Isis – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 02 Jan 2025 21:07:21 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Note di carattere militare sulla disfatta occidentale in Afghanistan https://www.carmillaonline.com/2021/09/02/su-alcuni-aspetti-militari-della-disfatta-occidentale-in-afghanistan/ Thu, 02 Sep 2021 20:00:27 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67937 di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un [...]]]> di Sandro Moiso

Il lettore non deve aspettarsi di trovare uno studio generale di «scienza militare» o l’esposizione sistematica di una teoria dell’arte militare. No, il problema di Engels era […] di aiutare il lettore ad orientarsi sul corso delle operazioni e anche di sollevare, di quando in quando, quello che si usa chiamare il velo dell’avvenire. (Lev Trotsky, Prefazione a Note sulla guerra del 1870-71 di F. Engels)

C’è una fotografia che in questi giorni ha fatto il giro del mondo. E’ quella di una giovane marine di 23 anni, Nicole Gee, mentre stringe tra le braccia un bambino afghano pochi giorni prima di rimanere uccisa nell’attentato all’aeroporto di Kabul del 26 agosto. Ma ciò che si vuole fare qui non è la solita cronaca, pietistica e inutilmente retorica, cui ci ha abituato la narrazione mediatica degli ultimi eventi afghani.

Quella foto e quella notizia devono farci riflettere, invece e soprattutto, sul piano storico e militare, poiché la soldatessa americana, a conti fatti, doveva avere all’incirca 3 anni quando gli USA invasero l’Afghanistan con la scusa di colpire gli organizzatori dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.
Vent’anni dopo, Nicole Gee è morta nella stessa guerra, non a caso indicata come quella più lunga combattuta dagli Stati Uniti nel corso della loro storia.

Se si esclude la guerra dei Trent’anni, scatenatasi in Europa tra il 1618 e il 1648, forse in nessun’altra guerra degli ultimi quattrocento anni è capitato che chi fosse nato durante o all’inizio della stessa facesse in tempo a farsi ammazzare nel corso della medesima. Si intenda: come militare poiché, è chiaro, i civili di ogni genere ed età fanno sempre in tempo a cadere come vittime in qualunque istante di qualsiasi conflitto.

Un conflitto, quello afghano, che sembra essere stato vissuto in modi discordanti sui due fronti, come spesso capita nelle guerre in cui si fronteggiano i rappresentanti dell’occupazione coloniale straniera da un lato e i partigiani della resistenza dall’altro, poiché il tempo gioca quasi sempre a favore dei secondi, nonostante le maggiori sofferenza e distruzioni subite dal popolo invaso. Soprattutto là dove la differenza culturale ed economica crea percezioni del tempo estremamente diverse, in cui la “fretta” partorita da una modernità sempre più digitalizzata si scontra con i “tempi lunghi” di società ritenute arcaiche. Che, però, proprio per questo motivo, possono affidarsi a intense campagne di primavera per poi sparire nel nulla in autunno, in una ciclicità che è più vicina ai tempi della Natura, dell’agricoltura e della pastorizia che a quelli dell’obiettivo immediato di carattere industriale e capitalistico.

Anche per tale motivo la moria di giovani soldati americani, che erano da poco nati oppure ancora neonati quando ebbe inizio la cosiddetta “guerra al terrore”, ci parla di qualcos’altro. Ci racconta la storia di una sconfitta annunciata, fin dalle prime battute recitate dagli attori di un dramma in cui, complessivamente, sono stati due milioni i soldati americani mandati a combattere, in Iraq e in Afghanistan. Si calcola, inoltre, che di questi due milioni una percentuale tra il 20 e il 30 per cento sia rientrata con un disturbo da stress post-traumatico, cioè un problema mentale provocato dall’aver vissuto situazioni belliche particolarmente intense o drammatiche, una ferita psicologica anziché fisica. E le conseguenze sono depressione, ansia, insonnia, incubi, disturbi della memoria, cambiamenti di personalità, pensieri suicidi. Ovvero: esistenze spezzate, relazioni in frantumi. Cinquecentomila veterani mentalmente feriti, un numero impressionante, una percentuale più alta rispetto ai conflitti precedenti1.

Quasi sicuramente, tra i più di 2.300 caduti e 12.500 feriti americani in Afghanistan, anche altri devono aver subito lo stesso destino di Nicole Gee2, anche se le perdite americane nello stesso conflitto, escluse quelle del 26 agosto 2021, erano decisamente diminuite dopo il 2013. Ma ciò che ci segnala simbolicamente questa morte è l’eccessiva e inutile durata di un conflitto che, nonostante le almeno 35.000 vittime civili3 (mentre il «Corriere della sera» del 31 agosto ne riporta 47mila), non ha dato risultati politici concreti e nemmeno economici, se non sul piano della spesa militare interna statunitense, tutta a vantaggio delle complesso industriale legato alla produzione di armi e tecnologia fornite all’esercito, all’aviazione e alla marina degli Stati Uniti (e ai suoi fornitori esteri) oppure ai grandi speculatorii della finanza internazionale.

La guerra che non si poteva vincere, come ora la definiscono in tanti, è costata agli Stati Uniti, dall’invasione del 7 ottobre 2001 a oggi, 2.313 miliardi di dollari: una cifra che si fa fatica anche ad immaginare.
[…] Nella maggior parte delle ricostruzioni il «prezzo» del conflitto si ferma a 815,7 miliardi di dollari, perché quello è l’ultimo report del 2020 del dipartimento della Difesa. Una cifra che copre le spese operative, dal cibo per i soldati al carburante per i mezzi, dalle armi alle munizioni, dai carri armati agi aerei. Ma non conta gli interessi già pagati sugli ingenti prestiti che Washington ha contratto per finanziare le operazioni, l’assistenza ai reduci – costi che continueranno a crescere negli anni a venire – i miliardi di aiuti umanitari e soprattutto per il nation building. Dall’addestramento delle truppe alla costruzione delle strade, scuole e altre infrastrutture, questa parte ha richiesto 143 miliardi dal 2002 ad oggi, secondo lo Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction (Sigar).
Proprio il rapporto dell’ispettore generale spiega come tanti di quei soldi siano andati in fumo – scuole e ospedali vuoti, autostrade e dighe in rovina – per l’incapacità del governo americano di affrontare la piaga della corruzione degli alleati afghani, da Hamid Karzai all’ultimo presidente Ashraf Ghani (che non a caso è scappato con un gigantesco malloppo appena Kabul è caduta4.

Tutto senza tenere conto delle spese nel confinante Pakistan, utilizzato come base logistica e militare per le operazioni, e del fatto che i progetti di aiuto hanno visto come beneficiari organizzazioni internazionali e istituzioni afghane con base nelle città più importanti, soprattutto Kabul, dimenticando che la stragrande maggioranza della popolazione afghana vive, lontana dalle città, di agricoltura e pastorizia, settori cui è stata riservata invece una percentuale insignificante del totale. Scelta che ha contribuito ad una ancor più rapida urbanizzazione della capitale, portandola ad essere la settantacinquesima città più popolosa al mondo (con circa 5 milioni di abitanti), con un territorio di 1.023 km² e una densità di circa 4.200 abitanti per km², nonostante la popolazione afghana sia di 38 milioni di abitanti su un territorio grande più del doppio dell’Italia (652.864 km²) e con una densità media abitativa di un quarto circa di quella italiana.

Questi dati ci dicono due cose: la prima è che gran parte del territorio afghano è troppo poco abitato per far sì che le moderne tecnologie belliche abbiano effetto duraturo. Non si può bombardare il nulla e il poco, al massimo si possono uccidere e terrorizzare momentaneamente villaggi, famiglie, aree ristrette, dopo di che la resistenza riprenderà più ostinata.

Non per nulla l’Afghanistan è stato definito la tomba degli imperi e, tralasciando le disastrose esperienze già toccate agli inglesi e ai russi nel corso dell’Ottocento e del Novecento, può essere utile ricordare che anche Alessandro Magno, nel corso della sua marcia verso i confini dell’India e del mondo conosciuto, dovette condurre per tre anni una feroce e non risolutiva lotta contro la resistenza incontrata nella Battriana (corrispondente in gran parte all’attuale Afghanistan settentrionale), allora compresa nei confini dell’impero persiano che il giovane condottiero andava rivendicando per sé dopo aver sconfitto e costretto alla fuga Dario.

Soprattutto tra le steppe desertiche e le catene montuose dell’Hindu Kush, che ancora tagliano in due il paese, saldandosi verso nord-est con i massicci del Pamir e del Karakorum, mentre a sud-est si congiungono con i monti Sulaiman, la guerra americana si è caratterizzata principalmente, fin dai primi anni, per le truppe rinchiuse nei fortini sparsi per il paese e le città, da cui uscire per brevi e comunque pericolose missioni di perlustrazione oppure per gli assassini mirati messi in atto con elicotteri, droni e missili sparati e diretti da basi poste spesso fuori dallo stesso Afghanistan. Una guerra snervante fatta di perlustrazioni e posti di blocco, in cui troppe volte la paura ha portato i soldati americani a ritorsioni violente su civili disarmati o su intere famiglie, spesso sterminate senza motivo. Una guerra in cui anche gli elicotteri hanno mostrato tutta la loro fragilità durante le azioni diurne, costringendo i comandi ad utilizzare i grandi Black Hawk esclusivamente per uscite notturne affinché non costituissero un facile obiettivo per gli RPG (Rocket Propelled Grenade) della guerriglia.

Una guerra contro un nemico fantasma e invisibile, mostrata in tutta la sua assurdità dal documentario Restrepo, realizzato nel 2010 dal fotoreporter Tim Hetherington e dal giornalista Sebastian Junger, in cui si narrano le vicende di un plotone delle forze armate statunitensi durante un anno di permanenza tra le montagne afghane. Oppure dal libro, di David Finkel, I bravi soldati (Mondadori 2011) che documenta le traversie dei soldati americani in Iraq, di cui dobbiamo qui ricordare il lungo ritiro che si concluderà esattamente come quello afghano: dopo quasi vent’anni e senza aver ottenuto null’altro che la distruzione di un paese (in cui si sarebbe poi formato l’Isis).

La seconda cosa da tener presente, per qualsiasi tipo di valutazione, è che Kabul è una città troppo grande e abitata per poter essere controllata, soprattutto durante una ritirata rapida e affannosa come quella avvenuta in questi giorni.
Dal punto di vista militare, infatti, il combattimento nelle aree urbane, abitate da una popolazione ostile o insorgente, costituisce il vero incubo dei comandi militari: da Stalingrado all’insurrezione di Varsavia del 1944, fino alla striscia di Gaza e alla battaglia per la presa della città di Falluja, insorta contro l’occupazione americana in Iraq nel novembre del 2004, oppure alla grave sconfitta subita dall’esercito russo a Grozny durante la guerra cecena5.

Anche se le truppe americane e NATO si addestrano ormai da anni al combattimento urbano (qui), mentre gli interventi israeliani a Gaza costituiscono il banco di prova effettivo per migliorare la resistenza dei mezzi corazzati, di cui il carro armato Merkava continua ad essere uno dei prototipi più avanzati proprio per operare in tali condizioni (ancora qui), non può esservi dubbio che, anche in previsione della guerra civile globale di cui andiamo parlando da anni6, la battaglia o il semplice controllo militare all’interno delle aree urbane7 può rivelarsi impossibile da condurre se non al prezzo di perdite numerose e un’enorme distruzione di vite umane, fatto quest’ultimo che quasi mai gioca a favore della favola mediatica della “difesa della democrazia” o della sua “esportazione”.

L’attentato all’aeroporto di Kabul, in cui una buona parte delle vittime è stata causata dal fuoco amico dei soldati americani che hanno letteralmente perso la testa nella confusione, come attestano ormai le testimonianze raccolte dai reporter occidentali ancora presenti sul luogo, oppure le vittime “collaterali” (almeno 6 bambini e 4 adulti) del raid americano nei confronti di una presunta autobomba, diretta verso l’aeroporto della stessa città, non hanno fatto che dimostrare, fino alla fine, ciò che è stato sotto gli occhi di tutti fin dal 2001 e che il generale Carlo Jean, esperto di geo-politica e strategia militare, ha confermato negli ultimi giorni: Gli Stati Uniti non hanno mai voluto portare la democrazia in Afghanistan8.

Kabul oggi non può essere controllata del tutto dai Talebani e non poteva altrettanto esserlo dai marines o dai soldati occidentali presenti fino a pochi giorni or sono. Droni e satelliti spia, coadiuvati da informatori a terra possono svolgere una funzione importante, ma il bello viene sempre quando si tratta di mettere the boots on the ground.

Infatti non si tratta qui di parteggiare per la causa talebana o per l’intervento “umanitario”9, ma soltanto di cogliere l’inevitabile sconfitta di un progetto politico-militare che, rivolgendosi contro un intero e storicamente combattivo popolo10, non poteva che essere destinato alla sconfitta fin dall’inizio.
Come ha sostenuto chi scrive fin dal 200111 e come ha confermato la recente testimonianza di un veterano ed ufficiale dei marines, Lucas Kunce, che ha svolto più turni in quell’area.

Quello che stiamo vedendo in Afghanistan in questo momento non dovrebbe scioccarvi. Sembra così solo perché le nostre istituzioni sono intrise di disonestà sistematica. Non richiede una tesi per spiegare cosa stai vedendo. Solo due frasi.
Prima: per 20 anni, politici, élite e leader militari ci hanno mentito sull’Afghanistan.
Seconda: quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo.
Lo so perché ero lì. Due volte. Nelle task force per operazioni speciali. Ho imparato il Pashto come capitano dei Marines degli Stati Uniti e ho parlato con tutti quelli che potevo lì: gente comune, élite, alleati e sì, anche i talebani.
La verità è che le forze di sicurezza nazionali afghane erano un programma di lavoro per gli afghani, sostenuto dai dollari dei contribuenti statunitensi – un programma di lavoro militare popolato da persone non militari o forze “di carta” (che in realtà non esistevano) e uno stuolo di élite che afferravano ciò che potevano quando potevano.
E non era solo in Afghanistan. Hanno anche mentito sull’Iraq.
[…] Quindi, quando la gente mi chiede se abbiamo scelto il momento giusto per uscire dall’Afghanistan nel 2021, rispondo sinceramente: assolutamente no. La scelta giusta sarebbe stata quella di uscire nel 2002 o 2003. Ogni anno in cui non uscivamo era un altro anno che i talebani usavano per affinare le loro abilità e tattiche contro di noi – la migliore forza combattente del mondo. Dopo due decenni, 2 trilioni di dollari e quasi 2.500 vite americane perse, il 2021 era troppo tardi per fare la cosa giusta.
[…] Le bugie sull’Afghanistan contano non solo per i soldi spesi o per le vite perse, ma perché sono rappresentative di una disonestà sistematica che sta distruggendo il nostro paese dall’interno verso l’interno.
Ricordate quando ci hanno detto che l’economia era tornata? Un’altra bugia.
[…] Quello che è successo la scorsa settimana era inevitabile, e chiunque dica diversamente ti sta ancora mentendo12.

Proprio per questo motivo tutte le “anime candide” che continuano ad affermare che non vi è più alcuna guerra “mondiale” possibile o sono in malafede oppure prive di strumenti di analisi adatti a comprendere seriamente le conseguenze di quanto sta avvenendo in un quadro internazionale in cui l’indebolimento dell’impero americano (e occidentale in genere) non potrà che portare ad altre ancor più tragiche convulsioni e catastrofi. In casa e all’estero. Considerata anche l’attenzione che gli Stati Uniti e il Pentagono sembrano sempre più rivolgere alla Cina e al suo operato economico e strategico13.

Non bisogna infatti dimenticare che esattamente come per la precipitosa ritirata militare dal Vietnam, che ha costituito per molti osservatori attuali una catastrofe politica e militare minore di quella odierna che, a differenza di allora, coinvolge tutto l’Occidente, uno dei motivi del ritiro (già annunciato da Obama nel 2011)14 dal quadrante centro-asiatico delle truppe statunitensi è legato anche ad una sempre maggior insofferenza dell’elettorato americano, povero o appartenente ad una middle class oggi tartassata come mai prima, nei confronti di una guerra di cui scarsamente ha compreso utilità e significato. Senza contare che, probabilmente, già al dicembre 2006 almeno diecimila soldati statunitensi avevano disertato il campo di battaglia iracheno15.

Ma se in Vietnam occorsero 70.000 morti e centinaia di migliaia di feriti, oltre alle rivolte studentesche, degli afro-americani, dei gruppi etnici minoritari, non appartenenti a quello WASP, e dei soldati stessi, oggi, con un numero molto inferiore di morti e feriti, il carico per la società americana impoverita e ferita dalle crisi successive e sempre più gravi, è diventato insopportabile e costituisce uno di quegli elementi che fondano la possibilità di una nuova guerra civile americana di cui si è già parlato su Carmilla.
Senza dimenticare, poi, che già nel 1993/94 (qui) bastarono all’allora presidente Bill Clinton una ventina di morti durante la cosiddetta battaglia di Mogadiscio del 3 e 4 ottobre del 199316 per ritirare precipitosamente le truppe dall’operazione Restore Hope (nomen omen) in cui era stata coinvolta anche l’Italia attraverso l’ONU. Battaglia che era costata il più alto numero di morti americani, fino ad allora, dalla fine della guerra in Vietnam.

Ma come ha affermato in una recente intervista Lucio Caracciolo, analista geo-politico e giornalista di rilievo:

Gli americani non sono usciti mentalmente dalla guerra al terrorismo, cioè da un meccanismo che possiamo definire nevrotico, per il quale da un attacco terroristico si genera una reazione militare da cui scaturisce un nuovo attacco terroristico e così via in un gioco infinito. Questa, però, non è una guerra contro un nemico, perché il terrorismo è un metodo che chiunque può adottare, non è identificabile, è mutante e infatti muta in continuazione. E’ però anche una guerra contro noi stessi.
Perché il modo di approcciare il tema crea un meccanismo negativo, costringendoci in un circuito infernale nel quale non abbiamo possibilità di vittoria ma di sicura sconfitta. Non nel senso strategico, ma di un progressivo logoramento, in particolare della reputazione americana e occidentale. E questo riguarda anche noi europei, in particolare noi italiani nella misura in cui, per certificare la nostra esistenza in vita, partecipiamo a missioni in cui non abbiamo nessun interesse da difendere se non dimostrare che esistiamo. Senza avere nessuna idea su quale tipo di scambio ottenere.
[Sugli Usa e la loro politica] E’ impossibile dare giudizi definitivi e tranchant. Mi pare evidente che esista una crisi identitaria e culturale che da diversi anni sta colpendo gli Stati Uniti. Il suo punto di inizio può essere rintracciato nella vittoria della”guerra fredda” che ha privato gli USA di un nemico perfetto, che tra l’altro risparmiava loro la metà del lavoro ( ad esempio in Afghanistan quando c’erano i sovietici)e la cui scomparsa ha fatto perdere la bussola strategica.
Tutte le strategie dopo l’89 sono state degli adattamenti. E così gli Stati Uniti pensano fino all’11 settembre di essere in cima al mondo e si lanciano in un’avventura di cui non si vede l’obiettivo finale semplicemente perché non esiste. […] E questa crisi mette l’America in una situazione di stress come si è visto a Capitol Hill il 6 gennaio. Non è un problema di Trump o Biden, ma di America17.

Ciò, però, che maggiormente sembra indicare il reale senso della débâcle americana in Afghanistan non è tanto la fotografia in cui i talebani si prendono gioco della storica, ma falsa, fotografia, scattata a Jiwo Jima dopo lo sbarco dei marines18 e, ancor meno, l’enorme arsenale di armi, in gran parte sabotate prima della partenza, rimaste in mano ai talebani con la ritirata americana. Era già successo in Vietnam dove i vincitori si ritrovarono tra le mani giganteschi quantitativi di materiale bellico che andava dai mezzi corazzati e obici, in seguito venduti come ferraglia al miglior offerente che volesse farne uso per fonderlo e di cui approfittò soprattutto il Giappone per le sue acciaierie, alle lattine e bottiglie di Coca-Cola, e tutto ciò costituisce soltanto una dimostrazione di come ogni guerra moderna rappresenti un affare assoluto soltanto per la finanza e le industrie fornitrici degli eserciti. Che la guerra poi sia vinta o persa poco conta: la merce è già stata prodotta, venduta e pagata e i debiti sono stati contratti dagli stati. Un autentico paradiso per le grandi corporation e le banche, fin dal primo macello imperialista.

Invece lo è l’immagine che i media ci propinano, quasi senza rendersene conto, degli sciacalli europei o europeisti che, fingendosi umanitari, mostrano i muscoli accusando Biden e gli USA di non essere rimasti di più a difendere stabilità e democrazia. Un coro di nani che accusano il “poliziotto planetario”, senza il quale non avrebbero potuto sopravvivere un minuto, dalla guerra fredda all’Afghanistan e che agitano già lo spettro di altre guerre, con il feticcio di un esercito europeo eterodiretto19 che, senza la copertura dell’aviazione, dell’intelligence e dei satelliti spia americani non potrebbe sopravvivere, neppure per un istante, in nessuna delle disgraziate operazioni di cui ci ha parlato poco sopra Lucio Caracciolo. Ipotesi comunque che non ha mancato di suscitare immediatamente numerose e fondate critiche (qui), anche di là dell’Atlantico dove il Wall Street Journal del 30 agosto ha affermato che gli europei potranno contare qualcosa e dire la loro soltanto quando impiegheranno più risorse che retorica nella difesa comune20 e nella NATO, andando ben oltre il motto we play, you pay che sembra averne sempre caratterizzato la politica militare.

La nave affonda e, classicamente, i topi l’abbandonano, in gran spolvero di recriminazioni, rivendicazioni e vuote parole21. Se ne facciano una ragione però, anche tutti quegli intellettuali militanti che vedono in ogni aggressione ed operazione militare americana la capacità dell’imperialismo statunitense di raggiungere sempre i propri obiettivi programmati, dirigendo gli eventi e determinandone il corso. Dai complottisti dell’11 settembre, per i quali Bush e la CIA avrebbero creato ad hoc le condizioni favorevoli ad una guerra, fino ai sibillini piani di Trump per improbabili colpi di Stato.
Riprendetevi ragazzi e guardatevi intorno: l’età della guerra permanente è appena iniziata e il politically correct non servirà ad altro che a farla apparire giusta e democratica22.


