internazionale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Marx ai tempi di Marx https://www.carmillaonline.com/2020/06/23/marx-ai-tempi-di-marx/ Tue, 23 Jun 2020 21:55:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60897 di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella [...]]]> di Nico Maccentelli

Gennaro Imbriano , Marx e il conflitto, DeriveApprodi 2020, Collana Input 144 pp., 9,00 euro

Il pregio di questo breve saggio di Gennaro Imbriano sul pensiero di Marx è duplice: da una parte quello di essere un ottimo approccio per i neofiti ai temi centrali propri del marxismo… senza passare dal pessimo marxismo (1), ossia da quelle interpretazioni spesso dogmatiche e dottrinarie che hanno avuto il demerito di sclerotizzare Marx stesso ad opera dei più diversi diversi filoni politici. Imbriano ci presenta un pensiero depurato da quella pletora di “eterne verità” estrapolate dai classici, dalle conclusioni politiche postume, che hanno il solo scopo di legittimare determinati eventi politici e scelte dei partiti e delle organizzazioni marxiste nel corso di oltre 150 anni di storia del movimento comunista.

Dall’altra Marx e il conflitto è una sintesi organica dell’impianto teorico marxiano nel suo divenire, dai Manoscritti economici e filosofici del 1844 fino al Das Kapital. Costituisce una cassetta degli attrezzi per chi intenda riprendere in modo proficuo, ossia rivoluzionario e anticapitalista, l’antagonismo di classe nell’epoca storica odierna, quando il comunismo sembra finito nel binario morto della storia o sopito dentro il mare magnum di un pensiero unico che ha espunto da ogni contesto la sua narrazione attraverso le solite vulgate a cui siamo fin troppo abituati, imponendole nell’intera koinè come un mantra, riducendo il comunismo come esperienza (che poi è il socialismo) a crimine o la sua possibilità di giustizia sociale a utopia.

Eppure le rivolte popolari che stanno attraversando il mondo, che esprimono quanto la miseria e l’alienazione del capitalismo sulle masse stia arrivando a punti di insopportabilità e sofferenza, rendono il comunismo un processo storico-sociale immanente, sempre possibile. Ecco perché il ritorno ai fondamentali originari, la possibilità di ripartire da Marx in modo agevole come offre questo pamphlet, significa riprendere le questioni fondamentali che pertengono chi vuole cambiare il mondo e non solo interpretarlo: quel materialismo storico e dialettico che consente di effettuare quelle espansioni di ragionamento che si basano sull’analisi concreta della situazione concreta e non sui procedimenti speculativi rovesciati per adattare la realtà al pensiero.

Ecco perché proverò in questa recensione ad avviare un paio di spunti espansivi che ci fanno capire come l’impianto teorico marxiano sia ancora attuale e si configuri come un apparato di categorie filosofiche ed economico-sociali che rappresenta una vera e propria guida per la comprensione della realtà con lo scopo di cambiarla e non di interpretarla a nostro uso e consumo per adattarla in modo consolatorio, catastrofista, o liquidazionista all’esistente.

Karl Marx

E infatti, il primo punto che troviamo nel lavoro critico di Imbriano su Marx è la questione che Marx affronta contro i giovani hegheliani di sinistra, principalmente Bruno Bauer: un materialismo puramente astratto, élitario, completamente scollegato con la materialità dei rapporti sociali.
È il Marx dell’operaio, del lavoratore salariato a conquistare la scena storica della rivoluzione sociale, poiché al centro della sua visione c’è la “società civile”, la potenza sociale della sua riproduzione e la materialità dei rapporti sociali. Non dunque un’autonomia del politico avulsa dalle condizioni sociali e materiali in cui vive l’essere umano, un’aporia che quindi separa lo Stato e la politica da queste condizioni sociali, ossia più in specifico dai rapporti di produzione, dalla loro relazione contraddittoria con le forze produttive della società.

