsioni che la circondano perché il principale pericolo non viene solo dal negazionismo e dal revisionismo, ma anche dai sedicenti guardiani della memoria che hanno fatto dell’Olocausto un unicum che non può essere sottoposto al vaglio critico e storico.

Come è facile immaginare il suo lavoro di ricerca ha solevato, fin dall’inizio, durissime polemiche e accuse nei suoi confronti anche se è vero che:

fino a tempi abbastanza recenti, l’Olocausto nazista era quasi assente dalla vita americana. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e quella degli anni Sessanta, solo un esiguo numero di libri e di film toccò l’argomento e in tutti gli Stati Uniti si teneva un unico corso universitario espressamente dedicato a esso2. Quando, nel 1963, Hannah Arendt pubblicò Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil [La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme] poté attingere solamente a due studi in lingua inglese: The Final Solution [La soluzione finale: il tentativo di sterminio degli ebrei d’Europa, 1939-1945], di Gerald Reitlinger, e The Destruction of the European Jews, di Raul Hilberg3. Lo stesso capolavoro di Hilberg dovette faticare per vedere la luce. Il suo relatore alla Columbia University, l’ebreo tedesco Franz Neumann, studioso di teoria sociale, cercò di dissuadere energicamente Hilberg dallo scrivere sull’argomento (“È il tuo funerale”) e nessuna università o editore tradizionale volle toccare il manoscritto. Quando fu finalmente pubblicato, The Destruction of the European Jews6 ricevette poche recensioni, per lo più critiche.
Non soltanto gli americani in generale, ma anche gli ebrei americani, intellettuali compresi, prestarono poca attenzione all’Olocausto nazista. In un’autorevole indagine del 1957, il sociologo Nathan Glazer riportò che la Soluzione Finale nazista (così come la nascita di Israele) “aveva avuto ben poche ripercussioni sulla vita interiore della comunità ebraica americana”7.

Mentre, negli anni successivi al secondo conflitto mondiale, anche in Israele, come ci ricorda uno dei più importanti scrittori israeliani, in un suo romanzo autobiografico8, i superstiti della Shoa erano guardati con vergogna e sospetto, come se potessero rappresentare una macchia per la narrazione trionfalistica dei successi del sionismo in terra palestinese. Come Finkelstein ancora confida al lettore:

Il mio interesse nei confronti dell’Olocausto nazista prese le mosse da vicende personali. Mia madre e mio padre erano dei sopravvissuti al ghetto di Varsavia e ai campi di concentramento. Tranne loro, tutti gli altri membri dei due rami della mia famiglia furono sterminati dai nazisti. Il mio primo ricordo, per così dire, dell’Olocausto nazista è l’immagine di mia madre incollata davanti al televisore a seguire il processo ad Adolf Eichmann (1961) quando io rientravo a casa da scuola. Anche se erano stati liberati dai campi solamente sedici anni prima del processo, nella mia mente un abisso incolmabile separò sempre i genitori che conoscevo da quella cosa. A una parete del soggiorno erano appese fotografie di parenti di mia madre (nessuna foto della famiglia di mio padre sopravvisse alla guerra). In pratica non riuscii mai a mettere in relazione me stesso con quelle facce, men che mai a immaginare quello che era successo […] Per quanto mi sforzassi, non riuscii mai, nemmeno per un istante, a fare quel salto d’immaginazione che saldava i miei genitori, con tutta la loro normalità, a quel passato. Francamente, non ci riesco neanche ora.
Ma il punto più importante è un altro: se si esclude questa presenza spettrale, non ricordo intrusioni dell’Olocausto nazista nella mia infanzia e la ragione principale sta nel fatto che a nessuno, all’infuori della mia famiglia, sembrava interessare quello che era accaduto. I miei amici di gioventù leggevano di tutto e discutevano appassionatamente degli avvenimenti contemporanei, eppure, in tutta onestà, non ricordo un solo amico (o un suo genitore) che abbia fatto una sola domanda su quello che mia madre e mio padre avevano passato. Non era un silenzio dettato dal rispetto, era semplice indifferenza. Sotto questa luce, non si possono che accogliere con scetticismo le manifestazioni di dolore dei decenni seguenti, quando l’industria dell’Olocausto era ormai consolidata 9.

Forse proprio da questa memoria “personale”, spesso l’unica capace di districarsi tra le maglie dell’ideologia e della retorica istituzionale, deriva la determinazione dello storico ebreo-americano nel sostenere come:

Questo libro si propone di essere un’anatomia dell’industria dell’Olocausto e un atto d’accusa nei suoi confronti. Nelle pagine che seguono, dimostrerò che “l’Olocausto” è una rappresentazione ideologica dell’Olocausto nazista. Come la maggior parte delle ideologie, mantiene un legame, per quanto labile, con la realtà. L’Olocausto non è un concetto arbitrario, si tratta piuttosto di una costruzione intrinsecamente coerente, i cui dogmi-cardine sono alla base di rilevanti interessi politici e di classe. Per meglio dire, l’Olocausto ha dimostrato di essere un’arma ideologica indispensabile, grazie alla quale una delle più formidabili potenze militari del mondo, con una fedina terrificante quanto a rispetto dei diritti umani, ha acquisito lo status di “vittima”, e lo stesso ha fatto il gruppo etnico di maggior successo negli Stati Uniti. Da questo specioso status di vittima derivano dividendi considerevoli, in particolare l’immunità alle critiche, per quanto fondate esse siano. […]
A volte penso che la “scoperta” dell’Olocausto nazista da parte dell’ebraismo americano sia stata peggiore del suo oblio. I miei genitori continuavano a ripensarci nel loro privato e la sofferenza che patirono non ricevette pubblici riconoscimenti. Ma non fu forse meglio dell’attuale, volgare sfruttamento del martirio degli ebrei10?

Sullo stesso teme non si è mosso, a livello di indagine, il solo Finkelstein, però.
Anche lo storico e saggista Tom Segev, figlio di profughi tedeschi che vive a Gerusalemme, si è occupato del drammatico incontro tra i superstiti dell’Olocausto e una società, quella del neonato stato di Israele, che andava costruendo se stessa intorno al culto dell’eroismo e dell’”uomo nuovo”ed è andato dimostrando come la pesante eredità della Shoa sia stata manipolata e distorta a scopo ideologico e calcolo politico11.

L’industria dell’Olocausto non indaga soltanto l’uso ideologico fatto dal sionismo colonialista e dallo Stato israeliano, ma anche l’ipocrisia di stati come la Svizzera e gli stessi Stati Uniti nei confronti dello sterminio nazista degli ebrei e dell’uso postumo della memoria di tale evento e dell’appropriazione indebita dei beni degli stessi operata no soltanto dai nazisti.

Finendo col rivelarsi come un’opera che, a distanza di quasi un quarto di secolo dalla sua prima pubblicazione, torna ad esplodere come una bomba tra le mani del lettore, suscitando ancora adesso l’ira di tutti coloro che sulla tragedia dell’Olocausto hanno costruito le basi e la giustificazione delle immani sofferenze di un altro popolo che non ha mai smesso di resistere alla dominazione colonialista, all’ingiustizia e al tentativo di sterminarlo.