  1. In proposito si veda David Finkel, Grazie per quello che avete fatto. Storia di militari e del loro ritorno a casa, Mondadori, Milano 2018  

  2. Dei tredici ultimi caduti americani, nell’attentato di Kabul, cinque avevano 20 anni mentre il più vecchio ne aveva 31  

  3. “Secondo le stime più attendibili, sono oltre 140 mila morti dall’inizio dell’intervento occidentale in Afghanistan, per metà combattenti talebani (o presunti tali), l’altra metà quasi equamente divisa tra giovani afgani delle forze di sicurezza e civili: almeno 26 mila — secondo uno studio condotto dalla Brown University — i civili uccisi nel corso della missione 14 ISAF (2001-2014), cui si aggiungono quasi 9 mila morti — secondo i dati pubblicati dalla missione ONU in Afghanistan (UNAMA) — dall’inizio della missione 15 RS (2015). A questi si aggiungono oltre 3.500 soldati NATO (di cui 53 italiani, più 650 feriti), almeno 1.700 contractor di varie nazionalità e oltre 300 cooperanti stranieri” – Fonte: Afghanistan. Sedici anni dopo, Rapporto MILEX 2017 (a cura dell’Osservatorio sulle spese militari italiane)  

  4. Marlisa Palumbo, Armi, morti, debiti. Così è lievitato il costo (economico e non) della guerra più lunga, «Corriere della sera», 31 agosto 2021  

  5. L’ attacco su vasta scala di Groznyj che l’esercito della Federazione Russa mise in atto fra la fine di dicembre del 1994 e gli inizi di marzo 1995, durante la Prima guerra cecena, aveva l’obiettivo di conquistare rapidamente la città e riportare la secessionista Repubblica cecena di Ichkeria sotto il controllo della federazione. Contrariamente a quanto previsto, l’assalto iniziale delle truppe federali si risolse in un disastro e impantanò le forze di Mosca in una logorante battaglia casa per casa durante la quale la popolazione civile soffrì enormi perdite. Ad oggi l’assedio di Groznyj è considerato come il più distruttivo dalla seconda guerra mondiale. L’occupazione di Groznyj ebbe breve durata, giacché nell’agosto del 1996 le milizie indipendentiste avrebbero ripreso il controllo della città, ponendo fine alla guerra. Groznyj si estende oggi su una superficie di 324 km² , ha 297.410 (2018) abitanti e una densità di 917,48 ab./km²  

  6. Sandro Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del Terzo Millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021  

  7. Non soltanto per tracciare un paragone, ma per dare anche un’idea, niente affatto esaustiva, di quello che potrebbe essere il problema a livello internazionale, è forse qui utile fornire i dati su popolazione, superficie e densità di popolazione di alcune grandi città e capitali italiane e occidentali: Milano, superficie 182 km² – abitanti 1.396.522 – densità 7.687,14 ab./km²; Napoli, sup. 117 km², ab. 938.507, den. 8.003 ab./km²; Roma, 1.287 km², 2.778.662, 2.158,42 ab./km²; Parigi, 105,4 km², 2.229.095 (2018), 21.149 ab./km²; Berlino, 891 km², 3.769.495 (2019), 4.230 ab./km²; Madrid, 604 km², 3.223.334 (2019), 5.334 ab./km²; Washington, 177 km², 709.265 (2021), 4.007,15 ab./km²; New York, 785 km², 8.522.698 (2017), 10.857 ab./km² (I dati qui forniti non tengono conto delle frazioni o dei sobborghi integrati nelle rispettive aree)  

  8. Huffington Post, Esteri, 31 agosto 2021  

  9. Termine che prelude sempre e soltanto a nuove guerre, come il recente intervento del presidente Mattarella in occasione dell’anniversario del Manifesto di Ventotene oppure, più in basso, quello sulla rinascita europea di Brunetta, hanno indirettamente dimostrato visto che entrambi erano sostanzialmente tesi a sollecitare la creazione di un esercito e unità di pronto intervento dell’Unione europea  

  10. Di cui l’etnia pashtun rappresenta circa il 40%. I pashtun parlano la lingua pashtu e seguono un codice religioso di onore e cultura indigeno e pre-islamico, il Pashtunwali, che dà preminenza alla vendetta, all’ospitalità e all’onore, integrato nella religione islamica e vivono per lo più in strutture tribali e acefale, caratterizzate da forme decisionali orizzontali, le jirga  

  11. Si veda Giganti dai piedi d’argilla citato in Chi vince e chi perde a Gaza in S. Moiso, La guerra che viene. Crisi, nazionalismi, guerra e mutazioni dell’immaginario politico, Mimesis, Milano-Udine 2019, nota 3 pp. 46-47  

  12. Lucas Kunce, I served in Afghanistan as a US Marine, twice. Here’s the truth in two sentences, «The Kansas City Star», 23 agosto 2021- TdA  

  13. Come ha confermato ancora, nello stesso articolo citato poc’anzi, il generale Jean: “Gli occhi di Washington sono infatti rivolti per lo più sull’Indo-Pacifico e la conquista del potere dei talebani, che sono legati al Pakistan, potrebbe spingere l’India ancor più vicina agli Usa. Il Quad – Quadrilateral Security Dialogue, alleanza di cui fanno parte Australia, Giappone e, appunto, India e Stati Uniti – ha dato il suo pieno sostegno agli Usa e si è dimostrata più solida rispetto agli alleati in Europa, che ha scaricato sugli Usa l’intera responsabilità quando erano coinvolti a pieno nella vicenda afghana.”  

  14. Ancora Carlo Jean: “Riportare a casa i soldati americani è stato tema delle ultime tre campagne elettorali, con Barack Obama che rimproverava George W. Bush, seguito da Donald Trump che “ha ridotto le truppe da 13mila a 2.500” e ha siglato gli accordi di Doha, ed infine Joe Biden, con la sua promessa – realizzata – di anticipare il ritiro ancor prima di quell’11 settembre simbolico fissato dal suo predecessore. […] Gli strateghi da caffè non si pongono il problema di cosa avrebbe dovuto fare Biden. Rifiutare gli accordi di Doha inviando altri 100mila soldati, facendo così infuriare la popolazione?”  

  15. Patricia Lombroso, «In Iraq, diecimila soldati Usa hanno disertato». Parla Camillo Mejia, il primo soldato Usa nel 2003 a dire no a una guerra che, dice, non avrà fine. Lui fu condannato. Per tutti gli altri il Pentagono ha scelto il silenzio e il «congedo disonorevole», il Manifesto, 7 dicembre 2006  

  16. Eccellentemente descritta nel film di Ridley Scott Black Hawk Down del 2001  

  17. Intervista a Lucio Caracciolo in Salvatore Cannavò, “Il rischio adesso è un nuovo ciclo di guerra al terrorismo”, Il Fatto Quotidiano, 29 agosto 2021  

  18. Come ha raccontato chiaramente Clint Eastwoo nel film Flags of Our Fathers del 2006  

  19. Si veda l’intervento dell’alto rappresentante della commissione europea Josep Borrell sulla questione qui  

  20. Nancy A. Youssef, Gordon Lubold, America’s Longest War End, «The Wall Street Journal», 30 agosto 2021  

  21. La Frankfurter Allgemeine Zitung ha scritto, il 24 agosto, che quella di Kabul “è la più grave umiliazione subita dagli USA”. Tutto vero, ma non vale forse altrettanto per i loro alleati occidentali?  

  22. Adriano Sofri, per non smentirsi, già nel 2001 aveva sostenuto su Repubblica che quella afghana era una guerra “per le donne”. Oggi è tornato, sulle prime pagine del Foglio, a sventolare ancora idee simili. Complimenti!  

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Ancora sulla banalità del male https://www.carmillaonline.com/2020/12/02/ancora-sulla-banalita-del-male/ Wed, 02 Dec 2020 22:00:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63698 di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di [...]]]> di Sandro Moiso

Sara Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 160, 14,00 euro

Sara Montinaro, laureata in Giurisprudenza e specializzata in violazione dei diritti umani, è stata procuratrice a Parigi presso il Tribunale Permanente dei Popoli sulla Turchia e il popolo curdo, ha collaborato alla realizzazione di diversi progetti nel Rojava (Siria del Nord-Est) e partecipato a numerose missioni umanitarie nei Balcani, in Grecia, in Tunisia, in Cisgiordania-Palestina, in Turchia, nel Kurdistan iracheno e nello stesso Rojava.

E’ stata, probabilmente, questa vasta esperienza pregressa ad averle permesso, nel testo appena pubblicato da Meltemi, di ripercorrere le tracce di Hannah Arendt nel perseguire, illustrare e portare alla luce quello che l’autrice di origini ebraiche aveva definito, in una delle sue opere più celebri, “la banalità del male”. E Sara ha potuto farlo nei confronti di Daeş e dello Stato Islamico non soltanto grazie alla ricca bibliografia e alla sitografia consultate e citate nell’opera, ma anche, e soprattutto, al rapporto diretto stabilito sul campo, nel corso della primavera e dell’estate 2020, attraverso le sue interviste, tanto con rappresentanti dell’intelligence e combattenti delle forze YPG (Unità di protezione popolare) – YPJ (Unità di difesa delle donne) curde quanto con imam, foreign fighters e donne un tempo, e in alcuni casi ancora attualmente, riconducibili all’ideologia e alle pratiche dell’Isis.

E’ importante poi, dal punto di vista di chi scrive queste brevi note, che a farlo sia stata una donna (in realtà ci sarebbe da dire “ancora una volta una donna”) poiché una parte cospicua del libro è dedicato proprio alle condizioni delle donne dell’Isis, sia che si tratti di volontarie, convertite straniere oppure rapite nel corso delle operazioni di occupazione territoriale. E non sempre questa condizione rinvia ad un modello unico di comportamento, di sottomissione o adattamento alle condizioni imposte dalla pretesa legge islamica imposta dall’organizzazione religiosa, politica e militare riconducibile a Daeş.

L’analisi di Daeş o Isis, qual dir si voglia, richiede però, secondo l’autrice, nuovi schemi interpretativi, capaci di decifrarne la novità e la complessità. Dichiararne la scomparsa, a seguito soltanto della sconfitta militare subita sul campo di battaglia nel 2018, non serve a nulla, anzi rischia di nascondere il fatto concreto della sua riorganizzazione e del suo rafforzamento. Occorre cogliere la sua capacità di penetrazione culturale e ideologica che avviene su più piani e, soprattutto, grazie all’ignoranza dei fattori che lo hanno causato e giustificato agli occhi di tanti diseredati. Nelle metropoli occidentali come nel Medio Oriente e in altre parti del mondo.

L’aspetto religioso, il piano giuridico-politico, la storia e i conflitti interni, le differenze tra le diverse etnie, tribù e minoranze, l’aspetto sociale proprio di questi luoghi e della società tutta (d’altronde 40.000 foreign fighters sono più che sufficienti per dimostrare che si tratta di un fenomeno globale), assieme ai traffici illeciti, alle relazioni con le mafie nostrane e internazionali, intrecciati con le forme di sciovinismo e nazionalismo implementate e alimentate nell’ultimo secolo, sono tutti pezzi di un puzzle e parte integrante di questo grande mosaico. I riferimenti agli intrecci con il regime Baathista di Saddam Hussein, la prigione di Camp Bucca, i collegamenti con i servizi di intelligence di altri paesi sono dati di fatto. Bisogna essere consapevoli, inoltre, che la politica nostrana (dagli armamenti alla politica energetica di idrocarburi, dagli investimenti delle banche italiane alla gestione migratoria, dalla libertà di culto alla costruzione di moschee, e questi sono solo alcuni esempi) ha degli effetti che si riverberano in altri luoghi e su altre popolazioni1.

Perciò, è da queste considerazioni che occorre procedere a ritroso per cogliere tutti gli aspetti di quella che è ancora corretto definire come la banalità del male. Perché Daeş non è un cane nero sbucato dall’Inferno e i suoi militanti ed esponenti e le loro azioni, per quanto efferate, non sono solo il rigurgito di una o più menti malate. Costituiscono invece l’immagine capovolta di una società e di un modo di produzione che della violenza sulle minoranze, i generi, le etnie e i diseredati e della loro completa sopraffazione e sottomissione ha fatto il suo pane quotidiano.

Una modernità che nei peggiori sostenitori di un ritorno a un mitico passato (Erdogan, Turchia e Arabia Saudita) trova i suoi migliori alleati. Ognuno con le sue strategie geo-politiche, economiche e militari. Ognuno coinvolto in una guerra spietata rivolta sia all’interno che all’esterno dei propri confini. Ognuno attento a costruire o rafforzare un proprio domino o Califfato sulle aree di interesse strategico. Sempre più lontane dai confini nazionali, come succede in Libia, Africa sub-sahariana o alcune aree asiatiche.

Una partita in cui la risorsa energetica simbolo dello sviluppo di marca occidentale, il petrolio, riveste comunque una posizione centrale tra gli interessi che la animano, così come ben dimostrano l’interesse dell’Isis e dei suoi alleati tutt’altro che nascosti e i loro traffici milionari attraverso le frontiere. Ma in cui anche i migranti, più che un pericolo come quello sbandierato dai difensori dei confini occidentali, diventano autentica carne da vendere e macellare, in vista di un maggior profitto, nel mercato mondiale della miseria, dell’emarginazione e dello sfruttamento (sia lavorativo che sessuale o militare).

Ma è proprio questa sua nascita dalla modernità, al di là dello sventolamento utopico di un mitico Califfato ispirato ad un passato sempre travisato, a rendere attualmente l’ideologia dell’Isis e la sua pratica così irriducibili alla mera sconfitta militare.
Nell’Isis e nelle sue pratiche organizzative, nella sua violenza sistematica e nelle sue politiche di dominio si rispecchia la “nostra” società egoista, solitaria, sessista, razzista, classista ed escludente. Il mostro, se così vogliamo chiamarlo anche se con un tal genere di definizione si rischia sempre di cadere nella retorica e nelle semplificazioni, l’abbiamo partorito noi. Certo non, o non soltanto, la millenaria, e troppo spesso travisata, tradizione dell’Islam.

Le complesse burocrazie che governano ogni atto e ogni amministrazione territoriale dello Stato islamico, compreso un complesso sistema di welfare, così ben descritte da Sara Montinaro nella prima parte del suo testo, ricordano le burocrazie complesse non soltanto delle dittature ma anche degli stati sedicenti democratici come quello in cui viviamo. L’uso indiscriminato e abile delle risorse della Rete per arruolare, coinvolgere, convincere i futuri adepti di ogni nazionalità e quello dei social di ogni tipo per permettere loro sia di ritrovarsi in una comunità o umma virtuale che di contattarne le strutture clandestine attraverso Face Book, Instagram, Twitter e, oggi, anche TikTok, non rinvia ad altro che all’uso che oggi viene fatto quotidianamente, e con gli stessi obiettivi formali, non solo dai disseminatori di fake news, ma anche da opinionisti, influencer e capi di Stato.

Sono le abitudini a governare il male, non una forma specifica di devianza culturale e soggettiva. E sono spesso i soggetti deboli a cercare un appagamento nell’esercizio di un potere e di una violenza che per un attimo, forse i famosi quindici minuti di cui parlava Andy Warhol, li rende super-uomini oppure super-donne. Pienamente giustificati e motivati nel loro agire meccanico dal potere della norma abitudinaria. Proprio come sostenne Hannah Arendt a proposito dell’imputato e delle sue azioni scellerate durante il processo Eichmann tenutosi a Gerusalemme nel 19612.

Se così non fosse, come spiegare la condizione e le convinzioni delle “spose di Daeş” che l’autrice ha potuto indagare da vicino, all’interno dei campi profughi e di detenzione di Al-Hol e Roj. Condizioni che se da un alto vedono lo sfruttamento sessuale delle donne yazide, letteralmente tratte in schiavitù dall’Isis con l’unico fine di trarre vantaggio dalla vendita e dall’uso dei loro corpi, dall’altra vedono la convinta partecipazione al ruolo di spose dei combattenti e madri dei loro figli di migliaia di donne, spesso straniere. Donne che spesso, come i e le kapò di ogni campo di concentramento che si rispetti, diventano le peggiori aguzzine delle loro simili e, talvolta, anche degli uomini rinchiusi insieme a loro.

Al-Hol è un campo profughi che si trova lungo il confine siriano iracheno tra le montagne calde e steppose del deserto; […] Diviso in otto sezioni, al momento ospita circa 69.000 persone: il 65% sono bambini, il 30% donne e il 5% uomini. Delle otto sezioni, tre sono dedicate a famiglie irachene, quattro ospitano famiglie siriane e euna è un mix tra le due nazionalità. Accanto a queste sezioni vi è l’Annex, che ospita le famiglie [dei combattenti dell’Isis] provenienti da tutto il mondo. Al momento della mia visita nell’Annex si potevano contare cinquantaquattro diverse nazionalità provenienti, per la maggior parte da Europa, Africa (paesi maghrebini), India, Turchia e Russia (in particolar modo dal Kazakistan)3.

E’ considerato uno dei luoghi più pericolosi al mondo come spiega una comandante YPJ che ne supervisiona il servizio di sicurezza.

«Dopo la campagna militare avviata dalla Turchia a Serê Kaniyê, la situazione è peggiorata; come se si fossero risvegliati. Gli omicidi avvengono per lo più nella zona irachena, mentre all’interno dell’Annex bruciano le tende di chi pensano voglia collaborare con noi. […] Nella parte irachena è ancora più complicato. Lì ci sono pochi uomini e hanno paura delle donne. Fanno quello ch edicono loro».
All’interno del campo c’è un problema di sicurezza reale. Queste donne non hanno paura di niente e sono in attesa del ritorno del Califfato. Ne sono convinte e te lo dicono senza alcuna remora […] Le donne straniere, in particolare, sono le più pericolose: con un’istruzione superiore, sono consapevoli del proprio status e dei diritti di cui godono: “Sono una rifugiata di guerra come tutte le altre, quindi devo aver accesso ai miei diritti”, mi diceva Abd Almanya, una donna tedesca tedesca che si trova all’interno del campo. I suoi occhi azzurri e la carnagione chiara non lasciavano spazio a fraintendimenti sulla sua nazionalità: “Ho studiato alla Business School in Germania poi sono venuta qui con mio marito. La Germania che dice di esere un paese democratico, che cosa fa? Non voglio rientrare lì, non potrei seguire il mio credo religioso. Ma sono una rifugiata come tutte le altre e rivendico i miei diritti”.
«Loro arrivano da Hajin e da Baghouz,» mi spiega Amina, la comandante, «mentre chi aveva perso fiducia in Daeş aveva iniziato già ad arrendersi dopo la battaglia di Raqqa, queste sono persone che hanno continuato a combattere fino all’ultimo! Queste sono le più pericolose perché ci credono davvero. Si sono riorganizzate all’interno del campo, proprio come se fossero nel Califfato. C’è la hisbah, la loro polizia religiosa […] I bambini a nove anni sanno come costruire un rudimentale esplosivo utilizzando il materiale che c’è nel campo […] Sono disposte a tutto. Adesso le donne, quelle più carismatiche, passano tenda per tenda, fanno lezione di Corano ai bambini e insegnano loro l’ideologia di Daeş.»4

La questione dell’istruzione rivela poi ancora un altro aspetto, non secondario, degli aderenti e dei combattenti dello Stato islamico, poiché un buon numero di questi ha un livello di formazione scolastica superiore o universitario. Alcuni sono ingegneri, altri medici (cosa che ha permesso il funzionamento degli apparati amministrativi del Califfato) e questo deve suggerire la necessità di una battaglia che non può essere condotta soltanto sul piano militare, ma anche culturale.

Nel corso degli ultimi anni i confini della “Fortezza Europa” ci sono stati raccontati come qualcosa da difendere a tutti i costi, ma ciò che la storia ci narra è che i confini sono limiti dei popoli e l’unica cosa da difendere è l’umanità tutta. E non per una semplice questione di solidarietà, ma per un amore comunitario basato sul principio di coesione, dignità e libertà. L’essere umano è l’animale più debole sulla Terra. E’ l’unico animale che, sin dalla sua nascita, ha bisogno della cura di qualcuno per poter sopravvivere […] Questo ci insegna che siamo in grado di sopravvivere solo in una forma di cooperazione e solidarietà reciproca. In un mondo in cui avanza una politica dell’odio e una politica della barbarie, è arrivato il momento di rimettere al centro l’essere umano in quanto tale e costruire relazioni in cui l’amore diventi uno strumento per resistere a chi ci vuole indifferenti, individualisti e soli 5.

Un bel sogno? Un’utopia? Un mondo in cui le donne possano sfuggire alle logiche del patriarcato e fondare un nuovo modo di intendere i rapporti sociali sta forse già nascendo con il confederalismo democratico del Rojava, utopia concreta che potrebbe contribuire alla sconfitta dell’Isis e del mondo che lo ha reso possibile. Esattamente come ci suggerisce l’autrice di questo agile, coinvolgente e ben documentato saggio.


  1. S. Montinaro, Daeş. Viaggio nella banalità del male, Meltemi editore, Milano 2020, pp. 155-156  

  2. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2001 (prima edizione italiana 1964)  

  3. S. Montinaro, op. cit. p.121  

  4. ibidem, pp.121-123  

  5. ivi, pp. 157-158  

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Linee di faglia delle guerre civili americane (e non solo) https://www.carmillaonline.com/2020/11/18/linee-di-faglia-delle-guerre-civili-americane/ Wed, 18 Nov 2020 20:00:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63480 di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali [...]]]> di Sandro Moiso

Nell’attuale incertezza politica e baraonda ideologica che circonda l’ancora non risolta questione della dipartita di Trump dalla Casa Bianca, si rende necessario riportare i piedi sulla terra e cercare di indagare da un punto di vista materialista i motivi dello scontro in atto. Al di là dei personalismi e delle personalità (Trump vs. Biden) che sembrano aver dominato fino ad ora nel dibattito statunitense e, forse, ancor di più in quello italiano ed europeo che ha accompagnato la campagna elettorale made in USA ed è seguito ai suoi attuali risultati.

Molto si è discusso, prima, durante e dopo la campagna elettorale, della possibilità che una nuova guerra civile potesse sconvolgere gli assetti politici e sociali del paese nordamericano a seguito dei risultati elettorali e, certamente, l’ostinazione con cui il presidente uscente si rifiuta di accettare la sconfitta (ormai ampiamente certificata) potrebbe far pensare che tale ipotesi sia tutt’altro che decaduta.

In fin dei conti, quello della Guerra Civile è un fantasma che si agita nell’anima americana proprio in virtù del fatto che tale evento storico, svoltosi tra il 12 aprile 1861 e il 23 giugno 1865 e che causò dai 620.000 ai 750.000 morti tra i soldati, con un numero imprecisato di civili1, ha costituito l’atto fondante dei moderni Stati Uniti, forse molto di più della Dichiarazione di Indipendenza del 1776 e della guerra che ne seguì con le armate della corona britannica.

Fu un momento di grande trasformazione economica e sociale, di cui, come si è già detto più volte su queste pagine, la liberazione degli schiavi neri fu solo l’ultimo dei motivi, mentre sicuramente il primo fu la trasformazione degli Stati Uniti da paese esportatore di materie prime verso l’impero britannico e l’industria inglese a paese industriale destinato, nel volger di pochi decenni, a superare la produttività di molti paesi europei industrializzatisi in precedenza.
Solo questa industrializzazione poté garantire negli anni successivi quello sviluppo delle ferrovia che avrebbe finito col velocizzare il trasporto di merci e persone, unificando definitivamente un paese che si affacciava sui due principali oceani, distanti tra di loro quasi 5.000 chilometri.
E’ importante ricordare al lettore tutto ciò perché anche lo scontro in atto attualmente ha a che fare con trasformazioni che ancor prima che politiche e culturali, come vorrebbero i raffinati intellettuali alla Saviano (qui), sono economiche e tecnologiche.
Ma procediamo, come sempre, un passo alla volta.

