Isaac Asimov – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Noi, la Creatura e altre macchine fragili https://www.carmillaonline.com/2023/05/05/noi-la-creatura-e-altre-macchine-fragili/ Fri, 05 May 2023 20:00:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77072 di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di [...]]]> di Franco Pezzini

Alcuni anni fa, le ricorrenze bicentenarie dell’epocale tenzone narrativa a Villa Diodati (1816) e poi dell’uscita del suo frutto più importante, il primo Frankenstein (1818), avevano condotto a un’euforia di articoli, volumi, riedizioni. Su quell’onda erano apparse in particolare due edizioni importanti. Anzitutto Mary Shelley, Frankenstein, prima edizione critica e traduzione dal testo 1818 con richiami a quello del 1831, note e apparato a cura del collettivo Sara Noto Goodwell (dietro cui si celava in realtà l’ottimo lavoro di Massimo Scorsone), con prefazione di Nicoletta Vallorani, per i tipi della torinese Lindau, 2018: un’operazione benvenuta, che permetteva di confrontare i testi delle due principali edizioni storiche, notando il passaggio dalla versione più ruvida e ribelle di una Mary Shelley giovanissima – che qualche lettore preferisce per la sua intatta freschezza – all’altra definitiva del 1831, più levigata e moderata. La seconda, Villa Diodati Files. Il primo Frankenstein, curata da Fabio Camilletti grazie a Nova Delphi, Roma 2018, presenta connotati curiosi e di grande fascino: riporta infatti il contenuto originario del manoscritto di Mary senza l’editing del suo geniale partner Percy Bysshe Shelley – dunque un testo più “imperfetto” di quello pubblicato, ma tale da fornirci un più diretto colpo d’occhio sulla scrittura della ragazza Mary e sfatare definitivamente il pregiudizio sessista che avrebbe voluto il romanzo frutto del lavoro del brillante Percy e non della sua giovanissima compagna.

Ovviamente parecchie altre case avevano nel frattempo allestito nuove edizioni del romanzo, e ormai la versione 1818 può essere reperita facilmente anche in Italia, dove in precedenza si trovava in libreria solo quella definitiva. Ma, in attesa delle mirabilia che potranno essere offerte dal bicentenario 2031, Mary Shelley ha continuato a suscitare interessi e scrittura: a essere portata per esempio nelle scuole, per le provocazioni vivide che reca a un pubblico di adolescenti.

Materiali d’interesse sono a questo proposito offerti da un volume divulgativo di grande intelligenza da poco uscito, Vita e visioni. Mary Shelley e noi, a cura di Vittorina Maestroni e Thomas Casadei, con una graphic novel di Claudia Leonardi (pp. 137, € 15) per i tipi Mucchi, Modena 2023: un testo adatto soprattutto a lettori giovani, e che affronta il panorama dell’opera dell’autrice – non solo Frankenstein ma Valperga (1823), L’ultimo uomo (1826) e cenni sul resto (in effetti non andrebbe dimenticato il suo romanzo ultimo Falkner, 1837, ottimamente presentato in Italia come Il segreto di Falkner, a cura di Elena Tregnaghi, Edizioni della Sera, Roma 2017) – mediante una prospettiva di genere. Alla Presentazione dei curatori segue Mary Shelley: una graphic novel, apprezzabile al netto di alcune libertà; una breve, partecipe biografia a cura di Silvia Bartoli, Mary Shelley: una vita fra dolore e scrittura; la panoramica sui tre romanzi citati Scrittura, sogni e visioni. Selezione e traduzione dei testi a cura di Lilla Maria Crisafulli (con S. Bartoli, P. Leech e V. Maestroni); un’interessante rassegna di Parole-chiave dell’opera di Mary (Maternità; Trauma, dolore, sofferenza; Mostro; Bellezza; Fantascienza; Donne e scienza; Cultura patriarcale; Relazioni; Repubblicanesimo; Traduzione), commentata a firma di più autori. Termina il tutto una sezione Strumenti, articolata in Lo sapevi che… e in Consigli di lettura a cura del Centro documentazione donna. Finito di stampare – significativamente – l’8 marzo di quest’anno, il volume persegue come detto una prospettiva di genere: un grandangolo che permette in realtà di cogliere in modo molto ampio e sfaccettato i temi dell’opera shelleyana e induce senz’altro a consigliare questo testo per attività didattiche.

Decisamente una diversa complessità offre uno splendido studio di Emanuela Piga Bruni, La macchina fragile. L’inconscio artificiale fra letteratura, cinema e televisione (pp. 179, € 19) Carocci, Roma 2022: se l’intersezione-Frankenstein riguarda anche qui solo una delle opere citate, per quanto emblematica, il focus è la provocazione su cosa significhi essere umani a partire dalla figura dell’automa nell’immaginario letterario e audiovisivo.

 

Il volume riguarda gli effetti di una rivoluzione tecnologica molto discussa e che la comunità umana sente imminente. Se nel corso del XX secolo sono state considerate rilevanti le conseguenze culturali e antropologiche della possibilità di riprodurre il manufatto artistico attraverso la tecnica, gli scrittori di finzione si sono spesso confrontati con quelle legate alla riproduzione tecnologica dell’umano stesso. Il tema centrale del libro riguarda i concetti di fragilità e vulnerabilità nella dimensione sociale e tecnologica della contemporaneità, nell’ibridazione dell’umano con la macchina, e nella crescente automazione degli oggetti che ci circondano e delle attività a cui prendiamo parte. L’argomento è declinato su diversi livelli di discorso: la fragilità umana, quella corporea e nella dimensione interiore ed esistenziale, la fragilità dell’ambiente che ci circonda, quella del nostro pianeta vulnerabile all’impatto di otto miliardi di esseri umani che lo sottomettono nell’esercizio della vita. A complemento di queste condizioni incarnate nel reale, esploreremo ipotesi affini, ma applicate a figure dell’immaginario fantascientifico. Attraverso l’analisi di una selezione di testi che provengono dalla letteratura, dal cinema, dall’animazione e dalla serialità televisiva, e lungo il crinale che le ibridazioni tra natura e artificio rendono via via meno netto, andremo alla ricerca di cosa significhi essere umani scrutando nell’immagine rovesciata della natura umana, nel negativo che è dato dall’artificio dell’automa e del cyborg.