La “vicenda teorica” in progress di Marx scardina queste concezioni metafisiche e idealistiche della sinistra dell’epoca, che partono da Bauer e Feuerbach per arrivare a Proudhon per mettere al centro di ogni categoria di pensiero per l’azione la centralità del sociale, individuando tre elementi fondamentali che fanno giustizia di ogni velleità politica e religiosa: la centralità della produzione, la divisione sociale del lavoro e la lotta di classe.

In Marx, il concetto di “società civile” è il prodotto storico di questo sistema di relazioni. Non esiste una politica che governa la “natura umana”, perché la natura umana si incarna in un rapporto sociale ed è il rapporto sociale (di produzione e riproduzione), la sua potenza a determinare la politica, non viceversa. La politica quindi non può essere concepita al di fuori dei rapporti di classe. Si capirà che all’epoca una simile impostazione filosofico-politica era indigesta persino per quell’intellettualità che scambiava il proprio filantropismo per lotta progressista contro i regimi reazionari del tempo.

A chiosa di questa analisi critica del Marx in dissidio con l’hegelismo di sinistra e il proudhonismo, Imbriano rileva un aspetto importante:

“Questi elementi non ci segnalano soltanto la differenza marxiana rispetto al pensiero «critico» del suo tempo, ma anche la sua alterità rispetto alle forme più o meno mutate nelle quali quel pensiero si reincarna oggi. Se l’opposizione al dominio del capitale diventa mera politica della cittadinanza (inconsapevole della centralità della sfera sociale), lotta redistributiva (affascinata dall’idea che il momento dello scambio sia costituente e che produttive siano le sue figure sociali di riferimento), battaglia culturale per l’affermazione delle idee che si atteggia in superiore distacco dalla massa (presunta) inconsapevole, pratica del dialogo tra interessi inconciliabili (che elimina l’organizzazione del conflitto dal suo orizzonte), esso si pone definitivamente al di fuori del riferimento marxiano, e dunque si rende incapace di diventare vera alternativa.” (1)

Una prima espansione analitica parte dunque dalla critica della concezione metafisica che vuole la politica come soggetto che meccanicisticamente plasma il mondo.
 Infatti, in questa considerazione ci sta l’eterna aporia dentro la sinistra tra una politica (oggi “dirittoumanitarista”) che si svincola dal nucleo centrale della sfera sociale: il lavoro, ossia il rapporto capitale/lavoro, la lotta tra classi sociali che ha la sua base politica proprio nella sfera della produzione e riproduzione materiale della società e dei rapporti sociali che determina, e una politica rivoluzionaria, radicale (nel senso che va alla radice elle contraddizioni materiali e sociali) che è consapevole del fatto che non di storture sociali si tratta quando parliamo di neoliberismo, patriarcato, militarismo, razzismo, ma le modalità con le quali il capitalismo stesso si riproduce, ciò che gli consente di esistere ed affermarsi nel pianeta. Sono le espressioni sociali e politiche del dominio capitalista nell’epoca attuale, operate dagli organismi politici e dagli apparati statuali delle classi dominanti. Se si pensa che la politica abbia una sua vita propria, sganciata dai rapporti sociali, si finisce per ridurla a uno strumento innocuo e ininfluente.

Questo è uno dei motivi per i quali oggi abbiamo una sinistra che si è adeguata al pensiero unico neoliberale scavandosi tutt’al più delle nicchie “umanitarie” che sono del tutto inoffensive per il dominio capitalista, armi spuntate contro le sue politiche discriminatorie e prevaricatrici che rimandano sempre e comunque alla guerra dall’alto verso il basso che le forze capitaliste portano avanti per mantenere il rapporto capitale/lavoro soddisfacente per la realizzazione di plusvalore. Migranti, condizione femminile, precariato, differenze etniche, sono tutte condizioni sociali e di classe determinate da questa guerra non dichiarata e costante sul corpo sociale del proletariato.
 E se andiamo a vedere la tara “genetica” di questa sinistra imbelle dobbiamo risalire a Proudhon, a Bauer, a concezioni metafisiche della politica che storicamente si ripresentano.