Il Nord all’epoca della rottura era governato, insieme al resto del paese, da un presidente repubblicano, Abramo Lincoln, che fu anche il primo presidente di un partito nato da poco, mentre gli stati confederati erano rappresentati da un partito democratico che all’epoca, e da diverso tempo, rappresentava gli interessi dei grandi proprietari terrieri proprietari di schiavi e dei piccoli proprietari terrieri che, anche con l’utilizzo di una manodopera schiava di numero assai ridotto rispetto a quello delle grandi piantagioni, campavano comunque sull’esportazione di cotone e tabacco verso le industrie al di là dell’Atlantico. Infatti, come aveva avuto modo di affermare Marx già nel 1847 in Miseria della filosofia, la schiavitù del Sud degli Stati Uniti poco o nulla aveva a che fare con quella antica, mentre invece costituiva un moderno sistema di sfruttamento, peraltro indispensabile allo sviluppo del capitalismo manifatturiero inglese ed europeo.

Ma se, da un lato, furono i piccoli proprietari a fornire alle armate confederate il grosso dell’esercito, dall’altro furono spesso gli operai a fornire i contingenti principali dell’esercito unionista. Anche su invito di Marx e d Engels che all’epoca si erano schierati apertamente a favore di Lincoln e della causa dell’Unione, proprio in nome della battaglia contro l’imperialismo inglese e dell’emancipazione della classe operaia, in un contesto in cui il sistema schiavista rappresentava ancora un impedimento al suo allargamento. Non a caso Joseph Weydemeyer, tedesco della Westfalia e aderente alla Lega dei Comunisti fin dal 1846 e che dopo essersi trasferito nel 1851 negli Stati Uniti avrebbe continuato a collaborare a stretto contato con Marx ed Engels, si arruolò in qualità di ufficiale nell’esercito dell’Unione dove combatté per quattro anni nel Missouri.

E’ importante, però, citare anche la voce di un altro collaboratore dei due comunisti tedeschi, trasferitosi negli Stati Uniti nel 1852: Friedrich Adolph Sorge. Nel 1890-91, ripercorrendo le vicende del movimento operaio americano, scriveva infatti sulla Neue Zeit2:

L’agitazione per la questione della schiavitù aveva portato nel 1854 alla fondazione del Partito repubblicano che, nonostante la sconfitta subita alle elezioni presidenziali del 1856, avrà molta influenza negli anni successivi. Senza un chiaro programma, senza un attacco diretto all’istituto della schiavitù, questo partito voleva solo impedire al Sud schiavista di espandersi in nuovi territori e ostacolare l’ingresso di nuovi Stati schiavisti nell’Unione […] nel 1860, dopo una combattiva campagna elettorale, i repubblicani ottennero la maggioranza in tutto il Nord e il loro candidato, Abramo Lincoln, fu eletto presidente degli Stati Uniti[…]
L’influsso di queste lotte sul movimento operaio degli Stati Uniti è indiscutibile, tanto per gli svantaggi che per i vantaggi arrecati. Sia queste lotte che la guerra influirono negativamente sul movimento operaio perché allontanarono l’interesse del popolo, nel senso stretto del termine, dalle questioni economiche e, inoltre, diedero ai politici, sempre pronti a pescare nel torbido, l’atteso pretesto di opporsi alle richieste degli operai richiamandoli a “più alti interessi”. Un altro effetto negativo fu costituito dal forte mutamento della composizione della popolazione operaia, in quanto i lavoratori americani, che si erano arruolati come volontari o che erano stati chiamati alle armi3, furono rimpiazzati dagli immigrati, i quali avevano naturalmente bisogno di più tempo per conoscere la situazione ed iniziare ad avanzare le prime rivendicazioni. Altro svantaggio fu costituito dal peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia a causa della forte svalutazione della cartamoneta, che non fu affatto bilanciata dagli aumenti salariali ottenuti dagli operai. Per contro, non ci fu disoccupazione durante gli anni della guerra.
Vediamo i vantaggi. L’enorme e crescente domanda di materiale e di equipaggiamenti bellici, di generi alimentari e di stivali e uniformi rese la forza lavoro una merce molto richiesta. Gli operai poterono così imporre con una certa facilità al padronato migliori condizioni di lavoro. Contemporaneamente furono adottate tariffe protezionistiche. Un grande vantaggio fu dato infine dal fatto che la guerra, risolvendo la questione della schiavitù, spianò la strada alla questione operaia4.

La lunga citazione è importante perché contiene al suo interno sia la visione del movimento operaio tipica della Seconda Internazionale che gli elementi tipici che hanno governato le scelte di buona parte degli operai americani e dei gestori politici della Nazione fino ad oggi. Guai a dimenticarsene!

Gli Stati federati nell’unione furono all’epoca 20, compresi quelli che vi entrarono nel corso del conflitto: Distretto di Columbia-Washington, California, Connecticut, Illinois, Indiana, Iowa, Kansas5, Maine, Massachusetts, Michigan, Minnesota, New Hampshire, New Jersey, New York-Stato di New York, Ohio, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, Vermont, Wisconsin e Nevada (solo dal 1864).

All’epoca gli stati del Nord vedevano impiegati nei propri opifici 801.000 operai contro i 79.000 del Sud, con un capitale investito di 858 milioni di dollari (di cui 445 nell’industria con un valore prodotto di 861 milioni di dollari) contro i 237 (di cui 55 nell’industria con un valore prodotto di 79 milioni) investiti negli 11 stati del Sud: Alabama, Arkansas, Florida, Georgia, Louisiana, Mississippi, North Carolina, South Carolina, Tennessee, Texas, Virginia oltre al Territorio Indiano e il Territorio confederato dell’Arizona.

A tutti questi andavano ancora aggiunti cinque stati cuscinetto formalmente sospesi tra l’una e l’altra fazione: Delaware, Kentucky (il maggior Stato schiavista dell’Unione), Maryland (schiavista), Missouri (schiavista), Virginia Occidentale (separatosi dalla Virginia in quanto filo-unionista seppur schiavista, ammesso ufficialmente a far parte dell’Unione nel 1863). A conferma della presenza della schiavitù anche in diversi stati dell’Unione o simpatizzanti occorre precisare che in quegli stati e in quelli cuscinetto erano presenti circa 443.000 schiavi contro i 3milioni e 522mila detenuti dagli stati confederati. Fine della cavalcata storica e ritorno al presente (più o meno).

Sembra abbastanza chiaro che il conflitto ottocentesco fu sostanzialmente non solo di carattere economico, ma anche di modo di produrre. Altrettanto, occorre dirlo qui ed ora, lo è ancora quello attuale. La vulgata del fascismo e del razzismo contro la democrazia e la libertà possiamo lasciarla ai vuoti chiacchiericci televisivi e giornalistici, se vogliamo davvero comprendere la profondità della faglia che attraversa, come quella californiana, e forse più, di Sant’Andrea, la società americana. Pronta a mettere in moto un terremoto di cui da tempo si possono avvertire le scosse di preavviso.

Nonostante la sconfitta Trump ha visto aumentare di 6 milioni i suoi voti rispetto alle elezioni del 2016 in cui era risultato vincitore, conservando di fatto il predominio in 25 Stati su 50. Joe Biden in compenso non ha ottenuto la valanga di voti afro-americani che tutti si attendevano, ma anzi ha conseguito una perdita importante di appeal presso quella fascia di popolazione. Ottenendo il 75% del voto afro-americano contro l’81% della Clinton e l’87% di Barak Obama. E’ il motivo per cui molti commentatori hanno parlato di rivolo blu piuttosto che di ondata. Mentre Donald Trump ha migliorato la sua posizione tra gli elettori non bianchi. E non solo tra i Latinos anti-castristi di origine cubana della Florida (dove non a caso è tornato a vincere).
Possiamo pensare che il Covid-19 abbia comunque portato una ventata di follia in buona parte dell’elettorato americano ledendone irreparabilmente il cervello (come vorrebbero forse i soliti intellettuali da salotto e da strapazzo di casa nostra) oppure cercare di capire. Materialisticamente e per antica abitudine si sceglie qui di seguire la seconda strada.

Se la mappa degli Stati Uniti durante la guerra civile indicava con il blu gli stati dell’Unione e con il rosso quelli confederati (lasciando in azzurro o grigio gli stati cuscinetto), oggi gli stati rossi e blu, come abbiamo imparato, indicano la maggiore influenza di Trump e del Partito repubblicano (rossi) oppure di Biden e del Partito democratico (blu). Se per la guerra ottocentesca la faglia del colore separava distintamente due tipi di economia (ad esempio i 96.000 stabilimenti industriali del Nord contro i 17.000 del Sud), oggi i due colori separano altrettanto due prospettive economiche diverse.
Una, quella blu, al momento attuale vincente e l’altra, probabilmente e non soltanto elettoralmente, destinata ad essere sconfitta.

Questo non vuol affatto dire che le aree blu siano quelle in cui si sta meglio, considerato che il “New York Times” in un articolo del 30 ottobre scorso sottolineava come fossero state le aree blu ad essere state più gravemente colpite dal punto di vista economico che non quelle rosse6. Secondo il giornale infatti, la recessione seguita alla pandemia è stata più severa in stati come la California o il Massachusetts, che hanno avuto una maggior perdita di posti di lavoro e di conseguenza una più vasta disoccupazione, che non altri come lo Utah o il Missouri. E questo viene fatto discendere da un diverso mix di lavori tra gli stati “democratici” e quelli “repubblicani”. Nei primi l’occupazione è scesa maggiormente nei primi due mesi della pandemia, per poi mantenere un significativo calo dei posti di lavoro fin da giugno (2020).

Non vi sarebbe nemmeno un legame diretto tra diffusione del virus e perdita dei posti di lavoro, poiché se inizialmente il numero di contagi e decessi è stato maggiore in aree blu come, ad esempio, quella di New York, a partire da giugno nelle aree rosse sono aumentati i contagi e da luglio anche i decessi. Così, sostanzialmente, la perdita di posti di lavoro sarebbe correlata a fondamentali differenze tra i tipi di lavoro svolti. Con il record di perdita di posti nei settori del divertimento, dell’ospitalità alberghiere e in quello dei viaggi e della ricreazione. Soprattutto in luoghi come Honolulu, Las Vegas e New Orleans (l’ultima , però, appartenente ad uno stato in cui hanno vinto ancora i repubblicani).

E sono state soprattutto le aree metropolitane a subire il maggior calo occupazionale, mediamente del 10% o più, come Springfield (Mass.) con il -12,9%, Las Vegas -12,4%, New York -11,4%, San Francisco -11,2%, New Orleans -11%, Los Angeles – 10,5%, Detroit -10,5% e Boston -10,1% (anche se la lista potrebbe allungarsi ancora). Tra i settori più colpiti dalla crisi pandemica il 59% dei lavoratori impiegati nell’accoglienza e nella ristorazione, il 63% di quelli dell’arte, dell’intrattenimento e del divertimento, il 66% di quelli impiegati nell’informazione come la pubblicità, il cinema e telecomunicazioni vivono in aree in cui i democratici si sono già affermati nelle elezioni del 2016. Mentre la maggior parte dei settori economici meno colpiti dalla pandemia “economica”, come ad esempio quello manifatturiero e delle costruzioni, cui vorrei aggiungere quello agricolo, si trovano dislocati nelle aree in cui Trump già vinse nel 2016 ( e nei quali si è affermato ancora oggi).

Sostanzialmente la maggior perdita di posti si è avuta in aree metropolitane oppure hub tecnologici dove un certo e non indifferente numero di persone può lavorare da casa. In questo settore, e in particolare per quello finanziario oppure dei servizi professionali, il calo dell’occupazione è stato maggiormente rallentato, ma proprio il fatto dovuto all’elevato numero di lavoratori impiegati in tali settori ha fatto sì che altri settori, nelle stesse aree, come New York o San Francisco, fossero i più colpiti. Ad esempio quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, in cui il numero degli occupati è drammaticamente precipitato.

Soltanto un anno prima, però, lo stesso autore citato in precedenza, sullo stesso giornale, scriveva che nelle aree metropolitane blu, più residenti hanno titoli di studio universitari: le 10 grandi metropolitane con il livello di istruzione più elevato hanno votato ciascuna per Hillary Clinton con un margine di almeno 10 punti. I redditi familiari medi sono più alti nelle aree metropolitane blu anche se il costo della vita è più alto in quelle aree. Le aree metropolitane “democratiche” avrebbero avuto infatti un mix di posti di lavoro più favorevole per il futuro, con meno posti di lavoro nel settore manifatturiero, una quota maggiore di lavori “non di routine” più difficili da automatizzare e una quota maggiore di posti di lavoro in settori che si prevedeva sarebbero cresciuti più rapidamente.
Queste misure – istruzione, reddito familiare, costo della vita, lavori straordinari e crescita dell’occupazione prevista – sono fortemente correlate tra loro e con il voto democratico.
Inoltre le medesime aree metropolitane avrebbero avuto una minore volatilità della crescita dell’occupazione. In parte perché i settori legati ai beni come la produzione e l’estrazione mineraria sarebbero più volatili e raggruppati in aree di tendenza repubblicana. Ma, mentre i redditi familiari comparati al costo della vita sarebbero più alti nelle aree metropolitane più blu, i salari confrontati con il costo della vita per una data occupazione sarebbero stati più alti nelle aree metropolitane più rosse7.

Fermiamoci per ora qui, anche se è evidente che qualcosa nella narrazione democratica è andato storto. Sembra pertanto che la differenza di colori sulla mappa delle presidenziali, al di là del radicato repubblicanesimo di diversi stati del Midwest e del West, segua sostanzialmente una linea di faglia tra Nuova e Vecchia economia.
La prima coinvolge la finanza globalizzata e globalizzante, l’high tech, l’information technology, la digitalizzazione di ogni ambito lavorativo e della distribuzione dei servizi e delle merci, dello smart working e dell’atomizzazione di ogni ambito lavorativo con conseguente perdita di qualsiasi dimensione comunitaria o identitaria di classe. Oltre che quella delle produzioni cinematografiche, ma sempre più rivolte alle produzioni seriali destinate ai canali digitali oppure ai videogiochi. Un’economia virtuale in cui anche la maggior parte dei lavori diventa virtuale e precaria. All’interno della quale, però, lo sviluppo della ricerca più di profitti finanziari che scientifica di Big Pharma8 e delle tecnologie rivolte alla diffusione del Green Capitalism svolgeranno una funzione sempre più importante.

L’altra è quella delle industrie manifatturiere, dell’estrattivismo, delle costruzioni tradizionali e dell’agricoltura (anche se una parte significativa del settore dei piccoli farmer degli Stati del West è destinata ad entrare sempre più in conflitto con quello estrattivo a causa dei danni causati dalla pratica del fracking). Settori tradizionali in cui il posto di lavoro è (o era) maggiormente garantito e il reddito medio anche. Un’economia dagli alti costi e scarsi profitti per il capitale finanziario, perché ormai scarsamente competitiva con quella di altre nazioni, più giovani ed aggressive, ma dai salari molto più bassi, che operano negli stessi settori.

Se gli Stati Uniti, secondo questa ipotesi, vogliono mantenere o almeno sfidare la Cina per mantenere il predominio mondiale, non soltanto militare, dovranno sicuramente spostare il loro centro economico sempre più verso la new economy. Trump è stato fautore di dazi, muri e ritiri militari (che nei prossimi giorni saranno portati a termine in Afghanista e in Iraq) per salvare il prodotto nazionale e abbattere i costi e scaricare sugli alleati/competitors i costi di tali operazioni di salvataggio di un’economia in crisi. Ma se questo piace ai suoi sostenitori, non basta alla fame di nuovi profitti del capitale, inteso come macchina implacabile, anche nei confronti dei suoi servitori di più alto grado. Così come agli industriali del Nord del 1860 non bastavano gli 87 milioni di dollari di esportazioni dei loro prodotti contro i 229 milioni delle esportazioni del Sud e della sua economia schiavista.

Ecco allora che sembrano diventare più chiare le linee di faglia e dei colori: e sono tutt’altro che ideali o prodotte dall’ignoranza. Una gran parte dell’elettorato americano, anche in quegli Stati dove i centri urbani hanno contribuito alla vittoria di Biden mentre le aree periferiche hanno continuato a rimanere rosse, non ha nessuna intenzione di entrare nel ciclo del lavoro precarizzato e sottopagato.
Mi vengono in mente, in proposito, le parole spese da Chicco Galmozzi per spiegare le motivazioni degli operai che scelsero l’organizzazione armata negli anni ’70.

La mia opinione personale è che gli operai di Senza tregua9 avessero una visione più realistica e fossero coscienti che la posta immediatamente in gioco non fosse l’instaurazione del comunismo ma una lotta per la sopravvivenza. Si combatte per non morire, per non sparire come soggetto storico. […] Gli operai avvertono con chiarezza la percezione di trovarsi nel pieno di grandi processi di ristrutturazione che comporteranno delocalizzazioni e chiusure di intere fabbriche. Su ciò affiora una divergenza di vedute fra la base operaia di Senza tregua e Toni Negri e Rosso. Per questi ultimi, la fabbrica diffusa e l’operaio sociale sono un passaggio che addirittura allude a una fase e un terreno più avanzati per il passaggio al comunismo, per gli operai di Senza tregua, invece, il rischio che si prospetta è la fine di un mondo, del loro mondo. Per altro, non appare infondato sostenere che se la lotta armata nasce in fabbrica, essa muore con la morte della fabbrica. O, per meglio dire, le sopravvive divenendo altro da sé: la lotta armata si farà eco e prolungamento artificiale, pratica che non corrisponde più alle sue ragioni originarie. La scomparsa delle grandi concentrazioni operaie e del soggetto storico scaturito da queste segnerà la fine di una storia. ( da Chicco Galmozzi, Figli dell’officina. Da Lotta Continua a Prima Linea: le origini e la nascita (1973- 1976), Derive Approdi, Roma 2019, p.136)

Per alcuni lettori questo paragone potrà sembrare scandaloso, eppure, eppure…
La resistenza del mondo del lavoro “tradizionale” all’avanzare delle nuove tecnologie, delle nuove tecniche produttive e delle ristrutturazioni socio-economiche che ne conseguono è una costante della storia fin dall’avvento del capitalismo. Dal tumulto dei Ciompi all’azione disperata di Captain Swing e dei Luddisti contro la meccanizzazione dell’agricoltura, fino al gran numero di piccoli proprietari terrieri del Sud accorsi a difendere gli interessi dei proprietari delle grandi piantagioni di tabacco e cotone, versando il proprio sangue. Oppure quella delle maggiori tribù di nativi americani che nel Territorio indiano si schierarono con la causa confederata. Battaglie quasi tutte perse già in partenza.

Per questo dovremmo forse, da buoni progressisti, felicitarci con il nuovo che avanza ed appoggiarlo?
Quel che è certo è che se non avevamo nulla a che spartire con la vecchia fabbrica-mondo, altrettanto non lo possiamo avere con la trasformazione antropologica, oltre che economica e sociale in atto. Piuttosto, dovremo sempre più essere capaci di osservare, comprendere, denunciare e, dove si potrà, organizzare le contraddizioni che tale potente trasformazione ha già da tempo iniziato a sviluppare. E’ un terreno scivoloso in cui il melting pot tra classi, mezze classi e diverse identità razziali, tutte in via di crescente proletarizzazione, è ancora tutto da realizzare, soprattutto sul piano della visione politica oltre che economica e sociale.

Un territorio in cui, a livello propagandistico e di immaginario soprattutto, gioca molto la questione dei diritti.
La vecchia economia americana privilegia sicuramente i bianchi, anche se rimane ancora il problema di chiedersi perché un gran numero di latinos e il 25% dell’elettorato afro-americano abbiano potuto votare per Trump (ma la risposta è implicita nella domanda stessa).
D’altra parte il trionfo della borghesia e del capitalismo industriale si affermò grazie alla promessa dei diritti per tutti: Libertè, Egalitè, Fraternitè ovvero libertà per la maggioranza di farsi sfruttare una volta sciolti i vincoli della comunità, eguaglianza tra i poveri di accettare le leggi del comando capitalistico e di farsi concorrenza tra di loro e fratellanza degli oppressi nella miseria oppure dei padroni nel processo di accumulazione.
Benvenuti ancora una volta nel mondo libero!

Liberi oggi i lavoratori di cercare un lavoro on line come fattorini e spedizionieri, di accontentarsi della comunicazione digitale sui social e di consumare ciò che le grandi catene di distribuzione, come Amazon (il cui valore azionario è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo anno così come quello dei canali televisivi come Netflix), ci procurano da ogni parte del mondo globalizzato.
Paradossalmente un nuovo mondo in cui il modello cinese ha già vinto e che l’Occidente, Stati Uniti in testa, è costretto a rincorrere10.

[…] perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan […] sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica)11.