  1. B. Evron, Holocaust: The Uses of Disaster, in “Radical America”, luglio-agosto 1983, p. 15.  

  2. J. Neusner (a cura di), In the Aftermath of the Holocaust, vol. II, Gar­land, New York 1993.  

  3. N. G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi Editore, Milano 2024, pp. 47-48.  

  4. N. Finkelstein, op. cit., p. 48.  

  5. A tale proposito si veda: B. Bashir, A. Goldberg (a cura di), Olocausto e Nabka. Narrazioni tra storia e trauma, Edizioni Zikkaron 2023.  

  6. Oggi disponibile in Italia come R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, 3 voll., Einaudi Editore 2017.  

  7. N. Finkelstein, op. cit., pp. 22-23.  

  8. A. Oz, Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli editore, Milano 2003.  

  9. N. Finkelstein, op. cit., pp. 17-18.  

  10. Ivi, pp. 15-18.  

  11. T. Segev, Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia di Israele, Mondadori editore , Milano 2001 (edizione originale 1991)  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

]]>
Patrimonio. Una storia vera https://www.carmillaonline.com/2023/12/18/patrimonio-una-storia-vera/ Mon, 18 Dec 2023 21:00:44 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80322 di Giovanni Iozzoli

Che cos’è un’eredità? E chi ha il titolo di rivendicarla? Me lo chiedo mentre i telegiornali diffondono a reti unificate una manifestazione romana “contro l’antisemitismo” e a sostegno di Israele, indetta dalle Comunità ebraiche italiane. La causale della convocazione dice già tutto: chi non sostiene Israele è un antisemita. L’evento è poco partecipato, rimpinguato solo dalla presenza di giornalisti e parlamentari, ovviamente accorsi in massa a favore delle telecamere. I rappresentanti delle comunità troneggiano in p.zza del Popolo, tra bandiere di Davide e vessilli di partito bipartisan. La domanda ingenua che mi sorge è: in nome di chi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Che cos’è un’eredità? E chi ha il titolo di rivendicarla? Me lo chiedo mentre i telegiornali diffondono a reti unificate una manifestazione romana “contro l’antisemitismo” e a sostegno di Israele, indetta dalle Comunità ebraiche italiane. La causale della convocazione dice già tutto: chi non sostiene Israele è un antisemita. L’evento è poco partecipato, rimpinguato solo dalla presenza di giornalisti e parlamentari, ovviamente accorsi in massa a favore delle telecamere. I rappresentanti delle comunità troneggiano in p.zza del Popolo, tra bandiere di Davide e vessilli di partito bipartisan. La domanda ingenua che mi sorge è: in nome di chi o di cosa, i dirigenti di quelle comunità sentono di poter assumere un ruolo così prominente, nell’agenda pubblica? Da dove viene l’autorità – benedicente o recriminante – che consente loro di esercitare una funzione così centrale, con tutti i partiti accorsi a porgere il saluto?

Sento in un’intervista la dott.ssa Di Segni – persona di solito assai misurata nei toni – affermare con calore che le cose non stanno come sembrano: non sono i palestinesi ad essere oggetto di genocidio; sono “gli ebrei”, piuttosto, nel mirino di un nuovo piano di sterminio condotto da Hamas, anche con evidenti implicazioni religiose. La signora sta enunciando una enormità storica – una specie di sfida al senso comune, a quello che miliardi di cittadini del mondo stanno vedendo in diretta sui loro telefonini. Come può essere che migliaia di bambini di Gaza, dilaniati a morte, possano essere ricondotti al campo malvagio di nuovo progetto di sterminio antiebraico? Come può la popolazione di Gaza, straziata e affamata, prefigurare la distruzione dell’ebraismo mondiale? E’ una pazzia, un esercizio di vittimismo sovra-umano e metastorico. La signora Di Segni però è serissima e forse anche convinta di ciò che sta dicendo. In nome di cosa può proclamare così impudentemente questa inversione della verità fattuale? Forse è perché si sente un’ereditiera.

Si, pensiamo ad una persona diventata ricchissima grazie ad una favolosa eredità. E pensiamo a come questa persona possa perdere il senso delle proporzioni, l’equilibrio, il senso della realtà: sono ricca, ho ereditato, posso persino sovvertire l’evidenza empirica delle cose, degli eventi. La ricchezza mi rende credibile, desiderabile e persuadente, al di là del senso delle mie opinioni o delle mie azioni. Ma di che tipo di eredità stiamo parlando? Materiale, economica, di prestigio sociale? No. L’eredità che consente alla signora Di Segni di costruire e rivendicare una contro-verità, è tutta di tipo morale: i dirigenti delle Comunità sanno di essere gli eredi “istituzionali” della memoria dell’Olocausto e di poterne rappresentare eternamente l’enorme carico di ragioni, maturate in secoli di sofferenza. E’ questa l’eredità che le Comunità sentono di incarnare. E’ questo che consente agli esponenti di queste comunità di porsi nel dibattito pubblico in modo così ardito e perentorio – fino a bacchettare Papa Francesco per “eccesso di equidistanza”…

E qui torniamo alla domanda iniziale? Come si può definire l’adeguatezza di un’eredità storica? In campo giuridico ci sono delle condizioni precise, che definiscono la condizione di erede. In mancanza di testamento, prevalgono i legami i sangue. Ma sul piano morale? Chi è erede di cosa? Raccolto il lascito, lo si può usare in qualsiasi modo, senza remore? L’eredità è sempre disponibile all’uso, anche a quello più spregiudicato? E’, ad esempio, possibile supporre che il patrimonio di dolore, trasmesso delle vicende terribili dell’ebraismo europeo, possa costituire la base morale di altro dolore e sofferenza inferta agli innocenti? Se i morti di Auschwitz potessero parlare, concorderebbero nel passare il testimone della loro storia a Bibi Netanyahu? Vedrebbero nei tunnel di Gaza la minaccia di un nuovo piano di sterminio antiebraico, come quello che si abbatté sulla loro generazione? Plaudirebbero ai bambini morti, ai corpi straziati, alle moschee e agli ospedali bombardati – loro, proprio, loro che passarono attraverso l’inferno in terra dei pogrom e della Shoah?

I morti non parlano. Nessuno potrà contestare, a nome loro, il costante, indefettibile allineamento delle comunità – in Italia e nel mondo – al fianco di uno Stato che si dichiara alfiere dell’ebraismo. Nessuna voce si alzerà dai campi di sterminio per gridare: non in nostro nome – se uccidete e torturate, non lo farete usando la nostra eredità di sangue, il nostro martirio, le nostre memorie circondate dal filo spinato. Ma anche se i morti sono costretti al silenzio, l’intelletto, la ragione, lo spirito della storia, continuano a parlare ai vivi: come le migliaia di ebrei americani che stanno manifestando contro le politiche criminali dello Stato d’Israele, che oggettivamente sembrano eredi dell’Olocausto moralmente più degni. Loro raccolgono il testimone, loro vanno in carcere a testa alta perché non vogliono essere accusati di complicità. Loro vogliono continuare a guardare i figli negli occhi: perché è chiaro che i bambini ci stanno guardando, non solo quelli impietriti e piangenti di Gaza, ma tutti i bambini del mondo ci stanno guardando; e quei bambini rappresentano la prossima generazione e chiederanno conto di questo dramma.