Uno snodo fondamentale è stata la trontiana “autonomia del politico”, che per quanto possa aver influito nella sinistra italiana, ha fatto più danni di quello che potremmo supporre, se guardiamo a una sinistra-partito leggero da salotto, che governa a colpi di decreti, che ben prima della Bolognina si è distaccata da espressione politica delle classi popolari a partir dal proletariato. Che è arrivata a sostenere la fine delle classi sociali e l’obsolescenza di categorie sociali come “proletariato” e la fine della spinta propulsiva al “socialismo”, assumendo in pieno l’orizzonte metafisico di un capitalismo eternizzato, dove esistono solo individui e gruppi sociali orientati a lottare davanti a un ascensore sociale inesistente. Che ha assunto il solo punto di vista dei capitalisti (le aziende) spacciandolo per interesse nazionale.

Altra aspetto critico riguarda Proudhon:

“Marx definisce «conservatore», il cui limite consiste nel fatto di spacciare una sostanziale accettazione dello status quo, che si esprime in un’acritica esaltazione del libero commercio tra liberi individui, per egualitarismo rivoluzionario.” (2)

“Marx scopre che esiste una divisione sociale del lavoro sulla base della quale una parte della società può esercitare la teoria perché è dispensata dalla fatica materiale. L’intellettualismo (il disprezzo per la massa e per la prassi) è la conseguente assunzione che il sapere (e più in generale i processi dell’autocoscienza) siano la chiave fondamentale per agire le trasformazioni: nessuna idea più retriva, agli occhi di Marx, e intrisa di presupposti classisti. Ugualmente errata è la visione di quanti assumono la centralità del politico. Si tratta, per Marx, di un errore strategico, che conduce inevitabilmente il pensiero critico (o presunto tale) nei vicoli ciechi della riedizione in forme nuove del politicismo”. (3)

Infatti Marx, spiega Imbriano, si è molto soffermato sulle illusioni proudhoniane (Miseria della filosofia), come se il libero scambio tra produttori senza considerare il nucleo essenziale del rapporto sociale di produzione, la produzione di plusvalore attraverso il pluslavoro, non sia il vero nodo economico da cui discende la connotazione sociale dei rapporti tra classi, come se questo incessante processo di produzione e riproduzione sociale, non sia rapporto sociale esso stesso, non sia la base dei rapporti sociali di classe. La riflessione critica dunque viene portata a un socialismo “su misura” per i piccoli produttori, che tutt’oggi produce ricadute riformistiche del tutto interne al solco politico e di governance economica neoliberale.

Pierre Joseph Proudhon

Un’espansione analitica che è possibile sviluppare può benissimo richiamare i cosiddetti “ceti medi” di togliattiana memoria. Non intendo sostenere che esistono agganci teorici diretti tra l’impianto analitico proudhoniano e quello del PCI sulla “democrazia” progressiva e l’alleanza con i ceti medi nel secondo dopoguerra. Tuttavia questa impostazione riformista è stata la base strategica dell’approdo filo-capitalista di un partito che nei suoi feudi come l’Emilia “rossa” ha trasformato la partecipazione operaia, il cooperativismo e il sostegno alle piccole e medie imprese in un grande laboratorio economico pro-capitalista a cavallo degli anni ’70 – ’80, con il decentramento produttivo e la scomposizione di classe. Un laboratorio che prosegue anche oggi con il terzo settore che va a sostituire il pubblico e persino le cooperative nella gestione dei servizi sociali e socio-sanitari. (4)

Che medesime a quelle di Proudhon siano le illusioni proprie di una piccola borghesia espresse in un apparato di partito sull’emancipazione sociale “armoniosa”, senza conflitto, estese a un universalismo autoreferenziale, mi pare piuttosto evidente. A questo pantano ideologico idealista ha condotto la lunga marcia del PCI dentro le istituzioni e nella società capitalista italiana dal secondo dopoguerra. A cui faceva da contraltare un totalitarismo repressivo contro i movimenti.