Come afferma ancora Giovanni Iozzoli, in un suo saggio di prossima pubblicazione:

L’Isis propugna una rifondazione radicale dell’umano, esattamente come il capitalismo globalizzato e finanziarizzato. Il Mercato Globale considera le identità pregresse – di mestiere, di territorio, sociali, comunitarie, linguistiche – come zavorre da tagliare, sopravvivenze che ostacolano l’avvento del Consumatore Finale, un Uomo Nuovo senza radici, senza storia, prigioniero di una miserabile tecno-neo-lingua, senza territorio, fisiologicamente migrante – un flusso di desideri indotti fatalmente destinati all’insoddisfazione. Ma questo è precisamente il dispositivo di formattazione dell’Isis: il modello, per chi giungeva volontario nei territori governati dal Califfo, era quello di una radicale spoliazione di identità; non eri più un musulmano bosniaco o francese o indonesiano, con la tua ricca storia linguistica, familiare, etnografica. No, eri un credente “rinato” che come primo atto di fedeltà doveva indossare un abito mentale (e materiale) che ti rendesse indistinguibile e azzerasse la tua biografia.
Il Paradiso – che nella rozza e puerile versione salafita è un luogo di piaceri sensuali da consumare ad libitum – si presenta come un enorme carico di delizie, che ti aspetta dietro l’angolo dell’obbedienza e del martirio.
Allo stesso modo il Paradiso capitalistico: che è sempre un metro più in là, che esige sempre una performance in più, che evoca sempre aspettative di godimento favolose per le quali non sei mai pronto, se non in patetiche anticipazioni surrogate.
Sono due approcci entrambi molto “materialisti”, fondati sulla compravendita del Corpo e l’attesa del Godimento, mediati da una logica puramente mercantile. Dai tutto te stesso – al Califfo o al Mercato – e alla fine riceverai il premio della degnità, della adeguatezza al modello e della materialissima soddisfazione dei sensi. Persino un afflato sinceramente religioso, o un soffio di trascendenza, risultano fuori posto, in questi schemi di scambio.
L’adesione all’Isis – almeno in occidente – è anch’essa il risultato di una opzione individualista, fuori da meccanismi comunitari o da qualche dibattito collettivo. È l’approccio tipico del consumatore contemporaneo, un individuo solo nella sua vacuità, che davanti allo schermo del suo computer sceglie quale “prodotto” sia più adeguato a riempire il vuoto nichilista della propria esistenza. Il “lupo solitario” resta tale dall’inizio alla fine del percorso – quando si connette per la prima volta a una chat o ai siti jhaidisti, fino a quando sceglie di uccidere e uccidersi nelle strade di una metropoli europea.
La Umma virtuale dei desideri frustrati, delle identità fittizie, dell’altrettanto fittizio tentativo di ricostruzione di senso – attraverso la strage e il suicidio – usando solo una tastiera e la disperata pulsione autodistruttiva, oggi tanto in voga12

Eccola lì la trappola della modernità, dei diritti e della new economy che avanza: tutti uguali davanti al capitale, tutti ugualmente sfruttati e sottopagati e tutti (per ora) divisi davanti alla sua presenza sempre più invisibile e alla sua forza sempre più organizzata, ma con la promessa per tutti, parafrasando Andy Warhol, di aver la possibilità di realizzarsi in una carriera di quindici minuti.
Le linee di faglia e di colore americane sono dunque anche le nostre e lo sforzo comune per superare l’orrore quotidiano di un’esistenza che non è più altro che nuda vita, pur sapendo già fin da ora che il nostro posto è altrove, non potrà essere altro che quello di riunire ciò che oggi è ancora diviso e confuso. Ed enormemente incazzato


  1. Secondo una stima la guerra causò la morte del 10% di tutti i maschi degli Stati del nord tra i venti e i quarantacinque anni e il 30% di tutti i maschi del sud tra i diciotto e i quarant’anni, su una popolazione complessiva di circa trenta milioni di abitanti; mentre i due eserciti contarono 2.100.000 soldati per gli stati dell’Unione e 1.064.000 per quelli della Confederazione. Da questo punto di vista, infine, occorre ricordare che nel 1860, un anno prima dell’inizio del conflitto gli Stati del Nord contavano 22.100.000 abitanti contro i 9.100.000 degli stati del Sud  

  2. Die Neue Zeit (Il nuovo tempo) fu una rivista politica tedesca di orientamento socialista e marxista pubblicata in Germania dal 1883 al 1923, fondata e diretta da Karl Kautsky, che accolse nel tempo i contributi di Rosa Luxemburg, Trockij e Wilhelm Liebknecht, solo per citare alcuni dei collaboratori  

  3. Occorre qui ricordare i New York riot del 1863, magnificamente ricostruiti nel film Gang of New York di Martin Scorsese nel 2002, durante i quali la parte proletaria e sottoproletaria della grande città si ribellò all’arruolamento forzato cui, invece, i figli delle classi agiate potevano sfuggire pagando una tassa di circa 300 dollari. Cosa evidentemente impossibile per gli strati più poveri della popolazione  

  4. F. A. Sorge, La guerra di secessione ora in F. A. Sorge, Il movimento operaio negli Stati Uniti d’America 1793-1882. Corrispondenze dal Nord America, PantaRei, Milano 2002, pp. 99-100  

  5. Che fu per lungo tempo, insieme al Missouri, teatro di una crudele guerriglia tra schiavisti e anti-schiavisti. Famoso il massacro della città di Lawrence, avvenuto il 21 agosto 1863 ad opera delle bande filo-schiaviste di William Clarke Quantrill. Si veda in proposito: T.J.Stiles, Jesse James. Storia del bandito ribelle, il Saggiatore, Milano 2006  

  6. Jed Kolko, Why Blue Places Have Been Hit Harder Economically Than Red Ones, The New York Times, 30/10/2020  

  7. J. Kolko, Red and Blue Economies Are Heading In Sharply Different Directions, The New York Times, 13 /11 /2019  

  8. Come ben dimostra ormai la paradossale ricerca/affermazione del mezzo punto di efficacia in più tra Pfizer e Moderna per i propri vaccini, a cui stiamo assistendo con le vertiginose salite e altrettanto rapide cadute dei rispettivi titoli azionari  

  9. Per la storia di Senza tregua. Giornale degli operai comunisti si veda qui  

  10. Ipotesi tutt’altro che peregrina se si considera che la guerra vera con la Cina, per ora, riguarda la tecnologia 5G di Huawei oppure le piattaforme social come TikTok  

  11. Dalla presentazione dell’editore a Leslie T. Chang, Operaie, Adelphi, Milano 2010  

  12. Tratto da G. Iozzoli, Islam, modernità e guerra alla guerra, in S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale, Il Galeone, Roma  

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Ancora sugli eroi del nostro tempo https://www.carmillaonline.com/2019/11/06/ancora-sugli-eroi-del-nostro-tempo/ Wed, 06 Nov 2019 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55834 di Sandro Moiso

Omaggio al Rojava. Il fronte siriano, la rivoluzione confederale e la lotta contro il jihadismo raccontati dai combattenti internazionali YPG, RED STAR Press, Roma 2019, pp. 212, 16 euro

“Saper riconoscere chi o cosa in mezzo all’inferno non è inferno è dargli spazio, farlo durare”

Poche settimane or sono, in occasione di una serata in omaggio a Ivan Della Mea uno degli intervenuti ha affermato che per il cantautore comunista l’ultimo degli eroi era stato Che Guevara. Quelle parole, pronunciate da qualcuno che sembrava fare proprio il giudizio di [...]]]> di Sandro Moiso

Omaggio al Rojava. Il fronte siriano, la rivoluzione confederale e la lotta contro il jihadismo raccontati dai combattenti internazionali YPG, RED STAR Press, Roma 2019, pp. 212, 16 euro

“Saper riconoscere chi o cosa
in mezzo all’inferno non è inferno
è dargli spazio, farlo durare”

Poche settimane or sono, in occasione di una serata in omaggio a Ivan Della Mea uno degli intervenuti ha affermato che per il cantautore comunista l’ultimo degli eroi era stato Che Guevara.
Quelle parole, pronunciate da qualcuno che sembrava fare proprio il giudizio di Ivan mi hanno fatto comprendere, ancora una volta, l’enorme iato che è andato aprendosi tra la cosiddetta sinistra, non solo istituzionale, e la realtà del mondo attuale.

Senza voler nulla togliere né alla figura del Che, né tanto meno a quella di Della Mea mi sembra palese che una simile mancanza di produzione di figure adatte a nutrire l’immaginario antagonista contemporaneo sia emblematico, almeno per quanto riguarda l’italietta con cui dobbiamo fare giornalmente i conti, di una crisi profonda di una frazione politica della società, sempre più rinchiusa nelle sue sconfitte e nei suoi superati modelli novecenteschi.

Come è noto Bertolt Brecht, nella sua Vita di Galileo, aveva affermato: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Purtroppo, o per fortuna dipende solo dai punti di vista, il mondo contemporaneo, soprattutto quello giovanile, ha ancora un forte bisogno di eroi, ovvero di modelli di riferimento in grado di catalizzare energie, desideri, speranze e rabbia di chi comprende, anche solo inconsciamente, di non essere ancora uscito, sia individualmente che socialmente, da ciò che nel XIX secolo Marx definiva come la ‘preistoria dell’umanità’.

Il recente successo della figura del Joker nelle rivolta sociali, soprattutto cilene e libanesi, che ha rapidamente sostituito la maschera di Anonymous tratta dal fumetto e dal film V for Vendetta, ci parla non tanto di un predominio dell’industria culturale e cinematografica americana nella cultura di massa contemporanea, quanto piuttosto della ricerca di un modello che non ripeta soltanto le stantie ricette e mitografie di una sinistra novecentesca non solo sconfitta, ma anche decisamente traditrice nel suo percorso storico (dalla Russia alla Cina e dall’Europa ad ogni angolo del pianeta) delle aspettative dei diseredati di tutto il mondo. Soprattutto in un momento in cui, contraddicendo le promesse del capitalismo e confermando le previsioni di Karl Marx, la proletarizzazione è andata allargandosi con l’immiserimento di quelle che un tempo erano definite classi medie.

Ecco allora che il testo appena pubblicato dalla Red Star Press, i cui proventi per esplicita volontà degli autori contribuiranno alla costituzione dell’Associazione Culturale “Lorenzo Orsetti”, può costituire un autentico manifesto per il nuovo eroe contemporaneo, anzi per i nuovi eroi contemporanei. Eroi anonimi, conosciuti principalmente attraverso il nome di battaglia, mossi da motivazioni diverse e non uniti da un’unica appartenenza politica e tanto meno partitica. Spesso accomunati dalla giovane età (anche se questa è una caratteristica costante degli eroi di sempre) e, soprattutto dall’aver saputo riconoscere immediatamente, in maniera quasi epidermica più che profondamente cosciente, una causa in cui ritrovarsi e per cui valesse la pena di rischiare la prigionia e anche la morte.

Vengono da molti paesi (Italia, Francia, Irlanda, Catalogna, Stati Uniti, Russia, Albania, Germania, Paese Basco e Québec, ma altri paesi avrebbero potuto essere aggiunti se fossero stati diversi gli autori scelti per la selezione della realizzazione del libro) e, anche se nel libro attuale le testimonianza sono soltanto maschili, appartengono indifferentemente ai due sessi. Si spera infatti in una successiva pubblicazione di memorie di donne combattenti per la stessa causa.

La causa, lo rivela il titolo, è in questo caso quella dell’indipendenza curda e del Rojava in particolare e tutte le testimonianze sono tratte dalle esperienze fatte o nell’IFB (International Freedom Battalion) oppure nell’YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di Protezione Popolare) a fianco dei combattenti e delle combattenti kurdo-siriane.

Come si afferma nelle pagine introduttive da parte dei curatori, sarebbe estremamente riduttivo leggere la partecipazione degli internazionalisti alle battaglie condotte dai curdi nel nord della Siria in chiave esclusivamente anti-ISIS. Questa è una motivazione spesso messa in primo piano dai media, anche se in realtà anche chi è partito inizialmente per combattere a fianco di una causa anti-fascista e contraria al radicalismo islamico più efferato si è trovato ben presto coinvolto nella difesa di un esperimento politico e sociale, quella del confederalismo democratico e dell’organizzazione politico-militare dal basso, ancora più importante e significativa della prima.

Sono giovani anarchici, comunisti oppure privi di ideologia politica di partenza a parlarci delle loro esperienze, al fronte e non, attraverso le pagine del libro. Alcuni di loro hanno fatto un solo turno nell’YPG e nell’IFB, per poi dedicarsi a propagandare la causa del Rojava una volta tornati nel paese d’origine; altri hanno fatto più turni nelle due formazioni e non vedono l’ora di poter tornare là per continuare a dare il loro contributo in prima linea.

Esprimono talvolta pareri diversi su differenti aspetti della vita, della disciplina, dei rapporti intercorsi con gli altri combattenti arabi, turcomanni e curdi, ma tutti esprimono una vivacità, una determinazione, un coraggio quasi sempre scevro da qualsiasi tipo di retorica. Qualcuno si concentra maggiormente sugli aspetti militari, per esempio il russo-polacco Ilyas, altri sulla vita e la disciplina dei tabur (plotoni) di appartenenza. Tutti hanno conosciuto combattenti, uomini e donne, morti in seguito durante le operazioni e spesso, come alcuni compagni-combattenti italiani e di altra nazionalità, hanno dovuto affrontare dei guai con la giustizia o l’informazione manipolata dei media ufficiali una volta rientrati nei paesi di provenienza.

Ma è tutta la brutalità, la casualità, la crudeltà e la violenza della guerra a riverberare dalle pagine di Omaggio al Rojava. La violenza di cui i pacifisti imbelli, gli intellettuali da salotto e i compagni da osteria non vogliono sentire parlare e che, anzi, non riescono neppure ad immaginare proprio perché non riescono a immaginare, e nemmeno a comprendere, lo scontro di classe così come esso si manifesta al suo culmine e ridotto alla sua essenza: quello della guerra di classe e civile.
Senza romanticismo e senza paraocchi ideologici e moralistici.

“Arrivo in paese distrutto, sono giorni che non mi lavo, e sono completamente coperto di sangue. Non mi interessa, mi butto su un materasso a terra e crollo in un sonno profondo. La mattina dopo uno degli anziani mi accompagna in un’altra casa. Mi offrono mille sigarette, mille çay (tè curdo), e una colazione abbondante. Accetto tutto più che volentieri. Mi sono lavato le mani come meglio potevo, ma l’acqua era poca, e l’odore del sangue attraversava la tazza fumante di the. Mi dicono di restare un paio di giorni per riposare, ma non mi interessa, a parte qualche acciacco non sono ferito e posso continuare.
Insistono, gli dico che voglio solo la mia arma e raggiungere l’altro gruppo sulla collina. Questa volta accettano, e dopo un paio d’ore e qualche telefonata un compagni mi viene a prendere: Ringrazio per la colazione, ci salutiamo con grande calore. Scoprirò solo poi che tutti i presenti in quella stanza sarebbero morti il giorno dopo.
La prima notte sulla nuova collina è la notte dei “cobra”. L’elicottero ci vola proprio sopra, spara raffiche a caso su tutti i cespugli. Aspettiamo che si allontani per fare manovra e girarci e arretriamo verso altri cespugli. Passiamo lì la notte, senza coperte, con le orecchie tese al cielo. Risentire il giorno dopo, sotto il sacco a pelo, il calore riaffluire nelle gambe sarà una delle sensazioni più belle che ricordo.
Stiamo fermi due giorni, e non capisco come mai. Il volo dei droni e degli aerei da guerra si fa più intenso. Diluvia, sono bagnato fradicio, ed è mentre mi chiedo come farò ad affrontare il gelo della notte in quelle condizioni che mi avvertono che ci muoviamo. Una squadra più fresca prenderà il nostro posto e avremo qualche giorno per riposare.
Ringrazio il cielo e raccolgo in fretta le mie cose.
Al villaggio noto subito che l’atmosfera è molto cambiata, non c’è più quasi nessuno, e quei pochi che ci sono fanno molta più attenzione. Le facce sono tese, e c’è poca voglia di scherzare.
Vedo le macerie dell’edificio dove avevo fatto colazione, many sheit dice un compagno.
Gli aerei che in quel giorno si erano sentiti passare avevano colpito molto duramente. Buona parte dei combattenti erano stati spostati sulle colline, altri in qualche postazione più sicura.
Avrei voluto scrivere un finale diverso, uno in cui magari strappavamo il villaggio al nemico senza problemi, ma la realtà non è un bel racconto, e in fin dei conti per questa storia un finale ancora non c’è; sulle colline di Afrin si resiste, si vince e si perde, si vive e si muore, ma se la lotta non si spegne vuol dire che la speranza vive ancora”1

E’ proprio nelle parole di Tekosher, forse annoverabili tra le ultime righe scritte da Lorenzo Orsetti, che chiudono il libro, che possiamo trovare tutto lo spirito delle testimonianze in esso racchiuse. Testimonianze che rinviano alla memoria di altri eroi anonimi di altre guerre di classe, dalla Spagna alla Resistenza italiana, spesso tradite e quasi sempre sconfitte nei loro fini ultimi, ma utili a rinnovare la speranza in un mondo altro e diverso dall’attuale.
Quello in cui finalmente non ci sarà più bisogno di eroi.


  1. Omaggio al Rojava, pp. 209-210  

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Guerrevisioni. Tendenze iconoclastiche, visioni aumentate, combat video, cinema e videogiochi https://www.carmillaonline.com/2018/08/26/guerrevisioni-tendenze-iconoclastiche-visioni-aumentate-combat-video-cinema-e-videogiochi/ Sat, 25 Aug 2018 22:01:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48000 di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social [...]]]> di Gioacchino Toni

«le immagini sono parte integrante del modo di conduzione dei conflitti e non possono essere semplicemente liquidate come vaghe apparenze o come simulacri del reale» (Maurizio Guerri)

Nel volume curato da Maurizio Guerri, Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018), diversi studiosi si confrontano con alcuni importanti interrogativi a proposito del rapporto tra immagini e conflitti bellici. «Qual è il nostro sguardo sulle guerre nell’epoca della manipolazione domestica delle immagini, della produzione e della condivisione “democratica” dei video via YouTube, della diffusione “virale” delle notizie (o delle fake-news) sui social network? In che modo la modificazione quantitativa e qualitativa dei media ha mutato il nostro modo di guardare gli eventi bellici, rispetto anche solo ad alcuni decenni fa? Che cosa vediamo e che cosa non siamo più in grado di vedere delle guerre contemporanee?» (p. 9).

Il libro analizza il rapporto immagine/guerra nella contemporaneità tenendo ben presente che se quest’epoca da un lato offre inedite modalità comunicative e di produzione diffusa e decentrata delle immagini, dall’altro si caratterizza per una concentrazione monopolistica senza precedenti dei flussi di informazione sia nel web che nelle modalità più tradizionali.

Il corposo volume risulta suddiviso in tre parti: nella prima si ragiona sull’utilità delle immagini dei conflitti mondiali nella comprensione delle attuali guerre; nella seconda si indagano le modalità con cui le arti possono oggi testimoniare gli eventi bellici; nell’ultima parte si analizzano i conflitti contemporanei che si danno grazie alle immagini. Facendo riferimento proprio a ques’ultima sezione del libro intitolata Pensare le guerre con gli occhi (e con le loro protesi), in questo scritto ci soffermeremo sui contributi di Mauro Carbone e Ruggero Eugeni che si occupano rispettivamente della paradossale piega iconoclasta che sembra attraversare una contemporaneità che si vuole votata al visivo come non mai, il primo, e delle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna, il secondo.

Mauro Carbone, nel suo “L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica?”, torna, dopo essersene occupato nel libro Essere morti insieme. L’evento dell’11 settembre 2001 (Bollati Boringhieri, 2007), a riflettere su come le immagini televisive dell’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, in particolare quelle relative alle persone lanciatesi nel vuoto per sfuggire alle fiamme, dopo essersi impresse nella memoria collettiva a livello planetario grazie ai media, siano immediatamente divenute oggetto di una vera e propria strategia di rimozione. Ad essere in gioco, sostiene lo studioso, sono la memoria e l’oblio collettivi di un evento che ha aperto il nuovo millennio nonché inaugurato quella che W.J.T. Mitchell (Cloning Terror. La guerra delle immagini dall’11 settembre a oggi, La casa Usher, 2012) ha definito l’attuale “guerra delle immagini”.

Alle immagini è spettato un ruolo fondamentale nella percezione collettiva della tragedia dell’11 settembre: non fosse stato per esse, quella delle Twin Towers sarebbe stata una tragedia simile a tate altre e ciò, sostiene Carbone, dovrebbe «aiutarci a considerare sino in fondo l’intrinseca portata politica del nostro rapporto estetico-sensibile col mondo, con cui quello con le immagini fa evidentemente tutt’uno» (p. 305). Secondo l’autore il sistema mediatico si è preoccupato di an-estetizzare il trauma dell’11 settembre 2001 attraverso l’incessante ripetizione dello stesso, ricorrendo alla riproduzione della medesima sequenza televisiva che mostra un aereo che attraversa lo schermo fino a schiantarsi contro una delle due torri provocando un’esplosione spettacolare. Lo studioso riprende a tal proposito ciò che ha scritto Allen Feldman nel suo “Ground Zero Point One: on the Cinematics of History” (2002): “Era come se al pubblico fosse stata data una terapia temporale facendolo testimone, più e più volte, di una sequenza meccanica di eventi che restaurava la linearità del tempo sospesa con gli attentati”. Carbone individua in tale an-estetizzante ripetizione ossessiva della medesima sequenza una certa convergenza e complementarietà con la strategia di rimozione delle immagini degli individui lanciatisi nel vuoto ed è proprio proprio sul rilievo assunto da tali immagini «nel progetto di costruzione di una certa memoria collettiva dell’11 settembre» (p. 306) che riflettere in questo scritto.

La strategia di rimozione delle immagini dei cosiddetti jumpers lanciati nel vuoto prende il via sin dal giorno successivo ai fatti, quando un’ondata di proteste, in particolare negli Stati Uniti, colpisce i quotidiani accusati di sciacallaggio per aver pubblicato soprattutto la fotografia che mostra un uomo, divenuto noto come Falling Man, in una caduta verticale incredibilmente composta con la testa in giù, le braccia lungo i fianchi e una gamba piegata in linea con le geometrie del palazzo. Da allora questa fotografia, ben riuscita dal punto di vista formale, non è più stata pubblicata negli Stati Uniti nonostante possieda una carica attrattiva che l’accomuna all’immagine dell’aereo che impatta con una delle due torri. La straniante perfezione dell’immagine del Falling Man «riesce tanto a sospendere il tempo – proprio come abbiamo sentito Feldman dire che gli attentati hanno fatto – quanto a capovolgere lo spazio. Al punto da spingere a chiedersi se la foto sia stata bandita malgrado le sue qualità formali oppure proprio per queste. Dubbio legittimo, che rivela come la bellezza, anziché mitigare, possa acuire l’atrocità di un’immagine. Dubbio che comunque non deve far dimenticare una ben più generale verità: la documentazione visiva sui cosiddetti jumpers, nel suo complesso, ha avuto una sorte analoga a quella della foto di Falling Man, specie negli Stati Uniti» (p. 307).

Secondo Carbone anche se la strategia di rimozione sembrerebbe derivare da una questione di privacy da rispettare, in realtà già nel corso del primo anniversario della strage sono state soggette ad aspre critiche, dunque rimosse, alcune opere d’arte evocanti i tragici eventi pur senza fare alcun riferimento a individui specifici violandone la privacy. Il risultato è che negli Stati Uniti si è smesso di mostrare e di parlare di quegli individui gettatisi nel vuoto. «Ecco allora che la memoria del “giorno più fotografato e più videoregistrato della storia mondiale” si confessa abitata da una paradossale volontà iconoclastica, che segnerà ambiguamente anche molti altri combattimenti della “guerra delle immagini” esplosa quel giorno» (pp. 308-310).

Volontà iconoclastica che, secondo lo studioso, ritroviamo anche nell’attentato del 2015 alla sede del giornale satirico francese «Charlie Hebdo», definito da «Le Monde» “L’11 settembre francese”. Nel presentarsi come una rappresaglia per la pubblicazione di alcune caricature di Maometto, il gesto palesa la volontà iconoclastica degli attentatori. «Né questa volontà risulta di per sé contraddetta dall’enorme impatto, non solo emotivo ma anche politico, esercitato nel settembre dello stesso anno dalla fotografia del corpo annegato del piccolo migrante siriano Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum: un impatto che, proprio per la valenza politica assunta, da più parti si cercò di contrastare bollando quella foto come manipolata. E gli esempi di tale volontà iconoclastica – rintracciabile, pur con ovvie e significative differenze, in schieramenti culturali, ideologici e mediatici dichiaratamente opposti – potrebbero continuare» (p. 310).

