Islam – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Ramadan https://www.carmillaonline.com/2024/03/12/ramadan/ Tue, 12 Mar 2024 21:00:09 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81555 di Giovanni Iozzoli

Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Come negli ultimi 1445 anni, è cominciato il mese di Ramadan per 1,9 miliardi di musulmani nel mondo. Un tempo, in occidente, questa pratica evocava l’eco lontana di mondi esotici. Oggi, con il restringimento e la densificazione degli spazi globali, il digiunatore è il nostro vicino di casa, il collega di postazione o il calciatore che idolatriamo. Paradossalmente, nonostante questa crescente condizione di prossimità, negli ultimi vent’anni lo stereotipo dell’Islam come figura dell’“alterità” per eccellenza, si è sedimentato nell’immaginario collettivo nostrano. Nelle nostre società, la percezione di questa irreversibile presenza islamica, oscilla oggi tra due estremi: la mostrificazione dell’“altro” percepito come presenza aliena, che induce persino sottili suggestioni di “reconquista”; oppure un paternalismo progressista che legge l’identità religiosa come ritardo della storia, inevitabilmente destinato ad essere riassorbito dalla griglia valoriale liberale.

Agli occhi occidentali, il digiuno del Ramadan è forse la più estranea ed “estrema” delle prescrizioni islamiche. È soprattutto la più radicata e massificata pratica collettiva pre-moderna che ancora persiste dentro le nostre società, che hanno sradicato ogni riferimento al trascendente, smontando e ricostituendo più e più volte il senso comune del loro stare al mondo – sotto l’incedere dello sviluppo scientifico e tecnologico che tutto divora e riplasma.

Il Ramadan è un moto spirituale di riconduzione al corpo e alle sue verità elementari. L’atto di culto si pratica col corpo, attraverso il corpo, ma in una allusione di superamento della dimensione mondana e materiale. Digiunare è una pratica antica – che nei secoli passati connotava più o meno tutte le grandi religioni – che solo nell’Islam è rimasta attiva e largamente partecipata. Rappresenta il residuo di epoche pre-tecnologiche in cui solo il corpo era a disposizione degli uomini per esprimere i sentimenti o le aspirazioni più radicali o profonde. Il corpo – prigione samsarica o veicolo di liberazione, a seconda del suo utilizzo – era l’unica realtà su cui l’uomo primordiale potesse contare con certezza.  Quella “organica” era l’unica tecnologia disponibile.

Il corpo che digiuna sta “nuotando controcorrente” – come in ogni ascesi psico-fisiologica, a partire dallo Yoga –, rispetto alla direzione naturale e inerziale. Ordinariamente, l’esperienza umana produce una tendenza centrifuga dell’uomo rispetto all’idea di Dio. Il digiuno serve ad arrestare questo allontanamento dal centro, dal Logos, dall’origine, che inizia semplicemente quando veniamo al mondo. Il digiuno deve provvisoriamente imbrigliare la “fuga dall’essere” che il dipanarsi della vita quotidiana provoca e rivela in ogni suo aspetto. .

Arrestata la traiettoria centrifuga, Il digiuno deve contribuire a riorientare e reintegrare l’individuo verso un suo centro misterioso e nascosto, che solo nel silenzio e nella sottile sofferenza dell’astensione dal cibo e dal bere, si può percepire. Lo scorrere delle ore del giorno appare come calato in una dimensione irreale, in uno stato di sospensione, di attesa. Si crea uno spazio vuoto, libero, in cui le faccende mondane perdono consistenza, si rivelano effimere, vacue, perché il corpo ci ricorda ogni istante che siamo dentro un’anomalia, una eccezionalità, un allarme – abbiamo sete e abbiamo fame.

La vita ricomincia a correre, come l’orologio del tempo biologico, solo al calare del sole. Lì, con la rottura del digiuno, c’è un ritorno ai fondamenti basici dell’esperienza umana – nutrimento e sessualità – che però rappresentano solo una parentesi. Il vero credente usa la sazietà e la notte che incede, per ritornare al piano dell’ascesi e utilizzare le ore del buio e le sottili vibrazioni che da esse emanano.

Per gli occidentali questa esperienza è imperscrutabile, aliena o addirittura folle. La si attribuisce ad una caratterizzazione etnico-geografica – un presunto carattere mistico dell'”orientale”. Ma Oriente e Occidente sono invenzioni provvisorie che servono a fissare le coordinate identitarie – io e l’altro. Il cristianesimo, ad esempio, è stato faccenda orientale per lungo tempo e diventa “occidente” solo faticosamente, nei secoli, relegando nei monasteri le pratiche cultuali e “liberando” le comunità da obblighi che ne avrebbero zavorrato lo sviluppo economico. L’Islam ha riportato “il cenobio” dentro casa, dentro la vita delle persone comuni, rompendo il dualismo e la divisione dei compiti che divideva il sacro e il profano. La preghiera che scandisce la giornata, il Libro senza mediatori, il digiuno, appunto – sono tutte eredità del monastero o dell’ashram, che l’Islam colloca nella vita ordinaria. Nell’Islam non c’è monachesimo perché il monastero pervade la quotidianità, con i suoi riti silenziosi.

Nelle fabbriche del nord Italia – dentro cantieri, magazzini, verniciature, fonderie e zincature –, ogni imprenditore sa, con disappunto mal sopportato, che in questo mese si registrerà un calo della produttività e un aumento dell’assenteismo. Nei paesi islamici l’attività lavorativa è istituzionalmente limitata al minimo; ma in Europa i digiunatori devono convivere con i ritmi ordinari del lavoro, dello studio, persino dello sport. I padroni mugugnano ma abbozzano. Weberiani inconsapevoli, non capiscono come persone spesso povere, dedichino il loro tempo a simili arcaismi: il favore divino è testimoniato dall’abbondanza degli straordinari, mica dei digiuni…

Questa testarda propensione verso le ragioni dello spirito – pur con tutte le prosaiche deformazioni dei tempi presenti – è sostanzialmente incompatibile con la modernità. Anzi, è l’ultimo ostacolo al pieno dispiegamento dell’“uomo nuovo” che il cyber-capitalismo sta faticosamente sgravando dal suo seno. La “coazione a godere”, lo spettacolo come surrogato della vita, l’iper-individualizzazione delle esistenze e la loro presunta “liberazione” dai ceppi del genere, dell’identità e delle radici, le malattie dello spirito come normale condizione umana. E la durezza della fame, delle privazioni – la dimensione naturale che abbiamo impiegato secoli per allontanare da noi come incubo antico (che è invece la quotidianità dei poveri del mondo…). Tutto ciò cozza irriducibilmente con il modello di vita che il tardo liberalismo sta scolpendo.

È per quello che oggi il Ramadan è visto da molti occidentali come residuo intollerabile, fanatico e inspiegabile: perché riporta l’uomo alla nudità, alla fragilità della sua condizione essenziale, lo priva degli orpelli identitari; se digiuni puoi essere ricco, ma soffrirai lo stesso la fame; device e tecno-chincaglieria non aiutano. Torni un neonato affamato, una bocca avida che non può fare altro che affidarsi. L’ego deve mollare la presa, affievolire – almeno per un po’ – la sua ostinazione, per spogliarsi di tutte le maschere con cui abbiamo faticosamente coperto la nostra essenzia. Il permanere sulla faccia della terra di una cultura che non subisce unilateralmente e totalmente la fascinazione del “paese dei balocchi” della modernità, è l’espressione di una preziosa resistenza antropologica da indagare e capire.

L’occidentale ha impiegato secoli per sottrarsi alla consapevolezza del limite del corpo; ha cercato di sconfiggere fame, sete, malattie, dolore; ha cercato di controllare, sedare, riattivare; e oggi ha raggiunto una falsa coscienza di semi onnipotenza che il capitale e la tecnologia alimentano come una bolla artificiale. Vedere uomini e donne del ventunesimo secolo fermarsi a digiunare è un oltraggio alla contemporaneità e alle sue promesse; un rifiuto potenziale, uno schiaffo valoriale, una sfida che lascia l’uomo occidentale ancora più disorientato e solo, nonostante lo stomaco pieno di false certezze.

Buon Ramadan a tutti, allora. A chi digiuna e a chi si abbuffa, nella comune deriva di senso in cui navighiamo. Buon Ramadan: nella speranza non che “l’altro” diventi come noi – a condividere uno strapuntino nell’inferno piatto dell’omologazione – quanto piuttosto si renda disponibile a pompare sangue fresco e idee e vita dentro il corpo esausto della modernità. L’olio della Lampada viene da un Ulivo che non è ne’ d’Oriente ne’ d’Occidente, come recitano i coranici “versetti della luce”.

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Il nuovo disordine mondiale 24 / Appunti palestinesi. Di nuovo il fuoco. https://www.carmillaonline.com/2023/11/07/il-nuovo-disordine-mondiale-24-appunti-palestinesi-di-nuovo-il-fuoco/ Tue, 07 Nov 2023 00:31:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79917 Di Jack Orlando

0. Premessa. Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione. È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola. Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso. Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati. Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre [...]]]> Di Jack Orlando


0. Premessa.
Di questi appunti ne avevamo già scritti poco più di due anni fa su queste stesse pagine1. Operazione Guardiano delle Mura, guerra di razzi, fiamme sulla Spianata delle Moschee, mobilitazione generale della gioventù, islam politico e pratica di liberazione.
È da lì che ripartiamo per tentare una presa di parola.
Perché non sia il solito eterno presente a colonizzare il discorso.
Inutile rivangare per l’ennesima volta i torti, le date, le passate tragedie, gli attori consumati.
Le parti sono chiare e il copione ormai noto.

La presa di parola è sempre un intento combattuto in questi casi. Stretto tra la necessità di tracciare linee e porre punti per orientarsi e la nausea per la marea montante di notizie, perlopiù faziose o monche, che sommerge ogni spazio disponibile, toglie ossigeno e soffoca il ragionamento più di quanto lo stimoli.
Orrore per la pervicace e martellante chiacchiera da bar, piccola e oscena, che divora le possibilità dell’analisi. E necessità di esserci. Oltre il cicaleccio sulle quisquiglie dell’attualità.

Premettiamo che è una presa di parola mossa da cattive intenzioni, quella di chi è seduto avanti al PC, in una celletta degli alveari delle metropoli d’Europa, il culo al caldo come si suol dire. Guardiamo a quello che succede da dietro gli schermi, ci forziamo ad ingurgitare notizie e sottoporci immagini di strazio, tracciando dei fili rossi e cercando di costruire un senso a ciò che stiamo vivendo e osservando.
Prendiamo la parola per parlare “ai nostri”, per ribadire ancora l’ossessione del pensiero politico, per esercizio d’analisi, per andare a scuola dai fatti della Storia nel suo dispiegarsi.

Non scriviamo per prendere posizione. Ma per comprendere, per affilare lo sguardo, scandagliare piste, pescare strumenti per l’azione degli amici in ascolto. Scandalosa osservazione.
Eppure vogliamo sottolinearvela qui, che sia ben chiara. Non ci serve scrivere per prendere posizione perché diamo per scontato, almeno per quel che riguarda noi, qual’è lo schieramento cui apparteniamo.
Siamo, saremo sempre, tra le fila di quelli che sono al servizio dei dannati della terra. Tra uno stato nazione coloniale, razzista e genocida, ed una popolazione in guerra per la propria sopravvivenza abbiamo sempre avuta ben chiara quale sia la nostra parte.
Ergo non ce ne frega un cazzo di sprecare inchiostro per ribadirla, e ancora di meno ci interessa giustificare la nostra posizione, articolare preamboli giustificazionisti a scanso di equivoci, quasi a scusarci per il nostro uscire dai ranghi.

Siamo per gli ultimi, quelli che stanno in basso. Stabilita la nostra parte non ci interessa affatto giudicare dall’alto di una presunta superiorità morale, quella di chi tiene il culo al caldo di cui sopra, quali siano le pratiche di lotta legittime o consone ad una liberazione collettiva.
Ci prendiamo il pacchetto completo.
Riconosciamo primariamente il diritto collettivo all’autodeterminazione: ciò detto su mezzi, tempi e parole della rivolta ha diritto di veto solo chi è letteralmente con i piedi sul campo di battaglia.

1. Questione di sguardi.
Cominciamo da principio. Primo elemento imprescindibile, il punto di vista, la maniera in cui interpretiamo i fenomeni: il 7 ottobre non come tragica e sanguinosa giornata, ma come zenit di un processo politico che vediamo quale catalisi locale di una tendenza quanto meno internazionale.
Organizzazione politica e sentimento popolare, rivolta anticoloniale e passaggio strategico di geopolitica convivono in una giornata dal peso storico.
Hamas ha invaso Israele, ha ammazzato civili e soldati, ha rapito innocenti, ha compiuto una strage… Ha rovinato una festa.
Potremmo anzitutto smettere di ciarlare di Hamas, quale esclusivo attore in campo. L’offensiva è stata portata avanti dalla Resistenza Palestinese tutta (ovvero una rosa di organizzazioni militanti che comprendono, tra le varie, declinazioni differenti di islam politico, laicismo panarabista e marxismo leninismo), che già da anni si è dotata di un Comando operativo unico per portare avanti la lotta oltre le singole fazioni2. Comando unico che già aveva portato ad un livello più alto le capacità di resistenza e che, anche mentre si combatte dentro Gaza, continua a tenere il punto della questione3.

Questo aiuta a comprendere la vastità delle operazioni di guerriglia messe in campo e l’ampia partecipazione anche emotiva della popolazione palestinese. Ma soprattutto impone di smetterla con i distinguo, gli equilibrismi, le dichiarazioni dai guanti di velluto.
Tornando al 2021, segnalavamo come al termine delle ostilità, nonostante il tributo di sangue e nessun avanzamento territoriale, tutta la Palestina celebrò l’evento come una vittoria: una vittoria politica ed esistenziale, la dimostrazione che non solo un popolo recluso e privato dei più semplici mezzi sussistenza potesse ancora imporre la propria presenza al mondo intero, ma che era in grado di tirare su, nei cunicoli delle sue baraccopoli, sistemi di guerra tali da sfidare uno dei più potenti giganti militari del globo.
Una affermazione della vita che passa, paradossalmente, per il sangue.
E difatti ogni volta che Israele ha risposto col terrore e la brutalità che lo contraddistingue, nel tentativo di estirpare la resistenza, non ha fatto che alimentare il fuoco, portare altra gioventù sulla via della lotta.
Se nel 2021 la Palestina ha vinto la sua guerra. Nel 2023 ha sconfitto Israele sul suo stesso campo.

2. Un colpo al cuore del nemico.
Questo è stato il 7 ottobre.
I militanti palestinesi hanno sconfitto Israele in primo luogo perché ne hanno sfondato il dispositivo militare mostrando al mondo, specialmente al mondo del Medio Oriente, che la macchina bellica mostruosa e imbattibile di Israele (e per estensione dell’Occidente tutto) può essere sbaragliata con una combinazione di determinazione ed organizzazione.
L’esercito più potente del mondo è tale solo finché bombarda scuole e ospedali.
È terribile l’umiliazione dei propri soldati decimati mentre tentano di reagire con indosso elmetto e mutande da notte, dei propri mezzi corazzati distrutti e requisiti da contadini in ciabatte. L’invincibilità è una carta che non si gioca due volte.
In secondo luogo hanno inferto un trauma devastante alla psiche collettiva di Israele: uno Stato che tollera con difficoltà anche un solo caduto, figuriamoci quando a morire sono in centinaia, e che è alle prese con una lunga e lacerante crisi interna. È la goccia che fa traboccare il vaso, l’evento che scatena il definitivo attacco di panico.

Sul balletto dei numeri e dei morti eviteremo di tirare in ballo le notizie manipolate quando non inventate, i resoconti di massacri efferati, la pornografia del dolore e della morte violenta, ciò che preme segnalare è come molte delle vittime civili siano cadute nella reazione scomposta, o forse per certi versi intenzionale, delle forze di sicurezza israeliane4, tale per cui sono stati diversi gli attori dentro e fuori Israele a chiedere un’inchiesta che faccia luce su quanto avvenuto, e sul possibile utilizzo del Protocollo Hannibal, che prevede l’eliminazione fisica dei soldati stessi pur di scongiurarne la cattura5.
Dottrina militare alla luce della quale è più facile comprendere come gli ostaggi israeliani non siano in grado di frenare la furia omicida del Tsahal che, alle dichiarazioni da Gaza, ne avrebbe già ammazzati una sessantina sotto le sue stesse bombe.
Oltre a ciò domandiamo soltanto quanto possa essere netta la divisione civile/militare in uno Stato che considera se stesso come una nazione in armi cui ogni cittadino, uomo o donna che sia, deve prestare servizio nell’esercito ed essere perennemente mobilitabile; dove parte delle brutalità peggiori, quali quelle dei coloni, sono commesse da civili armati, con le spalle coperte dalla fanteria in divisa?

Ora, se in un momento di stabilità sociale, Israele è poco in grado di gestire un morto o un prigioniero delle sue fila, in una fase critica come quella che attraversa da oltre un anno, la faccenda è più complicata.
Netanyahu resta in sella solo in virtù dell’emergenza, per i resto è politicamente un morto che cammina, una caduta rimandata di poco ma ormai inevitabile. Lui, come la politica stessa è preso in mezzo tra spinte sanguinarie più esplicite quali quelle dei generali dell’esercito, di cui il ministro Gallan è grottesco portavoce, e più miti consigli quali quelli dell’americano Blinken, preoccupato di una deflagrazione incontrollabile.
Fratture che si approfondiscono giorno dopo giorno dentro la società israeliana che si cannibalizza da sé6, con le famiglie degli ostaggi che premono per una trattativa e vengono accusati di tradimento, con la polizia che reprime violentemente qualsiasi manifestazione di dissenso interno7 nonostante siano sempre di più i cittadini contrari ad una guerra boots on the ground, con la briglia sciolta ai coloni che scaricano sulla Cisgiordania una violenza disordinata che rischia di trascinare loro per primi nel baratro ed il proliferare di video di pessimo gusto in cui si deridono i civili palestinesi massacrati e gli stessi ostaggi8.