Questa espansione analitica è importante per superare l’analisi superficiale di certa ortodossia marxiana, il “berlinguerismo pentito”, di chi riduce tutta la questione dell’abbandono della prospettiva rivoluzionaria da parte del più grande partito comunista dell’Occidente alla dichiarazione di Berlinguer sulla fine della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre e al riconoscimento dell’ombrello NATO. Senza ovviamente analizzare da un punto di vista di classe, ossia del ruolo di una tale forza politica nei rapporti sociali e di produzione, ciò che il PCI era diventato negli anni ‘70 nello svilimento di una lunga strategia politica che, almeno inizialmente, poteva avere una sua coerenza rivoluzionaria, pur discutibile. Questione che i neocomunisti o quelli di “stretta osservanza” si sono da sempre ben guardati dall’affrontare (cosa rifondi allora?), come se la Bolognina fosse solo un fatto politico.

In generale, anche oggi, l’ombra di Proudhon emerge di fatto nelle velleità riformistiche di una sinistra che s’intestardisce nel far rientrare pratiche economiche “virtuose”, surrogati di un associazionismo che nulla hanno che vedere con le cooperative e le casse operaie dei primi del ‘900, l’autoimprenditorialità che ha coinvolto anche esperienze autogestionali,  un mutualismo fine a se stesso, dentro gli schemi della riproduzione sociale e della catena del valore del neoliberismo selvaggio, accettandone logiche e dinamiche. Riconoscendo, così, di fatto, l’impossibilità di una rivoluzione sociale.

La parte finale del saggio di Imbriano affronta la questione della conquista del potere da parte del proletariato e della transizione al comunismo, ripercorrendo i passaggi del pensiero di Marx a partire dalle esperienze rivoluzionarie del 1848, con le considerazioni sviluppate nel 1864 nel documento d’inaugurazione dell’Internazionale e poi ancora fino alla Comune di Parigi del 1871 e alla presa di posizione riguardo al Programma di Gotha nel 1875. Una questione molto attuale di fronte al dilagare di un riformismo fine a se stesso persino nel campo della sinistra radicale odierna. (5) E che si riaggancia alla prima questione, quella sociale.

In definitiva, per chi vuole utilizzare questo pregevole excursus sul pensiero di Marx lungo direttrici di analisi orientate al conflitto di classe e alla transizione al comunismo, qui può trovare una vera miniera di spunti espansivi. Ma soprattutto un approccio ben attinente al pensiero marxiano, una guida per l’azione da parte del comunista di Treviri, che non era certo un esegeta della filosofia astratta, ma un vero militante antagonista ante litteram.

 

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NOTE:
1. Non è certo mia intenzione svilire questioni politiche ed eventi così complessi riguardanti la storia e la politica del marxismo novecentesco, che meriterebbero ancora oggi delle analisi approfondite; del resto anch’io sono parte in causa appartenendo a un filone politico del comunismo italiano. Il mio scopo è piuttosto quello di operare un’estraniazione da queste questioni per tornare alle fonti primarie, ossia al pensiero marxiano depurato dalle sue interpretazioni successive. E  il percorso tracciato da Imbriano in quest’opera mi pare un’ottima traccia, uno spacchettamento coerente e ragionato delle questioni rilevanti per Marx. Poi se altri intendono trovare altri spunti in altre opere: ben venga; quello che importante è uscire dalle contese da bar a cui assisto sui social tra i seguaci dei vari “…ismi” (e poi c’è chi si chiede perché non si riesce a costruire l’unità dei comunisti.)…