 

Il testo, dalla bibliografia ricchissima, si articola in cinque parti: il ripercorrerle sinteticamente in questa sede potrà offrire solo una vaghissima impressione della ricchezza dei contenuti. La prima parte, Tra paradigma indiziario e seduta psicoanalitica: il dialogo con la macchina antropomorfa, prende avvio dall’interrogarsi su Il problema della coscienza, con le sue dimensioni sfuggenti; Oltre l’antropocentrismo conduce a riflettere sul concetto di io, sulla critica della “tradizione dell’umanesimo occidentale, basata su una serie di opposizioni dicotomiche che risalgono alla suddivisione cartesiana tra res cogitans e res extensa” (identità/alterità, natura/cultura, uomo/donna, bianco/nero ecc.), sulle istanze del postumano degli studi di Donna Haraway; Il cyborg e l’androide tratta della rappresentazione della creatura artificiale offrendo un po’ di puntualizzazioni lessicali. “L’atteggiamento dell’umano nei confronti della creatura artificiale oscilla tra fascinazione e paura”: e di qui si apre un discorso sui Dialoghi perturbanti tra uomo e oggetti umanoidi, con il riferimento fondamentale alla categoria del Perturbante (Jentsch, Freud…) e la teoria della uncanny valley di Masahiro Mori. Proprio la chiave del dialogo finisce con l’essere rivelativa: e lo studio procede con esempi in questo senso tratti da testi letterari e cinematografici. In particolare attraverso due autori emblematici: Isaac Asimov: i robot e l’interrogatorio; Philip K. Dick: i replicanti e la misurazione dell’empatia; e di qui si passa alla seconda parte.

Dal cyberpunk al postumano:Ghost in the Shell’ prende le mosse da un’Ontologia del cyborg. Considerando preliminarmente che “Negli ultimi settant’anni, la figura dell’umano-macchina ha cambiato statuto, passando dalla dimensione dell’immaginario a quella dell’esistente”, e che “Il cyborg ha attraversato i sottogeneri della letteratura fantascientifica, e non di rado è femminile e immaginato da scrittrici”. Donna Haraway definisce il cyborg

 

un controparadigma che descrive l’intersezione del corpo con una realtà esterna molteplice e complessa: è una lettura moderna non solo del corpo, non solo delle macchine, ma di quello che passa e succede tra di loro. In quanto modo di intervenire nel dibattito sul rapporto tra mente e corpo, il cyborg è un costrutto post-metafisico.

 

Di qui la riflessione sulla fascinazione per l’Asia e il Giappone come uno dei tratti distintivi del cyberpunk e La genesi diGhost in the Shell’, manga di Masamune Shirow (1988) poi affiancato dalla reinterpretazione di Mamoru Oshii in formato anime (1995). Un’opera dai connotati illuminanti (“Il cyberpunk aveva recuperato la distinzione in modo ambivalente attraverso la separazione semantica tra hardware/corpo e software/coscienza. Qui questi termini sono ulteriormente traslati rispettivamente nelle metafore shell e ghost”) affrontata da Piga Bruni attraverso gli step di Caduta e rispecchiamento, Autocoscienza e riconoscimento, Ambizione e trascendenza: verso il postumano.

Un’altra opera-cardine è quella cui viene dedicato il capitolo 3, ‘Westworld’ e l’inconscio artificiale: a partire dal film del 1973 scritto e diretto da Michael Crichton e distribuito in Italia con il titolo Il mondo dei robot, da cui deriva la serie televisiva Westworld (in Italia, Westworld – Dove tutto è concesso) creata da Jonathan Nolan e Linda Joy, prime quattro stagioni 2016-2222. Il film originale era stato di grande successo negli anni Settanta e di culto per l’immaginario distopico: la storia di un parco a tema (ben prima dell’altrettanto crichtoniano Jurassic Park) dove qualcosa va storto nella programmazione degli androidi, detti host o “attrazioni”: impossibile dimenticare il raggelante pistolero-androide Yul Brinner. Epopea western e wonderland. Dal film alla serie TV affronta vari nodi della riscrittura: in Forme della serialità televisiva emerge tra l’altro l’influenza di Ghost in the Shell nell’immaginario di Westworld; Dal robot elettromeccanico alla ginoide vitruviana tratta gli adattamenti del romanzo da parte di Nolan e Joy per quanto concerne la fisicità degli androidi; Sguardi situati e visioni creaturali affronta le variazioni di “interiorità” rispetto alla versione-fonte, che conducono gli spettatori a identificarsi in androidi con coscienza e inconscio artificiali (emblematico il caso della ginoide Maeve, la cui prospettiva è “Lontanissima dalla visione pixellata e asettica del pistolero nero nel film”); Variazioni distopiche: dal vecchio West al panopticon riflette sul parco come sistema totalitario. Ampliando l’obiettivo, Labirinti del sogno. Alice e Borges aWestworld’ parte con Figure del labirinto dalla constatazione borgesiana che “Tutto è labirinto, gli oggetti ma anche il tempo e l’universo. Il vero labirinto non è spaziale ma è lo scarto tra ciò che crediamo di vivere e ciò che viviamo realmente”.

