Isochimica – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 22 Dec 2024 06:44:18 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Partenio, ore 14,45 https://www.carmillaonline.com/2018/07/18/partenio-ore-1445/ Tue, 17 Jul 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=47213 di Giovanni Iozzoli

Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – 8000 cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).

A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Deve essere il 1982. E la luce indecifrabile è quella di una domenica pomeriggio di marzo. E siamo tutti seduti sui gradoni di cemento – 8000 cristiani e qualche cane – ad aspettare che abbia inizio l’evento culminante e conclusivo della settimana: Avellino-Ascoli (o Avellino Cagliari, boh! – comunque una partita di seconda o terza fascia, una di quelle che al Novantesimo minuto avrà l’onore del primo collegamento, il meno atteso, a inizio programma).

A proposito di Novantesimo: se avessi un binocolo, lì in curva, potrei vedere in sala stampa il faccione da tricheco premuroso di Luigi Necco, che è tornato da poco in giro dopo le pistolettate alle cosce. E se avessi un dispositivo ottico ancora più potente, salendo sull’ultimo gradone della curva – quello dove le sagome si stagliano nel lucore bluastro del cielo come se fossero ritagliate e appiccicate –, potrei contemplare le baraccopoli che sorgono ai quattro angoli della città: i campi prefabbricati, i container di lamiera, le roulotte e le coorti di botteghe-baracche che hanno sostituito i negozi nella zona commerciale. E se potessi salire su una mongolfiera e gettare lo sguardo ancora più lontano, potrei cogliere lo strazio polveroso e irredimibile dei borghi cancellati, dei paesi squartati, dei quartieri cancellati, dei montarozzi di macerie ovunque, che custodiscono i loro tristi segreti. L’Irpinia è un cimitero, un enorme bacino di raccolta corpi: quelli dei cadaveri propriamente tali, da poco sepolti senza pace, sotto stele e cippi improvvisati; e quelli dei sopravvissuti, che vagano come anime perse in mezzo a quello sventramento quotidiano, in attesa di indovinare un qualche futuro plausibile per le loro vite.

Lo stadio Partenio svolge la funzione di santuario per migliaia di devoti dimessi, che ogni 15 giorni si recano in pellegrinaggio in quel tempio laico della bestemmia: vengono dal centro cittadino, dalle periferie malurbanizzate che erano già brutte prima del sisma e immaginatevi dopo; scendono dai paesi più prossimi alla città ma anche da quelli del cratere, carichi di angosce, lutti, disagi da tempo di guerra, allo scopo di celebrare un rituale che li illuda per tre ore – solo tre orette – che tutto presto riprenderà, le case risorgeranno, gli storpi cammineranno e i morti torneranno a nuova vita. Ma non è solo l’Irpinia squassata, è tutta l’Italia che è un paese duro, difficile da cavalcare. A Palermo e a Napoli le guerre di mafia stanno lasciando sul selciato centinaia di morti – il mercato nazionale dell’eroina è l’unico che tira forte e noi impariamo a districarci nel caos della nostra libanizzazione: drusi, maroniti, cutoliani e corleonesi…
Gli ultimi fuochi della guerriglia italiana si vanno spegnendo come lampi lontani all’orizzonte, mestamente, colonna dopo colonna.
I politici, poi, non ne parliamo: sono gente pericolosa, senza scrupoli, avvezza alle trame della guerra fredda, all’omicidio, alla strage, al ladrocinio sistemico – però hanno lauree, lignaggi ed eloquio, che gli attuali analfabeti di governo non si sognano neanche.
Sta piombando su tutto e tutti quella cappa che poi avrei imparato chiamarsi “riflusso”, con il prefisso post appiccicato a ogni resa.

Anche nelle nostre contrade, un tempo tranquille – quasi bucoliche – si muore con disinvoltura: attentati, overdose, omicidi bianchi in serie, dentro cantieri totalmente fuori controllo. La forza lavoro è tanta, giovane, disponibile, sovrabbondante. Tra poco aprirà il mattatoio dell’Isochimica – esempio quasi didascalico di colonialismo interno contro i ragazzi irpini, mandati al macello a mani nude, a rimuovere l’amianto dai vagoni ferroviari che nel nord Italia il personale FS ha saggiamente rifiutato di trattare. Invaso di manodopera e discarica globale, questo. Siamo nel 1982.