Non c’è musulmano al mondo a cui non sia stato chiesto almeno una volta nella vita di prendere le distanze dalle efferatezze dell’Isis. E tantissimi lo hanno fatto in piena coscienza, anche senza che qualcuno glielo chiedesse. Non c’è moschea o organizzazione islamica italiana che non abbia dovuto pronunciarsi con chiarezza in questa direzione. Perché le Comunità ebraiche sono invece impermeabili a qualsiasi ragionamento laico e critico, sul ruolo di Israele e sui suoi governi che ne hanno guidato la rotta sanguinosa e fallimentare, in questi anni? Ricordano un po’ certi gruppuscoli filosovietici che – sempre, in qualsiasi circostanza – appoggiavano il “paese guida” del proletariato, anche quando erano evidenti i suoi errori catastrofici. Una fedeltà cieca che non portò bene né all’Urss né ai suoi satelliti – altro esempio di eredità dilapidata.

I passaggi generazionali rappresentano spesso più una negazione dialettica, che una illusione di continuità. Il testimone da raccogliere è spinoso, insostenibile. Probabilmente lo Stato di Israele – grande rivendicatore e custode delle memorie giudaiche – conferma questa regola. I precursori di Israele fondavano moralmente le loro ragioni sulle inenarrabili sofferenze della generazione della Shoah, traendone legittimazione politica – il valore dell’eredità. Ma probabilmente nel loro spirito, gli elementi di rottura prevalevano di gran lunga su quelli di filiazione. I vecchi martiri erano visti come pedine imbelli della tragedia storica dell’ebraismo; il vittimismo dei vecchi andava bene per esigere risarcimenti ma la nuova Gerusalemme aveva bisogno della forza, della potenza, dell’aggressività. Da allora in poi, la Legge e la Profezia avrebbero acquistato senso solo se veicolate dai carri armati.

Non sappiamo quali conflitti tremendi – ce lo rivela parzialmente la letteratura israeliana – dovettero attraversare le prime generazioni, per assorbire questo nuovo imprinting e trasmetterlo alle generazioni successive. Oggi, sui nostri implacabili canali Telegram, vediamo giovanissimi soldati israeliani che ammazzano comuni cittadini palestinesi, minorenni e invalidi inclusi, senza pietà, per strada, lungo i chekpoint della West Bank, sotto gli occhi di tutti. E persino bambini che cantano su Tik Tok inni allo sterminio arabo; ragazze che irridono le giovani mamme di Gaza, coi loro fagottini insanguinati. Quanto sforzo, quanta determinazione, quanto sangue, quanta risalita controcorrente, deve essere costato allevare questi giovani mastini da guerra – e uscire da sé, dalla secolare cultura critica e tollerante, per trasformarsi in persecutori feroci? Ecco, la trasmissione della memoria: quei ragazzi non hanno assorbito nulla dell’eredità dei loro avi; il passaggio si è realizzato solo tra generazioni che hanno combattuto furiosamente, nella cecità e nella brutalità, segnati da odio e paranoia. E questo vale anche per le comunità ebraiche europee, che recitano un ingrato ruolo di apologia di ogni crimine di uno Stato estero al quale non devono nulla, ma a cui si sentono ineluttabilmente legate.

Gli israeliani di oggi non sono tanto portatori di una memoria, quanto di un presente ossessivo, in cui il passato ha poco da dire e il futuro è cupo e indecifrabile. La loro condizione è una coazione a ripetere tremenda: sentono di incarnare i destini di una stirpe elitaria che ha il diritto storico di guadagnare il suo spazio vitale – orrendo riflesso delle ideologie di espansione nazista verso est.  Tutto ciò che ostacola questa spinta all’autoaffermazione, va sepolto. Molte immagini che arrivano dalle città israeliane, testimoniano che se c’è qualcosa che fa infuriare la soldataglia israeliana,  sono i religiosi che non si riconoscono nel sionismo e manifestano a favore dei palestinesi. Quei pii ebrei vengono picchiati e dileggiati con particolare accanimento, dai ragazzi in divisa. Forse perché a vederli così, vestiti da rabbini eppure ostili allo sforzo bellico, creano un qualche cortocircuito mentale in quei giovani soldati; contraddicono la visione unilaterale delle cose, la dialettica amico/nemico, la solida complicità della Bibbia. Sono l’immagine dell’ebreo che fu, che loro odiano e rinnegano in nome dell’Uzi.

Israele sta morendo. Sepolta dalle sue bombe, dalla scia infinita di cadaveri e di bugie che sta lasciando dietro di sé. Israele sta morendo per un eccesso di forza, di protervia, di orgoglio. Non ha più grandi nemici, intorno a sé: Gheddafi e Saddam sono stati ammazzati, Assad è debolissimo, l’Iran è permanentemente nel mirino americano; i grandi paesi arabi sono tutti paralizzati dai ricatti in cui la realpolitik globale li ha ficcati. Eppure, proprio in questo momento storico di trionfale strapotere, subisce il più grave attacco interno della sua storia ed è costretto ad operare una atroce punizione collettiva contro gli innocenti – per allontanare da sé l’immagine di vulnerabilità e la mancanza di visione che esprime. I tempi e i modi del crollo israeliano sono imprevedibili. Ma una cosa è certa: la morte di Israele coincide con la consunzione della sua eredità, del suo inestimabile patrimonio, ormai dilapidato per manifesta indegnità.

Patrimonio. Una storia vera è un piccolo capolavoro di Philip Roth. Racconta una vicenda dimessa e privata – quella di un vecchio padre ebreo del New Jersey che sta morendo e di un figlio adulto che riflette sulla sua eredità morale. Cosa lascia una persona semplice, priva di mezzi, quando se ne va? Cosa lasciò un vecchio padre ebreo senza ricchezze, a un figlio scrittore un po’ scapestrato? Cosa lasciò quella generazione di ebrei che è stata la prima a crescere in sicurezza, fuori dall’infida Europa dell’eterno pogrom? Apparentemente niente che abbia a che fare con i cataclismi mediorientali. E invece, in quel privatissimo racconto autobiografico, molti elementi rimandano ai grandi drammi della storia contemporanea. Lo scrittore ha un rapporto controverso con Israele – come con tutta la sua complicata “ebraicità”; il suo primo protagonista di successo, il giovane Portnoy, quando si deciderà ad andare verso Israele per il suo primo viaggio nella terra promessa, davanti ad un avventura sessuale con una soldatessa in divisa, armata, grande e forte, subisce un crollo psicofisico e si scopre impotente. L’effetto che aveva su di lui la terra santa, non era il misticismo o l’ardore guerriero: solo “non farglielo venire duro”. Metafore su metafore di un intrigo esistenziale e antropologico. Forse Portnoy si portava ancora dentro troppa Europa, qualche retaggio di prudenza e sottomissione era trapassato nei suoi geni americani; mentre la soldatessa era la scoperta della forza: si, gli ebrei potevano imbracciare un fucile, sparare, macchiarsi di crimini come tutti gli altri esseri umani; potevano essere capaci di cose spaventose; e questa consapevolezza, questa verità, che produceva impotenza in Portnoy, era quanto di meno razzista e antisemita si potesse rivelare. La scoperta di non essere un popolo eletto, ma solo un popolo tra i tanti, nei flutti della storia, con le mani macchiate del sangue di Abele, come noi tutti. E questa rivelazione, ci consente di rifiutare con la stessa forza tanto l’ideologia sionista quanto il barbarico antisemitismo.