Nel momento in cui, tra le macerie di Gaza, inizieranno a cadere i fanti e aumenteranno le coscrizioni, è difficile che il tessuto sociale non si strappi in maniera ancora più irreparabile.
Israele aveva già perso prima ancora di mostrare al mondo il suo vero volto da killer seriale, perché non può resistere alla sua furia imperiale, a costo di sacrificare il suo stesso popolo.
E d’altronde, ogni processo di liberazione antimperialista tende ad una guerra civile che, a vario grado, straborda dalla colonia per riversarsi nella metropoli dominante.

3. Il martirio e la liberazione: nel buttare giù le recinzioni, nell’attaccare i posti militari ed i kibbutz, nell’uccidere e sequestrare militari e civili, occupando porzioni di territorio inviolabile, molti dei militanti palestinesi sapevano che non avrebbero fatto ritorno. Così come sapevano quale sarebbe stata la tragica conseguenza dell’azione. Una partita in più tempi, con la lucida consapevolezza di portarsi sulle spalle una tragedia.
E infatti tutto lo schieramento liberale d’Occidente, che in un primo momento è corso a schierarsi nei ranghi sionisti, anche dovendo aggiustare la propria posizione di fronte agli abominevoli atti e dichiarazioni israeliane non trova di meglio che buttare addosso ad Hamas la responsabilità delle vittime civili palestinesi. Come se fossero le organizzazioni palestinesi a bombardare i propri stessi ospedali.
Una critica che ricorda da vicino quelle che la nostra destra oppone ai fatti di via Rasella, le responsabilità delle rappresaglie dell’occupante buttate addosso ai resistenti. Umanitarismo peloso con l’obbiettivo di disarmare la mano che prova a liberarsi, negare la possibilità di risposta a chi la violenza la subisce quotidianamente e tenta una pratica di liberazione9.
Quello che non si capisce, o che si preferisce tacere, è che un popolo che viene rinchiuso, limitato nei movimenti, espropriato delle proprie terre e case, mutilato nel corpo e nel futuro possibile, ingiuriato, bastonato, rinchiuso e ucciso senza ragione, non può che trovare l’unica forma di vita possibile nella liberazione.

Per settantacinque anni (qualche decennio in più se contiamo gli anni in cui le bande armate di sionisti erano attive prima della fondazione ufficiale dello stato di Israele) i palestinesi si sono visti massacrare quotidianamente, hanno subito la violazione di ogni accordo e ogni norma di diritto internazionale ed il mondo è rimasto muto. Le loro case sono state demolite o occupate e intorno c’era silenzio. I luoghi di culto profanati nell’indifferenza generale; gli uomini, le donne, i bambini, gli anziani sequestrati di notte nei loro letti, ingoiati nelle prigioni o uccisi con un colpo davanti la porta di casa; ancora il mondo che guarda e tace. Qualche parola di circostanza, qualche impotente biasimo, ma un sostanziale semaforo verde allo sterminio e all’occupazione.
Gli unici momenti in cui il popolo palestinese ha ottenuto qualche tangibile risultato, costringendo il mondo a guardare, sono quelli in cui si è sollevato. Le organizzazioni militanti, le sommosse popolari, le pietre, i fucili e gli esplosivi sono gli unici mezzi con cui la Palestina è riuscita a strapparsi il bavaglio dalla bocca e ha fatto sentire la propria voce.

Ogni volta ha pagato con un pesante tributo di sangue, ogni volta ha sacrificato tanto i civili innocenti quanto gli insorti. E allora lentamente si è diffusa e cementata una ferma volontà di liberazione ad ogni costo.
Di fronte ad una quotidiana ed inesorabile morte collettiva, il sacrificio di sè stessi per la causa dell’autodeterminazione diventa un elemento culturale cruciale che restituisce senso e dignità ad una esistenza lacerata.
Tramite il martirio l’oppresso afferma la propria vita e rivendica la giustezza della propria causa; impone la sua verità al mondo ribaltando di segno la propria fine corporale e facendosi simbolo ed esempio10.

Andando a stringere non c’è scelta per un palestinese che non sia fuga, rassegnazione o combattimento. Se non si comprende questo elemento fondamentale non si può comprendere né come sia possibile una resistenza che dura da tre generazioni, né come possa ad ogni passaggio di fase essere sempre più radicata e potente nonostante il proprio costante dissanguamento. Più violenta è l’azione di Israele più i combattenti aumentano in numero e determinazione, e dalle fionde passano ai Qassam.
Dietro le azioni della resistenza non c’è un manipolo di fanatici ma un intero movimento sociale e nazionale che passa per attraverso tutto il popolo palestinese in patria e nella diaspora11; motivo per cui la volontà di sterminio è tanto radicata nei vertici di Israele: il progetto sionista non può dirsi compiuto finché rimane anche una minima traccia della Palestina, sia essa un corpo o un brandello di terra.

Soprattutto ecco perché l’operazione di terra e l’assedio sono destinati a fallire. I vertici della resistenza lo hanno dichiarato a più riprese fin dal primo giorno12. Non solo sono pronti ad una guerra di lunga durata, ma sono disposti a pagarne il prezzo fino all’ultimo, d’altronde non hanno altre vie. Tsahal e Netanyahu non possono dire lo stesso.

4. Geopolitica e sentimento della decolonizzazione.
Bisogna inoltre inquadrare quanto sta andando in scena dentro una cornice più ampia.
Le ricadute del conflitto russo-ucraino fuori dai confini occidentali, la rovinosa ritirata americana da Kabul, lo sgretolamento della Francafrique; il riallineamento di blocchi transnazionali secondo coordinate inedite e l’inarrestabile declino dell’Occidente sono tasselli di un quadro i cui significanti principali sono tendenza alla guerra e multipolarismo emergente.

Evitiamo di cadere nuovamente dal pero. Si combatte dentro Gaza ma si lotta per l’intero Medio Oriente. L’Asse della Resistenza antisionista conferisce profondità internazionale alla lotta palestinese poiché la natura stessa dello stato di Israele ha al suo centro un progetto coloniale, etnorazzista ed espansionista che non fa altro che mettere in pericolo l’integrità, la stabilità e la sicurezza dei paesi circostanti.
Se l’ingresso delle truppe di fanteria è stato più e più volte ritardato, nell’attesa di una copertura statunitense con uomini, navi e sottomarini nucleari quale forza di deterrenza, è proprio perché dal 7 ottobre stesso questo Asse è attivo sul fronte di guerra in forme differenti13.

Fin dal primo giorno, al confine tra Israele e Libano si è registrata una costante e calibrata pressione di Hezbollah che ha bersagliato le fattorie Sheeba e diversi mezzi e postazioni militari; un esercizio della forza cautamente controllato tale da evitare una escalation ma sufficiente a tenere sotto scacco le forze israeliane distogliendole dal fronte gazawi. Avversario temibile con cui diverse volte Tsahal ha dovuto fare i conti (amari) nonché uno dei più potenti attori politico militari della regione14.
Le forze Houti dallo Yemen hanno manifestato la propria solidarietà attraverso il lancio di missili balistici e droni15, mentre le milizie irachene e siriane hanno ripetutamente attaccato basi e truppe USA16.
L’Iran, considerato centro nevralgico dell’asse, sembra non esporsi sul campo nonostante le minacciose dichiarazioni rilasciate più volte contro i bombardamenti a Gaza e la sfacciata complicità statunitense. Ma più che un disimpegno sembra mantenere una posizione di “garante politico” dell’asse laddove un suo impegno significherebbe la definitiva conflagrazione regionale, mentre un ruolo di mediazione diplomatica, unita ad un coordinamento tattico delle forze ed una alquanto probabile sotterranea attività di intelligence e supporto logistico permette di mantenere una profondità strategica delle potenzialità dell’Asse, coprendolo da eventuali avventurismi sionisti.17.

Un attivismo frenetico che ha spinto la presidenza statunitense non solo a schierarsi immediatamente senza se e senza ma al fianco della “unica democrazia del medio oriente”, anche quando le posizioni e le volontà israeliane rasentano la mitomania e la psicosi omicida; ma ad impegnarsi direttamente nello scenario dispiegando in tempi strettissimi una forza di deterrenza che, lontano dalle roboanti dichiarazioni sugli aiuti all’Ucraina, segna un ben diverso coinvolgimento.
Non è un caso che nelle stesse ore si moltiplichino i segnali di ricerca di una via di fuga diplomatica dal pantano ai confini orientali d’Europa.

Stavolta la posta in gioco è cruciale, il rischio è quello dell’emergere di un blocco di potere indipendente nell’area dell’occidente asiatico che significherebbe per Washington la definitiva caduta d’egemonia globale, attraverso una perdita di controllo dei territori mediorientali. Alla luce di ciò si rende molto più evidente il ruolo geopolitico di Israele quale testa di ponte dell’imperialismo occidentale. Ma nonostante tutto il potenziale militare è evidente l’ansia statunitense di caparsi in fretta fuori da un brutto affare.
Con questi brividi d’ansia possiamo interpretare il frenetico tour di Antony Blinken in giro per la regione a seminare minacce e ipotesi letteralmente di fantapolitica quale quella di mettere in mano, dopo lo sterminio di Gaza, le redini della Striscia in mano all’ANP di Abu Mazen: l’organismo più depotenziato, delegittimato, inutile e detestato dai palestinesi stessi, il cui unico risultato tangibile è quello di frenare le spinte dal basso in Cisgiordania con una repressione delle forze palestinesi e una manifesta impotenza davanti ai soprusi israeliani18.

Ma se la retorica infiammata è moneta corrente nei discorsi dei diversi leader, con sicuramente un maggiore grado di sincerità e coinvolgimento rispetto alle tristi pagliacciate dei politici europei e americani; gli stati arabi, al pari di quelli occidentali, riflettono la volontà e gli interessi delle proprie classi dirigenti, sempre pronte a sacrificare tutto e tutti sull’altare del proprio disegno. Perduto è il popolo che spera nell’amicizia di uno Stato.
Ciò nonostante il riallineamento delle potenze procede parallelo ad un sentimento popolare che in tutto il mondo musulmano (ed in generale nel Sud Globale) vede come sempre più auspicabile l’allontanamento dall’egemonia occidentale e rileva nella causa palestinese la punta avanzata di un processo di liberazione globale.
Le immense piazze turche, gli accesi raduni libanesi e giordani, le manifestazioni oceaniche che dal Marocco al Pakistan non hanno disertato alcun paese della cintura, i ripetuti e diffusi assalti contro ambasciate, consolati e istituti israeliani ed americani si sono succeduti fin dall’inizio e non accennano a diminuire di intensità né di partecipazione19.

Il coro più gettonato nelle strade, accanto a quello per la Palestina libera, è Takbir-Allahu Akbar. Coro che impulsivamente smuove un certo nervosismo islamofobo anche alle più progressiste orecchie bianche ma che, lungi dal rappresentare una qualche improbabile volontà di sanguinaria conversione globale, esplicita una collettiva adesione ad una comunità di destino, quella musulmana, vissuta come unica alternativa politica e valoriale alla subordinazione all’occidente.
No, Hamas non è l’ISIS così come l’islam non è la barbarie jihadista che abbiamo visto all’opera in Siria.
Oggi l’Islam politico rappresenta una galassia di formazioni, prassi e istanze estremamente diverse tra loro, fino ad attraversare organizzazioni laiche e marxiste, accomunate tutte da un minimo comune denominatore: essere le espressioni organizzate della parte del globo che sta in basso. E non intendiamo solo geograficamente 20.

Non molti decenni fa le masse subalterne si rivolgevano al socialismo per cercare una via d’uscita dalla dominazione coloniale. E allora c’era una Russia sovietica pronta a foraggiarne le ragioni e le pratiche. Strumentalmente certo, eppure era un punto di riferimento materiale oltre che ideale; e soldi e armi contano più di attestati di solidarietà quando devi difenderti.
Oggi quello schema è tramontato ed è cambiato il registro, il vessillo verde ha sostituito la bandiera rossa e le parole d’ordine sono diverse, ma ciononostante il moto collettivo indica volontà di liberazione.
C’è un processo decoloniale in corso che parla una lingua diversa dal passato ma non ne ha mutato l’orizzonte, che ci piaccia o meno21.
Contro questa possibilità si scaglia il potere occidentale quando si schiera al fianco di Israele: contro questi popoli si è pronti a scatenare una guerra ben più ampia di quella che ci ha coinvolto con la Russia. Questa è la posta in gioco, ed è ormai inevitabile fare i conti con questa realtà.

5. Il movimento che viene.
Non dovrebbe stupire che la resistenza palestinese è a questi popoli che fa riferimento quando prende parola.
Oltre la diffusa islamofobia occidentale, dovremmo chiederci quanto tempo è che alle nostre latitudini le forze progressiste o rivoluzionarie hanno smesso di interagire con il resto del mondo? Ma soprattutto, quanto tempo è che abbiamo smesso di dimostrare una forza collettiva tale da poter essere considerati come interlocutori credibili?
Il nostro concetto di post-coloniale ha dismesso da un pezzo le lezioni di Fanon e Cabral ed è diventato puro accademicismo imbecille, ergo, non capiamo più un tubo di ciò che si muove fuori dai parametri del mondo bianco, ecco perché ci si sente in dovere di dire “si i palestinesi hanno ragione, però Hamas è cattivo” e via dicendo.
Come se fosse davvero utile o interessante, come lo avesse veramente chiesto qualcuno, di esprimere un parere immancabilmente superfluo e impotente.

Eppure nel ventre moscio di questo Occidente alla deriva si è mosso qualcosa, si è avuto un sussulto di vita che non ci si aspettava.
Davanti all’orrore indicibile che si sta consumando e alla colpevole impotenza delle istituzioni internazionali, nonostante una martellante campagna propagandistica di media e politica, abbiamo assistito ad un proliferare di mobilitazioni ed iniziative di solidarietà con una forza che quasi si dava per estinta.
Si è dato un cortocircuito che ha segnato in maniera esplicita e netta la frattura tra la narrazione dominante e la coscienza popolare; qualcosa che prima era ravvisabile nelle chiacchiere e nei sospiri di rammarico, ma che è venuto a galla con la Palestina, nonostante potremmo leggerci in controluce anche dell’altro.

E così si è disertata la chiamata alle armi in difesa della democrazia, parola completamente svuotata di significato, e si è attraversato le piazze di tutta Europa sfidando divieti e calunnie.
Gli stessi Stati Uniti sono solcati da un’ondata, che vede la stessa comunità ebraica in prima fila, mobilitativa senza precedenti che è arrivata ad occupare Capitol Hill per rivendicare un cessate il fuoco e ha portato oltre trecentomila persone a marciare per le strade di Washington22.

E se quarantamila persone in corteo a Roma sono un evento più che raro oggi, figurarsi il gigantesco serpentone di corpi che ha solcato il ponte di Londra.
Ancora più notevole è il protagonismo delle seconde generazioni, delle gioventù misconosciute delle nostre città, forze che premono per prendere parola e che nell’incontro nelle piazze si dimostrano il nerbo di un movimento a venire; prefigurano l’emergere di contraddizioni rinfocolate e di soggettività da scoprire.

Per farla breve, una così ampia e profonda dimostrazione di sdegno e solidarietà lascia intravedere delle energie vive che agitano le metropoli, ma se la testimonianza e lo sdegno sono sacrosanti, bisogna portare oltre il ragionamento.
Le sirene del potere imperialista urlano di scontro della civiltà e vorrebbero schierarci a difesa dei traballanti ed ipocriti valori atlantici. Tocca oggi disertare questa chiamata alle armi e se saremo i traditori dell’Occidente, tanto meglio, che ha smesso già da un pezzo di garantire una vita decente ai suoi stessi figli.

Per questo la Palestina ci riguarda da vicino, molto più vicino di quanto vorremmo credere. Occorre guardare ai fenomeni senza le lenti dell’universalismo bianco e venefico, ascoltare le voci che il resto del globo urla, tornare a ragionare seriamente di antimperialismo, allargare le alleanze, approfondire le reti di solidarietà e contro informazione, imporre un’agenda che non si limiti all’umanitarismo e rompere un meccanismo che ci trascina sempre più velocemente verso il baratro.

Lo diciamo chiaramente: la soluzione del problema palestinese non può che passare per la distruzione di Israele sionista; assunto che non significa certo buttare a mare o eliminare gli ebrei, ma vuol dire mettere a tacere una volta per tutte l’egemonia di un progetto fascista, genocida e coloniale che è ormai insostenibile per la sua stessa popolazione; ed è proprio dalle forze progressiste di quest’ultima, oggi ridotte a poco più che un lumicino, che verrà la spinta definitiva che potrà aprire la strada ad un reale processo di pacificazione e riconciliazione collettiva.
Ipotesi più volte silenziata ma che da tempo è presente nel dibattito, come dimostrato dall’impagabile lavoro di Edward Said23.

La liberazione della Palestina non è che uno dei passaggi obbligati per rovesciare la tendenza folle mortifera che avvolge in modo sempre più soffocante il pianeta intero.


