intelligenza artificiale – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale/ 26 – La guerra post-umana https://www.carmillaonline.com/2024/09/22/il-nuovo-disordine-mondiale-26-la-guerra-post-umana/ Sun, 22 Sep 2024 20:00:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=84603 di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i [...]]]> di Sandro Moiso

Tra pace e guerra non esiste un sottile confine, ma una vasta zona grigia, dove gli stati danno vita a quella che viene definita competizione strategica, utilizzando in diverse combinazioni i quattro elementi che formano il potere di uno stato: diplomatico, militare, economico e informativo. Proprio quest’ultimo fattore, complice la pervasività delle tecnologie digitali, ha assunto una rilevanza senza precedenti. (Alessandro Curioni – Intelligenza artificiale, etica e conflitti, 21 settembre 2024 «il Sole 24 ore»)

Quando esploderà il mio cellulare? Molti di noi hanno cominciato a chiederselo perché in fondo quello che Israele, il Mossad, i suoi servizi segreti hanno fatto nei confronti di militanti di Hezbollah potrebbe essere usato contro di noi in una futura guerra. Altri nemici e altre potenze ostili potrebbero ripetere quel tipo di attacco attraverso gadget tecnologici disseminati nella nostra vita quotidiana e quindi: quando esploderà il mio cellulare? (Federico Rampini – Quando esploderà il mio cellulare?, Corriere TV 23 settembre 2024)

Valutare le cause, le conseguenze e il risultato ultimo dei recenti attacchi israeliani di carattere digitale ai militanti e ai capi di Hezbollah, è qualcosa che si potrà fare soltanto più avanti nel tempo. Anche se, a giudizio di molti esperti, al momento attuale gli assassinii mirati e il terrorismo impiegati dall’IDF e dai suoi ipocriti alleati americani non sembra essere in grado di piegare la resistenza e l’azione militare anti-sionista sia a Gaza che in Libano. Resta ancora aperta, poi, la possibile azione militare contro l’Iran che però, così come del resto in Libano una volta messi gli stivali per terra, richiederebbe il pieno e dichiarato appoggio militare statunitense ad una guerra sul fronte mediorientale.

Un’azione militare totale che, nella migliore tradizione statunitense e occidentale, ha però bisogno di una “giusta causa” ovvero di un attacco via terra e via aria diretto da parte del fronte sciita sul territorio israeliano. Cosa che al momento attuale gli interessati evitano per non cadere nella trappola organizzata da Washington e Tel Aviv e non soltanto perché indeboliti dai ripetuti attacchi mirati contro comandanti e membri delle loro forze armate. Che, comunque, nel 2006, nonostante le distruzioni portate in Libano dai bombardamenti dell’aviazione dello Stato ebraico, bloccarono e di fatto sconfissero le truppe israeliane costringendole al ritiro dopo un’avanzata di pochi chilometri sul suolo della terra dei cedri.

I guerrafondai, quelli che vogliono prendere il mondo a manate si dichiarano sempre innocenti. I disordini non li hanno inventati loro, diamine… Agiscono, reagiscono, si difendono. Non cominciano nulla, semmai sono gli altri…[…] Prendete Beniamino Netanyahu. Sguazza dasempre nella confusione.[…] La vendetta a Gaza è un rompicapo militare che, dopo un anno, appare senza uscita […] Allora che fare? Cambiare scenario, diversioni, nuovi campi di battaglia più arabili, un cocktail sciagurato a cui tutti coloro che sono a corto di idee purtroppo restano affezionati. Il turbolento fronte Nord è lì per questo. Netanyahu dunque ha bisogno che Hezbollah lo attacchi, i missili che cascano qua e là non bastano, sono ordinaria amministrazione. Non bastano a giustificare una rappresaglia colossale, una Gaza bis su cui si possa infierire in permanenza. […] Bene! Ma se gli sciiti della Bekaa non collaborano, non «scavalcano» la linea rossa? La necessità della vittoria stimola il desiderio e la capacità di darle una mano1.

Alle osservazioni del giornalista torinese occorre aggiungere soltanto che il tutto ha però bisogno anche di un peloso aiuto americano che, pur fingendo di cercare una soluzione altra al conflitto regionale, lo inciti all’azione. Magari per eliminare vecchi nemici come quell’ Aqil, responsabile di aver organizzato l’attentato contro la caserma dei marines a Beirut nel 1983. Come ha affermato il consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan: «E’ qualcuno che gli Stati Uniti avevano promesso di portare davanti alla giustizia molto tempo fa. Tante famiglie vivono ancora nel dolore provocato dalle sue azioni. E ogni volta che un terrorista che ha ucciso degli americani viene consegnato alla giustizia è un risultato positivo»2.