Il patrimonio di Auschwitz e delle sue schiere di martiri, non è passato nella mani delle attuali leadership israeliane; probabilmente neanche in quelle delle persone comuni di quel paese, avvelenate dalle retoriche di Stato. Il patrimonio morale della Shoa è tutto nelle mani di Fatima o di Mohamed – qualcuno a caso tra i tanti piccoli visi ritratti negli ospedali di Gaza, pieni di ustioni e bende precarie. Sono loro che stanno decretando la fine del ciclo israeliano. Sulla loro sofferenza, sul loro dolore senza morfina, sui loro arti amputati, sul loro destino di orfani senza patria, nascerà il nuovo medioriente. Se il giovane Stato di Israele si fondò sul sangue della Shoah, la sua fine sarà affogare nel sangue dei figli di Palestina. In terra di Abramo, Nemesi è diventata la regina furiosa della storia.

]]>
Fermiamo il genocidio in Palestina! https://www.carmillaonline.com/2023/11/15/fermiamo-il-genocidio-in-palestina/ Wed, 15 Nov 2023 16:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79979 [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo [...]]]> [Riceviamo e pubblichiamo il seguente appello per uno sciopero e una mobilitazione nazionale a fianco del popolo palestinese – La redazione]

Dopo 75 anni di occupazione sionista delle terre palestinesi, da un mese è in corso a Gaza un massacro senza precedenti ad opera del governo-macellaio di Netanyahu. Ad oggi più di 11.000 palestinesi sono stati uccisi sotto le bombe dell’esercito israeliano, in prevalenza bambini, donne e anziani,

Raccogliendo l’appello lanciato dai sindacati palestinesi a porre fine ad ogni forma di complicità con lo stato di Israele e a mobilitarsi in tutto il mondo a sostegno del popolo palestinese; e raccogliendo l’invito pressante dei Giovani palestinesi d’Italia a dare maggiore concretezza alla solidarietà con la resistenza del popolo palestinese; il SI Cobas ha deciso di indire per venerdì 17 novembre una giornata di sciopero nazionale nel settore privato, che si pone in continuità con le iniziative contro la guerra in Ucraina e la guerra in Palestina del 21 ottobre scorso – in particolare con la manifestazione di impronta internazionalista e disfattista tenuta a Ghedi, davanti alla principale base di attacco dell’aeronautica militare italiana.

Questa decisione di sciopero si ricollega alle prime iniziative contro il traffico di armi per Israele in corso a Oakland, in Belgio, in Australia e, da ultimo, a Genova, e soprattutto alle immense dimostrazioni per la liberazione della Palestina in corso in tutto il mondo. L’invito che essa esprime è a sostenere in pieno, senza tentennamenti di sorta, la resistenza dei palestinesi contro il colonialismo razzista e a pretendere l’immediata cessazione della carneficina portata avanti da Israele con la complicità degli Stati Uniti e delle potenze capitalistiche occidentali.

“I lavoratori e i proletari hanno il dovere di mobilitarsi ovunque possibile – si legge in una dichiarazione del SI Cobas – per fermare questa mattanza, bloccando i principali snodi della produzione, dei trasporti e del profitto, in particolare i traffici di armi e di merci dirette ad Israele.
Contro la guerra, l’economia di guerra e i governi della guerra! Contro il colonialismo sionista! Palestina libera!”.

Il giorno successivo allo sciopero, sabato 18 novembre, si terrà a Bologna (con partenza alle ore 15 da piazza XX settembre) un corteo indetto insieme dal SI Cobas e dai Giovani palestinesi d’Italia, dall’Unione democratica arabo-palestinese, dall’Associazione palestinesi in Italia, dal Movimento palestinesi in Italia, che ha già ricevuto molte adesioni.

]]>
Il nuovo disordine mondiale 24 / Appunti palestinesi. Di nuovo il fuoco. https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/il-nuovo-disordine-mondiale-24-appunti-palestinesi-di-nuovo-il-fuoco/ Tue, 07 Nov 2023 00:31:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79917 Di Jack Orlando

0. Premessa. Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione. È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola. Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso. Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati. Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre [...]]]> Di Jack Orlando


0. Premessa.
Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione.
È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola.
Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso.
Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati.
Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre un intento combattuto in questi casi. Stretto tra la necessità di tracciare linee e porre punti per orientarsi e la nausea per la marea montante di notizie, perlopiù faziose o monche, che sommerge ogni spazio disponibile, toglie ossigeno e soffoca il ragionamento più di quanto lo stimoli.
Orrore per la pervicace e martellante chiacchiera da bar, piccola e oscena, che divora le possibilità dell’analisi. E necessità di esserci. Oltre il cicaleccio sulle quisquiglie dell’attualità.

Premettiamo che è una presa di parola mossa da cattive intenzioni, quella di chi è seduto avanti al PC, in una celletta degli alveari delle metropoli d’Europa, il culo al caldo come si suol dire. Guardiamo a quello che succede da dietro gli schermi, ci forziamo ad ingurgitare notizie e sottoporci immagini di strazio, tracciando dei fili rossi e cercando di costruire un senso a ciò che stiamo vivendo e osservando.
Prendiamo la parola per parlare “ai nostri”, per ribadire ancora l’ossessione del pensiero politico, per esercizio d’analisi, per andare a scuola dai fatti della Storia nel suo dispiegarsi.

Non scriviamo per prendere posizione. Ma per comprendere, per affilare lo sguardo, scandagliare piste, pescare strumenti per l’azione degli amici in ascolto. Scandalosa osservazione.
Eppure vogliamo sottolinearvela qui, che sia ben chiara. Non ci serve scrivere per prendere posizione perché diamo per scontato, almeno per quel che riguarda noi, qual’è lo schieramento cui apparteniamo.
Siamo, saremo sempre, tra le fila di quelli che sono al servizio dei dannati della terra. Tra uno stato nazione coloniale, razzista e genocida, ed una popolazione in guerra per la propria sopravvivenza abbiamo sempre avuta ben chiara quale sia la nostra parte.
Ergo non ce ne frega un cazzo di sprecare inchiostro per ribadirla, e ancora di meno ci interessa giustificare la nostra posizione, articolare preamboli giustificazionisti a scanso di equivoci, quasi a scusarci per il nostro uscire dai ranghi.