  1. https://www.carmillaonline.com/2021/05/22/sei-appunti-palestinesi/  

  2. https://bnn.network/world/palestine/palestinian-factions-unite-a-joint-operational-command-to-counter-israeli-actions/ 

  3. https://www.infoaut.org/conflitti-globali/dichiarazione-rilasciata-dalle-5-forze-della-resistenza-palestinese-il-29-ottobre-2023  

  4. https://electronicintifada.net/content/israeli-forces-shot-their-own-civilians-kibbutz-survivor-says/38861 

  5. https://www.slobodenpecat.mk/it/poraneshen-izraelski-vojnik-otkriva-shto-e-direktivata-hanibal/ e https://mcc43.wordpress.com/2014/08/02/idf-soldati-israele-protocollo-hannibal/ 

  6. Ne ha parlato Moiso su queste pagine qualche giorno fa qui https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/#rf1-79758  

  7. https://www.newarab.com/news/israeli-police-attack-anti-zionist-jews-amid-gaza-war 

  8. https://www.fanpage.it/innovazione/tecnologia/gli-influencer-israeliani-prendono-in-giro-i-palestinesi-su-tiktok-cosa-sappiamo-su-questo-trend/ 

  9. https://networkcultures.org/tactical-media-room/2023/10/18/from-resistance-to-liberation-how-october-7th-made-palestinians-once-again-protagonists-of-their-own-history-eng-ita/  

  10. Illuminante per questo aspetto, anche se a tratti limitato e generalmente eurocentrico, rimane F. Dei; Terrore suicida. Religione politica e violenza nelle culture del martirio; Donzelli Editore; Roma 2016 

  11. https://www.sinistrainrete.info/politica/26693-leila-seurat-hamas-e-la-societa-palestinese.html  

  12. https://english.alarabiya.net/News/middle-east/2023/10/19/-Israel-is-killing-us-whether-we-resist-or-not-says-former-Hamas-chief  

  13. https://english.almayadeen.net/news/politics/axis-of-resistance-factions-join-forces-against-israel-us  

  14. https://www.youtube.com/watch?v=sPrF6Cqj6mY  

  15. https://www.reuters.com/world/middle-east/israel-warns-possible-hostile-aircraft-near-red-sea-city-eilat-2023-10-31/  

  16. https://thehill.com/policy/defense/4273531-us-troops-in-iraq-syria-attacked-13-times-in-past-week-pentagon-says/ 

  17. https://www.fpri.org/article/2023/10/iran-and-the-axis-of-resistance-vastly-improved-hamass-operational-capabilities/  

  18. https://www.raiplaysound.it/audio/2023/11/Radio3-Mondo-del-06112023-2a87a96f-b625-4316-81ce-f6643ca14757.html  

  19. https://crisis24.garda.com/alerts/2023/10/mena-pro-palestinian-rallies-likely-across-region-through-november-update-8  

  20. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/  

  21. che poi il processo di decolonizzazione fosse un limpido e lineare cammino delle masse verso il socialismo europeo, è una di quelle cazzate della sinistra bianca che ci risparmiamo di commentare. 

  22. https://peoplesdispatch.org/2023/11/06/300000-march-in-washington-dc-for-palestine/  

  23. https://www.leparoleelecose.it/?p=15641  

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Il nuovo disordine mondiale / 21: un’invenzione coloniale (in via di disgregazione) https://www.carmillaonline.com/2023/09/06/il-nuovo-disordine-mondiale-21-uninvenzione-coloniale-in-via-di-disgregazione/ Wed, 06 Sep 2023 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78655 di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era [...]]]> di Sandro Moiso

Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 170, 16 euro

Si muove, confusamente ma con energia, nel continente un nuovo anticolonialismo che non possiamo per ragioni di immagine adottare. Anche perché non lo controlliamo (ancora).[…] E’ ben diverso da quello degli anni sessanta e settanta del secolo scorso, non si nutre di ideologia, non produce leader carismatici, libri o manifesti. Che risultava affascinante anche a una parte dell’Occidente, perché il marxismo africanizzato era un prodotto della nostra cultura. In fondo era esso stesso una esportazione colonialista.[…] Sì, il nuovo anticolonialismo è molto più primitivo […] Gli bastano le immagini: da un lato i grandi alberghi e le banche con le facciate alla Potentik, dall’altro il vuoto della savana, i villaggi e le periferie dove sono in agguato le malattie, la miseria. (Domenico Quirico, “La Stampa”, 5 agosto 2023)

Jean-Loup Amselle (Marsiglia, 1942) è un antropologo francese che ha realizzato ricerche sul campo in Mali, in Costa d’Avorio e in Guinea, concentrando la sua attenzione sui temi dell’etnicità, dell’identità, del multiculturalismo, del postcolonialismo e della subalternità. Inoltre è Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi e caporedattore della rivista internazionale “Cahiers d’études africaines”.

Un curricolo di studi e ricerche importante per l’autore di un testo (edito per la prima volta in Francia nel 2022) che esce in un momento di grave crisi politico-militare della struttura geopolitica e culturale imposta per lungo tempo dal colonialismo francese (ed europeo) all’Africa subsahariana. Come sottolinea Marco Aime nella sua prefazione al testo:

la nozione di Sahel appare per la prima volta nel 1900, nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanicogeografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum. In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche1.

Però, prima di proseguire con l’analisi del contenuto del testo, occorre qui sottolineare subito come di quei dodici stati menzionati nella categoria “Sahel” negli ultimi anni almeno sette si siano sottratti all’influenza occidentale in generale e francese in particolare, come i recenti fatti collegati al “colpo di stato” nigerino sembrano confermare; nonostante gli sforzi militari ed economico-politici messi in atto dal colonialismo francese di mantenere il controllo su una delle aree più ricche di uranio ed altre preziose materie prime dell’intero continente africano. Un’autentica débacle per una forma di occupazione coloniale che è continuata per decenni dopo la cosiddetta “fine dell’età coloniale”, ma che oggi sembra essere giunta al termine insieme alle pretese occidentali di rappresentare, sulle teste di miliardi di abitanti del pianeta oppure delle centinaia di milioni di quelli delle regioni africane coinvolte, l’unico e perfetto modello di governance e organizzazione dello sfruttamento economico delle risorse di gran parte del pianeta.

E qui, in questa pretesa di universalità del modello occidentale, si inserisce la leva, anzi verrebbe da dire il piede di porco, di Amselle, tutto teso a scardinare un modello e un immaginario che sono serviti soltanto a perpetrare fino ad ora un modello di dominio volto a garantire la stabilità e la continuità dello sfruttamento delle risorse africane a favore dei ben più ricchi paesi dell’Occidente bianco e crapulone. Infatti, come afferma ancora Aime nella sua prefazione:

Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori […] Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore2.

Come chiarisce lo stesso Amselle:

il Sahel, categoria nata per designare la regione che si estende tra il Sahara e la savana “sudanese”, è in effetti una realtà spettrale, ibrida, mista, che mescola popolazioni “bianche”, “rosse” e “nere”, agricoltori sedentari e pastori transumanti, animisti e musulmani. Questa realtà mutevole, come quelle che la circondano (il Sahara, la savana), è stata coinvolta in una serie di formazioni politiche su larga scala – gli Imperi del Ghana, del Mali e del Songhay – tutte orientate lungo un asse nord-sud piuttosto che ovest-est. Sebbene la colonizzazione francese si estendesse dal Maghreb al Golfo di Guinea, non fu questa la divisione geografica che ne derivò. Al contrario, i conquistatori, gli amministratori e gli studiosi coloniali stabilirono una geografia razziale e bio-climatica che livellava le zone geografiche, le razze e le etnie in funzione delle latitudini. Ne è risultata una gerarchizzazione ambigua che oppone delle razze “civilizzate” ma pericolose, come i mori, i tuareg e i peul, a razze più incolte ma più pacifiche, come gli “agricoltori neri”. Questo schema di riferimento coloniale continua a essere utilizzato ancora oggi e a ossessionare gli ufficiali francesi delle operazioni “Barkhane” e “Takuba”3.

Sottolineando però come l’opera di divisione trasversale sia stata non soltanto geografica, bio-climatica e razziale, ma anche linguistica.

Non ho ancora fatto notare che dal 2013 in poi, i successivi interventi militari che hanno coinvolto diversi Paesi “saheliani”, soprattutto il Mali, hanno avuto nomi arabi o tamasheq […] “Takuba”, il termine utilizzato per designare la forza speciale europea voluta da Emmanuel Macron, significa “sciabola” in lingua tamasheq. Il campo semantico utilizzato dal comando francese è quindi principalmente arabo e tamasheq e riguarda quindi soltanto le popolazioni nomadi, che rappresentano solo una frazione della popolazione totale del Mali. È facile osservare quindi come la guerra nel Sahel si giochi anche sul piano simbolico, con la scelta dei termini utilizzati, che possono anche ritorcersi contro chi li aveva introdotti. […] Con l’invenzione della categoria di Sahel all’inizio della colonizzazione, e fino al suo utilizzo odierno, la Francia e il Mali non hanno più smesso di guardarsi con sospetto. È la proiezione di un immaginario fantasma, di una parte dell’Africa che ha la consistenza di un sogno, di un safari avventuroso dove si inseguono le fantasie di una casta militare nostalgica di un’epoca passata, un’epoca in cui la Francia contava ancora sulla scena internazionale, mentre adesso non può nemmeno più giocare alla guerra4.

In questo modo l’ex-potenza coloniale francese non soltanto ha troncato le vie “naturali” che un tempo collegavano da nord a sud le società del continente, favorendo lo sviluppo di regni e stati che la storiografia colonialista sembra aver cancellato dalla Storia, riducendo la stessa ad un susseguirsi di scontri interetnici cui solo l’intervento coloniale occidentale avrebbe messo fine5, ma ha anche contribuito allo sviluppo di un’etnicizzazione precedentemente inesistente o scarsamente rappresentativa delle culture locali che si incrociavano e confrontavano secondo altri parametri. Etnicizzazione e demonizzazione, ad esempio, dell’Islam in cui spesso sono cascati anche gli intellettuali “locali”, come Amselle dimostra nel lungo capitolo riguardante La formattazione dell’intellettuale saheliano6. Così, come chiarisce ancora Aime nella sua prefazione:

Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno […] Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”7.

La forma-stato che il colonialismo centralizzatore, soprattutto francese, ha lasciato in eredità ha fatto poi sì che:

L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità8.

Ecco, allora, che il testo edito da Meltemi si rivela di fondamentale importanza per approfondire l’interpretazione degli eventi, solo apparentemente disordinati e imprevedibili, che hanno percorso quella fascia continentale dell’Africa dal febbraio del 2022 (quando i francesi sono stati invitati a lasciare il Mali in 72 ore) e il luglio del 2023 (colpo di stato nigerino). Diciotto mesi durante i quali la storia del continente e del mondo ha ripreso a correre in direziona ostinatamente contraria a quanto voluto, sperato e narrato mediaticamente dai vertici politici, militari ed economici occidentali.

E se qualcuno non fosse ancora convinto di ciò, allora basterebbe paragonare il rapido abbandono di Kabul nell’autunno del 2021 con quello di Khartum nell’aprile di quest’anno. Due capitali, una dell’Afghanistan, l’altra del Sudan; la prima con 4.600.000 abitanti, a capo di uno stato di 650.000 kmq di estensione, e la seconda con 5.275.000 abitanti, a capo di uno stato di 1.800.000 kmq. Aree troppo vaste, troppo miserabili e troppo socialmente e religiosamente nemiche dell’ordine occidentale fin dall’Ottocento9 in cui il tentativo americano ed europeo di tenere in piedi governi fantoccio organizzati intorno alla corruzione e alla concessione di ricche prebende in cambio del libero sfruttamento di risorse fondamentali per l’economia capitalistica occidentale è andato bellamente a farsi fottere. E non per caso.

Un altro ammutinamento di militari scuote l’émpire africano della Francia. Attenzione: il punto centrale di queste giornate torride e stupefatte non è lo scandalo di un golpe. I presidenti francesi, dopo le finte indipendenze, ne hanno ordinati e commissionati a decine per tener in ordine il cortiletto della «grandeur». […] Ma fino a ieri i golpisti si mettevano sull’attenti quando le consegne dal numero 14 rue Saint Dominique, oggi chiamano loro per ordinare ai francesi di fare i bagagli. […] Comunque si sviluppi l’ammutinamento, il punto centrale è il modo in cui sulle rive del Niger, un fiume che per l’Africa è la sintesi della vita, il respiro, l’immediato domani, muore l’impero coloniale della Francia: miseramente, senza stile, tra bugie e porcherie. Questo capitolo disonorevole, sopravvissuto perfino alla logica, si sta sgonfiando come un pallone di gomma, di quelli che fluttuano in aria e poi con un fischio diventano uno straccio di plastica. La Storia, davvero, non finisce con un botto ma con un lamento. Volete un altro simbolo ancor più umiliante? Voilà: l’annuncio che nel vicino Mali il francese è stato abolito come lingua nazionale.[…] Già si ascolta, anche per il Niger, la solita tiritera che ribalta la gerarchia delle evidenze, ovvero che dietro l’ammutinamento ci sarebbe la diabolica mano della pestifera Wagner putiniana. La Wagner non ha inventato niente in Africa, ha solo riempito con traffici e violenza suoi i vuoti che la Francia, e l’Occidente, ha scavato in questi Paesi: con decenni di complicità interessate e di sfruttamento, coltivando servilità e prostituzioni dei suoi alleati al potere, consentendo la saldatura tra l’ingiustizia da denaro e l’ingiustizia da potere10.

Un richiamo cui forse non sfugge neppure il recente colpo di stato militare riuscito, dopo quello fallito del 7 gennaio 2019, nel Gabon11. Anche se, come sempre, è spesso difficile separare l’anelito all’indipendenza dalla Francia dei militari e dei popoli africani dai giochi dell’imperialismo e delle rivalità infra-europee ed occidentali12.


  1. M. Aime, Prefazione all’edizione italiana in Jean-Loup Amselle, L’invenzione del Sahel. Narrazione dominante e costruzione dell’altro, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 9-10  

  2. M. Aime, op. cit., p. 9  

  3. J-L. Amselle op. cit., pp. 143-144  

  4. Ibidem, pp. 144-145  

  5. Si vedano in proposito: T.Green, Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed.originale inglese 2019) e M. Aime, La carovana del sultano. Dal Mali alla Mecca: un pellegrinaggio medievale, Giulio Einaudi Editore, Torino 2023  

  6. Ivi, pp. 37-81  

  7. Ivi, p. 12  

  8. ivi, p. 13  

  9. Quando per quasi vent’anni, tra il 1882 e il 1899, l’impero britannico fu costretto, insieme all’Egitto, a rinunciare al controllo del Sudan e del cruciale snodo geo-politico di Khartum, città posta tra i due principali affluenti del Nilo, dopo le sconfitte subite a causa della rivolta mahdista guidata da Muhammad Ahmad, proclamatosi mahdi, redentore dell’Islam, nel 1881.  

  10. D. Quirico, Niger, perché il colpo di Stato getta il Sahel nel caos più profondo, La Stampa, 28 luglio 2023  

  11. “La Francia ha sempre avuto fortissimi legami con il Gabon che è anche nell’area monetaria del Franco CFA, legato a Parigi, e l’esercito gabonese da anni viene addestrato dai militari francesi. Altri grandi player sono però presenti da anni in Gabon, soprattutto la Cina. Pechino è stata fra i primi a rilasciare un comunicato per chiedere garanzie sulla sicurezza di Ali Bongo, che in primavera era stato ospite di Xi Jinping per concludere una serie di accordi commerciali sullo sfruttamento delle risorse petrolifere. Gli stati confinanti come il Camerun ed il Congo non hanno ancora preso una posizione ufficiale, ma restano entrambi piuttosto vicini alla Francia, anche se in Congo le attività petrolifere sono in joint venture con aziende russe da anni. Già nel 2019 le forze armate avevano tento un colpo di stato in Gabon approfittando dell’assenza di Bongo, in Marocco per curarsi dopo l’ictus, ma in poche ore il governo gabonese aveva ripreso il controllo della situazione. Ora le cose sono diverse e nelle strade di Libreville regna la calma, compreso nel quartiere dove risiede la famiglia del presidente. Questo golpe arriva in un momento particolarmente critico ed in una regione nella quale i paesi sembravano molto più stabili rispetto al travagliato Sahel, un contagio molto pericoloso che potrebbe cambiare definitivamente gli equilibri del continente africano.” Matteo Giusti, I militari prendono il potere anche in Gabon. Un golpe che arriva in un momento particolarmente critico, “Il Riformista”, 30 agosto 2023  

  12. Si pensi, a solo titolo di esempio, che già alla fine dell’Ottocento il ritorno del dominio britannico nel Sudan Mahdista fu dovuto in gran parte al timore per le mire espansionistiche francesi che, potendo contare su una presenza nel Ciad, si sarebbero potute espandere nel Darfur e indebolire l’egemonia britannica nel nord e nell’est dell’Africa.  

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Cronache marsigliesi /8: la guerra civile in Francia. Un tentativo di bilancio https://www.carmillaonline.com/2023/07/13/cronache-marsigliesi-8-la-guerra-civile-in-francia-un-tentativo-di-bilancio/ Thu, 13 Jul 2023 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78242 di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una [...]]]> di Emilio Quadrelli

La rivoluzione è un’ideologia che ha trovato delle baionette. (N. Bonaparte)

I fuochi della rivolta si sono, almeno momentaneamente, sopiti. Con questo articolo cerchiamo di comprendere che cosa i sei giorni di rivolta hanno determinato e quali scenari si vanno delineando. L’articolo si compone di tre interviste rilasciate da attori sociali, già ascoltati in precedenza, che in virtù della loro militanza politica possono vantare un qualche legame con il “popolo dei quartieri”. La nostra interazione con le interviste è stata minima ripromettendoci, in un successivo articolo, di tentare una lettura politica di quanto andato in scena. Una lettura che, senza una base empirica, diventa puro esercizio retorico. “Solo chi fa inchiesta, ha diritto di parola” e a partire da Mao, ma si potrebbe aggiungere tranquillamente da tutta la storia dello “operaismo”, abbiamo cercato in tutti i nostri articoli di mantenere questa “linea di condotta”.
Diamo pertanto, senza fronzoli di troppo, la parola a M. R., operaio precario dell’edilizia attivo nel Collectif Chomeurs Precaries.