 

Per Borges, il labirinto riguarda la vita e la scrittura, sia la realtà sia la finzione. In queste pagine mi soffermo sulla complessità della relazione che lega assieme le due sfere e, con un’estensione metaforica, includo nella riflessione un’articolazione ulteriore del termine “finzione”, il sogno. Altra passione borgesiana, il sogno è una modalità altra «di creare mondi possibili, virtuali, del tutto alternativi al mondo reale» […]. Tanto il labirinto quanto il sogno possiedono due volti. Nella metafora del labirinto troviamo, a un tempo, struttura dell’esperienza, ricerca del sé, percorso di formazione e allegorie del sacro, così come smarrimento, impotenza, orizzonte celato o visione inibita. Il sogno può divenire incubo.

 

Un motivo per cui Borges riprende Lewis Carroll e il dittico di Alice: e qui la riflessione su Westworld si protrae in due direzioni, Il labirinto come struttura dell’esperienza (nonché metafora della memoria, “la quest coincide con la ricerca della propria identità” e “metafora del proprio sé più profondo, da raggiungere, come Alice, oltrepassando lo specchio”) e Il labirinto come metafora della complessità (dove “la sfera in cui maggiormente si dispiega è quella del tempo”). Fino a Risvegli. Il sogno nel sogno, sulla domanda “Am I in a dream?” del personaggio Dolores, con significativi echi non solo al “dubbio ontologico tanto esplorato dalla fantascienza («in quale mondo siamo?»)”, ma alle avventure di Alice, visto che “il parco Westworld è una versione distopica del wonderland”. Gli sviluppi conseguenti non potranno che trattare Presa di coscienza e rivolta: dall’apocalisse alla genesi, con il massacro degli umani funzionale a un nuovo inizio, e L’inconscio artificiale, sulle reveries che permettono agli androidi di evolvere e riappropriarsi della memoria (“In quanto immagini di esperienze appartenenti al passato, sono brandelli di un inconscio artificiale di tipo personale” trattandosi di “ricordi di storie dismesse”), a sovvertire il sistema.

Il capitolo 4, Il realismo perturbante delle macchine come noi, prende avvio da Una questione morale, sui risvolti etici del tema evocati da Ian McEwan (Machines Like Me and People Like You, 2019); e i paragrafi successivi – Il realismo perturbante, Forme del dialogismo, Forme dell’immedesimazione – approfondiscono le relative provocazioni. Fino alla nota chiave in cui culmina l’intero volume, La fragilità dell’altro attraverso gli step di Contraddizioni e rivolta e La solitudine della creatura: presenti già nell’opera di Mary Shelley, questi stigmi dolorosi finiscono con lo stemperare il nostro timore delle macchine nella contemplazione di esiti di sofferenza che ci affratellano e non possono lasciarci insensibili.

A chiudere il volume come quinto capitolo è un bel contributo di Christiano Presutti, L’umano nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, che prende le mosse dal romanzo steampunk di William Gibson e Bruce Sterling The Difference Engine (La macchina della realtà), 1990. Lo sfocarsi dei confini tra scienze naturali e scienze umane nella seconda rivoluzione industriale grazie all’emergere di nuovi paradigmi “avrebbe portato il mondo scientifico a orientare il proprio punto di vista verso il dominio umanistico e viceversa, in un gioco di specchi e scambi di ruolo che si è protratto sino a oggi e che caratterizza le moderne discipline scientifiche interdisciplinari”. Sempre più lo scienziato è – o dovrebbe essere – indotto a interpellarsi sul significato filosofico e “umanistico” del risultato delle proprie ricerche: e a parte alcune opere pionieristiche dell’ottocento (Mary Shelley, Hoffmann, Poe…), è solo con il secolo successivo che la protofantascienza di Verne e Wells può lasciare il posto alla SF vera e propria. Tra le idee più fortunate sviluppate in quest’ambito sono quelle attorno alla macchina intelligente e al problema dell’emergenza della coscienza. Di qui l’esame di Presutti si sviluppa attraverso tre tappe, La mente artificiale (con le varie definizioni di IA), Che cos’è la coscienza, La coscienza artificiale o immaginare l’impossibile, arricchendo in modo importante l’itinerario di Piga Bruni.

Una ricca bibliografia conclude questo studio molto bello, dove la chiave della macchina fragile rappresenta una preziosissima provocazione. La presa di coscienza della quale dovrebbe illuminare non solo la nostra percezione teorica di questi temi, ma in fondo la vita stessa che ci arrabattiamo a vivere.

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Il destino del corpo elettrico https://www.carmillaonline.com/2022/09/14/il-destino-del-corpo-elettrico/ Wed, 14 Sep 2022 20:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73614 di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima. E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti [...]]]> di Sandro Moiso

Antonio Caronia, Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti, a cura di German A. Duarte e con una postfazione di Marcel-lí Antúnez Roca, Krisis Publishing 2022, pp. 220, €18,00

Canto il corpo elettrico, le schiere di quelli che amo mi abbracciano e io li abbraccio, non mi lasceranno sinché non andrà con loro, non risponderà loro, e li purificherà, li caricherà in pieno con il carico dell’anima.
E’ mai stato chiesto se quelli che corrompono i propri corpi nascondono se stessi? E se quanti contaminano i viventi sono malvagi come quelli che contaminano i morti? E se il corpo non agisce pienamente come fa l’anima? E se il corpo non fosse l’anima, l’anima cosa sarebbe? (Walt Whitman – I Sing the Body Electric)

Sono passati più di centocinquant’anni dalla prometeica intuizione contenuta nei versi di Walt Whitman ed inserita nella sua unica raccolta di poesie, «Foglie d’erba», pubblicata per la prima volta nel 1855 e in seguito rivista ed ampliata più volte. Eppure soltanto oggi è forse possibile comprendere appieno il significato di quella comunanza dei corpi “fisici” e la loro intrinseca e specifica bellezza e diversità esaltata allora dal poeta americano.