Forse anche per via di questo clima plumbeo e pericoloso, il calcio è diventato una roba maledettamente seria, giù in città. Antonio Sibilia non è ancora stato arrestato, troneggia a bordo campo insultando e minacciando, come suo solito. Tra qualche mese finirà in galera insieme a Enzo Tortora e altre 856 persone di varia umanità (tra cui il mio odiato professore di religione, cappellano delle carceri, più un paio di monache in offerta speciale). Ma noi all’epoca non possiamo prevederlo e non stiamo a preoccuparci: il fatto che abbia portato Juary in udienza in tribunale, a omaggiare Cutolo è un dettaglio di colore. Chi potrebbe osare la messa in discussione di quel giocattolino artigianale che è l’US Avellino – il miracolo della permanenza in serie A nel posto più scassato e disastrato d’Italia?

Io faccio parte di quel gregge anonimo e belante che ritrova un entusiasmo posticcio per quelle due o tre ore dell’evento sportivo. Ho solo 15 anni ma ho già le mie belle rogne. Non mi piace il posto in cui vivo, trovo insopportabile tutto quello squallore rassegnato – ma non so spiegare bene perché. La mia città è smozzicata, come se un lucertolone gigante l’avesse attraversata tirando codate capricciose e azzannando qua e là palazzi e casarelle. Detesto la mia scuola, che infatti vedo molto poco: per i registri risultiamo sempre latitanti o irreperibili; quando siamo lì dentro rilasciamo bigattini nei cessi per renderli inagibili, o programmiamo macchinose telefonate anonime per far chiudere la scuola; una certa indulgenza post-terremoto si protrarrà almeno per un altro paio d’anni e solo questo clima permissivo consentirà a noi caproni, anno dopo anno, di avvicinarci a un qualche immeritatissimo diploma.
Insomma, il contesto è quello giusto per vivere con disagio il mio ingresso ufficiale nell’adolescenza; l’unico antidoto alla depressione collettiva sembra nascosto, come un’essenza segreta, tra le gradinate sbrecciate del Partenio.

Mi guardo intorno, in Curva Sud. Manca poco, eppure non c’è nessuna agitazione visibile. L’atmosfera è ovattata. O meglio, si avverte una specie di fremito silenzioso, interno, sottotraccia. Di solito noi ragazzotti, tutti vestiti in modo precario (prevale il terribile azzurrognolo del Piumone Zamberletti), sputiamo, urliamo, ci tiriamo schiaffoni nel cuzzetto e palline di carta di giornale – dobbiamo far calare l’adrenalina prepartita e ingannare l’attesa, che nei match importanti può protrarsi anche di diverse ore.
Quella domenica no. Il clima è speciale. L’aria è immota. La luce è un liquido amniotico che produce una specie di consapevolezza vibrante. Tutti e 8000 sembriamo sospesi, collocati in una condizione vuota e soprannaturale. Non sento sbraitare, anzi, quasi nessuno parla – solo l’impianto audio continua a propinare musica a casaccio che nessuno ascolta.
Sembra il preludio di qualcosa – un evento, una rivelazione – e non c’entra con il clima prepartita, che era fin dal principio blando e pigro.
È come se fossimo stati convocati tutti là, in quel pomeriggio domenicale, per ricevere una iniziazione misteriosa. Anche se sono un ragazzetto, queste sensazioni mi sono chiarissime e me le ricordo nitidamente ancora oggi. Il verde chiazzato del prato assorbe luce senza rifletterla. I padri di famiglia stanno fermi, con la sigaretta in bocca, a cercare di afferrare un pensiero preciso a cui legarsi; nessuno guarda il campo o il tunnel prezioso, gli sguardi sembrano smarriti nel vuoto, assorti, accigliati, forse pronti alla meraviglia. Il sottofondo musicale anonimo continua ad accompagnare quella quiete innaturale. Il Partenio è un vascello fantasma sganciato dal mondo.