Siamo per gli ultimi, quelli che stanno in basso. Stabilita la nostra parte non ci interessa affatto giudicare dall’alto di una presunta superiorità morale, quella di chi tiene il culo al caldo di cui sopra, quali siano le pratiche di lotta legittime o consone ad una liberazione collettiva.
Ci prendiamo il pacchetto completo.
Riconosciamo primariamente il diritto collettivo all’autodeterminazione: ciò detto su mezzi, tempi e parole della rivolta ha diritto di veto solo chi è letteralmente con i piedi sul campo di battaglia.

1. Questione di sguardi.
Cominciamo da principio. Primo elemento imprescindibile, il punto di vista, la maniera in cui interpretiamo i fenomeni: il 7 ottobre non come tragica e sanguinosa giornata, ma come zenit di un processo politico che vediamo quale catalisi locale di una tendenza quanto meno internazionale.
Organizzazione politica e sentimento popolare, rivolta anticoloniale e passaggio strategico di geopolitica convivono in una giornata dal peso storico.
Hamas ha invaso Israele, ha ammazzato civili e soldati, ha rapito innocenti, ha compiuto una strage… Ha rovinato una festa.
Potremmo anzitutto smettere di ciarlare di Hamas, quale esclusivo attore in campo. L’offensiva è stata portata avanti dalla Resistenza Palestinese tutta (ovvero una rosa di organizzazioni militanti che comprendono, tra le varie, declinazioni differenti di islam politico, laicismo panarabista e marxismo leninismo), che già da anni si è dotata di un Comando operativo unico per portare avanti la lotta oltre le singole fazioni2. Comando unico che già aveva portato ad un livello più alto le capacità di resistenza e che, anche mentre si combatte dentro Gaza, continua a tenere il punto della questione3.

Questo aiuta a comprendere la vastità delle operazioni di guerriglia messe in campo e l’ampia partecipazione anche emotiva della popolazione palestinese. Ma soprattutto impone di smetterla con i distinguo, gli equilibrismi, le dichiarazioni dai guanti di velluto.
Tornando al 2021, segnalavamo come al termine delle ostilità, nonostante il tributo di sangue e nessun avanzamento territoriale, tutta la Palestina celebrò l’evento come una vittoria: una vittoria politica ed esistenziale, la dimostrazione che non solo un popolo recluso e privato dei più semplici mezzi sussistenza potesse ancora imporre la propria presenza al mondo intero, ma che era in grado di tirare su, nei cunicoli delle sue baraccopoli, sistemi di guerra tali da sfidare uno dei più potenti giganti militari del globo.
Una affermazione della vita che passa, paradossalmente, per il sangue.
E difatti ogni volta che Israele ha risposto col terrore e la brutalità che lo contraddistingue, nel tentativo di estirpare la resistenza, non ha fatto che alimentare il fuoco, portare altra gioventù sulla via della lotta.
Se nel 2021 la Palestina ha vinto la sua guerra. Nel 2023 ha sconfitto Israele sul suo stesso campo.

2. Un colpo al cuore del nemico.
Questo è stato il 7 ottobre.
I militanti palestinesi hanno sconfitto Israele in primo luogo perché ne hanno sfondato il dispositivo militare mostrando al mondo, specialmente al mondo del Medio Oriente, che la macchina bellica mostruosa e imbattibile di Israele (e per estensione dell’Occidente tutto) può essere sbaragliata con una combinazione di determinazione ed organizzazione.
L’esercito più potente del mondo è tale solo finché bombarda scuole e ospedali.
È terribile l’umiliazione dei propri soldati decimati mentre tentano di reagire con indosso elmetto e mutande da notte, dei propri mezzi corazzati distrutti e requisiti da contadini in ciabatte. L’invincibilità è una carta che non si gioca due volte.
In secondo luogo hanno inferto un trauma devastante alla psiche collettiva di Israele: uno Stato che tollera con difficoltà anche un solo caduto, figuriamoci quando a morire sono in centinaia, e che è alle prese con una lunga e lacerante crisi interna. È la goccia che fa traboccare il vaso, l’evento che scatena il definitivo attacco di panico.

Sul balletto dei numeri e dei morti eviteremo di tirare in ballo le notizie manipolate quando non inventate, i resoconti di massacri efferati, la pornografia del dolore e della morte violenta, ciò che preme segnalare è come molte delle vittime civili siano cadute nella reazione scomposta, o forse per certi versi intenzionale, delle forze di sicurezza israeliane4, tale per cui sono stati diversi gli attori dentro e fuori Israele a chiedere un’inchiesta che faccia luce su quanto avvenuto, e sul possibile utilizzo del Protocollo Hannibal, che prevede l’eliminazione fisica dei soldati stessi pur di scongiurarne la cattura5.
Dottrina militare alla luce della quale è più facile comprendere come gli ostaggi israeliani non siano in grado di frenare la furia omicida del Tsahal che, alle dichiarazioni da Gaza, ne avrebbe già ammazzati una sessantina sotto le sue stesse bombe.
Oltre a ciò domandiamo soltanto quanto possa essere netta la divisione civile/militare in uno Stato che considera se stesso come una nazione in armi cui ogni cittadino, uomo o donna che sia, deve prestare servizio nell’esercito ed essere perennemente mobilitabile; dove parte delle brutalità peggiori, quali quelle dei coloni, sono commesse da civili armati, con le spalle coperte dalla fanteria in divisa?

Ora, se in un momento di stabilità sociale, Israele è poco in grado di gestire un morto o un prigioniero delle sue fila, in una fase critica come quella che attraversa da oltre un anno, la faccenda è più complicata.
Netanyahu resta in sella solo in virtù dell’emergenza, per i resto è politicamente un morto che cammina, una caduta rimandata di poco ma ormai inevitabile. Lui, come la politica stessa è preso in mezzo tra spinte sanguinarie più esplicite quali quelle dei generali dell’esercito, di cui il ministro Gallan è grottesco portavoce, e più miti consigli quali quelli dell’americano Blinken, preoccupato di una deflagrazione incontrollabile.
Fratture che si approfondiscono giorno dopo giorno dentro la società israeliana che si cannibalizza da sé6, con le famiglie degli ostaggi che premono per una trattativa e vengono accusati di tradimento, con la polizia che reprime violentemente qualsiasi manifestazione di dissenso interno7 nonostante siano sempre di più i cittadini contrari ad una guerra boots on the ground, con la briglia sciolta ai coloni che scaricano sulla Cisgiordania una violenza disordinata che rischia di trascinare loro per primi nel baratro ed il proliferare di video di pessimo gusto in cui si deridono i civili palestinesi massacrati e gli stessi ostaggi8.

Nel momento in cui, tra le macerie di Gaza, inizieranno a cadere i fanti e aumenteranno le coscrizioni, è difficile che il tessuto sociale non si strappi in maniera ancora più irreparabile.
Israele aveva già perso prima ancora di mostrare al mondo il suo vero volto da killer seriale, perché non può resistere alla sua furia imperiale, a costo di sacrificare il suo stesso popolo.
E d’altronde, ogni processo di liberazione antimperialista tende ad una guerra civile che, a vario grado, straborda dalla colonia per riversarsi nella metropoli dominante.