E’ stato Antonio Caronia (1944-2013), in un saggio edito per la prima volta nel 1996 e oggi ripubblicato dalle sempre meritorie edizioni Krisis Publishing di Brescia, a sviluppare in senso attuale quel “canto”.
Anche se lo ha fatto in prosa e con un testo che analizza nel dettaglio le trasformazioni del corpo fisico e della specie avvenute in seguito allo sviluppo delle diverse tecnologie a disposizione delle differenti e successive società umane, nel tentativo di proiettarsi nella comprensione del destino futuro delle funzioni e dello sviluppo dello stesso una volta inserito nel magma della comunicazione elettronica.

L’autore, saggista, docente di Comunicazione all’Accademia di Brera e figura di spicco della critica letteraria fantascientifica italiana fra gli anni settanta e ottanta, attraverso una cavalcata che, sulle orme di Marshall McLuhan e dei più importanti innovatori della letteratura fantascientifica e del cinema corrispondente (da Asimov a Ballard e da Dick a Sterling e Gibson fino a Cronenberg), ci porta dall’avvento della scrittura alla Rete e oltre. Ci fa riflettere sulla progressiva esternalizzazione delle funzioni cognitive, ma non solo, svolte dal nostro corpo “naturale” a favore di tecnologie che se da un lato ingigantiscono le nostre capacità di gestire dati, dall’altra sembrano trasformare e condizionare sempre più il nostro immaginario e il corpo “sociale”.

Come afferma il curatore:

La prima edizione di questo volume è apparsa nel periodo in cui si andavano consolidando le narrazioni utopiche che hanno accompagnato lo sviluppo delle tecnologie digitali e della rete […] La rete, in particolare, sembrava poter dare voce al singolo cittadino, e molti leggevano questa sua potenzialità come la capacità, insita nel digitale, di determinare processi sociali complessi. Ed era fuor di dubbio, all’interno della narrazione utopica, che tutti questi processi fossero avviati verso una democrazia diretta, o quantomeno più partecipativa.
[…] Negli stessi anni, però, il panorama democratico e quello liberale cominciavano ugualmente a mutare. Progressivamente, quegli stessi scenari si trasformavano in un laboratorio per le multinazionali e le corporations che regnano nel mediascape contemporaneo. E’ infatti proprio nel momento più alto dell’ondata libertarianista che, in forma embrionale, le corporations hanno trovato terreno fertile, minando progressivamente questi spazi di libero scambio di idee, d’informazione e di merci, e appropriandosene successivamente a livello planetario1.

Proprio in ciò che è sottolineato da German Duarte sta l’estremo interesse insito nella riedizione del testo di Caronia, ovvero nella possibilità di mettere a confronto ciò che un quarto di secolo fa si poteva intravedere nello sviluppo dei media e delle tecnologie digitali con ciò che è effettivamente avvenuto, poiché la problematica costituita da ciò che avrebbe potuto essere e ciò che effettivamente è stato era già, in qualche modo, presente nel lavoro di Caronia, soprattutto quando nelle sue pagine «ci mette ripetutamente in guardia contro il possibile “tecnopolio” incarnato dalla Microsoft , nella persona di Bill Gates»2.

Lo sguardo dell’autore non era alimentato infatti soltanto del discorso “utopico” e fantascientifico, oltre che tecnologico e artistico sull’uso delle nuove tecnologie, ma anche dall’attenzione per i contraddittori processi sociali, cognitivi e politici messi in moto dal capitale in tutte le sue stagioni di esistenza. Anche se la sua attenzione si spingeva fino all’età neolitica, con l’invenzione dell’agricoltura e di società complesse, organizzate intorno al lavoro. Età neolitica in cui, nonostante la Rivoluzione industriale, secondo lo stesso, saremmo ancora inseriti proprio per la centralità costituita dal lavoro produttivo.

Agricoltura che ha segnato i primi passi della società umana verso quella trasformazione o “artificializzazione” del paesaggio e dell’ambiente che oggi regna incontrastata, nella realtà e nell’immaginario. D’altra parte la progressiva artificializzazione del corpo, dalle protesi alle medicine quotidianamente ingerite per gli scopi più disparati fino alla costruzione di identità fittizie in rete, sui social e nella Realtà Virtuale (RV), non può essere separata da quella del mondo che circonda l’individuo sociale. Come aveva già ben compreso James Ballard.

Il cyborg di Ballard non ha bisogno di impiantare fisicamente la tecnologia all’interno del proprio corpo. Quest’ultima, diffusa nel suo ambiente, agisce in lui direttamente a livello mentale, si inscrive nel suo sistema nervoso, con uno scambio tra l’interno e l’esterno che riattiva un processo simbolico a livello di tutto il corpo. Ma la civiltà industriale matura vive nell’apoteosi dell’esteriorizzazione prodotta dalla società mediatizzata e informatizzata, si crogiola nel trionfo della separazione analitica tra mente e corpo, coltiva l’illusione delirante di riunificare il mondo sotto un unico principio, lo sguardo oggettivo e impersonale della scienza, la logica dell’equivalenza astratta. In queste condizioni ogni riattivazione di un processo simbolico a livello del corpo non può avere che una conseguenza: l’impossibilità di leggere in modo “socialmente corretto” i codici di scrittura del comportamento, la rottura della “normalità sociale”, l’insorgere di quella che la medicina ufficiale chiama “malattia mentale”. E così è con i personaggi di Ballard, che, come spesso in Dick, solo attraverso la malattia, la perdita dell’identità, la confusione tra io e mondo, possono tentare di dare un senso alla propria vita e a tutto ciò che li circonda. Ma Ballard (e questo è uno dei suoi meriti) non descrive questi processi collocandosene al di fuori, non assume alcun punto di vista morale o nostalgico. Al contrario, mostra come tutto ciò non sia effetto di una logica estranea e alternativa, ma sia conseguenza ineluttabile dello sviluppo delle tecnologie e dei media, che nella loro ipertrofia aprono una contraddizione insanabile con i fondamenti della società che li ha prodotti3.