2. Marx e il conflitto, pag. 78

3. Ibidem, pag. 70

4. Se per Sergio Bologna, il lavoratore della conoscenza nell’era del taylorismo-fordismo non è tanto il chimico che entra a lavorare alla BASF, quanto il tecnico che organizza la produzione, il personale organizzativo che avvia la grande stagione della scomposizione di classe emiliana, nella segmentazione dei cicli di produzione possiamo identificarlo in una serie di soggetti interni agli apparati di partito e a quelli amministrativi della PA, fino al sindacato. Con una base sociale e produttiva in quei ceti medi togliattiani che “si sono fatti da soli” e che permeano tutto il sociale gestito dal PCI di quegli anni ’70 e ’80: dalle case del popolo alle associazioni di categoria, dai sindacati alle istituzioni locali, alle cooperative. Una base che diviene reazionaria nella ricerca di integrazione alla catena del valore del grande capitale, alle incessanti riconversioni produttive che hanno fatto del modello emiliano-romagnolo quell’agile piroga nelle trasformazioni economico-sociali di fine secolo della ristrutturazione capitalistica, e insieme quel rigido controllo sulla forza lavoro frammentata. Un modello integrato ai mutamenti neoliberali del capitalismo (agli albori della reaganomic) e non un’alternativa economico-sociale: né di sistema, né di riforma. Lo scontro con l’autonomia di classe non poteva che essere inevitabile. (https://www.youtube.com/watch?v=t1lk6DtlKxY&t=224s)

5. “Se interpretiamo bene le parole di Marx e quelle di Engels, sembra che l’entusiastico fervore per l’azione dei comunardi che «spezzano» il potere venga ora ricondotto nell’alveo di una più complessa valutazione. Spezzare questo potere, instaurare la Comune, il Gemeinwesen, è certo l’obiettivo rivoluzionario: ma ciò non può essere fatto nell’immediato, pena la sua inconsistenza. Prima, è necessaria la transizione: occorre marciare su Versailles, prendere il potere politico, schiacciare i propri nemici, imporre la socializzazione dei mezzi di produzione e tenere in vita la dittatura proletaria fino a quando il tempo della transizione non sarà concluso.” Marx e il conflitto, pag. 130-131

 

 

 

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Genealogia di un ologramma: Marcos, Galeano e noi https://www.carmillaonline.com/2014/09/21/genealogia-ologramma-marcos-galeano/ Sun, 21 Sep 2014 00:29:52 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17591 di Martino Sacchi

Subcomandante-Insurgente-Marcos-ahora-Galeano“Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”

Nel maggio di quest’anno un gruppo di paramilitari uccide in un’imboscata il maestro Galeano, figura di spicco all’interno dell’escuelita zapatista, un progetto che nel corso del 2013 aveva aperto le comunità zapatiste a migliaia di attiviste e attiviste per farne conoscere i [...]]]> di Martino Sacchi


Subcomandante-Insurgente-Marcos-ahora-Galeano“Iniziò così una complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un malizioso trucco del nostro cuore indigeno, la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione. Incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”

Nel maggio di quest’anno un gruppo di paramilitari uccide in un’imboscata il maestro Galeano, figura di spicco all’interno dell’escuelita zapatista, un progetto che nel corso del 2013 aveva aperto le comunità zapatiste a migliaia di attiviste e attiviste per farne conoscere i percorsi d’autonomia. Pochi mesi dopo l’attacco paramilitare, esce il comunicato Entre Luz y Sombra (tra la luce e l’ombra) in cui Marcos si destituisce enigmaticamente come portavoce del movimento zapatista, per ricomparire sul palco pochi secondi più tardi come “Subcomandante Galeano”.