Che percezione c’è nei “quartieri” a Marsiglia dopo la rivolta?
Allora, in linea di massima, c’è un senso di soddisfazione abbastanza generalizzata. Questo è ampiamente comprensibile perché, almeno per sei giorni, i “quartieri” sono stati in grado di riversare, e con gli interessi, ciò che abitualmente subiscono. Questo è un fatto che puoi facilmente constatare attraversando una qualunque zona ghetto. La polizia, almeno per il momento, sta tenendo un profilo basso il che rafforza l’orgoglio della banlieue anche se questa calma, più che essere la ratifica di un mutamento dei rapporti di forza, appare come la classica calma che precede la tempesta. Questo è il timore che cogli se esci dalle fasce giovanili. Mentre i petit sono decisamente esaltati perché ritengono di aver vinto, gli altri, che sono passati più volte per l’inferno pensano che le ricadute repressive potrebbero essere molto pesanti.

Ma questo significa che nei “quartieri” vi è una rottura interna?
No, questo no diciamo che, piuttosto, mentre i più giovani focalizzano lo sguardo sull’immediato, gli altri cercano anche di pensare a cosa accadrà a breve. Questa non è una cosa sbagliata ma che rimanda, per quanto magari non esplicitata in maniera chiara, a una visione e consapevolezza politica che ha più di una ragione di essere. In qualche modo molti nei “quartieri” si chiedono: “Adesso cosa facciamo, adesso cosa succede?” Credo che la sintesi esatta di quanto è accaduto possa sintetizzarsi così: una vittoria militare a fronte di una sostanziale debolezza politica. Il che non è proprio una novità, a fronte di una capacità militare e volontà di combattimento che non trovi da nessuna altra parte, ti ritrovi sempre dentro una difficoltà a trasformare in forza permanente, come esercizio di contro potere effettivo, tutto ciò che è stato messo in campo nella battaglia di strada.

Questo vuol dire che la rivolta, almeno sul piano organizzativo, ha lasciato tutto come prima?
Non è facile dare una risposta a questa domanda. Non lo è perché l’internità politica, anche la nostra per carità, a tutto quello che è successo è stata veramente minima per cui quello che possiamo dire con onestà è solo il frutto di alcune relazioni e contaminazioni periferiche con questi mondi. Sulla base di queste possiamo dire che le gang dei petit ne escono notevolmente rinforzate e agguerrite. Non bisogna dimenticare la quantità di armi che sono state sottratte nel corso delle sei giornate il che significa che, di fatto, c’è un livello di armamento operaio e proletario non proprio irrisorio ma è anche vero che, al momento, nessuno è in grado di dire come verranno utilizzate queste armi. Diciamo che l’ipotesi più probabile è che si scivoli dentro, uso un termine che non ha bisogno di molte spiegazioni, un militarismo tanto eroico quanto suicida. Questo, ovviamente, non è scontato, ma se su tutto ciò non si innesta una prospettiva di lotta di lunga durata il rischio c’è anche perché i petit, di loro, hanno una mentalità più affine all’insurrezione, intesa come spallata, che a una lotta che comprende tattica, strategia e disciplina. Per molti versi possiamo dire che vi è una situazione che non si è ancora cristallizzata e quindi un vero bilancio è veramente difficile farlo. In tutto ciò non bisogna sottovalutare il modo in cui, nel suo insieme, la società legittima ha reagito e sta reagendo. Forse è dai tempi dell’Algeria, almeno a memoria d’uomo, che non si vedevano livelli repressivi militari così alti e il richiamo all’Algeria ha a che fare anche con un altro aspetto, in campo sta scendendo, anche sul piano militare, un intero fronte di classe. L’apparire delle “ronde fasciste” va considerato e osservato non come qualcosa che rimanda al passato perché questi non sono i fascisti di ieri ,che cercano di avere un po’ di notorietà nel presente, ma un fronte di classe nazionalista che rappresenta ampi strati di società francese.

Quindi, se quanto affermi è vero, è stato giusto dire, come abbiamo fatto, che siamo di fronte all’incipit della guerra civile?
Penso proprio di sì ma questo non deve stupire. L’epoca attuale è contrassegnata da crisi, guerre dentro uno scenario che vede un obiettivo tramonto dell’occidente, questo riaffiorare del nazionalismo ha ben poco di nostalgico, questo nazionalismo è un frutto moderno e contemporaneo che allinea un fronte di classe anche variegato. Contro la rivolta non vi è solo la grande borghesia ma tutte le classi intermedie e pezzi di classe operaia. La solidarietà mostrata nei confronti del poliziotto omicida non deve essere presa sotto gamba perché mostra come intorno alla polizia e a ciò che rappresenta, si coagulano diverse forze sociali. Qua non si tratta di gridare al fascismo e neppure Le Pen, per essere chiari, pensa di restaurare Vichy, ma di cogliere la messa in atto di una guerra civile su basi nazionaliste intorno alla quale si coagulano diversi pezzi di società. Questo meccanismo è in atto e, come sempre, a un certo punto le cose cominciano a marciare da sole. Questo fa capire anche la cautela che c’è tra la gente dei “quartieri”. Però questo indica anche un’altra cosa, la possibilità che questa situazione offre alle forze rivoluzionarie ma, e lo ripeto sino alla noia, bisogna uscire dall’estetica del conflitto e dalla logica della spallata. In Francia, oggi, va sperimentata una forma organizzativa, su più piani, che sia in grado di instaurare un dualismo politico a tutti gli effetti. Chiaramente questa scommessa è tutto tranne che facile e scontata. Quello che sta andando in scena in Francia, nonostante le indubbie particolarità che ovviamente vi sono e vengono da lontano, ha a che fare con un modello politico e sociale che appartiene al mondo capitalista contemporaneo e, proprio per questo, credo che sia un errore, come spesso accade, ridurre il tutto al “caso francese”. Io credo che in quanto sta accadendo dobbiamo leggere una tendenza in atto del comando capitalista e non il frutto di ciò che viene comunemente definita “frattura coloniale”. Se guardiamo bene la Francia, in realtà, è il laboratorio europeo del modello americano e quindi del punto più avanzato dello sviluppo capitalista.

Questo mi sembra veramente il cuore della questione e mi spiego. Tutti hanno osservato come il livello di scontro di questi sei giorni sia stato di un tale portato da far impallidire persino le rivolte del 2005 e del 2006 le quali non erano state certamente una bagatella. Questo sembra essere vero sia per come si sono mossi i “quartieri”, sia per la risposta militare messa in atto dallo stato. Nel 2005 e 2006 lo stato si è mosso ponendo in atto, accanto alla repressione militare e poliziesca, un tentativo di politiche sociali finalizzate a gestire, non solo in termini di guerra e conflitto, la questione banlieue. Al proposito basta ricordare la quantità di interventi di politologi, sociologi e intellettuali che si erano riversati sul popolo dei quartieri e, insieme a questi, anche il proliferare di organismi sociali in banlieue. Oggi, invece, sembra che l’unico linguaggio che lo stato è disposto a parlare è quello della guerra. Allora, se tutto questo è vero, questa rivolta più che in continuità con il passato sembra incarnare una rottura del presente. Le cose possono essere viste in questo modo?
Cominciamo con il dire che sicuramente lo scontro posto in atto da entrambe le parti è sicuramente incommensurabile a quanto visto nel 2005 e nel 2006 ed è sicuramente giusto rilevare come, questa volta, la risposta statuale sia stata unicamente militare. Sono passati diciotto anni e in questo periodo sono cambiate parecchie cose. La crisi del 2008, che in qualche modo è ancora lì, la guerra come linea strategica del comando capitalista a livello internazionale, la necessità, quindi, di pacificare le retrovie, la guerra preventiva a quella composizione di classe che incarna, in tutto e per tutto, la non possibilità di un patto sociale con il comando. Questo non ha più nulla di francese, secondo noi sbagliano quelli che leggono quanto sta accadendo come un continuum del colonialismo francese. Certo, questo c’è, ma quello che deve essere colto è come questa particolarità francese oggi si inserisce dentro un modello che caratterizza un po’ tutte le metropoli imperialiste occidentali che si stanno sempre più plasmando sul modello americano. Paradigmatico il modo in cui Macron ha attaccato le donne di banlieue. Di questo ne parlerai dopo con M. B.

Ciò che, in qualche modo, prefiguri è uno scontro a tutto tondo tra questo nuovo soggetto proletario e ciò che si sta coagulando intorno alla polizia. Abbiamo letto tutti il comunicato dei sindacati di polizia così come abbiamo dovuto constatare come la solidarietà, che poi in realtà è il dichiararsi favorevole con l’esecuzione di Nanterre, nei confronti del poliziotto omicida abbia trovato consensi non proprio irrilevanti infine, ma certamente non per ultimo, quanto le cosiddette ronde fasciste riscuotano un notevole consenso. Tutto questo, per la società francese, cosa significa? Cosa dobbiamo aspettarci?
Io credo che dobbiamo aspettarci una realtà sociale plasmata sul modello della società americana dove guerra di classe e guerra di razza si intersecano in continuazione anche se è molto utile precisare che quando si parla di razza bisogna precisare che si è neri perché si è poveri. Al fianco della polizia e dello stato non vi sono solo i bianchi, per questo ho più volte detto che qua non siamo dentro a alcun remake fascista, ma anche tutta quella popolazione, soprattutto araba che nel tempo ha acquisito un certo status sociale, che odia il nuovo proletariato. Impostare la lotta sul’antirazzismo significa non vedere che cosa concretamente è diventata questa società. Il fallimento a cui sono andate incontro tutte le associazioni di questo tipo presenti nei quartieri ne sono una buona esemplificazione.

Scusa se ti interrompo. Queste associazioni che ruolo hanno avuto nel corso della rivolta?
Ne sono state travolte e non poteva essere altrimenti. Sono diventate, e non da oggi, una struttura superflua e questo indica anche il mutamento di passo che c’è stato dentro la società francese. Ora provo a spiegarti. Tutte queste organizzazioni, nate anche con buoni propositi, facevano, direttamente o meno, parte di quel “pacchetto sociale” finalizzato a gestire i quartieri non solo in maniera militare. Ben presto, però, queste realtà, la cui esistenza dipende dai finanziamenti pubblici cosa che non bisogna dimenticare, si sono trovate di fronte a un bivio: o cercare di assolvere sino in fondo il loro ruolo di addomesticatori di una situazione sociale la quale, giorno dopo giorno, diventava sempre più esplosiva oppure farsi carico di questa. Farsi carico di questa, però, significava affrontare di petto alcuni nodi che chiaramente entravano direttamente in rotta di collisione con le politiche statali e cittadine nei confronti dei quartieri. Chi ha provato a farlo si è ritrovato con i fondi tagliati e con la quasi impossibilità di svolgere una qualche attività. Chi, per capirsi, si è del tutto integrato con la “linea dello stato” è stato foraggiato ma, in contemporanea, ha iniziato a essere odiato dentro i quartieri perché considerato, e con ampia ragione, come l’altra faccia della polizia. Durante la rivolta queste associazioni sono state attaccate e distrutte. Le poche associazioni non allineate sono semplicemente state scavalcate dagli eventi. La rivolta ha fatto tabula rasa un po’ di tutto di per sé, il fatto che vi siano solo macerie non è un male, bisogna vedere che cosa si sarà in grado di ricostruire.

Questa tabula rasa ha comportato anche l’azzeramento delle strutture islamiche?
Le uniche cose che sono rimaste in piedi delle realtà islamiche sono state le moschee, per il resto i petit non hanno fatto sconti a nessuno. Non sono state risparmiate le macellerie islamiche, le tabaccherie gestite da arabi o i negozi. Quelli che parlano di islamizzazione dei quartieri dicono solo cazzate. Per quello che ci è dato sapere molti Imam hanno cercato di fare da pacificatori ma nessuno è stato ad ascoltarli. Quella che si chiama , in giro c’è anche, è un discorso che appartiene prevalentemente alla vecchia destra, la reazione in atto è contro il proletariato non è di destra e borghese, questo è ciò che va compreso.

Grazie per averci fornito una lettura ben poco convenzionale di ciò che sta accadendo ora, però, torniamo a cosa succede adesso nei “quartieri”.Vi è una possibilità di interazione con questo settore proletario oppure tutto ciò che ha un qualche sapore di politico, dai petit, viene rifiutato a priori?
No, un rifiuto a priori non c’è, parlo almeno per quanto riguarda noi, però è anche vero che esiste una difficoltà enorme di comunicazione e di lettura della cornice diciamo culturale e esistenziale dei petit. Sicuramente rileviamo che gran parte di tutto il nostro armamentario politico e teorico con questi ha ben poco a che fare e che, quindi, occorre un grosso sforzo da parte di chi si ritiene avanguardia di ricalibrare la teoria comunista a partire da ciò che il movimento reale esprime. Su questo, però, occorre essere chiari per non finire in ciò che, di fatto, è l’intellettualismo del movimento. Qua non si tratta di sfornare analisi sociologiche o di fare delle interpretazioni più o meno fantasiose su ciò che accade, si tratta di stare dentro a ciò che il movimento reale esprime. In altre parole si tratta di andare sempre a scuola dalle masse e tenere sempre ben a mente che le masse del presente non possono mai essere uguali e neppure simili alle masse di ieri. Le masse, come noi tutti del resto, siamo il frutto di una realtà in perenne trasformazione. Il marxismo è un metodo non una verità assoluta e rivelata. Noi nei quartieri un po’ ci siamo, delle cose le stiamo facendo e sappiamo che dovremmo continuare, con pazienza, a percorrere questa strada. Solo l’internità alla classe può dare dei frutti, poi si vedrà.

Nel corso dell’intervista si è accennato alle donne di banlieue e come proprio contro di loro si sia riversato l’odio delle istituzioni in quanto considerate dirette responsabili dei comportamenti dei petit. Su questo aspetto riportiamo un sintetico ma molto significativo punto di vista di M.B., una giovane donna di banlieue, pugile agonista e attiva all’interno del Collectif boxe Massilia

Macron ha chiaramente tirato in ballo le famiglie e le donne di banlieue ree di non saper educare i figli. Di fronte a ciò il movimento femminista ha preso posizione?
Diciamo che su questo si è veramente toccato il fondo. Un attacco di questo tipo non si era mai visto, qua siamo veramente alla messa al bando di interi pezzi di società. In questo passaggio si consuma, sul piano formale, la stessa idea dell’esistenza della République. Questo attacco ci racconta di quanto sempre più la banlieue sia stata del tutto assimilata al modello dei ghetti americani. In questi sono le donne a vivere la condizione di maggiore oppressione e sfruttamento oltre a essere, quasi sempre, sole a gestire i figli. Su questo andrebbero dette e scritte una marea di cose, ma non è questo il momento. Ciò che va evidenziato è come di fronte a questo attacco specifico e mirato alle donne di banlieue il movimento femminista non abbia aperto bocca, A noi questo non stupisce perché da tempo ripetiamo che il movimento femminista è tutto interno allo stato e da questo è foraggiato. Il movimento femminista è un movimento borghese e non possiamo aspettarci certo da questo la nascita di strutture di autodifesa delle donne di banlieue. Ma le donne di banlieue non sono l’anello debole dei quartieri, semmai il contrario. Non è utopia pensare che proprio da loro possano prendere forme di organizzazione politica particolarmente avanzate. I presupposti, non solo oggettivi, ma soggettivi vi sono tutti e chi ha un qualche rapporto reale con questi mondi lo può facilmente constatare.

Chiusa questa prima parte abbiamo provato attraverso le parole di J. B., militante del Collectif Chomeurs Precaries e redattrice della rivista Revue Supernova, a dare uno sguardo sull’insieme di ciò che si sta muovendo in Francia dove, prima dell’esplosione dei “quartieri”, si era assistito a due grossi movimenti di massa, i gilet gialli e il movimento contro la riforma delle pensioni, per comprendere se e come questi movimenti hanno, in qualche modo interagito con il “popolo dei quartieri”. Infine abbiamo provato a capire in che modo le varie forze politiche hanno interagito con i petit focalizzando lo sguardo anche sui sommovimenti che la rivolta ha prodotto nel fronte borghese.

C’è stata una qualche interazione tra questa rivolta e i segmenti sociali che avevano dato vita al movimento dei “gilet gialli”
Come ben sai io vengo proprio da quella esperienza e ti ho spiegato anche i motivi per i quali, a un certo punto, l’ho abbandonata. D’altra parte quel movimento si è dissolto e oggi di esso non vi è alcuna traccia. Solo alcune delle persone con le quali ero in più in stretta relazione all’epoca dei gilet ha guardato con una qualche simpatia alla rivolta i più, però, mi sono sembrati contrari.