Nella parte finale dell’intervento, l’autore prende in considerazione la conclusione del romanzo di Jonathan Safran Foer Molto forte, incredibilmente vicino (Guanda, 2005) in cui un bambino decide di invertire la sequenza delle immagini di un altro falling man e con essa degli eventi, immaginando il padre che dal suolo, salendo con l’ascensore, finisce col raggiungerlo nell’appartamento. «In questo testo e nella sequenza rovesciata d’immagini che l’accompagna sembra agire appunto una precessione reciproca del tragico reale e dell’immaginario infantile, i quali non cessano di rinviare l’uno all’altro pur rimanendo disperatamente divergenti come solo possono esserlo il trauma e l’inconsolabile desiderio di cancellarlo. Emozione contrastata. Emozione dalla cui violenza è impossibile difendersi. Diversamente dal sublime kantiano, lo spettatore non riesce più a distinguersi dal naufrago. Così, se Kant può immaginare il sublime come “l’immenso oceano sconvolto dalla tempesta”, un testimone dell’11 settembre non ha potuto fare a meno di modificare implicitamente quell’immagine scrivendo: “il dolore che avvolge queste colonne è inimmaginabile e continuiamo a fissarlo come travolti da un mare in tempesta”. Non c’è possibile “distanza di sicurezza” dal naufragio. E tanto peggio per noi se speriamo di poterla creare alzando muri. Perché tale naufragio non si limita a essere “incredibilmente vicino”, come annunciava il titolo del romanzo di Foer, ma è piuttosto il nostro stesso naufragio. Per questo si rivela abitato da quella che prima chiamavo “strategia di rimozione”. Anche per questo una guerra alle immagini percorre l’attuale guerra delle immagini» (p. 317).

Ruggero Eugeni, nello scritto “Le negoziazioni del visibile. Visioni aumentate tra guerra, media e tecnologia”, prende in esame alcune tecnologie di assistenza-potenziamento della visione umana in condizioni di scarsa visibilità, riflettendo soprattutto sulle relazioni tra usi bellici e usi mediali dei dispositivi di visione notturna. Dopo aver tratteggiato lo sviluppo di alcune tecnologie visive – image intensification, active illumination, thermal imaging – dapprima in ambito militare e, successivamente, civile, lo studioso analizza alcuni combat video sottolineando come le modalità con cui sono stati montati e la diffusione in internet tendano a trasformarli da materiale di documentazione in propaganda. In molti di questi video esiste un «legame metonimico fortemente esibito tra appropriazione visiva e appropriazione fisica del territorio» (p. 326). Non a caso, continua Eugeni, la conquista dei differenti spazi, nel corso delle operazioni belliche riprese, viene da un lato esaltata dalla natura “embedded” della videocamera (al contempo testimone impersonale e parte integrante del movimento di conquista) e dall’altro resa possibile e visibile dal ricorso a dispositivi di visione notturna, «atto di vittoria preventiva sulle “tenebre” del male che circondano i corpi dei soldati e minaccerebbero altrimenti di inghiottirli» (p. 326). I combat video sono spesso girati in prima persona secondo modalità stilistiche molto simili a quelle che si ritrovano nei videogiochi del genere first person shooters di guerra; è evidente come videogiochi e combat video si rimandino a vicenda.

Nei videogiochi di ambientazione bellica più avanzati si ha una «sovrapposizione metonimica tra superiorità visiva garantita dalle tecnologie di visione notturna, e superiorità tattica espressa in atti di conquista e di “bonifica” del territorio mediante un sistematico sterminio dei nemici impossibilitati ad agire nel buio» (p. 328). Vi sono però altri due elementi importanti messi i luce dall’autore: «la struttura del videogioco in prima persona non solo esprime la conquista visuale, sensomotoria e militare di un territorio, ma permette al giocatore di viverlo direttamente grazie a una esperienza di simulazione incorporata. In secondo luogo, nei paratesti che hanno accompagnato il lancio del gioco la superiorità tecnologica e militare della visione notturna viene fatta rimare metaforicamente con la superiorità tecnologica del videogioco stesso (e quindi, ancora metonimicamente, con la fluidità dell’esperienza di gioco e il relativo piacere), la cui costruzione assume tutti i connotati di una delle operazioni belliche che vengono epicamente narrate» (p. 328).

In questi casi di combattimento al buio registrati attraverso sensori notturni (gli stessi videogiochi simulano tale modalità), lo spettatore viene calato nella medesima situazione di “vantaggio scopico” di cui si avvalgono i combattenti “armati di visori”. «La rilevanza di questo fatto per quanto concerne l’esperienza spettatoriale emerge chiaramente se analizziamo al contrario casi in cui allo spettatore viene negata, almeno a tratti, questa condizione» (p. 329). A tal proposito il saggio porta come esempio la sequenza finale del film Zero Dark Thirty (2012) di Kathryn Bigelow in cui si mostra l’assalto notturno al rifugio in cui è nascosto Osama Bin Laden realizzata montando in alternanza immagini a luce naturale scarsamente visibili e immagini realizzate con visori notturni. Tale alternanza risponderebbe «a una precisa strategia espressiva ed emotiva: nel momento di massima tensione, lo spettatore viene calato in una situazione alternativamente di sollecitazione e deprivazione visuale e sensomotoria. Per un verso la presenza intermittente delle immagini girate coi sensori stimolano il suo coinvolgimento nell’azione secondo un modello di simulazione incorporata […] per altro verso l’irrompere e il prorompere dell’oscurità lo risospingono in una condizione di spaesamento e deprivazione: essi innescano dunque un disperato bisogno di informazione percettiva indispensabile per portare a temine i processi di simulazione incorporata dell’azione precedentemente innescati» (pp. 332-333).

Un effetto visivo analogo lo si ritrova in Flames of War. Fighting Just Begun (settembre 2014), un video di propaganda realizzato e diffuso dall’Isis. «Anche qui le immagini, girate da una helmet cam, sono spesso quasi indistinguibili o completamente buie. Di tanto in tanto tuttavia alcune riprese con sensori notturni mostrano immagini di soldati siriani morti, abbattimento di porte, scene di combattimento, ecc. con assolvenze e dissolvenze al nero a far sì che la piena visibilità della scena sia costantemente compromessa» (p. 333). Non è difficile, continua Eugeni, cogliere la volontà da parte dell’Isis di fare il verso alle sequenze finali del film della Bigelow: «la conquista della base di Raqqa diviene nella retorica del video la eroica “risposta” dei mujahidin di Daesh alla uccisione del leader di Al Quaeda – o per meglio dire: il racconto visuale dell’una diviene la risposta al racconto visuale dell’altra» (p 334).

Nella parte finale del saggio vengono ricostruite le analisi relative alle relazioni tra guerra, media e tecnologie del visibile prodotte da autori come Paul Virilio, Friedrich Kittler e Jean Baudrillard, mettendo però in luce come tale dibattito necessiti di essere aggiornato alla luce dell’uso e degli effetti della visione aumentata dai dispositivi visivi contemporanei.

Se Paul Virilio tende, sin dalla metà degli anni Ottanta, a porre l’accento sull’assorbimento di tecnologie mediali da parte dell’industria militare, indicando in particolare il ricorso nelle guerre novecentesche a tecniche cinematografiche, lo studioso tedesco Friedrich Kittler sostituisce alla “logistica della percezione” di cui parla il francese, una “logistica dell’informazione” e sostiene invece che sono le esigenze belliche a determinare lo sviluppo e la logica dei media.

La questione posta da Virilio circa la progressiva “smaterializzazione” della guerra, la si ritrova per certi versi anche in Jean Baudrillard che da parte sua «sviluppa una teoria dei media basata sull’idea di una loro autoreferenzialità e della cancellazione del loro referente “reale”. Il motto mcluhaniano “il medium è il messaggio” va reinterpretato secondo Baudrillard: i media hanno prodotto una implosione del sistema di distinzione tra la realtà e la sua rappresentazione mediata, e hanno dato luogo a un sistema di simulazione e di iperrealtà diffuse» (pp. 337-338). Mettendo a confronto i due studiosi Eugeni nota che se Virilio «prende in esame tecnologie di svolgimento del combattimento e sottolinea l’importanza crescente del momento scopico di sorveglianza rispetto a quello pratico del combattimento, Baudrillard dal suo canto si focalizza sulle strategie di rappresentazione mediale (soprattutto televisiva) della guerra e sottolinea la sua derealizzazione» (p. 338). Entrambi insistono comunque sul processo di smaterializzazione subito dalla guerra nel momento che questa ha iniziato la sua «interazione con tecnologie visuali sia panottiche che rappresentative: le tecnologie visuali per i due studiosi sottraggono il soggetto da un confronto diretto e pratico con il mondo isolandolo in una dimensione di sguardo distante, simulacrale o impersonale che sia» (pp. 338-339).

Secondo Eugeni, se a proposito delle modalità di relazione tra i media e gli apparati bellici, Virilio e Kittler hanno il merito di aver posto in evidenza una presenza “extramediale” dei media, «il limite del dibattito su media e guerra risiede [nel fatto] di opporre semplicemente tecnologie del visibile mediali e belliche per studiare le forme di scambio e di influenza delle une sulle altre e/o viceversa» mentre, continua lo studioso, in una condizione postmediale pienamente intesa occorrerebbe «radicalizzare questo modello e pensare piuttosto i differenti dispositivi di visual data setting come capaci di lavorare contemporaneamente all’interno di differenti e numerose cornici e pratiche sociali: non solo l’ambito dei media in senso stretto e non solo la ricerca e le applicazioni belliche, dunque, ma anche la sorveglianza, l’astronomia, i trasporti, la produzione industriale, la meteorologia e così via» (p. 340).

Per quanto riguarda invece la questione della smaterializzazione e della virtualizzazione della guerra derivate dall’utilizzo di tecnologie visuali, nonostante il merito di aver sottolineato il ruolo dei media «in una condizione postmediale all’interno dei fenomeni geopolitici contemporanei», le analisi di Virilio e Baudrillard, sostiene Eugeni, non possono essere condivise in quanto «il caso dei sistemi di visione notturna e aumentata dimostrano chiaramente che le tecnologie visuali si pongono al servizio di una relazione situata e incarnata del soggetto con il mondo: esse sono finalizzate ad accrescere la sua “consapevolezza situazionale” al fine di una gestione ottimale del suo agire. Non si assiste dunque a una assolutizzazione autoreferenziale del visibile, quanto piuttosto a una negoziazione dei suoi limiti rispetto all’invisibile» (p. 341).

 

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Qualcosa di nuovo sul fronte orientale https://www.carmillaonline.com/2017/12/23/qualcosa-sul-fronte-orientale/ Fri, 22 Dec 2017 23:01:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42294 di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  € 16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è [...]]]> di Franco Foschi

D. Grasso, Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, Alegre Edizioni, 2017, pp. 347,  16,00

Scimmiottare un famoso titolo di guerra come “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per parlare della guerra rivoluzionaria in Kurdistan non è forse del tutto corretto, perché in quel romanzo lo scopo dichiarato era quello di suscitare l’orrore per la guerra, mentre in questo memoir di Davide Grasso lo scopo è ben diverso: qui si tenta di narrare (ma, come vedremo, questo termine è riduttivo) una guerra indispensabile, di documentare ciò che si è scelto sulla propria pelle, cioè la rivoluzione. Che, partita come lotta di liberazione di un popolo, si è trasformata nella lotta di pochi per tutti, nel simbolo della liberazione da tutti gli oppressori, ovunque e comunque, come promuove ogni liberazione di popolo aliena da interessi di Stato.

Davide Grasso un giorno, in una pausa delle attività tra i centri sociali, le attività No Tav e gli aperitivi musicali con gli amici, scopre su di sé il dolore profondo che le varie azioni dei nazisti dell’Isis inducono, il Bataclan su tutte, e decide, anzi viene deciso da una motivazione superiore alla personalità, che deve andare là dove i delinquenti assassini di Daesh nascono, per combatterli. Per ucciderli. È inutile cincischiare, è inutile fare i rivoluzionari da salotto: bisogna andare. E va.

Già il viaggio per la Siria è lungo e pieno di imprevisti, e incerto, e dall’esito per nulla scontato. L’infinito avvicinamento ricorda la lunga, tragica attesa, nutrita di speranze minuscole ed enormi fatiche, de “La tregua” di Primo Levi. Israele, poi la Palestina, poi i primi confini attraversati abusivamente… Tutto sembrerebbe urlare un ‘ma chi te lo fa fare, ma torna a casa’, la logica più ovvia di un percorso così accidentato. Ma Grasso conosce più che bene le sue motivazioni e se i dubbi sono sempre presenti, essendo umano, l’obiettivo è altrettanto solido e chiaro: «Sapevo che ero entrato nelle Ypg perché non avrei potuto vivere oltre, divorato dal crollo della mia autostima se avessi usato tutta la vita parole senza conseguenze». Parole senza conseguenze, che dichiarazione.

«Avevo messo in conto di morire»: quanti, senza essere Che Guevara, sarebbero disposti a sottoscrivere scelte estreme con questa lucidità? Quindi, il lungo viaggio, del quale Grasso non nasconde neppure le insofferenze e i compromessi, come il dover fare un tratto assieme alla croata Natascia, una squilibrata in cerca solo di forti emozioni non di rivoluzione, o il doversi fingere solidali con un paio di odiati Peshmerga pur di ottenere un visto di passaggio.

Nel lungo addio all’occidente Grasso non esita a riflettere sulle sue proprie contraddizioni. Ad esempio l’amore per gli USA di Animal House o di Sunset Boulevard, quando sai che appena arrivato al tuo destino ti trasformerai immediatamente in un nemico dichiarato degli “ameriki”. Oppure allo struggimento per la propria famiglia, che ogni rivoluzionario dovrebbe superare…

Ma infine, dopo mille peripezie, si arriva. Però sei un internazionale, quindi non vali un cazzo, sei un debole, non sai niente, sei molle, sei europeo! Entri così all’Accademia, il luogo dove devi, assolutamente devi, diventare un rivoluzionario, altrimenti di andare a combattere non se ne parla. Anche qui l’attesa è lunga ed estenuante. Preparazione fisica durissima, studio approfondito delle armi – del kalashnikov soprattutto, l’arma che esprime la logica del socialismo – ma principalmente indottrinamento ideologico. E devi, assolutamente devi, imparare il curdo.

Ciò che Grasso capisce e condivide, quel che per un europeo è retorica (“In Kurdistan combattiamo per tutti, per la rivoluzione mondiale”) lì è morale applicata; la pietà è un lusso e ti blocca, la rivoluzione deve andare avanti; non bisogna avere amici personali con legami troppo forti, l’amicizia (hevalen) è con tutti i rivoluzionari, indistintamente; una volta battuti il califfo, la Turchia e il regime siriano, l’odio reciproco tra etnie o religioni o altro si potrà battere solo con l’astensione dall’aggressione militare e dal furto.

È a questo punto che Grasso comincia a ravvisare le affinità tra la resistenza partigiana in Italia e la resistenza curda in Iraq e Siria: ricordando anche come i cosiddetti intellettuali inorridiscano a questi paragoni. Ciò che invece Grasso fatica a capire e non sempre condivide: cerca di far comprendere agli heval che esistono sfumature. Per esempio discute con un compagno il fatto che lui, in Italia, ha manifestato in favore del Rojava… e il compagno inorridisce, nauseato: la rivoluzione si difende con le armi, non con le manifestazioni e tanto meno con le chiacchiere.

Grasso al contrario inorridisce di fronte alla passione per la morte di tutti quei combattenti, che quando sono stanchi e stremati non fanno altro che desiderare il martirio, perché la cosa più importante è avere l’onore di chi rimane… Grasso mantiene dal primo istante all’ultimo della sua esperienza una lucidità estrema, per esempio ammettendo, contro ogni apologia acritica della rivoluzione, che tanti combattenti non sono altro che mitomani o pazzi, ben lontani dall’ideologia, verità che osserva soprattutto negli internazionali. Gustoso e tragico il racconto dell’incontro con un paio di combattenti anarchici e hippies del nord Europa, stanchi di aspettare il loro turno, che protestano in questi, agghiaccianti, termini: «Ma sono tutti diciottenni, perché loro non devono sopravvivere e noi sì?».

Poi viene finalmente accettato dai suoi compagni, indossa la divisa del Ypg e parte per combattere. E qui la narrazione, che è già un vissuto intensissimo, se possibile decolla ancora di più: sparare, lanciare bombe per uccidere, vedere i propri compagni morire di fianco a te. E la paura. E il dubbio. L’insicurezza del proprio corpo, e la malattia. Le persone che si ammirano, le persone che si detestano. E una compagna imbattibile: la paura. E la coscienza, fortissima, che a differenza di loro tu non vuoi morire, non vuoi morire, non vuoi morire!

L’intensità del racconto, in questo settore del libro, è spasmodica. L’ovvia trascrizione delle storie in prima persona, trattandosi di memoir, rende tutto così vero, così vivo, così doloroso, che l’indifferenza o la stanchezza, i due principali rischi del leggere, sono ben lontani. Anzi, in questo racconto assoluto ci sono talmente tante immagini indimenticabili e una trazione e una forza colossale per sopravvivere, e per non abbandonarsi mai alla visione negativa, così antirivoluzionaria, che indimenticabile diventa tutto il libro.

Poi, dopo avere resistito al cupio dissolvi dei giovani guerriglieri, alle bombe e alle mitraglie dell’Isis, alla diarrea, alla diffidenza degli autoctoni, dopo un anno di vita combattente, si torna a casa. Quasi con pudore. Si torna a casa facendo un lungo giro, interminabile, per tutta l’Europa, come se la paura di staccarsi da quello che hai vissuto a favore di un comodo occidente possa rivelarsi una colpa.

Qui il racconto si fa più disteso, e alcuni avvenimenti assurgono al valore di vera gag (combattendo, in mezzo al deserto, in costante pericolo di morte violenta, lontano da tutto e da tutti, immerso nella vera solitudine malinconica del soldato, a un certo punto da una radio parte una canzone di Albano e Romina, e tu piangi, vorresti piangere, ma non puoi, non puoi dimostrare debolezza con gli altri heval…).

E infine, il dubbio della comunicazione: come farò a raccontare tutto questo? Cosa dovrò enfatizzare e cosa tralasciare? Come non sentirsi inutile, in Europa? «Chi avrebbe compreso? Chi avrebbe davvero voluto ascoltare?…la selezione e la distanza della scrittura, della parola, avrebbero creato uno scarto che non avrebbe potuto restituire la presenza di quella guerra. Tacere? No. Sarebbe stato un crimine».

Per fortuna Grasso non ha fatto la scelta di tacere, e ha confezionato uno dei libri più intensi, dolorosi e preziosi di questo periodo. Concludo di nuovo con le sue stesse parole, la maniera migliore per comprendere a chi/cosa ci affidiamo, quando prendiamo in mano questo libro fenomenale e fondamentale: «Era bella, la rivoluzione? Desiderabile? Il Medio Oriente mi faceva paura. Il ricordo dell’indecente romanticismo dei radicali europei mi faceva vomitare. La rivoluzione non era bella. Non avevo visto nulla di meno bello nella mia vita. La rivoluzione era necessaria. Questo continuavo a credere, con tutto me stesso».

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Una nuova Comune (al centro dell’Inferno che viene) https://www.carmillaonline.com/2017/12/20/nuova-comune-al-centro-dellinferno-viene/ Tue, 19 Dec 2017 23:01:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42275 di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica [...]]]> di Sandro Moiso

AA.VV. (a cura di Dilar Dirik, David Levi Strauss, Michael Taussig, Peter Lamborn Wilson), Rojava una democrazia senza stato, Elèuthera 2017, pp. 222, € 16,00

L’interessante e ricco di testimonianze testo di Elèuthera è pubblicato in un frangente molto delicato e drammatico delle vicende del Vicino Oriente. Infatti l’edizione ha preceduto di pochi mesi la dichiarazione di Donald Trump sul riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele e le di poco precedenti dichiarazioni tese a costruire una sempre più stretta alleanza con l’Arabia Saudita e gli altri stati del Golfo che, nascosta sotto un’operazione mediatica di maquillage attraverso l’entrata in scena del nuovo erede al trono saudita Mohamed bin Salman, tende alla preparazione di un più vasto conflitto, forse non ancora diretto per gli USA, con l’Iran e gli stati in cui il regime di Teheran rivela un certo peso politico e militare.

Contemporaneamente le dichiarazioni pubbliche del Ministro della Difesa russo sull’addestramento in chiave anti-Assad cui gli americani starebbero sottoponendo i combattenti dell’ISIS e di Al Nusra, fuorusciti da Raqqa poche settimane or sono, hanno ulteriormente contribuito ad aumentare le tensioni in un’area che potrebbe rivelarsi decisiva per lo scoppio definitivo di un terzo conflitto mondiale.

E’ infatti al centro di tale area conflittuale1 che si sta sviluppando l’esperimento di quella che David Graeber, in uno dei due testi che lo vedono coinvolto all’interno del libro, definisce come un’autentica rivoluzione.
Nel Rojava è infatti in corso una trasformazione dei rapporti sociali, economici e tra i sessi destinata sicuramente a lasciare il segno sui movimenti sociali a venire e a ridefinire i compiti di quella che sarà la Rivoluzione del futuro. Esattamente come l’esperienza della Comune di Parigi contribuì a ridefinire, attraverso l’azione dei suoi protagonisti, i compiti del movimento operaio ottocentesco e novecentesco. Così tanto da influenzare e costringere, all’epoca, ad affinare il proprio pensiero i teorici del socialismo rivoluzionario da Marx a Lenin.

Afferma Graeber a proposito del Rojava e della situazione attuale:

Nel corso degli ultimi trenta o quarant’anni, i capitalisti hanno compiuto uno sforzo enorme per diffondere la convinzione che gli attuali assetti economici – non il capitalismo, ma la specifica forma di capitalismo finanziario e semifeudale che conosciamo oggi – costituiscano l’unico sistema economico possibile […] Come risultato, il sistema ci sta crollando addosso proprio nel momento in cui sembra essersi persa la capacità di immaginare qualcosa di diverso.
Ebbene, sono convinto che nel gito di cinquant’anni il capitalismo non esiterà più in nessuna delle forme a noi familiari e, forse, in qualsiasi altra forma conosciuta.Qualcos’altro avrà preso il suo posto […] Per questo ritengo che, in quanto intellettuali, o semplicemente uomini pensanti, sia nostro dovere tentare quanto meno di immaginare quale aspetto potrebbe assumere qualcosa di migliore. E se esiste qualcuno che sta realmente cercando di costruirlo, è nostro dovere fornirgli il nostro aiuto.2

Tutte le testimonianze presenti nel testo di Elèuthera non solo configurano la radicalità dell’esperimento condotto dalle forze curde nei territori del Kurdistan occidentale compresi all’interno dei confini siriani, ma anche il fatto che tale esperimento si basa sulla precisa coscienza che una nuova e differente società egualitaria non possa prendere a modello nessuno dei sistemi organizzativi e produttivi che sono già appartenuti al modo di produzione capitalistico e alla società borghese o che ad essa si sono ispirati.

Da cui derivano non solo la necessità dell’abolizione dello Stato centralizzato e nazionale ma, già nel corso della “rivoluzione” stessa, anche della sua sostituzione con organismi eletti e controllati dal basso a tutti i livelli (giustizia, sicurezza, difesa). Accanto a questa sostituzione federalistica e “comunale” delle strutture statuali deve però essere costruita in corso d’opera una società che non rinvii a “dopo” la questione della parità dei sessi e dell’eguaglianza dei diritti ed economica, ma che già realizzi tali principi nella vita quotidiana e materiale della società in transizione.