Entre Luz y Sombra non è però una semplice commemorazione di un compagno ucciso: parlando di Galeano, il comunicato ripercorre l’intera storia della lotta zapatista. Ripensando a questa storia sembra che, fin dalla presa di San Cristobal de Las Casas nel 1994, Marcos abbia costituito in qualche modo la cartina tornasole di questa lotta: è stato leader militare dell’EZLN, “delegato zero” durante la Otra Campaña (che si opponeva dal basso alla campagna elettorale per le elezioni politiche del 2006), è stato a lungo la faccia senza volto che appariva sui media globali e potente simbolo per movimenti politici da tutto il mondo. Eppure, nel comunicato del maggio scorso, il portavoce dell’EZLN dichiara: “se posso definire il personaggio di Marcos, direi senza indugio che è stato una montatura”. Nient’altro che un “trucco”, un “ologramma”, dunque. Ma c’è di più: questa “montatura”, dopo la escuelita, non è nemmeno più necessaria. Affinché Galeano possa continuare a vivere, un altro dovrà morire, e sarà proprio Marcos. Ma attenzione: ciò che la morte si porterà via al posto di Galeano non sarà “una vita, ma solo un nome, poche lettere prive di senso, senza storia propria, senza vita”.

Cosa è cambiato con l’escuelita zapatista? Cosa significa la “morte” di Marcos? Che cosa è Marcos? Per comprendere l’intelligenza politica di una scelta tanto misteriosa si potrebbe quasi fare una genealogia di questo “trucco” chiamato Marcos: cioè una storia dei modi attraverso i quali il movimento zapatista si è letteralmente reso intellegibile a sé stesso e al mondo. Quando gli indigeni occuparono San Cristobal nel 1994 come un “esercito di giganti”, dice il comunicato, “ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio con addosso un passamontagna, ovvero, non guardavano”.

Fu così che questo esercito di giganti si ritrovò costretto a inventare “qualcuno piccolo come loro” affinché attraverso di lui, il mondo intero potesse vederli: “incominciò allora la costruzione del personaggio chiamato Marcos”.   E’ una storia vecchia quanto il colonialismo: è la storia che lega capitalismo e modernità in una geografia fatta di centri europei e periferie coloniali, in cui tutto ciò che sta alla periferia esiste solo attraverso le parole di chi sta nel centro. Ma è anche una storia di classe, di “quelli in basso” contro “quelli in alto”, di razza, dei “meticci” e degli “indigeni, e di genere, delle mujeres rebeldes e del patriarcato messicano. Ecco che possiamo porre una prima tesi: ciò che per un certo periodo si è chiamato “Marcos” è stata la mediazione necessaria affinché questa molteplicità di storie divenisse strumento di ribellione per popoli che sono sistematicamente spossessati di ogni strumento: primo fra tutti il linguaggio, la facoltà di parlare ed essere compresi, di denunciare, urlare per dire “non può continuare così”.

Ma se Marcos è questa mediazione, in che senso ora, dopo l’escuelita, non è più necessaria? Per capirlo è utile notare come, facendo questa genealogia dell’ologramma-Marcos, incontriamo due tipi diversi di rotture, di discontinuità, di cambiamenti nel modo in cui lo zapatismo si è presentato nel corso della sua storia.

Ci sono discontinuità verso l’esterno. C’è, ad esempio, un superamento della tradizione avanguardista e guevarista a lungo centrale in Latinoamerica, così come della non-violenza della teologia della liberazione: entrambe tradizioni che hanno influenzato lo zapatismo. In questo senso è anche significativo che l’insurrezione zapatista scoppi nel contesto della sconfitta sandinista nel 1990 e l’affermarsi del capitalismo neoliberale.

galeano vive marcosDall’altro lato, e questo è l’elemento più importante, lo zapatismo ha posto delle discontinuità dal suo interno. In parole più semplici, è un movimento che è stato capace di reinventarsi costantemente, dettandosi da solo i tempi di questo cambiamento. Spesso, qui in Italia, ci interroghiamo sulla difficoltà di uscire da una logica “reattiva” rispetto al potere: notiamo come il nostro mobilitarsi sia spesso la “risposta” a uno sgombero, a degli arresti o a un corteo nazionale di cui, anche quando delle contraddizioni esplodono, abbiamo difficoltà a trattenere la potenza politica. Ecco, potremmo dire che lo zapatismo ha saputo dare una durata a questi momenti di rottura senza per questo rimanere sempre uguale a sé stesso. Ma soprattutto, ha saputo decidere i tempi e gli spazi di questo cambiamento, la sua “geografia” e il suo “calendario”, in maniera autonoma.