All’improvviso, dagli altoparlanti Pierangelo Bertoli irrompe con “So che sembra facile” – solo voce e pianoforte. So che sembra facile. E mi entra in vena fortissimo e non capisco perché. Ho voglia di piangere, forse tutti gli 8000 stanno per scoppiare nel pianto sommesso della brava gente. Cosa vuole quel cantante in carrozzella, che ci tortura così, con quella voce lugubre che ci scava dentro? Cosa vuole questa luce opaca che congela il tempo e non lo lascia fluire, cosa vuole Dio, da questa massa sbrindellata, più o meno povera e sottomessa: perché ci sta sottoponendo alla tortura della consapevolezza, prima del fischio d’inizio di Avellino-Ascoli? Mi afferra una nostalgia struggente (ma ho solo quindici anni, per Dio!), nostalgia di ciò che non ho vissuto e mai vivrò, nostalgia di nobili altezze, di elevazione, di ascesi, di una vita densa, generosa, eroica, che vorrei fosse già lì, pronta, squadernata davanti ai miei 15 anni, ma che intuisco lontana distanze siderali. Lo so, lo sento che tutti loro stanno provando il medesimo nodo alla gola e al cuore. Tutti vorrebbero liberarsi del loro peccato originale, delle loro meschinità, delle limitatezze in cui la loro esistenza li ha confinati e schiacciati. Vorrei qualcosa dalla vita e non so dare un nome a questa cosa. Mi mancano le parole. I bagliori di rivolta ai quattro angoli del mondo che senti nei telegiornali, l’idea di infilarti dentro la Storia senza mai (che beffa) averla studiata. E la parola Ricostruzione che senti invocare mille volte al giorno, nella fantasia di un adolescente diventa impresa epica, cosmica, di rigenerazione antropologica. Sto per piangere, mi giro affinché Cucciniello non mi veda, ma dall’altra parte c’è Ciccio che mi sta guardando e devo coprirmi gli occhi – mentre Bertoli picchia dolcemente – preferisco fingere che tu mi capirai – e vorrei dirlo anche a loro: ma non sentite niente, ma non riusciamo a trattenere per sempre questo sublime nulla che ci balla in corpo?

All’improvviso una voce divina, la Voce del Sinai, la voce della Montagna:

PER UNA VITA LUNGA E SANA, MANGIATE PASTA LA MOLISANA!

È il primo avviso, tra pochi istanti scenderanno in campo le squadre.
L’incantesimo inizia a rompersi. La gente ricomincia a borbottare, guardarsi intorno, stiracchiarsi, ruttare. Solo io resto immobile, nel mio minuscolo angolino di Curva Sud, a contemplare quel che resta nell’aria di quella malia. I ruminanti tirano fuori noccioline, lupini e Caffè Borghetti, qualche mentecatto si mette a urlare, per trascinarsi dietro gli altri e incitarli alla contesa contro il nemico ascolano. Io vorrei invece che tutto si fermasse. Bertoli in sottofondo non si sente più. Il cielo e la luce hanno ripreso la loro colorazione consueta. No, vi prego. Ci stavo arrivando. Stavo afferrando quella cosa. Due petardi pigri scoppiano in pista, come echi di una guerricciuola che sta finendo. Due o tre fumogeni, puzza, coriandoli, fischietti – bisogna tornare al proprio dovere.

ATTENZIONE ATTENZIONE: OGGI SI BEVE ARNONE!
LA FIAT PARTENAUTO E’ LIETA DI OFFRIRVI LE FORMAZIONI.

La zucca pelata di Di Somma emerge dalla caverna platonica, lo stendardino dei colori sociali in mano e la fascia di capitano bianca con al seguito gli altri della banda che si guardano intorno, accennano qualche passettino di corsa e qualche torsione laterale in movimento. Da quello stesso tunnel avevo visto in passato uscire tante volte Luis Vinicio De Menezes caracollante con la sua sciatica e le mani in tasca, quasi a chiedersi come avesse fatto a finire lì, nel buco del culo del calcio.

La quinta, o sesta, o decima dimensione – quello che era – si è richiusa. Siamo ripiombati tutti e ottomila nel panem et circenses che è la nostra vita quotidiana. Domani dovremo assolutamente inventarci qualcosa per non andare a scuola. La telefonata della bomba non funziona più, il preside lo sa che siamo noi.

P.S. Ho rivissuto qualche altra volta, in età adulta, quella speciale sensazione. Raramente.
Non sono mai riuscito a decifrarla, farla mia. L’unica cosa che so, è che ogni tanto tutto si sospende. Poi ritorna.

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Il silenzio della polvere. Una storia meridionale di amianto https://www.carmillaonline.com/2015/07/21/il-silenzio-della-polvere-una-storia-meridionale-di-amianto/ Tue, 21 Jul 2015 21:30:44 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23825 di Giovanni Iozzoli *

cartografie-sociali-petrillo-silenzio-polvereAntonello Petrillo (a cura di), Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Mimesis/Cartografie sociali, Milano, 2015, 238 pagine, € 18,00

La storia che è al centro del saggio Il silenzio della polvere è tragicamente esemplare – una storia di operai e territori avvelenati da lavorazioni assassine. Le cronache e la letteratura sociologica di questo paese, sono piene di storie così. Il maledetto amianto poi, ha seminato e continua a seminare morte ovunque. Ma nella vicenda Isochimica, narrata nel libro curato da Antonello Petrillo, c’è qualcosa che “eccede” il già [...]]]> di Giovanni Iozzoli *

cartografie-sociali-petrillo-silenzio-polvereAntonello Petrillo (a cura di), Il silenzio della polvere. Capitale, verità e morte in una storia meridionale di amianto, Mimesis/Cartografie sociali, Milano, 2015, 238 pagine, € 18,00