I differenti saggi contenuti nel testo curato da Dirik, Levi Strauss, Taussig e Lamborn Wilson toccano tutti i differenti aspetti di questa trasformazione in maniera sintetica, esauriente e convincente, dimostrando appunto che tale esperienza merita una straordinaria attenzione e mobilitazione da parte di tutti coloro che intendono opporsi all’imperialismo e al capitalismo su scala internazionale e a casa propria.

Proprio per questo motivo occorre però porsi alcune altre domande, che stanno alla base di un’altra affermazione contenuta nel discorso dell’antropologo inglese:

Non ho alcuna certezza che questa esperienza non venga schiacciata prima di arrivare a compimento, ma di certo lo sarà se si stabilisce in anticipo che nessuna rivoluzione è possibile, se ci si astiene dal darle un sostegno attivo, se addirittura la si attacca, contribuendo a isolarla ulteriormente, come fanno in molti.3

Occorre cioè non soltanto accettare acriticamente tutte le formulazioni e le scelta fatte sul campo dai combattenti e rappresentanti delle comunità del Rojava, ma anche contribuire a definire aspetti che nel contesto generale potrebbero risultare ambigui o, più semplicemente, contraddittori e confusi a causa della situazione d’urgenza.

Secondo la Encyclopaedia of Islam, il Kurdistan conta 190.000 km² in Turchia, 125.000 km² in Iran, 65.000 km² in Iraq, e 12.000 km² in Siria, per cui l’area totale sarebbe di 392.000 km².
Per il Rojava quindi 12.000 km² con circa 4,6 milioni di abitanti (di cui circa la metà rifugiati) in un Medio Oriente che comprende una superficie di 7 milioni e 300mila km² e circa 402 milioni di abitanti.4

All’interno di tale area il Rojava rischia quindi, a priori, di essere schiacciato non solo dagli interessi dei colossi dell’imperialismo geo-politico (Stati Uniti e Russia), ma anche da quelli dei giganti nazionali e militari rappresentati dai maggiori competitor in loco (Turchia, Israele, Iran e Arabia Saudita, tralasciando per il momento l’Egitto che, con i suoi 90 milioni di abitanti, è il paese più popolato dell’intera area).

Un’area in cui alcune e non secondarie questioni solo apparentemente nazionali (valgano per tutte quelle palestinese e curda in generale) potrebbero trovare nell’esempio kurdo un valido esempio per l’azione e l’organizzazione sociale, con forme di federalismo in grado di metter in relazione e contribuire all’alleanza di settori di popolazione estremamente differenti tra di loro per lingua, etnia, religione e situazione socio-economica.
Un esperimento, quindi, che non può davvero ricevere l’approvazione o la simpatia autentica di alcuni stati (vedi ad esempio Israele) che pur fingono di appoggiare i combattenti curdi o garantire il loro totale appoggio futuro (si pensi alla politica statunitense del divide et impera ). Né tanto meno l’aiuto di quelle forze di stampo sciita, che pur si contrappongono all’Isis e ai giochi saudito-israeliani nell’area, ma in chiave filo-iraniana.

Un errore di fiducia in tal senso potrebbe infatti costare molto caro ai curdi del PKK di Abdullah Öcalan e del Partito democratico del Kurdistano (PYD) e alle sue unità, femminili e maschili, di autodifesa. Un errore che è possibile intravedere in un’intervista, sicuramente interessantissima e chiarissima nei suoi scopi, rilasciata recentemente da Riza Altun (membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) ), in cui l’intervistato si sofferma ripetutamente sul paragonare l’alleanza tattica attuale con gli Stati Uniti con quella stabilita durante il secondo conflitto mondiale tra l’Unione Sovietica di Stalin e le potenze occidentali.5

In tal modo si rischia infatti non soltanto di far rientrare dalla finestra l’esperienza stalinista appena cacciata dalla porta con le scelte coraggiose operate dal PKK e dal suo leader, ma anche di paragonare l’attuale guerra di liberazione rivoluzionaria del Rojava alla condotta, sostanzialmente ispirata dalle logiche nazionaliste ed imperialiste, dell’URSS stalinizzata nel corso del secondo conflitto mondiale. Sopravvalutando allo stesso tempo la potenza militare delle forze curde, assolutamente inferiori per armamenti, numero di combattenti e potenziale produttivo alla macchina bellica messa in atto in Russia tra il 1942 e il 1945.

Oltretutto in un contesto in cui l’aiuto americano alle forze curde potrebbe trasformarsi rapidamente nel suo contrario qualora i giochi diplomatici internazionali richiedessero agli Usa di tornare sui propri passi, nel tentativo di recuperare l’appoggio dell’attuale Saladino islamico Erdogan. L’equilibrio attuale che vede infatti la Turchia pericolosamente schierata “a fianco” della Russia di Putin e contro Gerusalemme capitale dello Stato israeliano potrebbe infatti essere rimesso in discussione da una significativa offerta di espansione territoriale illimitata in Siria e a spese dell’indipendenza del Rojava.

L’esperienza, per quanto sconfitta dolorosamente, della Comune di Parigi del 1870/71 sembra quindi più appropriato dal punto di vista storico e più interessante come paradigma politico.
Dal punto di vista storico perché l’esperienza della Comune si sviluppò in un contesto molto simile: all’interno di una nazione militarmente sconfitta da un avversario più forte, la Prussia bismarckiana, una frazione significativa della sua popolazione, gli abitanti della capitale francese, insorse per determinare la propria indipendenza e il proprio futura. Ridisegnando le condizioni del conflitto di classe a venire, in cui le forze socialiste e proletarie, a differenza del 1848, non avrebbero mai più dovuto affiancare in Europa le aspirazioni borghesi.

Dal punto di vista politico perché il modello Rojava potrebbe essere fonte di ispirazione non solo per le altre esperienze in cui si confondono la lotta in difesa del territorio e dell’ambiente e lotta di classe, dalla Val di Susa all’esperienza francese della ZAD o al Chiapas, ma anche per tutte le questioni politico-territoriali ancora irrisolte in Medio Oriente, dalla Palestina al Libano e allo stesso Kurdistan extra-siriaco.6 Facilitando l’estendersi di una maggiore solidarietà internazionalista “dal basso” più che le sempre incerte ed oscure, nelle loro finalità ultime, alleanze “dall’alto”.

Naturalmente questi rapidi appunti non intendono assolutamente avere la pretesa di opporsi alla politica portata avanti dal PYD e dalle sue forze di autodifesa, né tanto meno criticare l’aiuto e il sacrificio con cui molti rivoluzionari provenienti dal resto del mondo stanno contribuendo alla causa del Rojava. Anzi, al contrario di ciò che schematici e settari rappresentanti delle vecchie ideologie politiche novecentesche continuano a fare criticando e insultando di fatto la lotta e le scelte del PKK e del PYD, intende piuttosto essere un contributo, anche se limitato, ad una causa che oggi come poche altre può indicare davvero una nuova via per la rivoluzione sociale.7

In tal senso i quattordici capitoli di questo prezioso e sintetico libretto, ognuno dedicato ad uno degli aspetti della rivoluzione in Rojava, possono così rivelarsi illuminanti, stimolando i lettori verso quel coraggio di immaginare che Dilar Dirik invoca nell’ultimo. Last but not least il titolo che rinvia al problema centrale di quanto detto fino ad ora: l’impossibilità di realizzare una vera democrazia all’interno dello Stato così come è venuto a formarsi all’interno delle necessità storiche, economiche e nazionali definite dallo sviluppo del capitalismo stesso.
Infatti un’autentica democrazia dal basso impone di spezzare la macchina statale non al termine del percorso rivoluzionario, ma mentre è ancora in corso d’opera. Così come realizzò, anche se per un tempo brevissimo, la Comune di Parigi fornendo, come si è già ricordato, un fondamentale insegnamento per le pagina più ispirate di Marx8 e Lenin9 sull’argomento.


  1. Si confrontino, solo per citare alcuni precedenti interventi sul tema: https://www.carmillaonline.com/2017/04/07/yankee-doodle-goes-to-war/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/07/25/ucuncu-dunya-savasi/ ; https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ ; https://www.carmillaonline.com/2013/09/10/war/ ;
    https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ ; https://www.carmillaonline.com/2016/11/16/laboratorio-rojava/  

  2. David Graeber intervistato da Pinar Ögünç, No, questa è un’autentica rivoluzione, in Rojava una democrazia senza stato, pag. 95  

  3. Graeber, op.cit. pag. 94  

  4. Dati del 2014, mentre erano erano 240 nel 1990  

  5. http://www.uikionlus.com/altun-per-la-prima-volta-abbiamo-creato-zone-di-liberta-in-medio-oriente/ e http://www.uikionlus.com/altun-il-socialismo-non-puo-essere-costruito-con-gli-strumenti-del-capitalismo/  

  6. Si confronti: http://www.uikionlus.com/meglio-di-una-soluzione-con-uno-o-due-stati-sarebbe-una-soluzione-senza-stato/  

  7. Si confronti: http://www.uikionlus.com/il-partito-della-terzarivoluzione-del-kurdistan/  

  8. Karl Marx, La guerra civile in Francia  

  9. Lenin, Stato e rivoluzione  

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I diari di Raqqa https://www.carmillaonline.com/2017/10/08/40996/ Sat, 07 Oct 2017 22:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40996 di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Samer, I diari di Raqqa. Vita quotidiano sotto l’Isis (a cura di Gianpaolo Cadalanu), Mimesis, Milano-Udine, 2017, pp. 114, € 15,00

Samer è lo pseudonimo di un’attivista di Raqqa che, per alcuni mesi, ha raccontato al mondo la vita quotidiana degli uomini e delle donne di Raqqa, sotto il governo dello Stato Islamico, che aveva fatto del centro, a nord della Siria, la sua capitale-simbolo. In una città chiusa e occupata da un controllo asfissiante delle comunicazioni, i messaggi, poco più che post, viaggiavano clandestinamente in forma criptata e venivano poi raccolti e diffusi dalla BBC. Quest’ultimo dettaglio potrebbe rendere meno credibile la narrazione (tra la Siria e l’Iraq, la quantità di bugie, cinismo e disinformazione messa in campo dall’Occidente non ha precedenti nella storia), se non fosse che il racconto è assolutamente verosimile e corroborato da molte altre testimonianze giunte dalle zone occupate.

Del resto l’Isis ha fatto delle ferocia il suo brand pubblico ed esibito, e quando Samer racconta del clima di terrore imposto in città, non ci vuole molta immaginazione per credergli. La vita di questo “cronista per caso” assomiglia probabilmente a quella di centinaia di migliaia di siriani ed iracheni che tra il 2013 e il 2016, si sono ritrovati a vivere dentro un fosco incubo: truppe d’occupazione multinazionali, guidate da fanatici, sadici e criminali, avevano occupato i loro territori e le loro comunità, forti di logistica, arsenali e risorse economiche di enorme efficacia. Com’era potuta materializzarsi, questa specie di invasione aliena?Cosa stava accadendo, tra il disfacimento dello Stato iracheno e l’inizio dei tumulti anti-Assad in Siria?

Nel 2012, Al Qaeda in Iraq aveva volto le sue mire verso la Siria, sotto l’input degli Stati Uniti, di Israele, della Turchia e dei paesi del Golfo, tutti ansiosi di scalzare l’arcinemico alawita. In quel momento Abu Bakhr Al Baghdadi era un anonimo detenuto americano nelle prigioni irachene: venne evidentemente prescelto, liberato e ben fornito per ottemperare a un preciso obiettivo, rovesciare Assad e distruggere la Siria.

Dentro questi complessi piani genocidi di ridisegno del medio-oriente, la vita di milioni di ragazzi come Samer finisce stritolata: gli abitanti di Raqqa si ritrovano addirittura sudditi della capitale di un risorto Califfato e devono presto abituarsi a vivere sul un filo del rasoio; sotto il governo dell’Isis il confine tra la vita e la morte è sottile e labile. Basta un sospetto, o l’adozione in pubblico di un comportamento non shariaticamente ineccepibile, per incappare nell’arresto, la tortura o l’eliminazione. Organizzare un canale d’informazione clandestina in questo contesto, richiede un coraggio straordinario.

Mi sono chiesto cosa spinga una persona a raccontare come ha fatto Samer. Lui sapeva che così avrebbe messo a rischio non solo se stesso, ma anche le persone a lui care. La risposta è evidente nei suoi diari. Dopo aver visto amici e e parenti massacrati, la vita della sua comunità a pezzi e l’economia locale distrutta dagli estremisti, il nostro coraggioso diarista ha pensato che raccontare al mondo quello che stava accadendo alla sua amata città potesse essere il modo migliore di reagire (p. 16 , Prefazione di Mike Thompson).

L’incubo di Raqqa comincia ambiguamente, una mattina di marzo 2013, quando la città si sveglia senza i soldati e la polizia siriani – tutti fuggiti – e la città governata, de facto, dai ribelli anti Assad:

Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Corsi fuori e vidi le auto con la bandiera dell’Esercito Libero Siriano. Una si ferma proprio davanti a me. Un uomo si sporse dal finestrino e mi disse di non avere paura. Era venuto insieme ai suoi compagni per liberarci tutti dalla tirannia e dalla corruzione, disse. – Siamo tuoi fratelli -, aggiunse (p. 25).

La festa dura poco. Le formazioni che l’Occidente generosamente definisce “ribelli democratici” (compresi, incredibilmente, i qaedisti di al Nusra) vengono presto liquidate o cooptate da Daesh, che prende il controllo di Raqqa in breve tempo:

in un primo momento incantavano le persone con discorsi suadenti, promettendo loro la luna. Io non la bevvi… I primi che entrarono in città erano davvero convinti di essere venuti lì per salvarci. Gli altri erano molto più violenti (p.26).

Comincia l’oppressione infinita sulla vita quotidiana e i comportamenti degli abitanti: il pretesto della sharia e del rigore religioso, serve a Daesh a legittimare il suo monopolio della forza e la ferocia con cui lo esercita.

Il paradosso è che tale controllo sulla morale pubblica, viene condotto da truppe straniere, provenienti dal Caucaso, dalla Bosnia, dal Magreb, spesso dalle periferie delle metropoli europee; giovanotti di scarsissima formazione religiosa e dall’indole violenta, pretendono di insegnare l’Islam nelle terre in cui esso visse i suoi secoli d’oro. La popolazione, secondo Samer, li percepisce subito come invasori, ignoranti e pericolosi:

I miliziani di Daesh hanno iniziato a vendicarsi di tutti quelli che si oppongono… Li accusano di apostasia, ma è solo un’altra scusa per un’esecuzione. Ogni giorno fanno riunire la folla in piazza, come volessero mettere in scena una commedia. Eseguono anche alcune punizioni brutali nelle rotonde, proprio nel bel mezzo di strade trafficate. Sono decisi a mostrare a più persone possibili cosa accade a chi li delude. Non riesco a credere a quello che accade a chi li delude (p. 29).

L’accusa di apostasia è lo strumento con cui si può eliminare chiunque senza processi o remore umanitarie. È il lascito più venefico del whabismo, l’ideologia saudita, – delle cui derivazioni moderne i jhiadisti di tutto il mondo si nutrono. Fu il wahabismo a porre per la prima volta nella storia dell’Islam la minaccia apostatica sui dissidenti: chi non condivideva una determinata interpretazione teologica (o politica), era considerato “rinnegatore della religione” – mutazione sostanziale nella storia plurale e millenaria di un credo che non aveva mai avuto un’autorità centrale di legittimazione e certificazione di ortodossia.

Daesh costruisce a Raqqa una rete soffocante di spie, controlla la rete delle telecomunicazioni, chiude gli internet point, sanziona ogni comportamento pubblico non ritenuto ortodosso, mediante una “polizia della virtù” che sorveglia abbigliamento, tempo libero ed osservanza religiosa del popolo di Raqqa. L’autore deve subire 40 frustate pubbliche per un sospetto di imprecazione. E dentro questo clima di follia i servizi pubblici e sanitari, chiudono per l’incuria o l’applicazione di regole demenziali.

Il racconto si snoda in un rosario di sofferenze: la città comincia ad essere bombardata – dai russi, dagli americani, dai governativi, anche dai francesi, dopo il Bataclan. Le condizioni di vita peggiorano sempre di più e al sangue versato dalle milizie Daesh si aggiunge la conta delle vittime dei raid aerei, tra cui il padre di Samer.

Alla fine il narratore capisce di essere entrato nel mirino dei miliziani che lo stanno tenendo d’occhio. Non può più tergiversare e decide di scappare dalla città – con modalità tortuose e pericolose, come tutto quello che riguarda questo angolo di Medioriente. Si ritrova a scrivere il capitolo finale in un campo profughi, al confine con la Turchia, in una terra di nessuno piena di tende, mutilati e disperazione:

Nel campo non c’è abbastanza cibo, né medicine, gli aerei da guerra del regime volano sopra le nostre teste. Qui molte persone dicono che preferirebbero essere già morte… Conservo molti dei miei ricordi in una piccola borsa. Foto di persone e di luoghi. Pezzi smarriti, casuali, del mio passato, pezzi che probabilmente non esistono più… C’è una foto di un nostro vicino ucciso, morto accanto ai suoi figli in un raid aereo. Le foto di un mio vecchio amico crocefisso da Daesh. Qui un’immagine della nostra casa distrutta. Altre della nostra strada ormai devastata e vuota (p. 109).

Nella bella introduzione di Cadalanu riecheggia la domanda che spesso ci si pone sul moderno jhiadismo globale: stiamo assistendo a un processo di “radicalizzazione dell’Islam” o all’evoluzione di un radicalismo nichilista che in questa fase storica indossa l’abito dell’ortodossia musulmana – e domani chissà? Cadalanu opta per questa seconda ipotesi – sociologico-esistenziale, per così dire – e racconta della sua esperienza di giornalista a Mosul:

Gli abitanti del quartiere mi hanno raccontato che i miliziani si erano stabiliti poco lontano. I locali li chiamavano i russi: molto probabilmente si trattava di integralisti del Caucaso, ceceni o daghestani. E mi è sembrato ovvio domandarmi: come si fa a lasciare un paesino freddo, innevato con le foreste, per venire a morire sulla sabbia rovente dell’Iraq, in mezzo a gente che parla un’altra lingua e che odia profondamente chi tenta di imporle regole astruse facendo riferimento ad un vero Islam? (p. 8).

E questa deriva nichilista si accompagna allo sforzo massiccio, enorme, epocale di finanziamento, addestramento e armamento di queste milizie jhiadiste, che sono diventate un autentico esercito di complemento di attori statuali in lotta per ridefinire le loro posizioni in un’area strategica del mondo. Il primo “Jhiad” – quello afghano – fu finanziato in dollari e petroldollari. Dopo quarant’anni, siamo ancora dentro quella scia di morte e distruzione, che usa il fanatismo religioso per chiari fini politici di destabilizzazione , sfruttamento e distruzione delle nazioni.

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Rojava, il fiore del deserto. Intervista a Davide Grasso, combattente YPG in Siria https://www.carmillaonline.com/2017/09/05/rojava-fiore-nel-deserto-intervista-davide-grasso-combattente-ypg-guerra-siria-rivoluzione/ Mon, 04 Sep 2017 22:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=40269 di Fabrizio Lorusso

Davide Grasso, militante e blogger trentasettenne, è un combattente italiano che nel 2016 s’è unito alle file delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) nel nord della Siria per lottare contro lo Stato Islamico (ISIS) e difendere la rivoluzione del confederalismo democratico che i curdi stanno portando avanti nei tre cantoni (Kobane, Jazira e Afrin) che controllano al confine con la Turchia. Abdullah Öcalan, leader turco del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) in carcere dal 1999, formulò nel 2005 questo modello politico che si basa su autonomia, rispetto [...]]]> di Fabrizio Lorusso

Davide Grasso, militante e blogger trentasettenne, è un combattente italiano che nel 2016 s’è unito alle file delle Unità di Protezione del Popolo (YPG) nel nord della Siria per lottare contro lo Stato Islamico (ISIS) e difendere la rivoluzione del confederalismo democratico che i curdi stanno portando avanti nei tre cantoni (Kobane, Jazira e Afrin) che controllano al confine con la Turchia. Abdullah Öcalan, leader turco del Partito dei Lavoratori Curdi (PKK) in carcere dal 1999, formulò nel 2005 questo modello politico che si basa su autonomia, rispetto interculturale, laicismo e diritto all’autodifesa delle comunità e che, spiega nel suo libro “Confederalismo Democratico” (link), è “aperto verso altri gruppi e fazioni politiche” oltre che “flessibile, multiculturale, antimonopolistico e basato sul consenso”. “Durante la sua lunga incarcerazione sull’isola di İmralı, Öcalan ha approfondito lo studio del pensiero libertario, ecologista e municipalista, confrontandosi in particolare con le teorie dell’anarchico americano Murray Bookchin (1921 – 2006). Ne è derivata una “svolta” teorica del movimento, che oggi non aspira più a costruire uno stato-nazione curdo ma ad allargare zone di autonomia e autogoverno. Il nome dato a quest’impostazione è “confederalismo democratico”. I primi, importanti esperimenti in questo senso non stanno avendo luogo nel Kurdistan “turco” ma nel Kurdistan “siriano”, nel Rojava (che in curdo significa semplicemente Ovest)” (fonte: storify.com Wu Ming Foundation). Dopo la liberazione di Kobane dall’ISIS nel 2015, nel contesto della devastante guerra siriana, l’esperimento rivoluzionario curdo nel nord della Siria è un “fiore del deserto” che ha creato un immaginario potente e ha spinto tanti stranieri a sostenerlo anche con le armi. Di ritorno alla sua natale Torino Davide Grasso traccia un bilancio della sua esperienza personale e della situazione politico-sociale nello scacchiere siriano (Syria Live Map link) [F. L.].

F.L. – Qual è la tua storia? Cosa facevi prima di partire per la Siria?

D.G. – Non ho mai avuto un unico lavoro, sono stato prima studente e poi dottorando. Ho lavorato con cooperative di pubblicità e sociali, e anche con collaborazioni part-time con l’università. Prima di partire ero operatore sociale a Torino con i senzatetto e i disabili e da quando son tornato in questi ultimi mesi mi sono occupato fondamentalmente di fare informazione su quello che accade in Medioriente.

– E come militante?

– Sono sempre stato interessato alle questioni sociali e politiche. Per quanto riguarda l’Italia ho partecipato ai movimenti studenteschi come l’Onda Anomala, al movimento No-Tav e per il Medioriente mi son speso all’università spesso in attività per l’approfondimento della questione palestinese, seminari contro la guerra in Iraq e in Afghanistan, quindi ho sempre agito in questo senso.

– Com’è nata l’esperienza in Siria?