Eppure i gilet avevano mostrato una non secondaria radicalità e non sembravano particolarmente afflitti dal legalitarismo. Sicuramente non con i toni della rivolta attuale però, nel corso dei loro sabati, si era assistito a livelli di scontro di notevole spessore. Come mai, allora, questa distanza?
Mah, il problema è essenzialmente una questione di classe. Il movimento dei gilet era principalmente un movimento di settori sociali in via di proletarizzazione, di lavoratori autonomi in grave difficoltà e, cosa da non dimenticare, sviluppatosi in gran parte in quelle aree che vengono definite come “la Francia profonda”, ovvero molto poco cittadina. Era un movimento che esprimeva un grosso malessere sociale che aveva manifestato anche alcune punte di radicalizzazione, ma non era riuscito a darsi una chiara connotazione di classe tanto che non è mai riuscito a mettere in piedi uno sciopero. Quel movimento, alla fine, è andato per conto suo senza riuscire a collegarsi con altre realtà ma se ci pensi questa è la storia di tutti i movimenti che nell’ultimo periodo si sono espressi.

Questo mi porta inevitabilmente a chiederti se c’è stata una qualche interazione tra il “popolo della rivolta” e la composizione di classe scesa in piazza contro la riforma delle pensioni?
Direi proprio di no e la cosa non deve certo stupire. Si tratta di due ambiti completamente diversi che rimandano a postazioni e visioni del mondo ben difficilmente compatibili. Non esagero se dico che una parte di quelli che sono scesi in piazza per la riforma delle pensioni nei confronti della rivolta si sia posizionata sulla stessa lunghezza d’onda della polizia- Pensare che l’aristocrazia operaia possa inserirsi in massa dentro una prospettiva rivoluzionaria è pura follia, l’aristocrazia è parte dello stato e questo non da oggi. Storicamente l’aristocrazia operaia, nei momenti di crisi, si è sempre schierata, e anche in maniera attiva, con la borghesia. Ciò che mi riesce veramente difficile capire è come in tanti abbiano potuto prendere un simile abbaglio. Come ti ho detto ogni movimento è andato per conto suo, ma le cose sarebbero potute andare in altro modo? Io non credo. Siamo di fronte a una trasformazione complessiva delle condizioni di classe e ogni frazione di classe combatte a partire dal suo punto di vista. La borghesia in via di proletarizzazione non vuole diventare proletaria, l’aristocrazia operaia vuole rimanere tale e il nuovo proletariato combatte eroicamente contro tutto e tutti ma non ha un programma. Ma le cose vanno avanti e la piccola borghesia sarà proletarizzata e la aristocrazia operaia spazzata via e, a quel punto, se il proletariato sarà stato in grado di elaborare un programma, molte cose potrebbero cambiare. In tutto questo mi sembra importante dire che forse il principale problema che ci troviamo a affrontare è l’assenza di una idea–forza. Che cosa significa comunismo? Cosa significa rivoluzione? Cosa vuol dire dittatura operaia? In un passato ormai remoto a queste domande vi erano delle risposte, oggi palesemente no. Questa mi sembra essere la vera strettoia che dobbiamo affrontare. Diciamo che è chiaro contro cosa lottare, molto meno per che cosa. A me sembra molto significativo che, come abbiamo visto qua a Marsiglia, le merci siano state il principale obiettivo della rivolta. Al momento la merce è, chiamiamolo, il programma di questo proletariato il che non è né un bene, né un male ma un fatto. Da questo orizzonte, da questo immaginario occorre partire.

Quindi, è una domanda che ho già fatto ma vorrei tornarci sopra, tutti i discorsi sulla islamizzazione e via dicendo non hanno alcun senso?
Assolutamente. I petit erano interessati a portare via tutto, oltre che a scontrarsi con la polizia, erano quelle merci che a loro sono negate a mandarli all’attacco. Erano tutti quegli oggetti che potevano solo guardare da lontano a smuovere il loro immaginario, le merci erano e sono la loro idea–forza. Da lì, può piacere o meno, devi partire. In questo, però, devi leggere il rifiuto della povertà, il rifiuto di condurre una vita fatta di continue rinunce, di assenza di risorse, insomma il rifiuto all’essere operai e proletari. Qua, ed è qualcosa di completamente diverso da quel passato che ha caratterizzato per lo più il movimento comunista, vi è tutto tranne che l’orgoglio di essere operai e proletari, semmai ciò che si odia è proprio questa condizione. Prendersi le merci è sicuramente una cosa illusoria, ma appare il modo più semplice e immediato per emanciparsi dalla propria condizione. Come puoi capire in tutto questo l’Islam non c’entra niente. Semmai, ma questo è un altro discorso, in certi casi l’Islam può essere assunto in maniera simbolica in quanto antifrancese il che, come puoi capire, è ben diverso da una adesione a questo. Le realtà islamiche presenti nei quartieri hanno provato a svolgere un ruolo di pacificazione nel corso della rivolta, ma non sono stati minimamente ascoltate.

A questo punto vorrei chiederti che rapporto c’è stato, se è avvenuto, tra la frazione proletaria della rivolta e le varie anime del “movimento”?
Intanto diciamo che non c’è stato. Tutti hanno preso una posizione che andava dall’entusiasmo proprio delle aree autonome, anarchiche e maoiste, a quello di appoggio sì ma con dei distinguo delle varie anime trotskyste sino alla condanna propria degli eredi del PCF e dell’associazionismo sociale e pacifista. In linea di massima, però, non si è andati oltre a un atteggiamento da tifosi. Questo il vero problema della situazione. Non mi sto a ripetere sulla nostra, pur modesta, presenza dentro alcuni ambiti di questa composizione di classe, ne abbiamo già ripetutamente parlato ed è inutile tornarci sopra. Potrei dirti, a partire da ciò, che noi siamo stati dentro alla rivolta, ma direi una falsità. Il lavoro che abbiamo fatto e stiamo facendo sta dando anche dei frutti ma ciò non toglie che, anche noi, siamo molto distanti da tutto ciò che è successo. Ora, come sempre accade in queste situazioni, si consumeranno fiumi di inchiostro, ognuno dirà la sua, ognuno si sentirà di essere il vero interprete della rivolta e tutto questo, ovviamente, sino alla prossima volta. Nel frattempo i quartieri continueranno a stare lì e il movimento a stare qua. Da questa situazione se ne esce solo in un modo: alzando il culo e andando a relazionarsi con la classe. Tutto il resto sono parole che lasciano il tempo che trovano. Potrei mettermi qua a fare le pulci a questo e quello ma non credo che sia questo il modo per affrontare la situazione. Ha senso mettersi a polemizzare che so con gli anarchici piuttosto che con i maoisti? Questo ipotetico dibattito sposta forse di una sola virgola la realtà dentro i quartieri e la sua composizione di classe? Se le domande che mi faccio sono queste allora il mio agire non può che assumere tutta un’altra dimensione. Devo partire dalla classe e non dal movimento. La discussione sul movimento e le sue prese di posizioni mi sembra solo una perdita di tempo. Invece, questo sembra essere l’ultimo dei problemi. I vari siti sono già inondati di articoli, saggi, analisi e chi più ne ha più ne metta ma di come relazionarsi a questa composizione di classe proprio non si parla. C’è la gara a chi fa l’analisi più raffinata, anche se non si capisce sulla base di che cosa, e tutto il resto viene messo tra parentesi. Avrai notato come noi e le realtà simili a noi con le quali stiamo cercando di costruire, a partire dal movimento dei precari e dei disoccupati, un rapporto organizzato con questo proletariato siamo stati i più cauti, quelli che hanno scritto di meno e questo perché, a differenza di altri, abbiamo cercato di capire di più.

Vorrei chiudere chiedendoti qual è stato il comportamento di La France Insoumise di fronte alla lotta dei banlieuesards?
Qualcuno ha sentito la sua voce? A parte la battuta no, La France Insoumise è completamente scomparsa, di lei non si è avuto alcuna traccia. Ma la vera domanda da porsi è: “Che cosa avrebbe potuto fare?” La France Insoumise è un cartello elettorale e basta. Un cartello elettorale, in un paese dove la maggioranza non vota, che pensa di essere ancora negli anni ’60 dove le politiche riformiste avevano un notevole spazio e la ricerca di un patto sociale tra le classi era anche nelle corde della borghesia. In una situazione in cui tutto tende a declinarsi dentro un conflitto politico–militare cosa può fare, che ruolo può avere una forza come La France Insoumise ? Palesemente nessuno. Poi, anche volendo, sulla base di cosa avrebbe potuto agire? Non ha strutture territoriali, non ha strutture di lotta, non ha Comitati di quartiere, La France Insoumise è una forza politica virtuale al pari di tutte le altre. Il suo distacco dal paese reale non è poi così diverso da quello di Macron. Il parlamento è un corpo vuoto e questo vale per tutte le forze politiche. Al proposito mi sembra indicativo il fatto che la controffensiva borghese non sia partita da qualche forza politica, ma che a dettare la linea della guerra civile sia stata la polizia. La stessa Le Pen si è accodata alla polizia, il che vuol dire ben qualcosa. Le classi si stanno organizzando, sicuramente questo è vero per il fronte borghese, attorno a corpi e strutture non riconducibili ai partiti politici i quali non hanno alcun legame, se non quello puramente elettoralistico, con la società. Questo è un mondo che, in qualche modo, aveva decretato la fine della società di massa dove, per società di massa, si intende la partecipazione attiva e organizzata delle classi sociali alla vita pubblica. Una convinzione che attraversa tutti gli schieramenti politici i quali, non per caso, non hanno alcuna articolazione di massa. Chiaramente questa è una illusione perché le masse, tutte le masse, finiscono sempre con l’entrare in gioco. Quando questo succede i partiti politici rimangono spiazzati. Qua non si tratta neppure più di tirare a mezzo il “cretinismo parlamentare”, non si tratta di questo, qua si tratta di prendere atto come le masse per affermare il loro protagonismo non possano fare altro che, nel caso della classe operaia e del proletariato, costruire i suoi organismi ex novo, mentre la borghesia fa leva su alcune strutture, come la polizia, le quali iniziano a assolvere un compito politico. La France Insoumise ha dimostrato di non essere altro che un fetido cadavere, fuori dal tempo e dalla storia.

Ma con tutta quell’area sociale che è stata l’anima del successo elettorale de La France Insoumise è possibile costruire delle relazioni in funzione della costruzione di organismi di massa?

Se consideriamo l’ossatura politica de La France Insoumise direi proprio di no. Politicamente questi sono il retaggio di tutte le cose peggiori della vecchia sinistra francese, il PCF e dintorni. Con loro non è possibile neppure parlare, figuriamoci ipotizzare dei percorsi organizzativi comuni. Se il discorso si sposta su quelli che hanno votato il movimento allora le cose possono anche cambiare ma è qualcosa che devi andare a verificare nella pratica, dentro a delle proposte e iniziative concrete, non si può rispondere in astratto. Tieni presente che la gran massa degli elettori de La France Insoumise è riconducibile a quel settore di classe che ha dato vita al movimento contro la riforma delle pensioni. Sui limiti e le contraddizioni di quel movimento mi sembra che abbiamo già discusso a sufficienza. Rispetto a questi ci potranno essere, per un verso, minimi spostamenti soggettivi, dei quali tra l’altro abbiamo già parlato, dall’altro, e si tratta della cosa più importante, degli spostamenti oggettivi ovvero quanta di quella composizione di classe si ritroverà sempre più alle condizioni del soggetto operaio e proletario che ha dato vita alla rivolta. Lo smembramento della aristocrazia operaia è uno dei progetti del governo Macron ed è un progetto che verrà realizzato, a partire da questo si potranno fare altri ragionamenti che però avranno una base materiale e non ideologica. La France Insoumise e tutto il suo ceto politico in tutto questo non possono avere alcun ruolo.

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Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2021/09/02/su-alcuni-aspetti-militari-della-disfatta-occidentale-in-afghanistan/ Thu, 02 Sep 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67937 di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un [...]]]> di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e capitalistico.

Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui, complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche, una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione, ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità, pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi. Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.

Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del 31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti (e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza internazionale.

La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina – per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.

Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità media abitativa di un quarto circa di quella italiana.

Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.

Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.

Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush, che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne, costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG (Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.

Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua assurdità dal documentario Restrepo, realizzato nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger, in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di David Finkel, I bravi soldati (Mondadori 2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).

La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata, soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane, abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja, insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra cecena5.

Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al combattimento urbano (qui), mentre gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali condizioni (ancora qui), non può esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane, fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della “difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime “collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai voluto portare la democrazia in Afghanistan8.

Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si tratta di mettere the boots on the ground.

Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha svolto più turni in quell’area.

Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo. Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Nelle task force per operazioni speciali. Ho imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo. Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il 2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo12.

Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.

Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre 2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di battaglia iracheno15.

Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra in Vietnam.

Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista geo-politico e giornalista di rilievo:

Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America17.

Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le banche, fin dal primo macello imperialista.

Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il motto we play, you pay che sembra averne sempre caratterizzato la politica militare.

La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è appena iniziata e il politically correct non servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.


  1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018  

  2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31  

  3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)  

  4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021  

  5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²  

  6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)  

  8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021  

  9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea  

  10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga  

  11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47  

  12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA  

  13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”  

  14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”  

  15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006  

  16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001  

  17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021  

  18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006  

  19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui  

  20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021  

  21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?  

  22. Adriano Sofri, per non smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a sventolare ancora idee simili. Complimenti!  

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La mezzaluna occidentale https://www.carmillaonline.com/2021/02/20/la-mezzaluna-occidentale/ Sat, 20 Feb 2021 22:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65007 di Giovanni Iozzoli

Massimo Campanini: L’Islam, religione dell’Occidente, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp.158, €15,00

«Questo saggio è uno studio sul problema delle origini. Intendo le origini della civiltà “occidentale” sui cui il cristianesimo ha impresso un’orma profonda. L’Islam, benchè possa spiacere a molti, è parte integrante di questa civiltà. L’Islam è pienamente “occidentale”» (p. 1)

Il volume di Massimo Campanini si apre con questa dichiarazione d’intenti, che potrebbe suonare incongrua o incomprensibile, agli occhi del profano. Questo perché, soprattutto negli ultimi vent’anni, la categoria “Islam” (di per sé abbastanza problematica da definire) è stata [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Massimo Campanini: L’Islam, religione dell’Occidente, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp.158, €15,00

«Questo saggio è uno studio sul problema delle origini. Intendo le origini della civiltà “occidentale” sui cui il cristianesimo ha impresso un’orma profonda. L’Islam, benchè possa spiacere a molti, è parte integrante di questa civiltà. L’Islam è pienamente “occidentale”» (p. 1)

Il volume di Massimo Campanini si apre con questa dichiarazione d’intenti, che potrebbe suonare incongrua o incomprensibile, agli occhi del profano. Questo perché, soprattutto negli ultimi vent’anni, la categoria “Islam” (di per sé abbastanza problematica da definire) è stata associata in “Occidente” (anche questo, concetto pressoché inafferrabile) ad una idea di “alterità” radicale, di differenza irriducibile o addirittura di nemicità. Naturalmente, per chi conosce un po’ l’evoluzione di questo continente e della percezione di sé che ha costruito nei secoli, l’idea di una internità forte dell’Islam alla cultura d’occidente – addirittura di un contributo essenziale alla sua fondazione – dovrebbe essere scontata: lo confermano una infinità di elementi storici, linguistici, urbanistici, che si intrecciano e si sovrappongono nel nostro passato. Ma restando al livello popolare, quanti baresi sanno oggi che la loro città fu un fiorente emirato? Quanti sanno che le categorie del nostro pensiero logico sono state spesso veicolate, rielaborate e trasmesse dalla mediazione di intellettuali arabi, senza i quali il pensiero greco non sarebbe arrivato fino a noi? Quanti conoscono l’apporto del patrimonio, scientifico, tecnologico e medico, che fioriva nelle terre musulmane, durante il nostro freddo medioevo, e si socializzava in perfetta integrazione, tra Oriente e Occidente, dentro quel reticolo fittissimo di relazioni cooperanti o conflittuali che fu il mediterraneo? Non c’è Occidente senza Islam.

La religione di Mohamed fu considerata per alcuni secoli una eresia cristologica: Dante mette il Profeta dell’Islam nel girone dei “seminatori di discordia”, come se egli non avesse fondato una “nuova religione” ma avesse contribuito a spaccare quella egemone. Agli occhi dei cristiani del tempo, le prime traduzioni in latino del Corano, per quanto approssimative, confermavano queste comuni radici, celebrando la nascita virginale di Isa (Gesù) dal seno immacolato di Myriam. Tra l’altro lo stesso Dante Alighieri, secondo l’illustre arabista Asin Palacios, pescò a piene mani nelle opere di Muhamad Ibn Al Arabi – un gigante della mistica islamica, peraltro iberico. Ed è nota la lettera che papa Pio II scrisse nel 1460 – sicuramente mai spedita ma fatta circolare tra le corti europee a scopo polemico –, nella quale il Pontefice invitava al battesimo Mehemet II, fresco conquistatore di Costantinopoli, condizione soddisfatta la quale il capo della Chiesa sarebbe stato disposto anche a conferire al Sultano il titolo di Imperatore Romano, in quanto legittimo padrone della “seconda Roma”. Un paradosso colossale, in cui il conquistatore ottomano avrebbe potuto acquisire il soglio più alto della regalità d’Occidente. Una idea di prossimità, oggi inconcepibile.

Questa “vicinanza” – nonostante le crociate e le guerre – era vantata anche dall’altra sponda. I musulmani consideravano se stessi come lo stadio più alto e avanzato del puro monoteismo nato dal padre comune Ibrahim. Quindi l’Islam non concepiva se stesso come un elemento di rottura, bensì di sviluppo e purificazione degli errori dottrinali accumulati nei secoli dal cristianesimo e dall’ebraismo. E mentre quest’ultimo restava una religione “etnica”, nata dal contesto semitico e strettamente vincolata ai legami di sangue, il cristianesimo e l’Islam si ponevano nella dimensione dell’universalità: la religione di Paolo è post-ebraica e guarda da subito a Roma; quella di Mohamed lascia prestissimo i deserti d’Arabia per meticciarsi con le grandi civiltà vicine, quella persiana e quella siriana. Si definirà per secoli un rapporto di competizione/scontro/prossimità tra Islam e Cristianesimo, i cui cascami, in forme molto traslate (spesso caricaturali) si riproducono anche oggi.