La storia che è al centro del saggio Il silenzio della polvere è tragicamente esemplare – una storia di operai e territori avvelenati da lavorazioni assassine. Le cronache e la letteratura sociologica di questo paese, sono piene di storie così. Il maledetto amianto poi, ha seminato e continua a seminare morte ovunque. Ma nella vicenda Isochimica, narrata nel libro curato da Antonello Petrillo, c’è qualcosa che “eccede” il già visto, un quid di violenza, una matrice di cinismo e crudezza, che colpisce al cuore il lettore. E questa matrice è il contesto di “colonialismo interno”, entro cui la vicenda si sviluppa. Un territorio e le giovani vite che lo animano, mandate scientemente al macello perché considerate “minori” e “immediatamente disponibili”, al consumo capitalistico.

Usando tutte le armi della sociologia critica – l’inchiesta operaia, la conricerca – Petrillo riesce a condurre un’indagine che si legge come un romanzo. Una storia di amianto diventa lo snodo di molti piani di indagine e riflessione che si sovrappongono: il rapporto Nord/Sud, il rapporto tra nuda vita e valorizzazione capitalistica, la terribile potenza dei blocchi sociali di consenso che si creano intorno al governo emergenziale dei territori. Il contesto in cui tutto nasce e matura è l’Irpinia terremotata e affamata di lavoro dell’inizio anni ’80. Quale posto migliore per installarci la più mortifera delle lavorazioni – la rimozione dell’amianto dall’intero parco ferroviario italiano? Avellino si presta all’opera. Molte giovani braccia disoccupate, bassissimo livello di coscienza sindacale e civile, una cappa soffocante di conformismo e clientela. Una specie di terzo mondo domestico. Sarà lì che le FS dirotteranno, negli anni, centinaia di carrozze e locomotori da ripulire dalle pannellature di amianto; le maestranze sindacalizzate delle FS non hanno voluto saperne, di quel tipo di lavoro – e comunque imporrebbero costi di sicurezza e smaltimento elevati; da quel rifiuto si avvia l’esternalizzazione di appalti e rischi, che nei 30 anni successivi diventerà la norma. Centinaia di carrozze e locomotori saranno dirottati negli anni verso la minuscola stazione di Avellino, dove un oscuro imprenditore cresciuto nel sottobosco degli appalti ferroviari, l’ing. Graziano, otterrà l’incarico di ripulire dall’amianto i treni italiani, senza alcuna credenziale, senza nemmeno le autorizzazioni formali delle istituzioni locali.

Molte le pagine dure e crude di quella che solo formalmente è un’inchiesta socio-etnografica. La scena del reclutamento, ad esempio, è atroce: in un pomeriggio di ottobre, dentro un piazzale affollato di disoccupati, il padrone arriva in Mercedes e chiede solo ai giovanissimi di fare un passo avanti; saranno assunti immediatamente – sono loro i privilegiati, in un’assurda selezione generazionale, che fa affidamento sui tempi lunghi di incubazione del ciclo dell’asbestosi. Da allora comincia il lavoro. Decine di giovani, figli dei quartieri periferici o dei campi baraccati, senza alcuna coscienza di rischi e diritti, cominceranno la battaglia a mani nude contro quintali da amianto da rimuovere: in jeans, maglietta e spatola, senza dispositivi, senza protezione, dentro vagoni bui in cui le fibre ti ricoprono di una mortifera coltre bianca. La polvere maledetta la porteranno a casa, dalle loro famiglie, nel loro quartiere. Per un primo periodo, la scoibentazione si svolge addirittura sui binari della stazione, a due passi dai pendolari e dagli studenti che l’affollano nelle ore di punta.