– In realtà è nata già nel 2014 quando ho saputo dei fatti di Sinjar [4 agosto 2014, ISIS fa strage o schiavizza migliaia di yezidi, comunità religiosa curdofona in Iraq, link p. 3-4] di cui oggi è l’esatto anniversario, il terzo. Mentre l’informazione ufficiale dava una certa versione, ho scoperto grazie a un sito di cui anch’io ero redattore, Infoaut, e poi anche a Wu Ming, che c’era una versione diversa dei fatti, cioè chi stava cercando di resistere a questi massacri che compiva l’ISIS nel 2014 in Iraq non era la fazione curda dei peshmerga [militari curdi-iracheni filo USA] sostenuta dal governo italiano. Era invece la fazione di sinistra che il governo considerava terrorista. Quindi da lì in poi ho cominciato a seguire molto più da vicino quel che accadeva in Iraq e Siria, ma in generale, come tutti da quando è emerso il fenomeno dell’ISIS, ho ripreso un interesse che anni prima avevo lasciato un po’ cadere sul Medioriente. Poi tutto è andato in crescendo. Ci son stati i massacri compiuti dal governo turco a Cizre [ai danni dei curdi], di cui ho saputo nel settembre del 2015, e quindi, siccome scadeva il mio contratto di lavoro proprio in quei giorni, ho usato la liquidazione per andare in Turchia e visitare Cizre. Lì ho conosciuto diversi ragazzi che combattevano, alcuni dei quali sono morti poco dopo. Quindi quando son rivenuto in Italia, già ero molto incline a tornare, però, visto che quando son tornato ci son stati gli attentati del Bataclan [13 novembre 2015], quelli sono stati decisivi. Mi son reso conto che a quel punto questa organizzazione [ISIS, DAESH o Stato Islamico] stava letteralmente venendo a cercare strada per strada quelli come me, come noi, cioè un certo tipo di giovani europei, con un certo stile di vita, e quindi ho pensato che fosse necessario tornare lì per fare informazione diversa e per combattere, se ne avessi trovato il coraggio, tra le altre cose.

– Come sei arrivato proprio dai curdi della Siria?

– Sono andato in Iraq. Ho organizzato un reportage per cui c’è stato un autofinanziamento con dei concerti in Italia nell’autunno 2015. Nel febbraio 2016 son partito, son stato prima in Palestina, poi in Iraq, passando per la Giordania. In tutti questi paesi ho raccontato quello che ho visto, ho fatto delle interviste e poi l’obiettivo finale era proprio andare nella Siria del nord. Lì però già i peshmerga iracheni non permettevano ai giornalisti, come accade tuttora, di entrare in Siria, ed è una cosa gravissima. Una lesione gravissima del diritto internazionale d’informazione. Quindi son dovuto entrare con un espediente e, una volta arrivato all’interno, ho preso contatto con la società civile, le istituzioni e i media center del Rojava. Così è nato il contatto, non ne avevo prima di arrivare lì.

– Quando sei entrato in Siria e quanto sei rimasto?

– In Siria sono rimasto sette mesi. Da inizio marzo a inizio ottobre 2016.

– Avevi intenzione di combattere sin dall’inizio?

– Ne avevo l’intenzione, ma non ero certo che avrei trovato il coraggio di farlo. Credevo fosse giusto che qualcuno che non si era trovato per caso al Bataclan o negli altri locali colpiti a Parigi, che sono luoghi e quartieri che comunque io conosco, come molti di noi, cioè qualcuno che non s’era trovato lì disarmato, per terra, a venire trucidato da questi individui, sarebbe dovuto andare lì in prima persona e prendere le armi contro questi individui. Soprattutto per non delegare ai nostri governi di farlo e specialmente a quello francese, in questo caso, perché chiunque abbia un po’ di consapevolezza del mondo di oggi sa che i nostri governi sono i primi responsabili di questa situazione e non possono che peggiorarla con le loro politiche e i loro interessi. Quindi avevo già l’intenzione, solo che fino all’ultimo momento sono stato in bilico perché entrare nella guerra civile siriana come combattente, senza un’esperienza militare, cioè essendo sempre stato un civile, è un atto da cui è facilissimo non tornare indietro per cui diciamo che la decisione definitiva è stata maturata quando ero già in Siria.

– Com’è stato quindi questo passo? Con che persone ti sei relazionato?

– Ho conosciuto persone di vario tipo. Abitanti del Rojava, sia curdi che arabi, che vivono le condizioni della guerra e della rivoluzione, ognuno a modo loro. Ho conosciuto dei militanti politici curdi e degli attivisti internazionali, soprattutto europei, che erano lì per conoscere queste rivoluzione o per sostenerla. Questi sono stati determinanti perché mi hanno sicuramente spronato perché vedere l’esempio altrui è sempre importante e poi ho anche conosciuto combattenti internazionali delle YPG (Unità di Protezione del Popolo curde) che erano giovanissimi e non erano assolutamente politicizzati, anzi conducevano una vita completamente apolitica nei loro paesi ed erano andati lì a rischiare la vita perché indignati da quel che accadeva in un Paese lontano dal loro. Quindi di fronte a tutto questo diventa difficile non prendere le armi a tua volta.

– Come ti sei unito alle Unità di Protezione del Popolo curde (YPG)?

– C’è stato un addestramento, una formazione di diverse settimane durante le quali ho ricevuto molte lezioni di lingua curda, di ideologia confederale, cioè della forma di socialismo portata avanti dalle YPG, e anche di storia del Medioriente e del Kurdistan. E poi la formazione tecnica per l’uso delle armi, degli abbozzi di tattica. Bisogna anche tenere conto che la guerra civile in Siria è un evento talmente tragico e caotico per cui comunque queste milizie non hanno la possibilità di sobbarcarsi un genere di formazione come quella degli eserciti regolari.

– Che armi avevate in dotazione?

– I dettagli non si possono dire per ragioni militari, però si può dire che il problema delle milizie curde e delle forze siriane democratiche è che hanno prevalentemente, al 99%, armi leggere e questo non è un mistero. DI fatto la stragrande maggioranza dei combattenti ha a disposizione un kalashnikov e per fortuna non m’è sembrato ci fosse grossa penuria di munizioni perché mi pare che almeno su quello la coalizione, gli Stati Uniti, han dato de contributi e anche la Russia ha dato qualcosa. Sono per le munizioni, ma per le armi si tratta di armi leggere, vecchi, sicuramente superate in un contesto generale. Poi in realtà in Siria non lo sono perché la maggior parte degli scontri a fuoco in una battaglia siriana, a meno che non sia coinvolto l’esercito regolare, è sempre con armi automatiche di quelle di fabbricazione sovietica, quindi mitragliatrici tipo Pkm e Pks, la Dushka o Dshk o il Kalashnikov. Sono queste le armi più usate.

– Hai parlato di “Rivoluzione”. Cosa sta succedendo nel Nord della Siria?

–  Nella Siria settentrionale e in generale in tutto il Paese dal 2011 è in atto una rivoluzione. La rivoluzione siriana s’è sviluppata in due grandi tendenze contrapposte. Una è andata molto male perché ha preso un’evoluzione islamista e una invece è andata molto bene perché ha preso un indirizzo socialista illuministico e femminista. Quest’ultima è la rivoluzione confederale che ha attecchito inizialmente nei territori curdi ma ormai in tutto il Nord della Siria in zone prevalentemente arabe o cristiane. Invece la parte islamista s’è poi spaccata in vari tronconi: l’ISIS lungo l’Eufrate e i gruppi islamisti diversi dall’ISIS ormai nella provincia di Idlib in questo momento. E quindi la rivoluzione siriana s’è evoluta in due diverse rivoluzioni che si combattono tra di loro ed entrambe combattono anche contro il regime di Bashar al-Assad.

– Che missioni e attività hai avuto?

– All’inizio ero sul fronte di Ain Issa che all’epoca era il fronte di Raqqa, mentre oggi questo fronte, per fortuna, è dentro la stessa Raqqa perché è sceso fin dentro la città, però un anno fa si trovava 63 km a nord di Raqqa. E lì c’era la città di Ain Issa dove stava la mia unità e il nostro compito era quello di proteggere il cantone di Kobane dall’ISIS, mentre nello stesso momento c’era l’offensiva a nord di Aleppo da parte delle forze siriane democratiche a ovest dell’Eufrate che stava guadagnando tutte le campagne attorno a una città strategica che si chiama Mambij: era andare a liberarle per tagliare le comunicazioni tra Raqqa e la Turchia. Quella città era l’ultima comunicazione tra Raqqa e la Turchia, quindi tra Raqqa e il mondo esterno. Non ho partecipato all’inizio a quest’offensiva, piuttosto m’occupavo di difendere il cantone mentre questa offensiva andava avanti. Poi a fine giugno la mia unità è stata mandata a Mambij e quindi a luglio anche noi abbiamo combattuto in questa operazione per la liberazione della città.

– C’erano altri stranieri e italiani?

– C’erano molti stranieri quando ero io lì, ma non italiani. Ero l’unico. Si sapeva che c’erano stati altri italiani comunque, in particolare io chiedevo sempre di Karim Franceschi perché avevo letto il suo libro. Però in quel momento non ce n’erano altri. C’erano molti stranieri che venivano soprattutto da Europa, Nord America, dall’Australia e Nuova Zelanda, dai Balcani. Ho conosciuto anche un ragazzo di origine cilena e so che ci son stati anche alcuni sudamericani nelle YPG.

– Ti identifichi col termine foreign fighter?

– Attualmente in pratica ci sono espressioni sulle quali non è possibile rispondere solo “sì” o “no”. Mi definirei foreign fighter, anche se l’uso mediatico ne ha di fatto modificato il senso, però esiste un senso originario che è diverso. Nel senso mediatico del termine, non mi identifico perché i mass media hanno gettato una cattiva luce, l’hanno associato unilateralmente a chi combatte per lo Stato Islamico. Ma per quello che è il senso originario, penso sia l’espressione più bella che si possa immaginare. Quindi di sicuro nel senso stretto di quello che significa, del resto è abbastanza tautologico che io lo sia stato. E penso che tra l’altro la contraddizione nell’uso mediatico la si vede anche nel fatto che io e gli altri internazionali che abbiamo combattuto a Mambij, tagliando quell’ultima via di comunicazione con la Turchia dell’ISIS, abbiamo azzerato definitivamente l’afflusso di foreign fighters dell’ISIS in Siria che prima era molto grosso. Da quando appunto un anno fa la città è stata liberata, è diventato pari a zero. Quindi foreign fighters sì, ma dipende da che parte stanno.

– Si parla magari di “internazionalisti”?

– Beh, per forza di cose. Anche se nelle YPG colloquialmente si dice anche che siamo “internazionalisti”, è vero pure che la teoria politica che ispira le YPG in realtà più che di “internazionalismo” parla di “universalismo”. Perché? Per un ragionamento forse sofisticato ma importante secondo cui l’epoca dell’internazionalismo, quella in cui si pensava che il riferimento fossero gli stati-nazione anche per i socialisti, è finita per cui internazionalismo era la solidarietà del secolo scorso e invece le YPG preferiscono “universalismo” perché oggi siamo in una realtà davvero globale in cui di fatto tutto il mondo è una metropoli perciò, se vogliamo, ancora più internazionalismo di prima.

– Per la tua esperienza contro l’ISIS cosa puoi dire del mito della loro invincibilità sul campo?

– Sul campo devo dire, senza voler fare propaganda, sinceramente ho visto l’imbattibilità delle YPG, mentre dell’ISIS ho visto il fatto che son stati battuti quando ero là l’estate scorsa. E’ stato faticoso, ma ti spiego perché. Me l’hanno confermato anche dei combattenti americani che avevano avuto un’esperienza lunga nel loro esercito, avevano combattuto anche in Iraq e dicevano che, paragonando la lotta contro l’ISIS ad altre fasi molto cruente della guerra irachena e di questi tipi di conflitti, l’ISIS è una forza militarmente molto competente e organizzata in cui si vede davvero che ci sono delle menti a livello strategico abbastanza avanzate sugli standard contemporanei. La loro strategia è causare il maggior numero di morti nelle file nemiche col minor numero di morti nelle proprie. Quindi fanno uso fondamentalmente delle mine, delle trappole esplosive, dei cecchini e hanno anche un’ideologia religiosa che fa sì che affluiscano nelle loro file centinaia di persone che sperano di morire il prima possibile perché sono convinte che pranzeranno con Dio e avranno non so quante vergini a disposizione. L’ISIS può fare un uso abbastanza continuo di persone che si fanno saltare, camion bomba e autobombe guidate a tutta velocità contro il nemico.

Questo è un vantaggio, però questo mito che han creato i media è totalmente sbagliato come molte cose che creano i media perché è un fenomeno del tutto analizzabile coi suoi limiti e potenzialità. Ci sono sicuramente tanti dell’ISIS che si suicidano, però bisogna anche dire che per esempio sul nostro fronte di Ain Issa ci son stati anche degli attacchi che erano suicidi dal punto di vista di chi li faceva ma anche da quello militare, nel senso che quando uno manda anche 30 miliziani a fare un attacco completamente sporadico senza nessun significato nell’economia della guerra, in cui tutti e trenta vengono uccisi e muore soltanto uno delle YPG, è chiaro che queste persone erano in lista per essere mandate al martirio perché avranno anche i loro problemi di “aspiranti al martirio” che vogliono andarci… Ma bisogna anche vedere che poi questo militarmente è follia. Infatti ci sono aspetti anche, come dire, contraddittori che tutti assieme fanno venir fuori l’immagine di una forza che, come tutte, ha i suoi difetti e i suoi pregi dal punto di vista della guerra.

– Molti si chiedono come sia possibile sconfiggere l’ISIS. C’è stata una mancanza di volontà politica o militare o è davvero complicato?

– E’ difficile ma non militarmente. E’ difficile politicamente. Militarmente va notato che in sostanza il territorio che aveva conquistato tra Siria ed Iraq è quasi esaurito, quindi in tre anni, che è comunque un tempo sempre molto minore di quella che è stata l’occupazione dell’Iraq o è tuttora la guerra civile siriana, questo fenomeno a livello militare è stato represso. Però quello che è difficile è l’aspetto politico. Primo perché ci sono aspetti politici che rallentano le operazioni militari perché comunque, vuoi o non vuoi, mi risulta che in molti conflitti, anche se sempre meno col passar del tempo, c’è un riferimento minimo a delle regole di guerra, a un diritto internazionale della guerra e a delle convenzioni.

Questo l’ISIS non lo riconosce in alcun modo poiché tutte queste leggi sono frutto di una sovranità popolare, democratica o liberale che per loro è peccato, nel senso che l’unica legge che esiste è quella di Dio. Di conseguenza loro non rispettano nessuna etica di guerra e usano i civili come scudi umani. Dico, si potrebbe accusare qualsiasi forza partigiana di nascondersi nella popolazione però un conto è nascondersi nella popolazione come forza partigiana e un conto è fare della popolazione carne da macello appositamente, anche perché prevale una logica del “tanto peggio, tanto meglio” su cui punta l’ISIS. Dunque questa è la prima difficoltà politica. L’ho vista coi miei occhi, quando cercavamo di avanzare dentro una città in cui l’ISIS impediva ai civili di lasciare le proprie case. Significa che bisogna praticamente rallentare le operazioni per riuscire chirurgicamente ad accerchiare gli edifici, a proteggerli, a far uscire i civili e a mandarli via e poi dopo procedere a snidare i miliziani ovunque si trovino. Anche dal punto di vista della guerra aerea questa è una complicazione enorme perché comunque si chiede sempre l’evacuazione di civili quando si sa che si inizia una guerra con operazioni aeree e, se una realtà come ISIS non lo fa, si possono immaginare le conseguenze ma anche il rallentamento delle operazioni.

L’altra difficoltà politica è che esiste un problema di fatto che non è solo dell’Iraq o della Siria ma del mondo intero: esistono degli squilibri di ricchezza, di potere, di egemonia culturale nel mondo e ci sono problemi di povertà in molti sensi, quindi ci sono centinaia di milioni di persone, soprattutto in Africa e Asia che hanno bisogno di una logica, di un’ideologia di riscatto e a volte anche di vendetta ed espressione della rabbia. Quindi lo Stato Islamico è in realtà, purtroppo, un’insurrezione globale che riempie il vuoto della fine dei comunismi, dei socialismi, e quindi, finché non s’eliminano le contraddizioni sociali o non si riesce a creare un’alternativa politica a questo genere di insurrezioni, un’alternativa in cui ci sia una forma di sollevazione razionale e non irrazionalistica, si può anche sconfiggere militarmente ma ritornerà in forme sempre peggiori.

– Recentemente sono aumentati gli sconfinamenti dell’esercito turco anche nei cantoni curdi. Qual è il ruolo della Turchia al confine con la Siria?

– Quando mi trovavo a Kobane, nel settembre 2016, in effetti è stato uno dei momenti peggiori perché la Turchia interveniva con la scusa di costruire un lunghissimo muro tra la Siria del nord rivoluzionaria e i suoi territori, che in gran parte realmente sono territori di comunità che avrebbero anche una loro autonomia, tra cui ci sono curdi. Con questa scusa provocava ampiamente alla periferia di Kobane, proprio sul confine, con i carri armati. Ha provocato nove giorni di rivolta della popolazione di Kobane al confine che sono costati anche due morti e moltissimi feriti. Questo era già stato un primo episodio. Ora ce n’è stato un altro che per fortuna è durato solo una notte in cui i mezzi turchi di nuovo hanno sconfinato nei pressi di Kobane occupando due villaggi e sono stati ricacciati indietro dalle YPG. Però Kobane, anche per il suo valore simbolico, è in realtà la città che ha subito di meno da parte della Turchia perché ci sono altre città come per esempio Tel Abyad, che viene mitragliata a distanza di 10 minuti tutti i giorni ormai da un anno e mezzo dalla Turchia e spesso ci sono anche lanci di colpi di mortaio, così come Tel Abyad (Gire Spi per i curdi), Qamisho, Amude, Serekani (Ras al-Ayn per gli arabi), su cui più volte sono stati lanciati dei razzi quando io ero lì.

E poi soprattutto il caso più grave è quello di Afrin, che è il cantone rivoluzionario isolato perché staccato da Kobane e confina con la Turchia o con territori della Siria controllati dagli islamisti. Ed è Afrin che sta subendo l’aggressione peggiore. Ormai sono tre mesi che la Turchia sta bombardando senza sosta Afrin, quindi ci sono già centinaia di morti civili, combattenti e delle forze di sicurezza nel silenzio internazionale più totale. Ed Erdogan minaccia anche d’invadere completamente questo cantone per cui vorrebbe entrare in Siria e affrontare la sinistra curda anche in Siria oltre che in Turchia.

Solo che è difficile. A parte che ci ha già provato in Iraq recentemente e questo non s’è saputo: meno di un mese fa la Turchia ha tentato un’invasione di larga scala nelle montagne dell’Iraq dove c’è il PKK (Partito dei Lavoratori Curdi) e ha dovuto ritirarsi dopo decine di morti nelle sue fila. Il problema per loro è che gli Stati Uniti proteggono il Rojava e, in forma molto più ambigua, lo fa in qualche misura anche la Russia, che tende a non autorizzare questi interventi della Turchia. E’ questo l’unico motivo per cui ancora non c’è stato un bagno di sangue perché comunque il governo turco è estremista dal punto di vista politico e il clima nella società turca è degenerato particolarmente quindi di certo la possibilità di un’invasione decisiva è sempre presente.

– Kobane è definita come un “fiore del deserto”, perché?

–  Nella contemporaneità tutto sembra volgere al peggio. Un paese come il Messico lo sa bene per certi aspetti, così come paesi come la Siria o la Turchia, ma anche in Europa sembra che il senso comune si sposti sempre più verso posizioni retrive e in tutto il mondo prevalgano le concezioni più reazionarie, identitarie, i nazionalismi e i fanatismi settari e religiosi. Comunque il potere grazie a tutto questo rimane sempre saldo nelle mani di una minoranza ricchissima a discapito della stragrande maggioranza. Quindi ha colpito tutti il fatto che emerga una rivoluzione nel senso che il potere viene assunto concretamente in un territorio da delle forze che portano avanti una logica completamente opposta, perché la loro è cosmopolita, di uguaglianza sociale, di rispetto reciproco e tolleranza religiosa, e soprattutto di centralità e riscatto della donna in una delle regioni dove le donne patiscono di più il patriarcato. Nessuno se lo aspettava ed è una messa in discussione del dogma secondo cui in questo secolo le rivoluzioni non sono più possibili e per questo credo che si sia usata quell’espressione.

– Confederalismo democratico, autonomia, interculturalità sono parole associate alla rivoluzione curda. Cercano l’indipendenza dalla Siria?

– Allora intanto va detto che i curdi sono divisi tra una destra curda e una sinistra. La destra nazionalista vuole effettivamente uno stato curdo, lo vuole sia in Iraq che in Siria, in Iran e Turchia. La sinistra curda, con forze come le YPG, le YPJ (Unità di Protezione delle Donne) o il PKK, non vogliono uno stato curdo perché son convinti che sia necessaria una rivoluzione che vada al di là del capitalismo e intendono che questo non sia possibile attraverso “lo Stato”, che lo Stato sia qualcosa di negativo in sé ed è contradditorio chiederne uno. Dunque loro tendono a sviluppare delle forme di autonomia che sono anche sociali, con la trasformazione dei rapporti sociali e di genere, all’interno degli stati in cui si trovano per poter anzi influenzare le popolazioni non curde e trascendere la “dimensione curda” della rivoluzione. Questo è quello che sta succedendo già in Siria.

Bisogna dire che rispetto alla destra curda nazionalista, che io avverso per molte ragioni, comunque un curdo o una curda al giorno d’oggi che volessero uno stato curdo, che, ripeto, non è la posizione per cui mi sono speso io, non possono essere condannati perché il Kurdistan geograficamente esiste. Per esempio uno stato come la Siria o l’Iraq son stati creati dalle potenze coloniali senza nessun rispetto per la geografia sociale dell’ex Impero Ottomano quindi in ogni caso dico questo per quelli che pensano di poter puntare l’indice contro i curdi o altre popolazioni, come per esempio gli amazigh [berberi] in Marocco o altre nel mondo che vogliono autonomia o indipendenza: non credo si possa negare in ogni caso.

– I curdi hanno anche adottato una Costituzione nel nord della Siria che è molto avanzata e democratica. Che ne pensi? Sta funzionando?

–  Si dice colloquialmente Costituzione. In realtà si chiama Carta del Contratto Sociale proprio perché “Costituzione” prefigurerebbe la creazione di uno Stato. Però sicuramente quel testo è molto avanzato sotto tutti gli aspetti. Bisogna tener conto del processo materiale di questa rivoluzione. L’obiettivo è una forma di comunismo e di estinzione dello Stato, che chiamano confederalismo democratico perché per loro la democrazia è comunista senza Stato o non è, ed è confederale perché è basata sull’autonomia di tutte le comunità che devono federarsi in maniera volontaria tra loro e non per l’imposizione dall’alto.

Quindi puntano a questo ma son consapevoli che non si può raggiungere dall’oggi al domani per cui hanno forgiato anche il concetto di autonomia democratica, che è il modo in cui il movimento del confederalismo democratico si concilia ogni volta con lo Stato esistente. Per esempio questi cantoni e i consigli cantonali che mantengono la separazione dei poteri, e in qualche modo assomigliano a uno Stato, sono l’autonomia democratica, cioè sono una proposta per la Siria per una sistemazione istituzionale che ponga fine alla guerra e, però, non cancelli la rivoluzione.