L’autore, Massimo Campanini, islamista e docente universitario, saggista prolifico e personalità assai rispettata tra le comunità islaimiche italiane – purtroppo prematuramente scomparso nel 2020 – si considerava “usando un termine coranico, un hanif, ovvero un puro monoteista”. Nel suo lavoro di ricerca, rivendicava “un atteggiamento né apologetico né fobico”. In questo saggio, preferisce partire dalla comparazione storica, teologica, filologica, dell’Islam e del cristianesimo, e soprattutto delle due personalità chiave del loro sviluppo – il Profeta e il Messia. Due figure radicalmente diverse, soprattutto nella storicità della loro collocazione: di Mohammed sappiamo molto e gli elementi biografici, pur inseparabili dall’agiografia, sono assai robusti. Mentre la figura di Gesù è tutt’ora oggetto di irrisolte dispute scientifiche , accademiche e storiografiche.

Un elemento di parallelismo-differenziazione è necessario rilevare preliminarmente. La sira di Muhammad è una narrazione storica che non prefigura alcuna “tesi” generale, ma solo mira a descrivere nei dettagli una missione: la predicazione dell’Islam come ultimo messaggio di Dio incentrato sull’unità divina e sulla escatologia. Le narrazioni canoniche della vita di Gesù, invece, sono apparentemente storiche, ma “trasfigurate” per così dire, nel senso che intendono dimostrare la tesi forte e precisa che Gesù è il figlio di Dio e dunque a sua volta Dio (…). I vangeli sinottici, come la Bibbia ebraica quando narra le vicende della storia di Israele, sono la “storia” di Gesù. Il Corano si limita ad accennare a Muhammad, in modo sporadico e non sistematico, e ad alludere criticamente ai fatti della sua vita, nel mentre non racconta alcuna storia organica o finalizzata. (…) Alla luce di tutti i problemi evocati, infatti, sembrerebbe che ricostruire in modo assolutamente certo una vita di Gesù e una vita di Muhammad sia un’impresa assai complessa. Tuttavia, anche se ciò fosse vero dal punto di vista dell’individuazione del Gesù “storico” e del Muhammad “storico”, l’impresa deve essere tentata per le sue implicazioni teologiche, filosofiche e e addirittura politiche, insomma per le sue implicazioni “ideologiche”. Che importanza ha se il Corano è stato collazionato nel 650 circa o nell’800 circa? Il Corano è stato un testo vivo, agente per secoli nella coscienza e nella prassi dei credenti. (…) Lo stesso vale per i/il Vangeli/o, evidentemente per i cristiani praticanti. (p. 47)

L’autore continua lo scavo sul “problema delle origini” intrecciando anche i testi sacri. I musulmani rivendicano da sempre che il Periclytos citato in Giovanni 16:7 – di cui Gesù annuncia la venuta – altri non è che Ahmed (Maometto), il Glorioso (o glorificato). Allo stesso modo il Corano dedica una intera sura a Mryam (Maria) e alla storia dell’annunciazione. Cambia radicalmente lo statuto ontologico del messia:

Gesù non deve essere inteso coranicamente come “messia” in senso ebraico: il suo compito non è quello di riscattare gli israeliti né quello di redimere il genere umano. Gesù è comunque nell’Islam una figura escatologica: sarà lui a manifestarsi, quando Dio vorrà, per sconfiggere il Dajjal (l’Anticristo) e preparare l’avvento alla fine del mondo. Gesù è uno dei sei grandi “messaggeri-legislatori” (rasul) dell’umanità: gli altri sono Adamo, Noè, Abramo, Mosè e naturalmente Muhammad. I “messaggeri-legislatori” sono coloro che, oltre a portare agli uomini l’ammonizione dell’unicità di Dio e del giudizio finale, apportano anche una Legge (sharia) (p. 69)

Queste considerazioni rafforzano l’idea che lo “scontro di civiltà”, più volte evocato nei secoli, sia stato anche “incontro di civiltà”, meticciato di culture, credenze, narrazioni, miti e suggestioni spirituali. Ed è evidente che ridurre le radici euro-occidentali alla matrice “ebraico-cristiana”, esprime una parzialità o una lacuna importante.
Ma se per l’autore, questi assunti sono evidenti, più complicato è indagare sul dove/quando le strade dei due mondi “Occidente cristiano” e “Islam”, si sono progressivamente divaricate. Massimo Campanini individua tre snodi fondamentali:

Nonostante cristianesimo e Islam nascano e si sviluppino in un humus comune, c’è un discrimine storico che li ha divisi: le tre rivoluzioni costitutive del moderno “occidentale” (la rivoluzione scientifica, la rivoluzione francese e la rivoluzione industriale) hanno coinvolto il mondo islamico con grande ritardo, condannandolo ad una rincorsa che assomiglia al paradosso di Zenone (…). Le divarizazioni sopravvenute non dipendono però dai fondamenti, dai testi sacri, né dalle figure dei loro fondatori. Chiedersi dove sia accaduto il momento di svolta che ha separato le due ali principali della civiltà occidentale non è domanda futile o oziosa (…). Relativamente alla rivoluzione scientifica, due fattori sono stati determinanti: l’incapacità di sviluppare un “discorso sul metodo” e, soprattutto, a monte di questo, l’ipertrofia del diritto, che ha fagocitato le esperienze speculative. (…) Non c’è stato nell’Islam un Cartesio che abbia, per così dire, “matematizzato” la metafisica ritenendo possibile parlare di Dio in termini apodittici.(…) D’altro canto, l’origine divina della giurisprudenza (sharia), pur elaborata umanamente (fiqh) ha subordinato a quella le scienze speculative come la filosofia, che non hanno avuto modo di rivendicare un proprio spazio epistemologico. (…) Nell’Islam, in età moderna, non si sono avuti né un Kant, né un Hegel, né un Nietszsche né un Husserl o un Heidegger. (pp. 149-151)

E’ la nota tesi di Hans Kung, secondo cui l’inizio del declino dell’Islam, non va ricondotto a fattori esterni – il flagello mongolo o la crisi politica dei suoi grandi Imperi – quanto piuttosto ad un inaridimento “interno” al pensiero islamico, in cui l’ortodossia legalista dei giureconsulti ha preso il sopravvento sulla filosofia e sulla scienza, ingabbiando l’Islam dentro la conservazione e la riproduzione fedele dei paradigmi, delle teologie e delle prassi – il taqlid, l’imitazione degli antichi. Qui il livello di astrazione e generalizzazione – nel tempo e nello spazio – si fa però pericolosamente alto. Di quale Islam stiamo parlando, in che tempo, in che stagione della storia? L’autore conclude con un affermazione, secondo lui largamente condivisa dagli storici: la religione musulmana non è “refrattaria al capitalismo” e quindi non sono le sue basi teologiche ad aver zavorrato le formazioni sociali del suo mondo, “in ritardo” rispetto alla modernità occidentale. Ma se non fosse proprio così? Se cioè l’Islam covasse nel suo seno dei sani elementi di “refrattarietà” al discorso capitalista egemone negli ultimi due secoli? Se cioè il modello “vincente” – quello nostro – fosse poco compatibile con un etica islamica basata sulla sobrietà degli stili di vita, la prevalenza del comune, lo sguardo rivolto alla trascendenza più che all’accumulazione, l’attenzione per i poveri, gli orfani e gli anziani, il rifiuto della finanza: ebbene tutto ciò sarebbe un disvalore, un elemento di “ritardo”, oppure una ulteriore opportunità per opporsi alla marea nichilista che sta soffocando l’esperienza umana e il senso del nostro stare al mondo?

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Il popolo dell’Apocalisse https://www.carmillaonline.com/2021/02/03/il-popolo-dellapocalisse/ Wed, 03 Feb 2021 22:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64774 “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive. (Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi [...]]]> “Liaisons, ricerca partigiana transoceanica”, vol. I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, pp. 248, 15,00 euro

Una rivista è uno spazio comune dove si riconoscono delle intelligenze unite nella differenza. La sua ricchezza è lo squilibrio delle esperienze e delle intelligenze soggettive.
(Primo Moroni)

Esce, con qualche ritardo rispetto alla pubblicazione in Francia e negli Stati Uniti, il primo volume tematico di “Liaisons”, una rivista che è nata da anni di lavoro ed elaborazioni, legami personali e dibattiti che hanno coinvolto giovani studiosi e attivisti provenienti da diversi e numerosi paesi del mondo. Un intreccio di amicizie e di comuni sensibilità che si è posto un obiettivo ambizioso e necessario: dar voce e spazio a un certo modo di porsi domande dentro il “tempo della fine”.

In un contesto mondiale in cui il terreno della politica, luogo in cui diverse soggettività si incontano e si scontrano dialetticamente, si sta dissolvendo con il venir meno della funzione dei parlamenti e dello Stato nazionale, dediti ormai principalmente alla gestione delle repressione e degli affari correnti indicati da centri finanziari e di potere “esterni”, si rende necessario una maggiore attenzione alle storie particolari, a come si presentano e ripresentano all’interno di determinati e differenti contesti.

Così a partire dalle lotte e dai percorsi organizzativi locali, “Liaisons” cerca di portare alla luce e rendere visibile una trama di situazioni e di prospettive che si allontanano sia dalle politiche rivendicative e governamentali sia dalla vecchia retorica della Rivoluzione.
Al di là di ogni aspirazione universalistica, la rivista tenta di riunire conflitti e intenti apparentemente distanti tra loro. Affinità sotterranee che sono in realtà alal ricerca di uno spazio condiviso, una cassa di risonanza, un riverbero planetario1.

Come si afferma nell’Introduzione:

Ora, proprio quando il mondo ci si presenta, attraverso la sua dissoluzione, sotto forma di una drammatica unità, all’orizzonte un’umile internazionale prende forma e potenza. La riconosciamo a partire da una serie di gesti familiari: la moltiplicazione dei conflitti diretti con la polizia, la diserzione generalizzata dalle istituzioni, il blocco delle strutture petrolifere e nucleari, la proliferazione delle Zad e la messa in comune dei mezzi per vivere e resistere. Dappertutto, assistiamo a un risveglio della vitalità politica, dell’intelligenza strategica e del desiderio di combattere – stavolta non il mondo, ma la sua fine.
Siamo nati in un’era di separazioni, alle soglie dell’inabissamento di un secolo stanco. Condividiamo la stessa insoddisfazione nei confronti delle grandi narrazioni, ma il loro spettro ci tormenta. Prigioniere e prigionieri del tempo della fine, rimaniamo con le spalle al muro davanti a un compito dalla portata incommensurabile: le nostre aspirazioni infatti non possono più relazionarsi con alcun contenuto positivo, ma con ciò da cui partiamo. La nostra eredità politica non è figlia di alcun testamento. Un’affermazione tanto più vera in un mondo che sta per essere distrutto fino all’ultimo grammo.
[…] In questo contesto, l’ultimo dei disastri possibili sarebbe credere di poter ancora risolverli. Tale è il miraggio del populista, che crede di poter riprendere la situazione in mano. Così, tutto il mondo si è sorpreso della vittoria del “Make America Great Again” di Trump quando Putin, Berlusconi, Erdoğan, Modi e Netanyahu da anni regnano (o hanno regnato) sullo stesso registro. Che provengano da milieu popolari o ne maneggino lo stile, tutti riesumano la supposta alleanza tra il sovrano e il suo “popolo”, dissimulando l’enorme divario tra questo e le élites, trincerate dietro gli apparati di stato – ciò che alcuni chiamano deep state. Per conquistarsi i cuori, promettono di salvaguardare tutto ciò che in un “popolo” è identico a se stesso, per scagliarlo contro la minaccia che proviene dalla minoranza, sia essa etnica, sessuale o politica, fino a compromettere praticamente tutto e tutti. Dalle viscere di questa massa abbandonata nel bel mezzo del deserto neoliberale, sorge un nuovo popolo del risentimento. Quasi senza rendercene conto siamo passati da un regime di pacificazione imposto con la guerra a un regime di guerra tout court, che minaccia di sottrarci l’agenda delle cose a venire, di ribaltare la gerarchia di ciò che conta o meno, di ciò che polarizza o lascia indifferenti. Il nemico ha invaso i nostri spazi, minacciando di estirpare l’erba che ci cresce sotto i piedi. E non si limita all’esproprio capitalista, ma ambisce a intercettare le energie di chi si oppone all’ordine liberale per metterle al servizio di una macchina di governo che non si pone neanche più il problema di apparire “socialmente accettabile”. Tutto accade come se gli attuali movimenti autoritari si espandessero al ritmo della virtù ipocrita del liberalismo occidentale, come suo inconfessabile, mostruoso doppio.
[…] E tutto questo “in nome del popolo”.
D’altra parte, di fronte alla convocazione del popolo sull’altare della nazione, i movimenti che si sollevano contro quest’ultima sono chiamati a loro volta, in mancanza di migliori definizioni, “popolari”. Eppure è chiaro come l’effervescenza delle Primavere arabe o del movimento contro la loi travail in Francia sia dipesa dal pensionamento degli organi tradizionali di rappresentanza popolare, ovvero i partiti e i sindacati.
[…] Lontano da ogni “discorso di metodo” politico, l’epoca non ci lascia altra scelta se non quella di pensare un’esistenza senza soggetto, progetto o eredità – compresa quella del “popolo”. In un certo senso, si tratta di riconoscere il fallimento della politica come l’abbiamo sempre conosciuta, persino di quella che abbiamo amato. Ma ammettere un fallimento non è un’ammissione di impotenza, perché la potenza designa ciò che ancora non è venuto alla luce, e che spetta a noi far emergere2.

Per dare corpo al progetto il primo volume monotematico di “Liaisons” prende in esame dieci casi di lotte e contraddizioni sviluppatesi sulla base di questo “fallimento” della politica tradizionalmente intesa: i nazionalismi autoctoni del Canada e québécois, il lungo e rigido inverno politico russo e ucraino, il pueblo che di organizza per difendere il proprio territorio in Messico, la decomposizione delle rigidità giapponesi, le contraddizioni del Libano sospeso tra modernità ed Islam, le ancor maggiori contraddizioni degli Stati Uniti sospesi tra guerra civile e contraddizioni razziali, etniche ed economiche, le azioni di protesta in Sud Corea, le lotte in Francia tra gilets jaunes, loi travail e sicurezza nazionale, la frammentazione catalana e spagnola e, infine, uno sguardo sulle prospettive del “populismo” in Italia.

Quest’ultima e breve sintesi dei contenuti non è sicuramente sufficiente a render conto dei diversi testi e dei movimenti trattati, basti però soltanto concludere che la lettura di questo numero di “Liaisons” può essere davvero indispensabile per chi voglia seriamente porsi delle domande, non offuscate dalla retorica del “bel tempo che fu”, sulla realtà odierna del conflitto sociale diffuso e del suo possibile divenire.


  1. Lo stesso obiettivo condiviso da un testo collettaneo di prossima pubblicazione per Il Galeone editore: Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio (a cura di Sandro Moiso)  

  2. “Liaisons”, vol I In nome del popolo, Agenzia X, Milano 2020, Introduzione, pp.16 – 18  

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Ancora sulla banalità del male https://www.carmillaonline.com/2020/12/02/ancora-sulla-banalita-del-male/ Wed, 02 Dec 2020 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63698 di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di [...]]]> di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.

E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.

L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.

L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.

Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.

Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.

Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).

Ma è proprio questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.

Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.

Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.

Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.

Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.

E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.

«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4

La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.

Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.

Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.


  1. S. Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 155-156  

  2. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2001 (prima edizione italiana 1964)  

  3. S. Montinaro, op. cit. p.121  

  4. ibidem, pp.121-123  

  5. ivi, pp. 157-158  

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Aisha, Pasqualino e lo scontro di civiltà https://www.carmillaonline.com/2020/05/28/aisha-pasqualino-e-lo-scontro-di-civilta/ Thu, 28 May 2020 21:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60463 di Giovanni Iozzoli

Il mio giovane amico e collega Pasqualino è un concentrato antropologico di rara trasparenza. Modenese, figlio di meridionali, bassa scolarizzazione (molto bassa), operaio generico, già segnato da un futuro piuttosto in salita. Il suo eloquio andrebbe studiato in un dipartimento di linguistica: un impasto di italiano televisivo, da bar di periferia, napoletanismi arcaici e gergo da officina padana.

Pasqualino raramente si occupa delle questioni sindacali, che gli sembrano remote e ostiche come la biologia molecolare; né mai si è interessato alle faccende politiche. Da qualche giorno, però, il nostro ha [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Il mio giovane amico e collega Pasqualino è un concentrato antropologico di rara trasparenza. Modenese, figlio di meridionali, bassa scolarizzazione (molto bassa), operaio generico, già segnato da un futuro piuttosto in salita. Il suo eloquio andrebbe studiato in un dipartimento di linguistica: un impasto di italiano televisivo, da bar di periferia, napoletanismi arcaici e gergo da officina padana.