Proseguendo nella nostra genealogia, ci accorgiamo quindi che questo processo di cambiamento politico coincide anche con un progressivo decentramento della figura di Marcos che, da leader-simbolo negli anni ‘90 diviene progressivamente marginale: niente più che un “trucco” o “ologramma” dopo l’escuelita di quest’anno. Fare una genealogia dello zapatismo significa dunque cercare di comprendere la relazione tra questi due movimenti: il decentramento di Marcos da un lato, le forme di autorganizzazione dall’altro. E’ attraverso la messa in relazione di questi due processi, quasi due facce della stessa medaglia, che è possibile cogliere l’autonomia zapatista.

Senza entrare troppo nei dettagli, possiamo semplicemente dire che il progressivo decentramento di Marcos corrisponde a un decentramento dell’Esercito Zapatista (struttura tutt’ora gerarchicamente militare) e alla venuta in primo piano della base sociale (della popolazione delle comunità, le cosiddette “bases de apoyo”).

Nel 2003 già nascevano le Giunte di Buon Governo, istituzioni municipali che si prendevano carico dell’amministrazione dei territori occupati secondo il principio del “comandare obbedendo”. Le Giunte di Buon Governo sostituivano gli aguascalientes, luoghi in cui la base sociale incontrava l’esercito zapatista, e ponevano al centro dell’agenda politica le pratiche quotidiane dell’autogoverno nelle comunità. Le Giunte del 2003 sono quindi una delle discontinuità che scandiscono questo doppio movimento dell’autogoverno e del personaggio-Marcos.

Si tratta di un processo che attraversa la storia dello zapatismo fin dal periodo di clandestinità negli anni ‘80, quando un manipolo di guerriglieri marxisti leninisti arrivano nella selva e decidono di imparare dagli indigeni anziché semplicemente “organizzarli”, e che giunge fino a noi e alla escuelita, durante la quale gli attivisti non hanno incontrato i quadri dell’esercito ma proprio la popolazione comune. Nel 2006, con la Otra Campana e la Sexta Declaracion de la Selva Locandona, incontravamo una ulteriore discontinuità: fine di ogni speranza di contrattazione con le istituzioni e sempre più forte legame con i movimenti anticapitalisti globali.

L’escuelita del 2013-14 è dunque l’ultima di queste continue riconfigurazioni del progetto politico zapatista. Si tratta, in sintesi, di un progressivo costituirsi di un soggetto collettivo, dotato di un proprio linguaggio, calendario e geografia, e di cui Marcos è stato tanto lo strumento quanto il prodotto.

Eppure c’è nell’escuelita e nel comunicato Entre Luz y Sombra qualcosa di particolarmente importante, che getta luce su tutte le precedenti discontinuità (ne ho citate alcune arbitrariamente e a titolo di esempio). Anche dopo questa simbolica morte di Marcos e rinascita di Galeano, morte di un nome che troppo a lungo è stato associato a una leadership, è chiaro che la persona-Marcos continuerà a svolgere un ruolo chiave nella lotta del sud-est messicano. Ma ciò che è importante capire è la sostanza estremamente materiale di questo ologramma: i tanti modi verticali attraverso cui lo zapatismo si è rapportato con il potere e con il mondo, avevano sempre delle condizioni di possibilità orizzontali nelle reti di cooperazione e autogoverno che venivano sperimentate nei pueblos della gente comune.