Questo è il senso delle istituzioni create che non sono “il confederalismo democratico” ma “l’autonomia democratica” perché il confederalismo nel Nord della Siria è quello rappresentato dalle comuni, dalle comuni agricole ed economiche, da quelle cittadine, dal contropotere esercitato anche a livello armato da queste istituzioni, dalle cooperative, dal nuovo rapporto che c’è tra le donne e la società. Questa è la rivoluzione. Non può trovare uno sbocco definitivo, perciò loro, non volendo ripercorrere il modello bolscevico perché infine ha fallito, non concepiscono la “presa del potere” nel senso di “creazione di uno Stato socialista” che poi s’estingue. Sono parte invece di un movimento che ogni volta crea delle istituzioni per conciliarsi con lo Stato in cui è emerso e per poi evidentemente rimetterlo sempre in discussione e continuare questo processo.

– Parlare di autonomia in Messico rimanda agli zapatisti e l’EZLN ha mostrato simpatia per la rivoluzione dei curdi siriani.

– So che in generale lo zapatismo e il Chiapas sono visti come un punto di riferimento in Rojava e in tutto il Kurdistan perché il movimento curdo ha iniziato la sua trasformazione teorica negli anni 2000 quando ormai già da diversi anni in Messico c’era stato un lavoro di discussione ed elaborazione di una prospettiva. Oltretutto in molti casi in Messico son stati raggiunti risultati concreti. Là ho visto che quello è un punto di riferimento. Ti racconto un po’ in termini di “pettegolezzo” che per vie assolutamente non ufficiali, in modo un po’ random e colloquiali, era arrivata la voce che in realtà ci fossero stati dei tentativi di comunicare e creare un rapporto più concreto ma erano caduti nel vuoto. Qualcuno mi ha provato a spiegare che magari è perché tra Rojava e Chiapas sono tutti e due dei popoli che prima di andare a leggere la mail chissà quanto tempo passa perché c’è un ritmo di vita diverso da quello a cui siamo abituati in Europa. Si diceva un po’ per scherzare… Se questi rapporti aumentassero, penso sarebbe positivo. Quando alcuni mesi fa s’è tenuta ad Amburgo la conferenza internazionale organizzata dal Rojava è stata ospitata una tavola rotonda anche sul Messico e sui cartelli della droga perché c’è proprio un’attenzione speciale da parte del Rojava sull’America Latina, sul Centroamerica, sul Messico.

– Che aneddoti particolari puoi raccontarci del periodo come combattente?

– Sono tanti. Per esempio una grossa delusione… Avevo conosciuto una ragazza curda che mi era molto simpatica e con cui ero rimasto in contatto per un periodo. Poi quando ero andato a trovarla dalla sua famiglia per una festività musulmana che si celebra in settembre, discutendo con loro, avevo scoperto che era una sostenitrice dei nazionalisti curdi, della destra curda, e quindi s’era, diciamo, abbandonata a dei commenti assolutamente inaccettabili sugli arabi, per esempio. E soprattutto sui compagni curdi e anche sullo stesso Oalan. E lì per dire è stato uno dei casi particolarmente brutto perché io non avevo capito, lei non era stata chiara forse su questa cosa, ma più che altro perché dà bene l’idea di com’è la situazione in Rojava. Ci sono tante persone che magari stanno un po’ nell’ombra o nel silenzio ma che lavorano contro la rivoluzione, che cercano di sabotarla o di indebolirne il morale proprio perché hanno idee islamiste o nazionaliste. Quindi in realtà la rivoluzione, come sempre nella storia, è portata avanti da persone determinate e appassionate che devono fare i conti con un contesto molto difficile.

– Un’esperienza più carica di speranza?

– Ce ne sono molte anche in questo caso. Posso contrapporre un’altra persona che ho conosciuto che è un ragazzo di Raqqa, arabo. Lui ha deciso volontariamente di lasciare Raqqa. Era un operaio d’officina, avrà avuto 15 anni, e, mentre stava lavorando, è stato avvicinato da uno di questi miliziani, che in molte città della Siria spadroneggiano, il quale gli aveva detto: “Fammi vedere come preghi”. E dopo che lui aveva pregato, l’altro gli aveva detto: “Tu sei un falso, un miscredente, e non preghi nel modo giusto”. Al che il ragazzo aveva risposto: “Io sono qua nella mia città, sto lavorando, e viene qua uno che non è nemmeno di Raqqa a disturbarmi e a dirmi che non so pregare”. Quindi aveva deciso di andarsene e di migrare verso nord. Alla fine è entrato nelle YPG perché aveva visto i curdi come gente che si comportava nel modo opposto a quello che aveva vissuto lui.

E’ stato uno dei primissimi arabi che sono entrati in una forza che era inizialmente curda al 100%. Io l’ho conosciuto, qualche anno dopo che questo era accaduto, e siamo stati nella stessa Unità. E’ una persona impressionante. A parte il fatto che mi ha spiegato il suo progetto, che era quello di partecipare alla liberazione del Rojava che poi deve diventare la liberazione di tutta la Siria. E voleva andare a combattere anche in Turchia, in Iran e Iraq. “Dopo finalmente potremo andare in Palestina a liberarla e così anche il Libano”, diceva. E se ci fosse stato bisogno anche in Italia, sarebbe venuto anche qui a combattere. E’ una persona quasi analfabeta, che non ha mai visto niente se non Raqqa, Kobane e poco altro, però ha una visione genuina e una volontà. Parlo al presente anche se purtroppo non posso esser certo che sia ancora vivo perché l’ho lasciato a settembre e in Siria la speranza di vita è abbastanza breve. Ho combattuto al suo fianco e come combattente è semplicemente impressionante, indescrivibile. Certe scene a un occidentale come me non potevano altro che far pensare che potevano solo esistere in un film, una persona che combatte in questo modo. Da proletario e da persona non istruita, condannata dalla sua vita a una limitatezza di fatto delle esperienze, è un rivoluzionario ai livelli più alti della storia che si possano immaginare. Così so che nel nord della Siria ce ne sono migliaia e questo ha un valore inestimabile.

– Come si chiama?

– Si può dire il suo nome di combattimento, Zagros Raqqa, perché nessuno in Rojava usa il suo vero nome.

– Qual era il tuo?

– Era Tiresh Gabar.

– Unità di Protezione delle Donne (YPJ), che rapporti hanno con le unità delle YPG?

– La mia unità era mista quindi c’erano sia YPJ che YPG. La maggior parte delle unità sono miste. Come tutto ciò che riguarda le donne nella rivoluzione, quindi anche le comuni e i congressi delle donne, hanno sempre una loro autonomia. Hanno catene di comando, di coordinamento e di decisione autonome, così come in qualunque comune o assemblea di quartiere si riunisce sempre a parte la comune delle donne. Così la nostra unità per esempio era unica ma le donne realizzavano i loro seminari e riunioni prima di venire nelle assemblee nostre, per cui esiste una forma di autonomia delle donne che non è una forma di separatismo ma un sistema intelligente ed equilibrato. Mi sembra che riesca bene a conciliare la questione della liberazione femminile con quella della liberazione di tutti. Naturalmente accordando una priorità alla liberazione femminile, che si vede già in questa autonomia e nella loro ideologia e consiste nel riconoscere alle donne il ruolo di avanguardia politica nella rivoluzione mondiale.

– Come sono i rapporti con la popolazione civile locale?

– E’ sempre diverso a seconda di chi è la popolazione locale. Ci sono persone che supportano e altre che avversano. C’è chi avversa in maniera, diciamo, “dialogante” e altri che vogliono avversare con le armi o sostengono forze esterne. Quindi il rapporto con la popolazione è quello di qualsiasi forza che governa un territorio, però nel mezzo di una guerra civile e di una rivoluzione. Ma tra l’altro ci sono tante forze che son ben riuscite a trasformarla in una guerra settaria, razziale e linguistica e sono questi crimini che producono rancore e non so quando potranno essere sopiti. Quindi per esempio se, come YPG, si cammina per strade di Kobane o Qamishli, la popolazione ti ama in maniera enorme. Per i combattenti internazionali c’è una forma di venerazione da parte dei civili. Mentre invece in una città come Tel Abyad io ero passato al mercato in uniforme, perché dovevamo accompagnare un compagno dal medico, e la sensazione lì’ è quella che può provare un poliziotto che passa in un quartiere di Palermo più o meno. Non è gradita la sua presenza perché a lì c’è una maggioranza araba e al suo interno c’è una maggioranza di sostenitori dell’ISIS e una minoranza di sostenitori della rivoluzione, quindi come città ha bisogno, come anche altre, di sviluppare soprattutto nei giovani o tra le donne una coscienza politica che è molto minore che in altre zone.

– Pensi di ritornare?

– Sì, certo, ci ho pensato. Non credo sia possibile per me non tornare mai più in Rojava.

– Che insegnamenti hai riportato con te in Italia?

– Gli insegnamenti più grandi sono due. Il primo è che esiste un divario, e già lo sapevo, tra l’Occidente e il Medioriente, o forse tra l’Occidente e il resto del mondo. E’ talmente terribile che non si può immaginare, descrivere, e purtroppo non è neanche sufficiente che uno vada a combattere lì per colmarlo, nel senso che è un divario tra chi ha tutto e chi non ha niente, tra chi sta bene e chi soffre. Questa è una consapevolezza della gravità di questa situazione che ha soprattutto chi va in quelle zone in certe situazioni di guerra.

Un altro è che la rivoluzione è giusta e necessaria, però quando si dice “rivoluzione” bisogna essere consapevoli del peso di questa parola in termini di sofferenze, tragedie e dolore che provoca perché una rivoluzione è comunque un rivolgimento della società che non avviene in maniera pacifica, anche se è necessaria, e quindi non bisogna usare questo termine con leggerezza. Non bisogna immaginare semplicemente che sia “una cosa bella”. Quelli che pensano così è meglio che abbandonino la politica e facciano altro, mentre sarebbe utile che ci fossero persone che si rendono conto di quanto è brutto dover fare una rivoluzione ma che continuano a pensare che è necessaria.

In chiusura vorrei denunciare che ci sono due ragazzi, una coppia, della Repubblica Ceca in una prigione turca: lei si chiama Marketa, lui Miroslav. Sono stati varie volte in Siria, Iraq e Turchia per motivi umanitari e sono stati appena condannati in Turchia a 6 anni e 3 mesi di carcere a testa perché accusati d’essere stati nelle YPG e YPJ. E’ una cosa scandalosa. Marketa è un’amica, la conosco, e non è mai stata nelle YPJ, sono accuse totalmente false. E’ l’ennesimo crimine della Turchia, non lasciamo sole queste due persone che affrontano adesso una prospettiva molto dura.

– Come avvicinarsi a quel che succede ai curdi in Siria?

– Ci si può informare su vari siti internet, e soprattutto si può donare alla Mezzaluna Rosa Curda che sta a Livorno. E si può andare in Rojava a portare solidarietà attiva anche senza combattere. Le cose più importanti sono gli aiuti sanitari ed educativi. Malgrado le difficoltà se più giovani dall’Europa andassero in Medioriente, anche questo divario di cui parlavo prima comincerebbe almeno ad attutirsi. Dico sempre che per prima cosa è meglio andare lì se si può e se non si può allora va bene donare e informarsi. Queste tre cose.

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Crash! Barcellona 17 agosto 2017 https://www.carmillaonline.com/2017/08/20/crash-barcellona-17-agosto-2017/ Sat, 19 Aug 2017 22:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39971 di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria. E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che [...]]]> di Sandro Moiso

All’inizio degli anni novanta a Viareggio, durante una delle prime edizioni del “Noir in Festival”, ebbi occasione di intervistare James Ballard. Di quella video-intervista, della durata di circa un’ora, per una serie di disguidi alla fine non se ne fece nulla, ma sicuramente alcuni dei temi trattati all’epoca con il grande autore inglese sono rimasti scolpiti nella mia memoria.
E i tragici avvenimenti svoltisi nei giorni scorsi a Barcellona e in Catalonia sono serviti a farmeli rammentare

In particolare alcuni riguardanti sia l’utilità o meno di scrivere ancora romanzi e racconti di fantascienza in un mondo che sembra avere realizzato molti dei presupposti dei suoi autori originari e più originali, sia una delle sue opere più celebri, osannata e criticatissima allo stesso tempo, portata sullo schermo da David Cronenberg nel 1996: “Crash”.

Lo stesso Ballard, a quell’epoca si dimostrò restio a parlare di un’opera, pubblicata per la prima volta nel 1973, che egli definì, insieme all’altrettanto celebre La mostra delle atrocità, frutto di un periodo particolare della sua vita. Soltanto in seguito, nella sua autobiografia comparsa un anno prima della sua morte avvenuta nel 2009, sarebbe tornato con più dettagli e motivi di orgoglio sulla stessa.1

In quel romanzo si rivelava come la differenza che separa la curiosità per gli incidenti d’auto o le tragedie della strada dallo sguardo voyeuristico suscitato dall’erotismo e dalla pornografia sia, a tratti, tanto sottile da risultare irrilevante. In fin dei conti sempre di corpi in pose inaspettate o sorprendenti si tratta, in cui i più intimi umori dei corpi si mescolano con l’asfalto e con l’acciaio, invece che con quelli di altri corpi fatti di carne, ossa e sangue.

Nel testo si incrociavano e rimescolavano tanto la volontà di affermazione di alcuni dei suoi protagonisti, attraverso la ricerca di una morte violenta che coinvolgesse altri individui ed altri corpi, quanto la curiosità di spettatori casuali oppure recatisi appositamente sul posto per assistere all’evento.
Vaughn sognava di berline di ambasciatori schiantatisi contro autobotti inarcate, di tassì pieni di bambini festosi scontratisi frontalmente sotto le vetrine sfolgoranti di supermercati deserti.[…] Immaginava tamponamenti immani di nemici giurati, morti di esseri odiosi celebrati tra le fiamme del carburante lingueggianti nelle cunette laterali, in un ribollire di vernice sullo sfondo dello smorto sole pomeridiano di città provinciali […] Su queste collisioni, Vaughn elaborava variazioni infinite2

Mentre tutto intorno le macchine vengono circondate “da una cerchia di spettatori, i volti silenziosi fissi […] Lungo la Western Avenue si formò un ingorgo imponente, e si udì un urlio di sirene mentre gli abbaglianti della polizia lampeggiavano contro i paraurti posteriori dei veicoli fermi in coda […] La moglie del morto, sempre sostenuta dalla cintura di sicurezza, stava riprendendo i sensi. Un gruppetto di persone – un autista di camion, un soldato fuori servizio in divisa e una venditrice di gelati – stava con le mani premute contro i finestrini della sua auto, e pareva toccarle parti del corpo […] Per un istante mi parve di essere con lei, il protagonista del momento culminante di un truce dramma di teatro tecnologico improvvisato3

Una sensazione che i servizi speciali dei media trasmessi a spron battuto in occasione dell’attacco di Barcellona, o di qualsiasi altro attacco terroristico messo in atto con mezzi di fortuna spesso a quattroruote, hanno contribuito progressivamente ad ampliare. Insieme alla paura dell’imprevisto, dell’altro, del terrorista giunto ormai ad essere incarnazione assoluta del male che minaccia questa società perfetta fatta di svaghi, turismo, relax e corpi da esporre, sia vivi che morti, allo sguardo famelico del pubblico e dei media.

Un voyeurismo mediatico che, nella sua totale inconsistenza, si incrocia con il delirio autodistruttivo di una generazione cresciuta nelle periferie delle metropoli europee, che del nichilismo ha fatto la propria bandiera e che nell’atto finale, spesso annunciato, spera di trovare il significato di un’intera esistenza segnata dall’alienazione individuale, sociale ed economica.
Lo sguardo delle telecamere sui corpi stesi a terra e sulle vetture della polizia oppure sull’eliminazione e sui cadaveri degli “assalitori” eguaglia la ricerca della perfezione formale della propria morte e di quella delle anonime vittime messa in atto da ragazzi la cui età è quasi sempre compresa tra i venti e i trent’anni, se non meno come nel caso del gruppo che ha agito a Barcellona.

Un’autentica pornografia della morte che fotografa il disfacimento di unna società e di una civiltà che si vorrebbero eterne. E che tali non possono e non hanno mai potuto essere.
Un voyeurismo che dimentica la vita oppure che si accontenta di un simulacro della stessa, sia quando difende la società dello spettacolo e del consumo sia quando sceglie la via del martirio per negarla in nome di un altro ideale. Altrettanto alienante.

Un’esposizione mediatica che in entrambi i casi cerca e crea l’evento: sia che si tratti delle fasulle manifestazioni di riaffermazione della vita sulle piazze delle stragi, sia che si tratti della celebrazione on-line dei propri “martiri” e delle operazioni militari messe in atto dai giovani aspiranti suicidi. Mentre in entrambi i casi il discorso nazionalista o religioso trionfa sulla vita degli individui, ridotti a burattini disarticolati e impauriti oppure assetati di vendetta.

Fin dai suoi inizi come scrittore James Ballard aveva sempre rifiutato la fantascienza dell’outer space per concentrarsi principalmente sull’inner space, lo spazio interiore, e le autentiche catastrofi psichiche e sociali che derivano dall’incontro tra il malessere individuale e le trasformazioni fuori controllo operanti nella società e nell’ambiente che lo circondano. Narrazioni in cui nessuna verità e spiegazione può essere definitiva e il cui destino è quello di continuare ad essere modificata dai processi messi in atto dalla crisi che esplode nel momento in cui individui alienati decidono di affrontare situazioni che si riveleranno ingestibili, non sottomettendosi o ribellandosi alle stesse.

Certamente, se l’autore inglese ne avesse avuto il tempo, avrebbe arricchito il suo viaggio nello spazio interno di altre variabili. La sua non-fantascienza dopo aver parlato di un pianeta affogato, di incubi di cemento armato, di bambini che diventano terroristi sterminando le proprie famiglie benestanti, di movimenti fascisti che nascono nelle cattedrali della merce che sorgono nelle periferie londinesi, di piccoli borghesi che scelgono l’omicidio come via di fuga dalla banalità dell’esistente e di rivolte armate che scoppiano nei quartieri residenziali si sarebbe arricchita di paesaggi urbani in stato di assedio contro un nemico anonimo, imprevedibile e soprattutto interno.

Così mentre i media si accontentano di definire il nemico come islamico-radicale o fascio-islamista e di cantare la prevedibile fine dell’ISIS sul fronte militare siriano, dimenticano, o forse non immaginano neppure, che il male sia più profondo. Un male sociale che fa blindare le città e che militarizza i comportamenti quotidiani, ma che non può essere affrontato e risolto rimanendo all’interno delle stesse logiche di sfruttamento e di consumismo che l’hanno causato.

Al contrario le istituzioni internazionali si crogiolano invece nell’idea di far dimenticare tutte le proprie malefatte sventolando il vessillo dell’unità contro il terrorismo e il corrotto Rajoy può affermare che “il terrorismo è il problema più grande per l’Europa”, sviluppando narrazioni dei fatti in cui è impossibile rintracciare anche solo un filo di verità o di ricostruzione logica. Gli attentatori erano quattro, cinque, nove, dodici? Sono stati tutti eliminati oppure qualcuno è ancora in fuga? L’uomo assediato che aveva preso con sé degli ostaggi in un ristorante turco della Boqueria subito dopo l’attentato sulla Rambla è davvero esistito? E allora che fine ha fatto? Non chiedetelo, non lo sanno nemmeno gli inquirenti e gli autori delle veline mediatiche. Il cui unico interesse è quello di ridurre l’attenzione degli spettatori ad uno sguardo morboso sui fatti, visti attraverso lo spioncino del body count e del dolore dei parenti delle vittime e dei sopravvissuti piuttosto che aprire una finestra sulla storia e la società per cambiare, finalmente, aria.

Ossessionati dall’idea del nemico esterno, di altra razza, religione e cultura (magari nord-africano, magrebino, arabo oppure semplicemente di origine marsigliese) i soliti commentatori, i soliti esperti, i soliti docenti universitari si stupiscono che i giovani attentatori, così determinati e quindi pericolosi, ascoltino la musica rap, bevano e possano frequentare gli stessi locali frequentati da altri giovano che poi diverranno le loro potenziali vittime. L’ossessione securitaria e di controllo imperialista nasconde alla vista ciò che è così semplice vedere: vittime e carnefici appartengono allo stesso mondo, sono sinonimi dello stesso paradigma basato sullo sviluppo ineguale. In cui periferie e metropoli non sono più distanti migliaia di chilometri, ma sorgono sullo stesso territorio. Mentre uno dei territori di origine di una parte degli attentatori, il Marocco, non è davvero così pacificato dalla monarchia ed è, allo stesso tempo, fortemente dipendente dal neo-colonialismo della Spagna e dalla sua economia.

E’ l’alienazione sociale e identitaria prodotta dalla società dei consumi e dell’estrazione del plusvalore da ogni attività umana ad essere alla base tanto della ricerca di comunità che si esprime nell’attentatore jihadista attratto dalla umma quanto dei comportamenti svagati e inconsapevoli indotti dalle pubblicità della Coca Cola e di tutti gli altri prodotti assolutamente inutili rivolte ai giovani, e meno giovani, consumatori.

Non si tratta dunque di scegliere una delle due immagini riflesse dallo stesso specchio, ma di rompere lo specchio. La difesa della civiltà occidentale e dei suoi sacri valori sembra invece prevalere nei commenti e finisce con l’esaltare comportamenti antagonisti destinati a prolungare nei decenni a venire l’autentica guerra civile in cui abbiamo iniziato da tempo a vivere. Con buona pace di chi pensa che una tale guerra possa essere vinta da qualcuno.

Posso solo ricordare che gli operai della Renault di Flins negli anni sessanta e settanta non si riconoscevano su basi etniche o religiose, ma soltanto sulle basi dell’autonomia di classe che durante le lotte dell’epoca accomunava lavoratori europei e nord-africani. La perdita di quell’identità di classe, di quella comunità di lotta, che ha marcato la vittoria del turbo-capitalismo finanziario degli ultimi decenni, ha anche segnato il divenire di una società in cui la guerra civile tra differenti gruppi, che pur le appartengono, sarà la norma. Come, purtroppo, il successivo attacco in Finlandia ha contribuito a confermare.

A meno che, come nel magnifico finale de La terra dei morti viventi del grande George Romero recentemente scomparso, gli esclusi e gli oppressi sappiano riconoscersi in quanto tali e, anche senza dover obbligatoriamente collaborare, convivere in contrasto con il loro vero ed unico nemico.

(Si rammenta a tutti i lettori che la responsabilità per le opinioni contenute nel testo è da attribuire esclusivamente all’autore e non alla redazione di Carmilla nel suo insieme – S.M. )


  1. James G. Ballard, I miracoli della vita, Feltrinelli 2009  

  2. James G. Ballard, Crash, Rizzoli 1990, pp. 10-11  

  3. Ballard, op.cit., pp. 19-20  

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