In realtà la separazione tra mente e corpo e l’unione tra corpo e macchina inizia ben prima dell’età dei media elettronici e della realtà virtuale. E’ stato Marx a sottolineare il processo di estraniazione e alienazione che ha accompagnato lo sviluppo industriale e la progressiva sottomissione del lavorato alla macchina, alla scienza applicata e al capitale. Motivo per cui l’idea del cyborg e del robot (termine slavo con cui si indica il lavoro mentre con robotnik si indica l’operaio) affonda le sue radici nello sviluppo della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze sociali, economiche, politiche e culturali.

Oggi sappiamo però anche che lo sviluppo della RV è andato molto più a rilento di quanto potessero immaginarsi Caronia o Ballard4, mentre lo sviluppo dei social media e dell’uso degli smartphone ha contribuito a creare un’autentica realtà “esterna”, in cui tutti gli utenti della rete possono diventare protagonisti e attori di un mondo virtuale dove tutto può accadere, essere vero e credibile all’interno di un sistema dato, anche se non del tutto definito, in cui tutte le informazioni possono essere o possono trasformarsi in fake news.

Ci accorgiamo che contemporaneamente al “declino” delle RV in quanto tali, c’è stata invece l’ascesa dell’aggettivo “virtuale”. “Virtuale” è una delle parole chiave di questi anni […] Che la vita dell’uomo, e tanto più quella dell’uomo contemporaneo, è a ogni istante sospesa fra l’attimo appena trascorso e una pluralità di eventi possibili, che non sta solo a noi, certo, trasformare in eventi “attuali”, ma il cui accadere ci appare molto più di prima legato alle nostre scelte […] Una cosa è certa: incomparabilmente più di quelle del passato, queste tecnologie [digitali] sono “tecnologie del possibile”: nel senso che rendono sempre più possibili eventi che sino a ieri apparivano impossibili, ma anche nel senso che tendono a “derealizzare”, a togliere alla “realtà” tradizionale, in primo luogo a quella materiale, quell’aura di unicità e di immodificabilità con cui ogni essere vivente su questo pianeta si scontra dalle origini della vita5.

Un sistema relazionale e diffuso in cui il corpo, attraverso i selfie e l’ostentazione continua dell’immagine di sé, diventa “virtuale” nel suo volersi mostrare giovane, affascinante, sensuale, aggressivo o disponibile all’incontro, all’avventura momentanea e alla notorietà fittizia. Una condizione in cui a trionfare è più Andy Warhol con i suoi 15 minuti di celebrità per ognuno che non le raffinate teorie estetiche degli artisti estremi del corpo e della realtà virtuale che si incontrano tra le pagine del libro di Caronia.

Il corpo è diventato “disseminato”, esattamente come titola uno dei capitoli del testo, l’ultimo, ma in forme diverse da quelle previste ventisei anni fa. Cosa che ancora si stenta a comprendere se, non accettando la definizione borghese di “Io”, si continua dimenticare il possibile utilizzo del pronome plurale “noi” per sostituirlo con la rivendicazione di infiniti “ii”. Come avviene, ad esempio, nel testo Cosa vuole Luther Blisset citato all’epoca da Caronia (p.192)

Come afferma Marcel-lí Antúnez Roca, nella sua postfazione:

L’era del lavoro si era aperta quando l’estendersi della rivoluzione neolitica aveva creato un sovrapprodotto sociale di dimensioni tali da richiedere la nascita di funzioni specifiche per la sua gestione e di gruppi separati addetti a tali funzioni cognitive e delle basi etiche su cui si fondava la convivenza degli aggregati umani […] Le “televisioni interattive”, i cinquecento canali, il “digitale” nella sua versione fieristica e industriale, non sono il primo passo per uscire dal neolitico, ma l’ultimo sussulto di un sistema di comunicazione gerarchico e funzionale a una società la cui perpetuazione significherebbe la bancarotta dell’umanità. Sarebbe una ben misera prospettiva se il corpo disseminato non fosse che lo sgabello con cui Bill Gates si issa sulla schiena del resto dell’umanità6.

Se quello della transizione dal corpo “naturale” e quello “virtuale”, in tutte le sue possibili declinazioni, costituisce il tema centrale del testo appena ripubblicato, in realtà la ricchezza dell’opera di Caronia apre ad una infinità varietà di argomenti, temi e critiche che, inevitabilmente, costringeranno il lettore ad aprire gli occhi, e la mente, su tutte le possibili conseguenze dell’artificiale ampliamento delle funzioni dello stesso. Sia a livello individuale che sociale.


  1. German A. Duarte, Prefazione a A. Caronia, Il corpo virtuale, Krisis Publishing 2022, pp. 11-12  

  2. G. A. Duarte, op. cit., p. 12  

  3. A. Caronia, op. cit., pp. 105-106  

  4. Per le idee di Ballard sulla RV si veda: J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e prefazione a cura di Sandro Moiso con un saggio di Simon Reynolds, Krisis Publishing 2019  

  5. A. Caronia, op. cit., p. 157  

  6. Marcel-lí Antúnez Roca, Postfazione a A. Caronia, op. cit., pp. 197-201  

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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Illusioni di benessere, incrostazioni di capitale https://www.carmillaonline.com/2015/10/06/illusioni-di-ricchezza-incrostazioni-di-capitale/ Tue, 06 Oct 2015 20:35:10 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=25815 di Sandro Moiso

Atlante_dei_classici_padani-2 Atlante dei Classici Padani, Un progetto di Filippo Minelli (a cura di Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi e Filippo Minelli), Krisis Publishing, Brescia 2015, pp. 720, € 60

Provate ad immaginare un non luogo della lunghezza di 400 chilometri e di circa 40.000 km quadrati di superficie, perché è di questo che si parla in questo testo. Ci troviamo forse di fronte ad un testo inedito di James Ballard o a quello di qualche suo epigono? No. Paradossalmente questo non luogo esiste. Si tratta della Macroregione Padana o, meglio, della Pianura che si estende dai piedi [...]]]> di Sandro Moiso

Atlante_dei_classici_padani-2 Atlante dei Classici Padani, Un progetto di Filippo Minelli (a cura di Francesco D’Abbraccio, Andrea Facchetti, Emanuele Galesi e Filippo Minelli), Krisis Publishing, Brescia 2015, pp. 720, € 60

Provate ad immaginare un non luogo della lunghezza di 400 chilometri e di circa 40.000 km quadrati di superficie, perché è di questo che si parla in questo testo.
Ci troviamo forse di fronte ad un testo inedito di James Ballard o a quello di qualche suo epigono? No. Paradossalmente questo non luogo esiste. Si tratta della Macroregione Padana o, meglio, della Pianura che si estende dai piedi delle Alpi piemontesi a Venezia.