Intorno, un’intera città farà finta di non vedere, di non capire. Il miraggio del lavoro a tutti i costi, il clientelismo di massa, la compravendita degli attori sociali e dei controllori istituzionali – ogni tessera del mosaico si incastra alla perfezione, compresa l’abilità del padrone, che sa agire ricatto sociale, corruzione e paternalismo con maestria. L’ing. Graziano diventerà anche il padrone dell’Avellino calcio; un connubio mefitico (calcio, business, consenso) che per gli avvelenati si tradurrà in qualche abbonamento-omaggio; per i sindacati tacita connivenza; per i politici attiva collaborazione. Tutti hanno da guadagnarci. Gli stessi operai, non sappiamo con che grado di incoscienza, preferiscono ignorare il rischio tremendo che incombe sul loro futuro. Soprattutto per i più giovani, l’idea di una busta paga è troppo attrattiva per quei tempi e quei territori. È lo stesso meccanismo devastante per il quale, proprio in quegli anni, si intensifica il ruolo della Campania come sversatoio dei rifiuti del nord industriale: epopea in qualche modo parallela, medesima dinamica propriamente coloniale, gestita col presidio di un gruppo di comando esteso e pervasivo.

isochimica targaQuando alcuni giovani operai (ma sono già passati alcuni anni di avvelenamento) acquisiscono informazioni sul pericolo mortale in cui svolgono le loro prestazioni ed iniziano ad agitarsi, si scoprono soli ed impotenti. La città li isola, li stigmatizza, addirittura: stanno violando le regole del gioco, stanno mordendo la mano generosa che gli da tutti i mesi da mangiare (e tiene in piedi un largo sistema corruttivo a cui nessuno intende rinunciare). La vicenda Isochimica ci cala prepotentemente dentro gli anni frenetici del dopo terremoto irpino: un cataclisma che improvvisamente precipita dentro una “cattiva modernizzazione” uomini, donne, territori, comunità e istituzioni. Il laboratorio irpino diventerà il primo grande cantiere in cui l’emergenza diventa dispositivo di governo. Ed è utile riflettere sul presente, sugli elementi di continuità tra quel blocco di potere e la realtà attuale, tra la sua pervasiva capacità di legare insieme interessi grandi e piccoli, legalità e criminalità, stato e mercato: un blocco di potere formidabile che governerà un mostruoso impasto di eroina, munnezza, calcestruzzo e consenso sociale, ridisegnando in un decennio la storia del nostro mezzogiorno. L’ing. Graziano, con l’amianto interrato sotto al cortile della fabbrica (e in chissà quanti altri siti abusivi) sta dentro quell’idea di modernità che prevalse allora, prepotente. E anche i morti di oggi, gli ammalati innocenti, le bonifiche mai avviate, stanno in questa specie di foto scattata al passato e al presente del nostro mezzogiorno.

“Il lavoro era faticoso, ma nelle pause si scherzava, eravamo tutti giovani, si parlava di fidanzate, del matrimonio che grazie a questo lavoro sembrava possibile. Seduti sui gradini delle carrozze dei treni, piene di polvere d’amianto, mangiavamo il nostro panino, un caffè, poi si tornava a grattare”

Petrillo e il suo collettivo di lavoro (l’Unità di Ricerca Topografie Sociali) vivono e condividono l’esperienza di una comunità ferita e delusa, in cui chi lottò al momento giusto fu isolato e minoritario, e le voci di oggi restano flebili e inascoltate. Più che alla lettura di un’inchiesta sociologica, il lettore è invitato a calarsi dentro la vita e la sofferenza, guidato dagli “speleologi” dell’Urit, che scandagliano tutto, territorio, media, comunità, esistenze dissestate. La malattia dei contaminati come grande metafora della malattia del nostro sud.

Due parole vanno spese sul curatore, docente presso l’Università Suor Orsola Benincasa, che si occupa da anni “dei dispositivi entro cui si articola materialmente la governamentalità tardo liberale di popoli e territori”, già autore di un testo fondamentale (Biopolitica di un rifiuto) sull’epopea della munnezza in Campania. Quella di Antonello Petrillo è un’anomala figura di intellettuale che ha scelto di non vendere il suo valore scientifico e le sue consolidate relazioni internazionali al miglior offerente, bensì offrirle ai movimenti della resistenza e dell’indignazione. Trovare gente così a Ballarò è difficile; incontrarli nelle piazze delle mille emergenze italiane, a schierarsi, studiare e condividere, è invece assai frequente.

Un libro da leggere, non per specialisti. Con alcuni frammenti struggenti. Come quella foto di gruppo scattata in una pausa caffè, dentro un vagone pieno d’amianto, con cinque o sei giovanotti sorridenti che scherzano, in posa. È il 1983. La didascalia non racconta niente del loro destino.

 

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* [Giovanni Iozzoli ha trattato, in forma di romanzo, nel suo I terremotati, Manifestolibri (2009) – recensito da Carmilla – l’immediato dopo-terremoto irpino, narrando delle comunità lacerate, dei rapporti sociali saltati, di una terra alla prese con quella malamodernizzazione forzata del Mezzogiorno che ha tragicamente ridisegnato, in peggio, territori e vite di cui i media non parlano] (ght)

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