Lo scontro verticale con il potere e con i media che, come si è detto, “sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione”, ha potuto esistere solo grazie a qualcosa che stava fuori da questo teatro mediatico, cioè l’apprendimento quotidiano all’autorganizzazione. Il 21 dicembre 2012, anno della fine del mondo seconda la tradizione Maya, gli zapatisti hanno nuovamente invaso San Cristobal dopo dieci anni in cui poco si è saputo di loro fuori dal Chiapas. Ma a differenza del 1994, l’hanno fatto in silenzio e senza armi.

Questo non è pacifismo, ma la potenza silenziosa di chi sa che ora ha le forze materiali per smettere di parlare il linguaggio mediatico che è stato a lungo costretto a utilizzare per farsi ascoltare. Nella marcia silenziosa, il personaggio-Marcos già moriva, non più necessario: negli anni di silenzio, le pratiche di autogoverno si erano sviluppate. Si trattava ora di mostrare che fuori dai riflettori mediatici un altro tempo di lotta aveva continuato a battere nelle comunità. Si trattava di mostrare ciò che a lungo e in silenzio si andava ancora costruendo, passo a passo, con tentativi e ripensamenti. E così, venne inaugurata una “piccola scuola zapatista”.

Ovviamente uno scontro “verticale” con il potere e i media c’è sempre stato e continuerà ad esserci, come la guerra paramilitare e la morte di Galeano ha mostrato. Ma è sul piano “orizzontale” e quotidiano che la risposta politica viene messa in pratica. L’escuelita zapatista non è stata una piattaforma politica tra realtà di movimento e quadri dell’EZLN, ma un momento in cui gente qualsiasi è stata ospitata in casa da indigeni zapatisti. Anziché scrivere un manifesto politico ci si è sforzati di comunicare tra lingue diverse delle quali, questa volta, lo spagnolo coloniale era quella straniera e i dialetti indigeni quella quotidiana. Si è imparato che “tradurre” è sempre cosa complicata, sia che si tratti di una lingua che di una pratica politica.

Abbiamo lavorato nei campi, letto libri e condiviso il cibo, ma non per imparare un modello di autonomia da esportare nei nostri paesi di provenienza. Al contrario, abbiamo sperimentato la differenza e il duro tentativo di dialogo tra lotte e vite completamente diverse tra loro. Non conosco di nessuna altra rete di popoli in guerra nel mondo intero capace di un simile sforzo umano e organizzativo. Fa sorridere pensare come qualcosa di così vero, così fisico e palpabile, sia stato reso possibile da un “ologramma”, durato vent’anni.

“Avevamo bisogno di tempo per incontrare chi ci vedesse non dall’alto, non dal basso, ma di fronte, che ci vedesse con uno sguardo da compagni”

Ghost Track

[Due segnalazioni di libri sullo zapatismo, usciti in Italia recentemente e complementari. Il primo, di Alessandro Ammetto, osservatore attento della ribellione zapatista sin dai suoi inizi (Ed. Red Star Press, 2014), s’intitola Siamo ancora qui. Uno storia indigena del Chiapas e dell’EZLN ed è tra i testi più completi e dettagliati in circolazione sulla storia del movimento zapatista e sul contesto politico, storico e sociale che ha preceduto l’insurrezione del 1994 e che ha segnato tutte le evoluzioni successive della lotta. Il secondo, di Andrea Cegna e Alberto “Abo” di Monte (AgenziaX, 2014) completa la storia e la arricchisce di testimonianze dirette e recenti. Si basa sull’esperienza della escuelita ma anche sul raccordo di più voci di movimenti, media indipendenti e militanti tra Messico e Italia (tra cui il centro per i diritti umani Frayba, la Brigada Callejera di Città del Messico, Promedios, Centro de medios libres, alcuni storici comitati italiani e artisti solidali come Rouge, 99 posse, Lo stato sociale e Punkreas). S’intitola 20zln. Vent’anni di zapatismo e liberazione. F. L.]

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