Pasqualino raramente si occupa delle questioni sindacali, che gli sembrano remote e ostiche come la biologia molecolare; né mai si è interessato alle faccende politiche.
Da qualche giorno, però, il nostro ha scoperto una passione travolgente per il dibattito pubblico e l’attualità: concentrandosi essenzialmente sulla vicenda del ritorno in Italia di Silvia Romano.
Pasqualino pare abbia sviluppato un’avversione – potente e improvvisa, come un innamoramento – nei confronti di Silvia Romano Aisha. Pasqualino odia Silvia. Ed è riuscito persino a bersi una puntata intera dell’orrido Giletti, dedicata all’argomento, con la pretesa di discuterne il giorno dopo con i colleghi.

Naturalmente Pasqualino ignorava tutto circa l’esistenza di Silvia Romano, fino al giorno della sua sbandieratissima liberazione. Non sapeva neanche che fosse stata rapita, né se ne sarebbe dato gran pena se lo avesse saputo. Di sicuro ignora anche i dettagli a proposito del suo rapimento, il luogo dove è stata catturata, ad esempio – a 80 km dai resort di Briatore –, preferendo pensare piuttosto a un qualche oscuro, infido e misterioso “Medioriente”, come scenario di questa torbida vicenda che tanto lo indigna.

Il ragazzo è buono come il pane. Certe parole dure e sarcastiche sulla sua bocca stridono e lasciano sgomenti. La sua ostilità è il riflesso di discorsi assimilati in famiglia e nel suo circuito di estrema periferia, ancor più immiserito dalla reclusione anticovid; luoghi in cui la convivenza tra ragazzi italiani e stranieri è strettissima ma non pacificata, con tensioni identitarie sottotraccia che permangono, nei parcheggi notturni di polisportive vuote e bowling scalcinati. Del resto lo stesso Pasqualino, pur essendo un nativo, non si sente affatto un autoctono: la sua evidente “napoletanità” lo rende poco avvezzo a frequentare i suoi coetanei emiliani purosangue. Insomma: Pasqualino ce l’ha con Aisha, ma non sta neanche tanto bene con se stesso.

Dunque, considerando che il nostro uomo era totalmente disinteressato alla storia di Silvia prima dell’11 maggio e che se l’avesse conosciuta prima del rapimento non le avrebbe dedicato la minima attenzione, allora viene da chiedersi: perché la sua trasformazione in Aisha l’ha fatto così tanto imbestialire? Chi conosce Pasqualino, resta colpito e meravigliato dalla sua nuova verve (in)civile. Qual è il dispositivo segreto che accende gli animi dei mille “Pasqualini”, stancamente sottomessi dalle dinamiche della vita eppure capaci di insorgere fieramente scoprendo nemicità strampalate?

Mentre Aisha veniva sepolta dalle contumelie degli haters, le diverse anime (organizzate) dell’Islam italiano, la inondavano di video-auguri, complimenti ed effusioni on line. Inutile negare che per ogni associazione o comunità sarebbe un fiore all’occhiello una affiliazione della ormai celebre neo-convertita. Ma c’è anche la curiosità di capire meglio i moventi e le condizioni di questa ragazza: lei ha conosciuto solo un volto del complicato caleidoscopio dell’islam contemporaneo – quello di un salafismo combattente, povero e retrivo -, ma in Italia e in Europa avrà modo di confrontarsi con molti altri mondi, radicalmente diversi sia per consuetudini che per aspetti dottrinali. E’ vero che il conservatorismo prevale nella maggior parte delle moschee italiane, ma sta venendo avanti anche una giovane generazione di ragazzi – e soprattutto ragazze – che stanno ridisegnando la geografia della presenza islamica in Italia. Aisha che farà? Il tipo di imprinting che ha segnato la sua conversione, come si misurerà con questa complessità?

Torniamo al nostro Pasqualino, addetto al montaggio in una piccola aziendina metalmeccanica emiliana. Ho provato a farlo parlare un po’, per capire il senso della sua avversione contro Aisha. In certo casi meglio ascoltare, che imporre omelie democratiche. Mi ha semplicemente ripetuto con veemenza le solite bassezze che si sono sentite in questi giorni in tv o lette su certi giornalacci: perché abbiamo speso quattro milioni per liberare una traditrice? Ed è forse questa la parola chiave, per decostruire il suo discorso. Traditrice. Silvia ha tradito. E’ diventata un’altra. Ha persino somatizzato l’alterità – tanti avranno pensato che non somiglia nemmeno più alla ragazza delle foto pre-sequestro. E’ passata al nemico esibendone persino l’abbigliamento, a mo’ di stendardo saraceno.

Certo, si tratta di un Nemico difficilmente definibile, in termini razionali. Pasqualino si sente davvero in guerra con “l’Islam”? Si, più o meno. Anche se vive in apparente concordia dentro un rione multietnico, in mezzo a centinaia di musulmani, e nulla lo divide concretamente da loro – a parte qualche abitudine alimentare. Pasqualino avrebbe effettivamente più difficoltà a convivere con dei borghesi modenesi. Del resto, lui non conosce granché del suo Nemico, non sa cos’è “l’Islam”, né tanto meno gli interessa molto. Ma nel corso degli anni – quelli cruciali della sua crescita come individuo e cittadino -, con la persistenza di un veleno sapientemente inoculato ogni giorno, gli è stato spiegato che il Nemico esiste, che parla arabo e che rappresenta una minaccia per il suo mondo. Un giovane proletario italiano di trent’anni fa non avrebbe avuto nessun problema ideologico con l’Islam.

C’è da dire che l’operazione di costruzione del Nemico non si è posta solo sul piano (sub)culturale – avrebbe avuto basi troppo labili per resistere a lungo. Piuttosto, tale dispositivo narrativo si è innestato su una frattura naturale, e molto materiale, che si è aperta nella società tra quelli come Pasqualino e i circostanti mondi migranti; suo padre, un edile precario da molti anni, chissà cosa racconterà in casa circa i “ladri di lavoro” stranieri. Ed è proprio questo il terreno minato: l’occupazione degli spazi urbani, l’accesso al welfare e all’edilizia popolare, e soprattutto la competizione al ribasso sul mercato del lavoro, consentita dalle moderne relazioni industriali deregolate. Su questa base miserabile, è fiorita una versione altrettanto miserabile – e caricaturale – del famoso scontro di civiltà. Huntington ne resterebbe mortificato.

Nemico uguale Competitore. Competitore uguale Musulmano. Musulmano uguale Nemico. Una sequenza illogica che, pur conservando una sua dimensione materiale, mischia identità confessionali, etniche e sociali, in un guazzabuglio incendiario. E’ su tali fallaci equazioni che sono state costruite vent’anni di politiche culturali islamofobe: e hanno funzionato nella misura in cui hanno contribuito a frammentare ulteriormente i destini di classe, ai piani più bassi della piramide sociale. In certi stabilimenti industriali, tale separatezza è rappresentata plasticamente dall’organizzazione del lavoro e degli spazi: al piano superiore gli addetti alle reti commerciali e impiegatizie (autoctoni); in produzione, meridionali dalle residue stabilità contrattuali; nella logistica e nei reparti nocivi, stranieri “cooperatori” poveri e precari.

Il discorso islamofobo non è stato rozzo e banale come si pensa, aveva e ha una sua articolazione e qualche elemento di direzione politica. Ai livelli superiori hanno lavorato le star dal pedigree intellettuale, gente come Oriana Fallaci; ai piani bassi hanno picchiato ai fianchi le horror tv berlusconiane e i dispositivi media-onnivori come la Bestia salviniana. Su Carmilla, il nostro Gioacchino Toni tiene una rubrica periodica intitolata Nemico (e) immaginario: Pasqualino potrebbe incarnare la verità storica di questa nemicità immaginaria – il nemico come entità indefinibile, inafferrabile, eppure sempre ben presente nella tua testa, piazzato sul tuo stesso pianerottolo, solo apparentemente inoffensivo e cordiale, in attesa di colpirti alle spalle ed estrometterti da quel poco che hai.

Torniamo ad Aisha. L’opinione pubblica democratica e la stampa perbenista, hanno ovviamente dichiarato solidarietà a Silvia Romano, per gli attacchi subiti a causa della sua conversione. La maggior parte dei commentatori ne ha accettato con qualche perplessità le scelte; qualcuno, condiscendente ma molto dubbioso, ha evocato in modo sottile la necessaria verifica psichiatrica. In generale si cerca di tenere in piedi la maschera liberale che esalta la sacralità della libera scelta individuale. Il problema di questo approccio è il paternalismo di fondo: una tolleranza esibita verso modelli giudicati arretrati e indigeribili, ma che per il momento è più saggio rispettare, destinati come sono ad essere superati dialetticamente dallo sviluppo storico.

E’ una visione fiduciosamente positivista e ingenuamente illuministica: la religione è solo un ritardo dei popoli – “oppio e consolazione”, diceva Marx. Lasciamogli indossare il velo, perbacco. Prima o dopo quel velo cadrà, sotto la spinta della estetica della “libera società dei consumi” (non era proprio quello che si aspettava Marx) e finalmente potranno diventare come noi. La fascinazione fatale non ha già funzionato per i popoli ad est del Muro? Anche una parte del micromondo femminista condivide questo approccio. In generale presumiamo di essere il punto più avanzato di una linea retta e unilaterale di progresso e civilizzazione, che vede nel nostro modo di vivere, di essere uomini e donne del XXI secolo, lo stadio più avanzato e luminoso. Il progressista medio ama il mito del “buon selvaggio” da emancipare, tanto quanto il missionario è convinto della ineluttabilità della conversione.

Mentre lo xenofobo vorrebbe allontanare il diverso, l’illuminista é certo della sua assimilazione. Per entrambi la strada è segnata: il “pacchetto Occidente” va accettato in pieno, senza riserve, e nessuno sfuggirà all’eccelsa medicina – con le buone o con le cattive. E’ per questo che i popoli del sud del mondo, pur invidiando il nostro modello sociale e affrontando autentiche odissee per condividerlo, restano piuttosto diffidenti verso il sistema di valori che il nostro immaginario collettivo lascia trasparire: le nostre fiction, il nostro stile di vita sempre più slabbrato e scollato dalla quotidianità, dalla terra, dalla realtà, dalle cose essenziali che non sappiamo più riconoscere. Siamo diffidenti verso lo straniero, però consegniamo in mani straniere le cose più preziose che abbiamo – bambini e anziani, futuro e passato: anche nella xenofobia, offriamo di noi un’idea un po’ schizofrenica.

Nizza, 24 agosto 2016. A pochi passi dalla Promenade des Anglais, dove poche settimane prima c’è stata una sanguinosa strage terroristica, un nucleo di polizia interviene prontamente sulla spiaggia. Non sta sventando un attentato. Sta multando una signora che ha fatto il bagno ed è seduta sulla sabbia in burkini – un velo sulla testa e un paio di fuseaux. La polizia, inflessibile, le rammenta che in spiaggia è obbligatorio spogliarsi sulla base di un ordinanza del sindaco che impone – in un rovesciamento parossistico dei nostri anni ’50 – “il decoro dei costumi”. Succederà anche a Cannes e in altre località. Spogliarsi non è più una scelta ma un obbligo, un codice d’accesso necessario a condividere lo spazio pubblico. La gloriosa Repubblica affida a poliziotti da spiaggia quel che resta della sua grandeur: il tramonto dell’Occidente si misura sui centimetri di cosce e di glutei femminili esibiti sotto minaccia di multe ed ostracismo. Una rozzissima rappresaglia “anti-Islam” che però, sotto sotto, dice anche molto sulla condizione della donna: in Occidente, non “in Islam”.

Ma perché, secondo Pasqualino, Silvia va considerata una traditrice? Cos’è di preciso che ha tradito? Se il nemico è abbastanza indefinibile – musulmani sono i terroristi del Bataclan, ma anche i padroni del Paris Saint Germain e pure il suo gentile vicino di casa e i suoi colleghi di officina con cui cazzeggia tutto il giorno – anche il “suo” campo, quello che vorrebbe difendere, è tutt’altro che distinto e perimetrato. L’Italia? L’Occidente? Il cristianesimo popolare delle Madonne e di Padre Pio, tanto caro ai suoi nonni ma da cui lui non si sente attratto? Quali sono i due mondi in lotta? In questo delirio polisemico, per delimitare campi così ingarbugliati, Bin Laden andò a recuperare la parola “crociato” – salibyon – con cui definire gli americani, un termine che in arabo non ha neanche un vero e proprio corrispettivo (nella storiografia musulmana non esiste l’epopea delle “Crociate”). Quindi, tra crociati e neoconvertiti, Pasqualino si ritrova solo e sempre più confuso. Costretto a tagliare con l’accetta la sua vita e le sue appartenenze. E alla fine ritorna la domanda centrale: chi o cosa ha tradito, quella benedetta figliola che ora si fa chiamare Aisha?

Un paio di anni fa, una giovane ragazza si presentò in un centro islamico di Modena e chiese informazioni sull’Islam, da cui si sentiva attratta. Le spiegarono alcune cose e lei andò via soddisfatta. Il giorno dopo arrivò il padre, incazzato, a chiedere conto ai dirigenti della Moschea; gentilmente gli spiegarono che la ragazza era venuta con le sue gambe, che nessuno era intenzionato a plagiarla e che del resto era maggiorenne. E poi, gli chiesero con garbo, che male ci sarebbe se la giovane si interessasse all’Islam? Il padre, furente, gridò: meglio morta che musulmana! E non era una invettiva o una deplorevole iperbole. Per quel genitore, come per la maggior parte delle persone normali, la scoperta di una figlia tossicodipendente o prostituta o narcotrafficante o rapinatrice, stimolerebbe, dopo lo sconcerto iniziale, un moto di comprensione, il tentativo di recupero, di protezione, una interrogazione sulle proprie responsabilità. Ma davanti alla figlia musulmana, il senso di rottura irreversibile, di repulsione, di perdita, sarebbe enorme, non sopportabile. Quindi Pasqualino non è poi così sconclusionato, nella sua avversione. Essa è radicata nella società. Da noi non abbiamo dei movimenti esplicitamente anti-musulmani come Pegida; abbiamo piuttosto una “Pegida” diffusa, non organizzata ma non meno viscerale. La stessa parola Islam ha assunto un potenziale esplosivo, divisivo: è forse la categoria storico politica più dirompente e problematica dell’età contemporanea.

Silvia, diventando Aisha, ha effettivamente tradito “qualcosa”: un ethos comune, uno spirito dei tempi che vede nell’Islam un nemico irriducibile; e non è solo una roba da giornalismo sottoproletario alla Vittorio Feltri; l’Islam è pericoloso perché contrasta la concezione iperliberale dell’individuo padrone di sé e del mondo, signore dei mercati, performante, all’inseguimento furioso del conseguimento economico come fonte di senso esistenziale. Da questo punto di vista, l’Islam è oggettivamente una sopravvivenza “nociva al progresso” – con le sue priorità estranee all’imperativo economico, agli attaccamenti mondani, la repulsione per la logica finanziaria, una certa idea di destino e di “lentezza”, che era propria degli antichi.

Il monoteismo assoluto della Tecnica, i derivati, l’autorealizzazione dell’Io, il Prozac, il neo schiavismo liberista, la corsa demente alla catastrofe ecologica, il solipsismo metropolitano tutto spritz, palestra e distanziamento affettivo. Questi sono alcune degli elementi valoriali grazie a cui vorremmo convertire i barbari. E viene da ridere pensando che in realtà la maggior parte dei musulmani già convive perfettamente con questi fondamenti della modernità: anzi, quelli che esibiscono arcaismi pseudo-shariatici, sono coloro che in realtà si trovano più a loro agio nel mondo peccaminoso che l’Occidente gli ha squadernato davanti.

Il 20 novembre 1979, Muhamed Saif al Otaybi, notabile saudita, alla guida di un commando formato da alcune centinaia di insorti, si barrica nella Grande Moschea della Mecca, prendendo in ostaggio migliaia di pellegrini. E’ una profanazione senza precedenti ed un trauma per tutto il mondo arabo. Il re e il gruppo dirigente saudita, capiscono che scricchiolii pesanti stanno minando il trono d’oro su cui sono seduti: gli insorti li accusano di rammollimento filo occidentale. La Moschea viene espugnata dopo due settimane, i capi degli insorti giustiziati, ma le petrolmonarchie sanno che è arrivato il momento di uscire, metaforicamente, dai salotti. Era necessario lanciare un vero e proprio Jhiad che ricostruisse la propria verginità politico-religiosa e una qualche funzione di leadership dentro il mondo sunnita, dirottando verso un nemico esterno le energie ribollenti del mondo arabo. Ma chi doveva combattere, per loro, questa guerra assai poco santa?

La scelta cadde sui montanari afghani e l’Afghanistan divenne il terreno di una carneficina di lunga durata: da quel momento un fiume di milioni di petrol-dollari si riversò sugli altipiani sabbiosi, per trasformarli in una micidiale trappola antisovietica. Stravolgendo la vita, la cultura secolare e il tessuto sociale di villaggi e città. Gli Usa fecero altrettanto, nel più grande sforzo economico mai prodotto dai tempi del Vietnam. Nessun giovane rampollo saudita era però disposto ad andare a combattere e rischiare la pelle insieme ai rozzi pashtun; l’unico disponibile fu il giovane silenzioso figlio del costruttore yemenita Bin Laden, che portò tra le montagne afghane la bandiera saudita, rinnovando i suoi buoni rapporti (anche di business familiare) con gli americani. Il “data base” dei combattenti a libro paga della Cia si chiamava Al Qaeda. Poi divenne altro. Da lì comincia la storia del Jhiadismo contemporaneo e si sviluppa incontrollabilmente quella del salafismo: un fenomeno moderno, iperpolitico, ad alimentazione esogena.