3. Il martirio e la liberazione: nel buttare giù le recinzioni, nell’attaccare i posti militari ed i kibbutz, nell’uccidere e sequestrare militari e civili, occupando porzioni di territorio inviolabile, molti dei militanti palestinesi sapevano che non avrebbero fatto ritorno. Così come sapevano quale sarebbe stata la tragica conseguenza dell’azione. Una partita in più tempi, con la lucida consapevolezza di portarsi sulle spalle una tragedia.
E infatti tutto lo schieramento liberale d’Occidente, che in un primo momento è corso a schierarsi nei ranghi sionisti, anche dovendo aggiustare la propria posizione di fronte agli abominevoli atti e dichiarazioni israeliane non trova di meglio che buttare addosso ad Hamas la responsabilità delle vittime civili palestinesi. Come se fossero le organizzazioni palestinesi a bombardare i propri stessi ospedali.
Una critica che ricorda da vicino quelle che la nostra destra oppone ai fatti di via Rasella, le responsabilità delle rappresaglie dell’occupante buttate addosso ai resistenti. Umanitarismo peloso con l’obbiettivo di disarmare la mano che prova a liberarsi, negare la possibilità di risposta a chi la violenza la subisce quotidianamente e tenta una pratica di liberazione9.
Quello che non si capisce, o che si preferisce tacere, è che un popolo che viene rinchiuso, limitato nei movimenti, espropriato delle proprie terre e case, mutilato nel corpo e nel futuro possibile, ingiuriato, bastonato, rinchiuso e ucciso senza ragione, non può che trovare l’unica forma di vita possibile nella liberazione.

Per settantacinque anni (qualche decennio in più se contiamo gli anni in cui le bande armate di sionisti erano attive prima della fondazione ufficiale dello stato di Israele) i palestinesi si sono visti massacrare quotidianamente, hanno subito la violazione di ogni accordo e ogni norma di diritto internazionale ed il mondo è rimasto muto. Le loro case sono state demolite o occupate e intorno c’era silenzio. I luoghi di culto profanati nell’indifferenza generale; gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani sequestrati di notte nei loro letti, ingoiati nelle prigioni o uccisi con un colpo davanti la porta di casa; ancora il mondo che guarda e tace. Qualche parola di circostanza, qualche impotente biasimo, ma un sostanziale semaforo verde allo sterminio e all’occupazione.
Gli unici momenti in cui il popolo palestinese ha ottenuto qualche tangibile risultato, costringendo il mondo a guardare, sono quelli in cui si è sollevato. Le organizzazioni militanti, le sommosse popolari, le pietre, i fucili e gli esplosivi sono gli unici mezzi con cui la Palestina è riuscita a strapparsi il bavaglio dalla bocca e ha fatto sentire la propria voce.

Ogni volta ha pagato con un pesante tributo di sangue, ogni volta ha sacrificato tanto i civili innocenti quanto gli insorti. E allora lentamente si è diffusa e cementata una ferma volontà di liberazione ad ogni costo.
Di fronte ad una quotidiana ed inesorabile morte collettiva, il sacrificio di sè stessi per la causa dell’autodeterminazione diventa un elemento culturale cruciale che restituisce senso e dignità ad una esistenza lacerata.
Tramite il martirio l’oppresso afferma la propria vita e rivendica la giustezza della propria causa; impone la sua verità al mondo ribaltando di segno la propria fine corporale e facendosi simbolo ed esempio10.

Andando a stringere non c’è scelta per un palestinese che non sia fuga, rassegnazione o combattimento. Se non si comprende questo elemento fondamentale non si può comprendere né come sia possibile una resistenza che dura da tre generazioni, né come possa ad ogni passaggio di fase essere sempre più radicata e potente nonostante il proprio costante dissanguamento. Più violenta è l’azione di Israele più i combattenti aumentano in numero e determinazione, e dalle fionde passano ai Qassam.
Dietro le azioni della resistenza non c’è un manipolo di fanatici ma un intero movimento sociale e nazionale che passa per attraverso tutto il popolo palestinese in patria e nella diaspora11; motivo per cui la volontà di sterminio è tanto radicata nei vertici di Israele: il progetto sionista non può dirsi compiuto finché rimane anche una minima traccia della Palestina, sia essa un corpo o un brandello di terra.

Soprattutto ecco perché l’operazione di terra e l’assedio sono destinati a fallire. I vertici della resistenza lo hanno dichiarato a più riprese fin dal primo giorno12. Non solo sono pronti ad una guerra di lunga durata, ma sono disposti a pagarne il prezzo fino all’ultimo, d’altronde non hanno altre vie. Tsahal e Netanyahu non possono dire lo stesso.

4. Geopolitica e sentimento della decolonizzazione.
Bisogna inoltre inquadrare quanto sta andando in scena dentro una cornice più ampia.
Le ricadute del conflitto russo-ucraino fuori dai confini occidentali, la rovinosa ritirata americana da Kabul, lo sgretolamento della Francafrique; il riallineamento di blocchi transnazionali secondo coordinate inedite e l’inarrestabile declino dell’Occidente sono tasselli di un quadro i cui significanti principali sono tendenza alla guerra e multipolarismo emergente.

Evitiamo di cadere nuovamente dal pero. Si combatte dentro Gaza ma si lotta per l’intero Medio Oriente. L’Asse della Resistenza antisionista conferisce profondità internazionale alla lotta palestinese poiché la natura stessa dello stato di Israele ha al suo centro un progetto coloniale, etnorazzista ed espansionista che non fa altro che mettere in pericolo l’integrità, la stabilità e la sicurezza dei paesi circostanti.
Se l’ingresso delle truppe di fanteria è stato più e più volte ritardato, nell’attesa di una copertura statunitense con uomini, navi e sottomarini nucleari quale forza di deterrenza, è proprio perché dal 7 ottobre stesso questo Asse è attivo sul fronte di guerra in forme differenti13.

Fin dal primo giorno, al confine tra Israele e Libano si è registrata una costante e calibrata pressione di Hezbollah che ha bersagliato le fattorie Sheeba e diversi mezzi e postazioni militari; un esercizio della forza cautamente controllato tale da evitare una escalation ma sufficiente a tenere sotto scacco le forze israeliane distogliendole dal fronte gazawi. Avversario temibile con cui diverse volte Tsahal ha dovuto fare i conti (amari) nonché uno dei più potenti attori politico militari della regione14.
Le forze Houti dallo Yemen hanno manifestato la propria solidarietà attraverso il lancio di missili balistici e droni15, mentre le milizie irachene e siriane hanno ripetutamente attaccato basi e truppe USA16.
L’Iran, considerato centro nevralgico dell’asse, sembra non esporsi sul campo nonostante le minacciose dichiarazioni rilasciate più volte contro i bombardamenti a Gaza e la sfacciata complicità statunitense. Ma più che un disimpegno sembra mantenere una posizione di “garante politico” dell’asse laddove un suo impegno significherebbe la definitiva conflagrazione regionale, mentre un ruolo di mediazione diplomatica, unita ad un coordinamento tattico delle forze ed una alquanto probabile sotterranea attività di intelligence e supporto logistico permette di mantenere una profondità strategica delle potenzialità dell’Asse, coprendolo da eventuali avventurismi sionisti.17.