Copre 1/8 dell’intero territorio nazionale e comprende più di un quarto della popolazione italiana.
Dal punto di vista della ricchezza accumulata e diffusa probabilmente di più ancora.
Un territorio sul quale si è letteralmente incrostato il capitale. Produttivo e non.
Un territorio esplorato, letteralmente ricartografato (basti pensare alle coordinate che accompagnano ognuna delle centinaia di fotografie, poco meno di un migliaio, che accompagnano il testo, costituendone il vero fulcro) e analizzato, nel corso di un lavoro durato anni, dai curatori dell’opera.

Filippo Minelli (fotografie) ed Emanuele Galesi (testi) con Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti (progettazione grafica e layout) non solo hanno realizzato un atlante di un enorme non luogo, ma hanno forse contribuito alla realizzazione del primo manuale di psico-geografia ed archeologia economica di un territorio sul quale, negli anni novanta del secolo appena trascorso, si aveva una densità economica media che andava dai 3 milioni e 200 mila dollari per kmq ai 21 milioni e 200 mila dollari sempre per chilometro quadrato.

Un’accumulo di lavoro morto (secondo la definizione data da Marx dei mezzi di produzione), di capitale morto che è documentata non soltanto dai dati di carattere economico e produttivo, ma dalla trasformazione visibile e fotografabile del territorio. Un territorio privato di qualsiasi altra identità, alla faccia di chi ancora esalta e difende i valori padani, che non sia quella della produzione e della messa in mostra della ricchezza accumulata ( e magari poi persa o dissolta nel corso delle ultime crisi).

In realtà una non identità che ha cancellato qualsiasi altra identità o memoria (di classe o storica che fosse) che non sia quella della produzione o del consumo (di qualsiasi tipo di merce). Un panorama che rimanda immediatamente ad altri come quelli anonimi e tutti uguali, che corrono dalla Costa Azzurra alla suburra metropolitana di Londra, descritti nell’ ultima tetralogia di James Ballard 1 oppure alle anonime autostrade e ai giganteschi anelli di congiunzione e collegamento che circondano e penetrano Los Angeles, creandone la sola e unica identità. Unica metropoli al mondo immediatamente riconoscibile non per un qualche monumento, ma soltanto a partire dai nastri d’asfalto, spesso sovrapposti, che la percorrono, la delimitano e la vivificano.

La Macroregione dei classici padani, ci avverte quasi in apertura il testo, ha una capitale. Milano, ”collocata al centro della Macroregione Centrale” e due sottocapitali: “Torino, capoluogo della Macroregione Occidentale […] e Venezia, capoluogo della Macroregione Orientale […] A collegare i tre principali centri politici, amministrativi e in parte anche economici c’è l’Autostrada A4, detta Serenissima […] la Grande Madre della Macroregione.Sommando gli abitanti della capitale e delle sottocapitali si arriva a tre milioni e seicentomila persone: le restanti tredici milioni che occupano la macroregione vivono in comuni medi, medio piccoli, piccoli e piccolissimi, nell’estesa urbanizzazione dispersa e diffusa che la caratterizza” ( pag. 33)

Un autentico regno dell’investimento, della produzione e del cemento che sembra aver sottomesso alle proprie esigenze qualsiasi altro fattore umano o ambientale. Le fonti ISTAT citate nel testo affermano che: “Il prodotto interno della Macroregione è di 600 miliardi di euro all’anno. Due terzi dei centri più ricchi appartengono alla Macroregione Centrale e la maggior parte di questi non supera i 10.000 abitanti” (pp. 210 – 211). “Per tutte e tre (MacroCentrale, MacroOccidentale e MacroOrientale), vale, anche dopo anni di crisi, una caratteristica generale: non c’è settore economico su cui non sia piovuta una prosperità soffocante, dall’agricoltura al commercio, dall’artigianato alla finanza. Non c’è il petrolio: la corsa all’oro, nella Macroregione, è stata fatta sfruttando le risorse direttamente disponibili: spazio, tempo e lavoro, inteso come fatica […] è un organismo alimentato dalla piccola e media impresa “ (pag. 208)

Ecco, proprio questi si rivelano essere i classici padani del titolo: lavoro, investimenti, produzione. A qualsiasi costo, così come la mentalità di un’artista ammalato di grandezza e assetato di successo potrebbe trasfondere nelle sue opere. E qui le opere sono e devono essere sempre Grandi Opere: “La condizione necessaria per l’avvio di ogni nuova opera intrapresa infrastrutturale è la sua smisuratezza. Fuori misura dal punto di vista economico, fuori misura dal punto di vista degli impatti sulle aree attraversate, fuori misura dal punto di vista dei benefici. L’enormità, l’incalcolabilità, la monolitica fuoruscita da qualsiasi scala di valori: caratteristiche che garantiscono all’infrastruttura una vita progettuale sufficientemente lunga perché si possa, per sfinimento o per la pretesa impossibilità di tornare indietro, realizzare l’opera” (pag. 134)

Lo spazio è qualcosa da riempire. Tutta la mentalità prodotta dalla e nella Macroregione sembra essere ossessionata dall’horror vacui, dal timore che possano esistere spazi non ancora messi in produzione, non ancora occupati oppure spazi non adatti all’investimento e quindi da valorizzare al più presto. Che poi ad occuparli siano capannoni, case, cartelloni pubblicitari, centri commerciali, infrastrutture o semplici rotatorie non importa. A differenza degli a solo di tromba di Miles Davis o della scrittura di Italo Calvino, qui non bisogna togliere nulla ma riempire, investire, costruire.