Il salafismo combattente costituisce oggi un esercito di mercenari al servizio dei soliti noti attori: Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Pakistan e naturalmente Usa e Israele, che impiega queste truppe in geometrie ad alleanze variabili, tra Siria, Iraq, Libia e Corno d’Africa. Lanciano guerre, guerriglie, destabilizzano governi, massacrano prevalentemente i musulmani (stando sempre ben attenti a non sparare una pallottola verso Tel Aviv). E aprono la strada ai bombardamenti umanitari e alla occupazione militare occidentale. La massa di risorse di cui dispone questo esercito – fatto anche di predicatori, madrasse, Ong, televisioni, uso spregiudicato del web: una Bestia versione salafita – ridisegna l’antropologia dei popoli, “wahabizza” interi territori, crea danni difficilmente reversibili. Basti vedere come hanno ridotto l’Afghanistan, 40 anni dopo il sedicente Jhiad. Tra queste bande mercenarie, gli Al Shabab che hanno rapito Silvia hanno un loro ruolo preciso, di ascendenza emiratina, per la precisione. E tutti costoro – Jhiadisti e Pasqualini – sono figure tragiche della crisi della modernità, non residui del passato.

E qui torniamo ad Aisha. Lei si è rivelata effettivamente una traditrice: ha tradito il vuoto pneumatico e il disperato nichilismo delle nostre “movide” metropolitane; ha tradito le estetiche conformiste e seriali; ha tradito il primato del denaro, del successo, e tutta l’ipocrisia neo coloniale dell’Occidente che avrà misurato e toccato con mano, già da volontaria, in mezzo alla miseria africana. C’è da augurarsi che la traditrice Silvia possa un giorno fornire il suo piccolo contributo nello sforzo di edificazione di un Islam europeo – mistico e colto, l’unico possibile nell’Occidente affamato di spiritualità –, che sarebbe una risorsa per questo continente, non un pericolo, fuori da ogni retorica “buonista”. Una storia che sta già dentro le radici d’Europa, nella nostra geografia, nella nostra cultura, nella nostra letteratura (come ben sa ogni liceale). Intanto, bentornata a casa, Silvia-Aisha.

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Islam: riforma e identità https://www.carmillaonline.com/2019/12/27/islam-riforma-e-identita/ Fri, 27 Dec 2019 22:00:39 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=56902 di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Alle volte, per cogliere qualche frammento di verità dentro grandi fenomeni globali di difficile lettura, possono essere utili libri “minori” – quelli scritti da autori eccentrici, privi di pedigree accademico e non facilmente inquadrabili. Se si parla del presente dell’Islam – uno dei nodi più complessi della modernità – vale la pena leggere due libri, non recentissimi: Viaggio al termine dell’Islam di Michael Muhammad Knight (Castelvecchi 2015) e Non c’è Dio all’infuori di Dio. Perché non capiamo l’Islam di Reza Aslam (Rizzoli 2015). Tra le infinite suggestioni che suscitano questi due testi, si intrecciano questioni diverse e attualissime: come sta impetuosamente cambiando l’Islam, sotto la spinta potente della modernità; come muta in tempi brevi l’immagine che l’Occidente coltiva dell’Islam; come si intersecano i nodi delle identità – occidentale e “musulmana” – tra conversioni laceranti e silenziose apostasie.

Due autori controversi, dicevamo. Knight è un americano dalla fanciullezza complicata – per essere eufemistici. Si è convertito ad un Islam purista e conservatore alla tenera età di 17 anni. La relazione tra la sua identità di americano – pienamente figlio della sua epoca, dei suoi miti spettacolari, dei suoi linguaggi – e la sua identità di neo-musulmano, riproduce pirotecnici contorcimenti. Affrontati comunque con ironia: in copertina la sua collezione di pupazzini dei personaggi di Star Wars circonda un modellino della Ka’ba – non si capisce se minacciosamente o in adorazione. E’ visto malissimo, Knight, dalle comunità islamo-americane, per i suoi toni dissacranti al limite della bestemmia. Pare invece letto e apprezzato dai giovani musulmani Usa. La sua storia, così estrema e paradossale, racconta molto della produzione di soggettività – abbastanza schizoide – che la modernità sta liberando. Basti dire che Knghit si è interessato all’Islam leggendo gli scritti di Malcom X – a sua volta conosciuto attraverso i testi dei Public Enemy -; si è poi avvicinato ai gruppi neri, separatisti, legati alla Nation of Islam; ha studiato in una madrassa pakistana, aderendo – pare – anche alla resistenza cecena antirussa. Per poi, in età adulta, diventare cultore e narratore della scena Taqwacores (l’area musicale punk-rock diffusa tra i giovani americani di provenienza mediorientale), produrre romanzi e film provocatori – sempre sul filo di lama delle identità meticce e dissacranti – e sfidare a wrestling i suoi eruditi detrattori in barba bianca. Insomma, un americano a tutto tondo.

preferirei essere uno sciita a New York che al Cairo o un sunnita a New York che a Theran. Preferirei essere un ahmadi a New York che a Lahore, preferirei essere un sufi a New York che alla Mecca. E’ una cosa stronza da dire? […] Forse l’America era davvero la nazione più sinceramente Islam-friendly del mondo. (pag. 19)

Ed è un nodo interessante: le democrazie tardo liberali ti lasciano essere ciò che vuoi, praticare qualsiasi eresia, coltivare qualsiasi culto; purché questi trasformismi identitari non intacchino la vera unica fede che deve far da sfondo a ogni identità: il monoteismo del profitto – della merce, del denaro, della supremazia anglosassone. Per cui si può tollerare benissimo la moschea – o la pagoda o qualsiasi altro tempio – nel grande melting pot della metropoli americana: ma si bombarderà spietatamente la medesima moschea in Afghanistan o in Pachistan se si sospetta sede di attività antiamericane. Non è questione di islamofobia, solo business e policy. E’ pur sempre il paese che ha avuto per otto anni un presidente dal nome arabo (di esibita fede cristiana, puntualizza Knight, perché avrebbe avuto il medesimo problema di accettazione se si fosse dichiarato musulmano o ateo).

Knight rievoca in continuazione gli eroi profetici di una storia non sua: come quella del Nobile Drew Ali, il fondatore del Tempio della Scienza Moresca, un predicatore di inizio secolo che, grazie a un eclettismo vertiginoso – tra teosofia e riscrittura coranica – portò per la prima volta il termine Islam nei ghetti di Chicago e New York, invocando l’“orgoglio moresco” dei popoli “scuri” e sventolando orgogliosamente la bandiera del Marocco ad Harlem. Ugualmente carismatico fu il suo seguace Wallace Fard Muhammad, poi fondatore della Nation of Islam, autoproclamatosi addirittura incarnazione profetica. Fard scompare misteriosamente negli anni ‘30 e Knight, nel suo personale pellegrinaggio americano, crede di averne persino ritrovato le tracce, che arrivano fino agli infuocati anni ’70. La cosa paradossale è che uno come Knight, agli occhi di Fard, sarebbe stato etichettato solo come “un diavolo dagli occhi blu”, essendo la teologia della Nation fondata su un afroislamismo che rievoca suggestioni e leggende circa la supremazia della razza nera e il carattere demoniaco di quella bianca. In quel furioso convulso inizio del ’900 americano, con le prime generazioni di ex schiavi che si riversavano nelle città ridisegnandone linguaggi e culture, la scelta di usare l’Islam come veicolo di militanza e organizzazione non era astrusa. Per tutto il ’900, l’Islam – o meglio “l’dea di Islam” di volta in volta più funzionale allo scopo – è stato spesso sventolato come bandiera di emancipazione o di resistenza antimperialista, non solo nelle colonie ma anche nei ghetti metropolitani. Negli Usa diventò potente fattore di attivazione di un orgoglio black motivato teologicamente: creare la Nazione nera dei puri e dei santi, contro la razza depravata dei bianchi oppressori. Erano anche gli anni in cui Garwey elaborava il mito parallelo del ritorno all’Africa come nuova Sion. Insomma, un guazzabuglio nel quale Michael Muhammad Knight si muove testardamente, quasi rassegnato all’idea che la sua vita debba essere fondata sull’incoerenza. Tanto da continuare a preferire i discorsi di Fard contro i “diavoli bianchi”, al Malcom X ultimo periodo, che lascia la Nation e si converte all’universalismo dell’islamicamente corretto. Del resto la letteratura è contraddizione, scandalo, paradosso: e se tutto si incanala nel binario giusto, cosa resta da scrivere ad un povero narratore della post-modernità?

Nelle sue pagine meno narcisistiche e dissacranti, Knight lascia affiorare un afflato spirituale reale, malinconico, dolente, che non trova nelle forme attuali dell’Islam un suo appagamento. Come ogni scrittore americano in crisi di identità, Knight partorisce il suo romanzo on the road, un racconto di viaggio mistico e prosaico, sacro e dissacrante tra Pakistan, Siria, Etiopia e lo conclude in Arabia Saudita, intraprendendo infine l’Haji, il sacro pellegrinaggio alla Mecca. Ovunque Knight semina la sua confusione e le sue domande irrisolte: prega nei grandi mausolei dei santi pakistani, visita il Minareto Bianco di Damasco da cui Gesù discenderà per decapitare l’Anticristo; irride il rigore iconoclasta della polizia religiosa saudita che vigila affinché le modalità del culto siano in linea con le prescrizioni governative; infine in un eccesso parossistico, proprio in casa del nemico saudita – simbolo della ipocrisia e della burocratizzazione del potere religioso – si “converte” allo sciismo e piange sul destino di Husayn e di tutti i martiri.

Knight è solo uno scrittore dall’identità impazzita come una maionese? E’ solo il figlio di un tempo in cui per la prima volta le persone possono decidere cosa essere – anche quale maschera indossare – per assecondare bisogni, desideri e frustrazioni dell’ego? Ma allora perché rimanere testardamente attaccato proprio alla più complicata, scomoda e “pesante” tra le tante maschere disponibili – quella musulmana? Per lacerarsi masochisticamente nei dubbi? Perché ormai si è ritagliato una fetta di mercato come convertito dissacratore?

Negli ultimi 15 anni Maometto era diventato il mio linguaggio, il tramite delle mie domande e risposte. Se questo linguaggio aveva un cuore concreto in questo mondo, se da qualche parte si poteva trovare una traccia di Maometto, allora portatemi là. Portatemi da lui. (pag. 269)

C’è dell’altro, in questo ragazzone, al di là delle pose, qualcosa di altrettanto contemporaneo e pungente: una malattia dell’anima, la struggente mancanza che si avverte anche quando si chiude il libro appena scritto, l’inafferrabilità della verità dietro le ombre colorate della società dello spettacolo, il senso di crisi e di decadenza che si intravede dietro ogni ottimismo tecnologico. Da questo punto di vista è una lettura stimolante per tutti, non solo per i cultori della materia.

Reaza Aslam, non è meno interessante, in tema di nomadismi identitari; la famiglia, iraniana, scappa dalla rivoluzione Khomeinista e lui cresce in America – la terra dove ogni gnosi e ogni materialismo, anche i più estremi, convivono serenamente. Si converte giovanissimo al cristianesimo pentecostale e poi si “riconverte” allo sciismo, di cui rivendica tutt’ora l’appartenenza, sia pure nelle forme estremamente eterodosse tipiche dell’intellettuale inquieto che è. Tra le molte cose del suo curriculum, si è occupato (ovviamente) dei gruppi spirituali marginali – le frange, i bordi estremi dell’esperienza religiosa – perorando la causa del Bahismo perseguitato in Iran; o provocando l’indignazione degli induisti americani per aver mostrato in un documentario un asceta tantrico che mangia resti di cervello umano, stile Hannibal.

Insomma, il tipo giusto per affrontare una questione colossale e stringente:

Dopo quattordici secoli di furiosi dibattiti su cosa significhi essere musulmano, di accese discussioni sull’interpretazione del Corano e sull’applicazione della legge islamica, di tentativi di riconciliare una comunità divisa appellandosi all’Unità Divina, di lotte tribali, crociate e guerre mondiali, l’Islam è entrato nel suo quindicesimo secolo e ha iniziato a realizzare la sua lungamente attesa e tanto combattuta Riforma. Questa non verrà però risolta nei deserti della Penisola arabica, dove il messaggio dell’Islam ha fatto la sua comparsa sulla terra, ma nelle capitali dei paesi in via di sviluppo del mondo islamico (Theran, il Cairo, Damasco e Giacarta) e nelle capitali cosmopolite dell’Europa e degli Sati Uniti (Londra, Parigi, Berlino e New York), dove il messaggio islamico viene oggi rielaborato da schiere di immigrati musulmani di prima e seconda generazione, stanchi della predominanza del tradizionalismo e della militanza nella loro fede […] Come le riforme del passato, anche questo sarà un evento terrificante, un evento che ha già iniziato a travolgere il mondo. Ma dalle ceneri del cataclisma emergerà un nuovo capitolo della storia dell’Islam; e anche se resta ancora da vedere chi scriverà questo capitolo, è imminente una nuova rivelazione che si è risvegliata, dopo secoli di sonno, e sta avanzando verso Medina per rinascere. (pag. 330)

Raza è ben consapevole della problematicità dell’uso della categoria “Riforma”, applicato all’analisi di fenomeni assolutamente estranei a quella storia. Ma mantiene il termine, proprio per il senso di drammatico passaggio storico che essa evoca: così come la Riforma Luterana ha ridisegnato poteri e culture in Europa, così la Riforma Islamica di cui prevede (e auspica) l’avvento, stravolgerà l’attuale forma del mondo politico-religioso musulmano. L’evocazione delle guerre di religione europee è anche pertinente storicamente: sarà un processo travagliato, doloroso, almeno quanto lo furono i conflitti intestini che spaccarono e incendiarono il nostro continente, fino alla conclusione della Guerra dei Trent’anni.

Ma attraverso quali segni l’autore preconizza l’inizio di questa grande Riforma? Essenzialmente nella decadenza delle istituzioni e delle élite specialistiche, destinate alla trasmissione del sapere nel mondo islamico – vedi la caduta di prestigio dell’Università di Al Azahr, l’istituzione più prossima all’idea di un “centro” teologico-giurisprudenziale comune, costituitosi in seno al variegatissimo universo islamico.

In passato se un musulmano del Cairo voleva una fatwa, ossia un editto religioso su un argomento controverso, doveva sedere ai piedi dei venerabili studiosi dell’Università Al Azhar, le cui opinioni su questioni religiose e sociali erano legge. Oggi quel musulmano può starsene a casa , connettersi a IslamOnline e frugare nel vasto archivio di fatwe nuove o precedentemente pubblicate […] Poiché provengono da un’ampia varietà di fonti, l’utente può accedere a numerose fatwe, spesso contrastanti, sullo stesso argomento: non deve far altro che decidere quale gli piace di più. […] Se il responso del cyber-mufti si dimostra insoddisfacente, l’utente può rivolgersi ad uno dei concorrenti di IslamOnline, come FatwaOnline.com, IslamismScope.net […] Oppure un migliaio di altri siti gestiti da uno stuolo di leader religiosi e laici, attivisti e accademici, guide spirituali, intellettuali e dilettanti, ognuno dei quali può estendere la sua influenza al di fuori della comunità locale con un semplice indirizzo IP. (…) E’ difficile esagerare l’impatto che ha avuto Internet non soltanto sull’evoluzione dell’Islam, ma in maniera più significativa, sul modo in cui l’autorità religiosa si è dispersa e democratizzata. L’unico paragone legittimo è con l’invenzione della stampa, perché esattamente come quel progresso tecnologico spinse l’Europa cristiana verso la Riforma protestante […], così Internet è diventato il veicolo grazie al quale la Riforma islamica si sta realizzando. (pag. 342)

Pur senza condividere eccessivi cyber-entusiasmi (da cui noi occidentali dovremmo ormai essere vaccinati), è evidente che dentro il mondo islamico, anagraficamente giovane, dinamico e in espansione, molte cose stanno bollendo e molti cambiamenti sono irreversibili. La moderna Umma globale non si fida più delle sue guide, le mette in discussione e grazie all’iperconnessione globale inventa nuovi centri di elaborazione, nuovi canali di comunicazione, nuove prassi che silenziosamente possono diventare egemoni.

Certo, è uno scenario che si sta sviluppando in due direzioni contraddittorie: da una parte si potrebbero moltiplicare le spinte centrifughe verso lo Jhiadismo globale, definitivamente svincolato dalla necessità di farsi legittimare teologicamente da una qualche autorità; dall’altro potrebbero sorgere fenomeni di ibridazione culturale molto interessanti in senso democratico – pensiamo ad una nuova generazione di guide comunitarie giovani e di sesso femminile, già visibili nel contesto italiano. Sia chiaro però che lo scontro non è tra “Tradizione e innovazione”: l’uno e l’altro esito saranno entrambi espressioni dell’impatto dell’Islam con la modernità. Infatti, al di là di mitopoiesi e apparati coreografici, il salafismo e lo Jhiadismo, sono fenomeni contemporanei e recenti (in senso relativo lo è anche il wahabbismo) che, pur richiamandosi a purezze arcaiche, hanno fatto la loro irruzione sulla scena solo da qualche decennio, occupando l’immaginario collettivo a suon di bombe e califfati fasulli – sempre, tra l’altro, dentro un forte intreccio logistico, militare e finanziario, con gli Stati impegnati nella contesa geopolitica globale.

Siamo davvero davanti a un passaggio epocale. Bisogna prestare molta attenzione a questi scenari, analizzarli, condividere con le comunità islamiche occidentali livelli di dibattito sempre più profondi, contrastare ogni anacronistica islamofobia: come dice l’autore, le periferie di Londra e di Parigi saranno palcoscenici importanti, quanto quelli mediorientali, nella definizione degli equilibri futuri del mondo.

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