Un attivismo frenetico che ha spinto la presidenza statunitense non solo a schierarsi immediatamente senza se e senza ma al fianco della “unica democrazia del medio oriente”, anche quando le posizioni e le volontà israeliane rasentano la mitomania e la psicosi omicida; ma ad impegnarsi direttamente nello scenario dispiegando in tempi strettissimi una forza di deterrenza che, lontano dalle roboanti dichiarazioni sugli aiuti all’Ucraina, segna un ben diverso coinvolgimento.
Non è un caso che nelle stesse ore si moltiplichino i segnali di ricerca di una via di fuga diplomatica dal pantano ai confini orientali d’Europa.

Stavolta la posta in gioco è cruciale, il rischio è quello dell’emergere di un blocco di potere indipendente nell’area dell’occidente asiatico che significherebbe per Washington la definitiva caduta d’egemonia globale, attraverso una perdita di controllo dei territori mediorientali. Alla luce di ciò si rende molto più evidente il ruolo geopolitico di Israele quale testa di ponte dell’imperialismo occidentale. Ma nonostante tutto il potenziale militare è evidente l’ansia statunitense di caparsi in fretta fuori da un brutto affare.
Con questi brividi d’ansia possiamo interpretare il frenetico tour di Antony Blinken in giro per la regione a seminare minacce e ipotesi letteralmente di fantapolitica quale quella di mettere in mano, dopo lo sterminio di Gaza, le redini della Striscia in mano all’ANP di Abu Mazen: l’organismo più depotenziato, delegittimato, inutile e detestato dai palestinesi stessi, il cui unico risultato tangibile è quello di frenare le spinte dal basso in Cisgiordania con una repressione delle forze palestinesi e una manifesta impotenza davanti ai soprusi israeliani18.

Ma se la retorica infiammata è moneta corrente nei discorsi dei diversi leader, con sicuramente un maggiore grado di sincerità e coinvolgimento rispetto alle tristi pagliacciate dei politici europei e americani; gli stati arabi, al pari di quelli occidentali, riflettono la volontà e gli interessi delle proprie classi dirigenti, sempre pronte a sacrificare tutto e tutti sull’altare del proprio disegno. Perduto è il popolo che spera nell’amicizia di uno Stato.
Ciò nonostante il riallineamento delle potenze procede parallelo ad un sentimento popolare che in tutto il mondo musulmano (ed in generale nel Sud Globale) vede come sempre più auspicabile l’allontanamento dall’egemonia occidentale e rileva nella causa palestinese la punta avanzata di un processo di liberazione globale.
Le immense piazze turche, gli accesi raduni libanesi e giordani, le manifestazioni oceaniche che dal Marocco al Pakistan non hanno disertato alcun paese della cintura, i ripetuti e diffusi assalti contro ambasciate, consolati e istituti israeliani ed americani si sono succeduti fin dall’inizio e non accennano a diminuire di intensità né di partecipazione19.

Il coro più gettonato nelle strade, accanto a quello per la Palestina libera, è Takbir-Allahu Akbar. Coro che impulsivamente smuove un certo nervosismo islamofobo anche alle più progressiste orecchie bianche ma che, lungi dal rappresentare una qualche improbabile volontà di sanguinaria conversione globale, esplicita una collettiva adesione ad una comunità di destino, quella musulmana, vissuta come unica alternativa politica e valoriale alla subordinazione all’occidente.
No, Hamas non è l’ISIS così come l’islam non è la barbarie jihadista che abbiamo visto all’opera in Siria.
Oggi l’Islam politico rappresenta una galassia di formazioni, prassi e istanze estremamente diverse tra loro, fino ad attraversare organizzazioni laiche e marxiste, accomunate tutte da un minimo comune denominatore: essere le espressioni organizzate della parte del globo che sta in basso. E non intendiamo solo geograficamente 20.

Non molti decenni fa le masse subalterne si rivolgevano al socialismo per cercare una via d’uscita dalla dominazione coloniale. E allora c’era una Russia sovietica pronta a foraggiarne le ragioni e le pratiche. Strumentalmente certo, eppure era un punto di riferimento materiale oltre che ideale; e soldi e armi contano più di attestati di solidarietà quando devi difenderti.
Oggi quello schema è tramontato ed è cambiato il registro, il vessillo verde ha sostituito la bandiera rossa e le parole d’ordine sono diverse, ma ciononostante il moto collettivo indica volontà di liberazione.
C’è un processo decoloniale in corso che parla una lingua diversa dal passato ma non ne ha mutato l’orizzonte, che ci piaccia o meno21.
Contro questa possibilità si scaglia il potere occidentale quando si schiera al fianco di Israele: contro questi popoli si è pronti a scatenare una guerra ben più ampia di quella che ci ha coinvolto con la Russia. Questa è la posta in gioco, ed è ormai inevitabile fare i conti con questa realtà.

5. Il movimento che viene.
Non dovrebbe stupire che la resistenza palestinese è a questi popoli che fa riferimento quando prende parola.
Oltre la diffusa islamofobia occidentale, dovremmo chiederci quanto tempo è che alle nostre latitudini le forze progressiste o rivoluzionarie hanno smesso di interagire con il resto del mondo? Ma soprattutto, quanto tempo è che abbiamo smesso di dimostrare una forza collettiva tale da poter essere considerati come interlocutori credibili?
Il nostro concetto di post-coloniale ha dismesso da un pezzo le lezioni di Fanon e Cabral ed è diventato puro accademicismo imbecille, ergo, non capiamo più un tubo di ciò che si muove fuori dai parametri del mondo bianco, ecco perché ci si sente in dovere di dire “si i palestinesi hanno ragione, però Hamas è cattivo” e via dicendo.
Come se fosse davvero utile o interessante, come lo avesse veramente chiesto qualcuno, di esprimere un parere immancabilmente superfluo e impotente.

Eppure nel ventre moscio di questo Occidente alla deriva si è mosso qualcosa, si è avuto un sussulto di vita che non ci si aspettava.
Davanti all’orrore indicibile che si sta consumando e alla colpevole impotenza delle istituzioni internazionali, nonostante una martellante campagna propagandistica di media e politica, abbiamo assistito ad un proliferare di mobilitazioni ed iniziative di solidarietà con una forza che quasi si dava per estinta.
Si è dato un cortocircuito che ha segnato in maniera esplicita e netta la frattura tra la narrazione dominante e la coscienza popolare; qualcosa che prima era ravvisabile nelle chiacchiere e nei sospiri di rammarico, ma che è venuto a galla con la Palestina, nonostante potremmo leggerci in controluce anche dell’altro.