Non è mai stato compilato un censimento ufficiale, ma si stima che nella Macroregione Centrale le rotatorie costruite siano oltre 6.600: quasi 2.000 quelle lungo le strade provinciali, 4.650 quelle lungo le vie comunali” (pag. 156). Nell’intera Macroregione “si trovano circa otto milioni e mezzo di abitazioni, un terzo del totale dell’intero Paese, in cui risultano residenti mediamente 2,4 persone. Tra gli occupanti della Macro, il settanta per cento è proprietario di un alloggio: nella Piana e nella Pedemontania sono state piantate senza sosta bandierine in mattoni e calcestruzzo servite a diffondere identità basate sul possesso esclusivo e speculativo […] Ciò che resta invenduto o inutilizzato rappresenta mediamente un quarto del patrimonio edilizio esistente, con punte che superano il quaranta per cento in zone ultraedificate” (pp. 485 – 486)

La Macroregione senza cantieri non sarebbe Macro. Raccordi autostradali, innalzamento di tramezze, tubi delle fognature da sostituire, villette e palazzi a puntellare il paesaggio; è stata calcolata un’occupazione del suolo pari a otto metri quadri al secondo dagli anni Cinquanta ad oggi […] Il cantiere è segno di vitalità, secpmdo il vecchio adagio «quando la cazzuola fischia l’economia canta» e con lei intonano un Magnificat i coristi impegnati nei trasferimenti di denaro dal chiuso dei fondi bancari o dei doppifondi aziendali” (pag. 41)

Ma se la cementificazione allargata e selvaggia costituisce il tratto distintivo dell’intera area, accomunando villette a schiere, sexy shop, ville padronali integrate con l’azienda di famiglia e la piscina, mega-discoteche, locali per massaggi, parchi di divertimento e negozi per la compra-vendita dell’oro (tutti adeguatamente segnalati, fotografati ed ordinati nell’ambito dei diversi capitoli in cui il testo è suddiviso), sono le autentiche rovine post-industriali delle centinaia di capannoni abbandonati, dismessi oppure semplicemente mai utilizzati a rivelare il vuoto, l’inutilità e i danni psico-ambientali rilasciati dal sogno di un capitalismo che crea ricchezza per tutti, ma che tale non è.

Incompiuta, abbandonata, mummificata. L’archeologia della Macropoli è un tour nel disastro aziendale, tra le rovine del presente, lungo le file dei cadaveri urbani in putrefazione, in un macabro allestimento che allo spettatore dice ricordati che sei già morto. La Piana appiattisce tutto e tutto attorno non ci sono più indizi per capire in quale tempo ci si trovi, ogni cosa è diluita nell’Età della Grande Crisi e ogni settore partecipa attivamente all’esibizione delle atrocità 2 […] Edifici mai arrivati al tetto o da cui il tetto è stato rimosso per pagare meno tasse sugli immobili, edifici lasciati al loro lento disfacimento […] 220.000 nella Macroregione Centrale, centomila nella Macroregione Occidentale, centomila nella Macroregione Orientale: il calcolo dei posti di lavoro persi dal 2008 prosegue assieme a quello delle aziende chiuse. Nel 2013, anno della massima devastazione, se ne conteggeranno due all’ora” (pag.348)

La megalopoli padana è una divoratrice di spazio e di storia formidabile, semina distruzioni, cancella memorie. La produzione è una condizione necessaria per consentire agli uomini di abitare e alla megalopoli che li ospita per alimentare la propria esistenza” recita la citazione posta in quarta di copertina. Ma oggi cosa resta di questo sogno di dominio? Cosa potrà sopravvivere di una megalopoli che ha cancellato ed annullato qualsiasi separazione tra città e campagna, tra passato e presente e tra le classi per sostituirla, quest’ultima, con l’ansia per il mutuo, le tasse e lo straniero? Un unico cuntinuum con cui ha incrostato non solo il territorio, ma anche la psiche dei residenti. Una autentica gigantesca rete di relazioni e rapporti alle cui maglie è difficile sfuggire.

Così come nella pittura del Romanticismo l’artista esprimeva le proprie passioni e il proprio paesaggio interiore di sentimenti attraverso la riproduzione di paesaggi spesso cupi e tempestosi, oggi è il paesaggio della Macroregione a penetrare i sentimenti e a creare le passioni dei suoi abitanti. L’egoismo, il razzismo, il mal celato fascismo leghista sono il prodotto di questo territorio, non della sua storia. Alle spalle della Lega non ci sono i Celti, c’è il cemento.

Come ho affermato all’inizio, ci troviamo davanti alla conferma di una intuizione lettrista: quella della psico-geografia ovvero della possibilità di interpretare mentalità che non solo definiscono un territorio, ma che ne sono a loro volta determinate. La radicalità dello sguardo fotografico di Filippo Minelli ci ritrasmette un’immagine priva di presenze umane, quasi a volerci suggerire che la personalità o la mentalità viene definita da ciò che l’occhio può cogliere. Mentre ciò che l’orecchio percepisce, in questo caso, non può essere altro che il rumore di fondo prodotto dalle officine e dalle autostrade. Entrambe sempre più silenziose.

Un‘opera unica, oserei forse dire monumentale. Una straordinaria mappatura del disagio esistenziale ed ambientale prodotto dal capitalismo e spacciato, ormai da troppo tempo, come benessere. Un’opera in cui la fotografia dell’esistente, cogliendo il rictus scambiato troppo spesso per sorriso, si trasforma in un vero e proprio atlante di anatomia patologica di una società ormai entrata nella fissità del rigor mortis. Il prezzo è elevato, ma occorre tener conto, oltre che delle sue caratteristiche e dimensioni, anche del fatto che potrebbe costituire un’ottima strenna natalizia per chiunque si senta respinto o nemico del modo di produzione oggi ancora dominante.

Brevi note sugli autori e curatori del testo:

Filippo Minelli (Brescia 1983) è un artista contemporaneo che analizza e ricerca tematiche in campi come l’architettura, la politica, la comunicazione e la geografia utilizzandole come base per la creazione di installazioni e performances documentate attraverso fotografia e video.

www.filippominelli.com

Emanuele Galesi (Brescia, 1980) è un giornalista, lavora al Giornale di Brescia dove si occupa di cronaca locale affrontando temi amministrativi, politici e ambientali.

Krisis Publishing (Francesco D’Abbraccio e Andrea Facchetti) è un progetto editoriale nato in seno all’attività di Unità di Crisi, collettivo di graphic designer e teorici della comunicazione già editori di Krisis Magazine. K | P investiga il ruolo dei linguaggi visivi nella contemporaneità.

www.krisispublishing.com


  1. Cocaine Nights, Baldini Castoldi Dalai 1997; Super–Cannes, Feltrinelli 2000; Millenium People, Feltrinelli 2004; Regno a venire, Feltrinelli 2006  

  2. Ancora una volta la mente di chi legge non può fare a meno di correre a James Ballard e ai suoi romanzi La mostra delle atrocità, Rizzoli 1991 e Crash, Rizzoli 1990  

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Nightfall https://www.carmillaonline.com/2015/08/09/nightfall/ Sun, 09 Aug 2015 04:58:42 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24379 di Alessandra Daniele

Sòla-verdeLa Lega è stata al governo con Berlusconi per più di dieci anni. Ha avuto una decina di ministri chiave, fra cui quelli dell’Interno, del Bilancio, dell’Industria, del Lavoro, dell’Agricoltura, dei Trasporti, della Giustizia, della Salute, e delle Riforme. Ha avuto centinaia fra sottosegretari, sindaci, assessori, governatori, e boiardi. La Lega è ancora al governo in molte zone del Nord. Eppure Matteo Salvini riesce regolarmente a spacciarsi per un outsider rivoluzionario. Realizzando ogni giorno il suo compito di dirottare l’incazzatura degli italiani sugli immigrati, convincendo gli elettori che la [...]]]> di Alessandra Daniele

Sòla-verdeLa Lega è stata al governo con Berlusconi per più di dieci anni. Ha avuto una decina di ministri chiave, fra cui quelli dell’Interno, del Bilancio, dell’Industria, del Lavoro, dell’Agricoltura, dei Trasporti, della Giustizia, della Salute, e delle Riforme. Ha avuto centinaia fra sottosegretari, sindaci, assessori, governatori, e boiardi. La Lega è ancora al governo in molte zone del Nord.
Eppure Matteo Salvini riesce regolarmente a spacciarsi per un outsider rivoluzionario. Realizzando ogni giorno il suo compito di dirottare l’incazzatura degli italiani sugli immigrati, convincendo gli elettori che la principale causa delle loro sofferenze non sia la parassitaria classe dirigente della quale lui fa parte da sempre, ma i profughi appena arrivati che hanno il torto di non essere annegati tutti durante il tragitto.
Esattamente come Renzi, Salvini è un politico di professione. Dal 1993, quando fu eletto consigliere comunale di Milano.
Esattamente come Renzi, Salvini è un cazzaro.
Ed è proprio per questo che ha successo. Gli italiani ne hanno bisogno. Il Sóla delle Alpi è oggi il più vicino a sostituire nei loro cuori il fiorentino al tramonto.
Perché gli italiani non sopportano la verità.
La luce del giorno in realtà nasconde più di quanto non riveli: ci impedisce di vedere il cielo stellato, e capire com’è fatto davvero l’universo. Nel capolavoro di Isaac Asimov “Nightfall” gli abitanti d’un pianeta illuminato da sei soli hanno soltanto una notte ogni due millenni per scoprire di non essere il centro del cosmo, e in quella notte lo shock culturale ogni volta provoca il crollo della loro civiltà.
L’Italia ha bisogno di Re Sòla che nascondano la realtà. Come sul pianeta asimoviano, ai tempi della Prima Repubblica erano più d’uno, ogni fazione aveva i propri, e si davano il cambio nell’accecare gli italiani.
Poi è tornato il tempo dell’Uomo Sòla al Comando, e quindi degli interregni di crepuscolare smarrimento, e dolorosa, parziale, forzata consapevolezza.
L’Italia non è “un paese meraviglioso”.
Non è nemmeno un paese decente.
È una provincia arretrata e morente, dove i lavoratori sono carne da macello per un padronato arrogante e cialtrone, i diritti civili sono ostaggio delle paturnie sessuofobe delle gerarchie religiose, l’informazione è un coro quasi unanime di leccaculo ridicoli, e la percentuale di criminali presenti in parlamento supera probabilmente di gran lunga quella del Cocoricò.
È una provincia corrotta e disperante, dove in realtà neanche i profughi vorrebbero restare, ma solo transitare verso paesi più civili.
Leonardo e Michelangelo sono morti.
Da secoli.
E tutto quello che ci hanno lasciato di buono quei secoli marcisce nel degrado, mentre il consiglio d’amministrazione della cosiddetta “azienda culturale più importante del paese” è stato appena rilottizzato con la Cenciarri (Cencelli-Gasparri): tre renziani, tre berlusconiani, e uno competente per chiedergli cosa andrebbe fatto, e quindi fare esattamente il contrario.
Rendere la Rai ancora più servile però non salverà Renzi.
Nel crepuscolo italiano i sòla bruciano e si spengono sempre più in fretta.
La notte s’avvicina.

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