E così si è disertata la chiamata alle armi in difesa della democrazia, parola completamente svuotata di significato, e si è attraversato le piazze di tutta Europa sfidando divieti e calunnie.
Gli stessi Stati Uniti sono solcati da un’ondata, che vede la stessa comunità ebraica in prima fila, mobilitativa senza precedenti che è arrivata ad occupare Capitol Hill per rivendicare un cessate il fuoco e ha portato oltre trecentomila persone a marciare per le strade di Washington22.

E se quarantamila persone in corteo a Roma sono un evento più che raro oggi, figurarsi il gigantesco serpentone di corpi che ha solcato il ponte di Londra.
Ancora più notevole è il protagonismo delle seconde generazioni, delle gioventù misconosciute delle nostre città, forze che premono per prendere parola e che nell’incontro nelle piazze si dimostrano il nerbo di un movimento a venire; prefigurano l’emergere di contraddizioni rinfocolate e di soggettività da scoprire.

Per farla breve, una così ampia e profonda dimostrazione di sdegno e solidarietà lascia intravedere delle energie vive che agitano le metropoli, ma se la testimonianza e lo sdegno sono sacrosanti, bisogna portare oltre il ragionamento.
Le sirene del potere imperialista urlano di scontro della civiltà e vorrebbero schierarci a difesa dei traballanti ed ipocriti valori atlantici. Tocca oggi disertare questa chiamata alle armi e se saremo i traditori dell’Occidente, tanto meglio, che ha smesso già da un pezzo di garantire una vita decente ai suoi stessi figli.

Per questo la Palestina ci riguarda da vicino, molto più vicino di quanto vorremmo credere. Occorre guardare ai fenomeni senza le lenti dell’universalismo bianco e venefico, ascoltare le voci che il resto del globo urla, tornare a ragionare seriamente di antimperialismo, allargare le alleanze, approfondire le reti di solidarietà e contro informazione, imporre un’agenda che non si limiti all’umanitarismo e rompere un meccanismo che ci trascina sempre più velocemente verso il baratro.

Lo diciamo chiaramente: la soluzione del problema palestinese non può che passare per la distruzione di Israele sionista; assunto che non significa certo buttare a mare o eliminare gli ebrei, ma vuol dire mettere a tacere una volta per tutte l’egemonia di un progetto fascista, genocida e coloniale che è ormai insostenibile per la sua stessa popolazione; ed è proprio dalle forze progressiste di quest’ultima, oggi ridotte a poco più che un lumicino, che verrà la spinta definitiva che potrà aprire la strada ad un reale processo di pacificazione e riconciliazione collettiva.
Ipotesi più volte silenziata ma che da tempo è presente nel dibattito, come dimostrato dall’impagabile lavoro di Edward Said23.

La liberazione della Palestina non è che uno dei passaggi obbligati per rovesciare la tendenza folle mortifera che avvolge in modo sempre più soffocante il pianeta intero.


  1. https://www.carmillaonline.com/2021/05/22/sei-appunti-palestinesi/  

  2. https://bnn.network/world/palestine/palestinian-factions-unite-a-joint-operational-command-to-counter-israeli-actions/ 

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dichiarazione-rilasciata-dalle-5-forze-della-resistenza-palestinese-il-29-ottobre-2023  

  4. https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861 

  5. https://www.slobodenpecat.mk/it/poraneshen-izraelski-vojnik-otkriva-shto-e-direktivata-hanibal/ e https://mcc43.wordpress.com/2014/08/02/idf-soldati-israele-protocollo-hannibal/ 

  6. Ne ha parlato Moiso su queste pagine qualche giorno fa qui https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/#rf1-79758  

  7. https://www.newarab.com/news/israeli-police-attack-anti-zionist-jews-amid-gaza-war 

  8. https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/gli-influencer-israeliani-prendono-in-giro-i-palestinesi-su-tiktok-cosa-sappiamo-su-questo-trend/ 

  9. https://networkcultures.org/tactical-media-room/2023/10/18/from-resistance-to-liberation-how-october-7th-made-palestinians-once-again-protagonists-of-their-own-history-eng-ita/  

  10. Illuminante per questo aspetto, anche se a tratti limitato e generalmente eurocentrico, rimane F. Dei; Terrore suicida. Religione politica e violenza nelle culture del martirio; Donzelli Editore; Roma 2016 

  11. https://www.sinistrainrete.info/politica/26693-leila-seurat-hamas-e-la-societa-palestinese.html  

  12. https://english.alarabiya.net/News/middle-east/2023/10/19/-Israel-is-killing-us-whether-we-resist-or-not-says-former-Hamas-chief  

  13. https://english.almayadeen.net/news/politics/axis-of-resistance-factions-join-forces-against-israel-us  

  14. https://www.youtube.com/watch?v=sPrF6Cqj6mY  

  15. https://www.reuters.com/world/middle-east/israel-warns-possible-hostile-aircraft-near-red-sea-city-eilat-2023-10-31/  

  16. https://thehill.com/policy/defense/4273531-us-troops-in-iraq-syria-attacked-13-times-in-past-week-pentagon-says/ 

  17. https://www.fpri.org/article/2023/10/iran-and-the-axis-of-resistance-vastly-improved-hamass-operational-capabilities/  

  18. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/11/Radio3-Mondo-del-06112023-2a87a96f-b625-4316-81ce-f6643ca14757.html  

  19. https://crisis24.garda.com/alerts/2023/10/mena-pro-palestinian-rallies-likely-across-region-through-november-update-8  

  20. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/  

  21. che poi il processo di decolonizzazione fosse un limpido e lineare cammino delle masse verso il socialismo europeo, è una di quelle cazzate della sinistra bianca che ci risparmiamo di commentare. 

  22. https://peoplesdispatch.org/2023/11/06/300000-march-in-washington-dc-for-palestine/  

  23. https://www.leparoleelecose.it/?p=15641  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

]]>
Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/ Sat, 14 Oct 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79556 di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco [...]]]> di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.

Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.

Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.

Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.

La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.

E’ soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.

Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.

L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.

Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi .
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.

Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.

Come afferma Francesca Mannocchi su La Stampa del 15 ottobre:

Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi fossero «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti»5.

Anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto, oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio dei popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.

In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)6.

Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. E’ successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi7, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.

Eppure, eppure…è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:

questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] esso ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo8.

Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.

Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»9 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza10.

Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon11. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite12.

Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro ancora, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:

con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)13.

Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.

Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano14.

Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.

Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati15.

Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrlevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel16 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.

Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata17. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero di affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese18. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”19.

Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo20. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta di fondamentale importanza.


  1. Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13  

  2. Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci. 

  3. Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.  

  4. Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.  

  5. F. Mannocchi, Israele, la disumanizzazione del nemico, La Stampa, 15 ottobre 2023  

  6. Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22  

  7. A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997  

  8. Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23  

  9. Ivi, p. 22  

  10. cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023 

  11. Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.  

  12. “L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
    “Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.  

  13. Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30  

  14. Ivi, pp. 25-26  

  15. Ivi, pp. 36-37  

  16. “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”  

  17. La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.  

  18. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.  

  19. Somdeep Sen, op. cit., p. 16.  

  20. “Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.  

]]>