Inutile sottolineare come per il portavoce della Sicurezza nazionale “assicurare alla giustizia” e “assassinio mirato” siano di fatto sinonimi, atti soltanto a mascherare le azioni terroristiche portate avanti in tutto il mondo ormai da anni dalle forze armate statunitensi e israeliane, là dove occorre, per interposta persona. Ma queste riflessioni sulle motivazioni degli attentati in Libano e a Beirut, così come quelle sui maneggi delle borghesie arabe per liberarsi dell'”asse della resistenza” e indebolire l’Iran3, fanno ormai parte di una storia passata. La Storia di una terza (o quarta?) guerra mondiale già in atto e che soltanto il pieno dispiegarsi dello scontro tra Stati Uniti e Cina porterà al suo pieno compimento, anche per quanto riguarda il fronte ucraino.

Quello su cui occorre invece riflettere sono invece le nuove modalità di guerra imposte dall’evolversi dell’IA e del cosiddetto IoT (Internet of Things), Internet delle cose, alla guerra in atto. Guerra che se già ha prodotto l’uso su larga scala dei droni pilotati da remoto come micidiali strumenti di distruzione adottati su tutti i fronti delle guerre in corso e l’uso di missili di ogni tipo, genere ed età (dai razzi Katjuša di fabbricazione russa, risalenti ancora alla seconda guerra mondiale a quelli più recenti e ipersonici oppure alle cosiddette “bombe plananti” dotate di una certa intelligenza operativa nella scelta degli obiettivi da colpire una volta lanciate dai bombardieri), nel corso degli ultimi giorni ha visto un ulteriore salto di qualità, con l’uso di strumenti quali cercapersone, smartphone, computer o, come è stato segnalato ma senza certificazione ufficiale, pannelli solari, come armi.

Già da tempo si sapeva della possibilità di individuare soggetti e bersagli attraverso l’uso sprovveduto dei telefonini e degli smartphone, cosa per cui recentemente il leader di Hezbollah aveva consigliato ai militanti e responsabili operativi di utilizzare i cerca persone per tenersi in contatto, mentre Osama Bin Laden, Messina Denaro e Yahya Sinwar hanno sempre preferito comunicare per mezzo di “pizzini” consegnati a mano. Ma i recenti attacchi terroristici israeliani nei confronti di militanti, ma anche civili, libanesi hanno aperto una finestra sul possibile uso e le finalità intrinseche racchiuse nell’intelligenza digitale degli oggetti di uso quotidiano.

Certo, è possibile che l’operazione del Mossad e del gruppo 8200, l’Unità di guerra cibernetica capace d’intercettare tutto quanto viene detto o scritto sui canali di comunicazione nemici e alleati, attraverso cui è stato possibile colpire i vertici di militari di Hezbollah sia con i cercapersone che con i missili sganciati da due F 35 israeliani sul quartiere di Dahiya, alla periferia meridionale di Beirut, sia stata preparata con cura certosina nel corso di anni. Basterebbe infatti leggere un romanzo come La Tamburina di John Le Carré che, pur risalente agli anni Ottanta, è ancora estremamente utile per spiegare le sottigliezze, gli accorgimenti, la pazienza e le astuzie con cui i servizi israeliani operano in ogni angolo del mondo.

Ma tutto ciò non basta ancora: reti operative spionistiche e di intelligence e ditte fasulle prestanome costituiscono soltanto uno degli aspetti della questione. L’altro è costituito dalla diffusione delle tecnologie digitali che da strumento di possibile controllo si sono trasformate anche in strumenti da usare direttamente nel corso delle guerre. Sia tra gli Stati che civili, non solo più come indicatori della posizione di chi li usa, ma come autentiche armi.

D’altra parte, da tempo, si discute della sicurezza delle rete e degli oggetti ad essa collegati oppure della possibilità di incendio ed esplosione delle batterie al litio, sia che si tratti di smartphone oppure di auto elettriche.
La batteria dei cercapersone esplosi infatti dovrebbe essere una batteria al litio, esattamente come quella dei nostri smartphone. Per rispondere a questa domanda bisogna guardare a qualche caso di cronaca del passato Nel 2016 Samsung ha presentato il Galaxy Note 7, uno smartphone tra i più potenti usciti in quell’anno. Questo dispositivo è diventato noto alle cronache proprio per le esplosioni. Un difetto di fabbrica, presente soprattutto nei primi modelli commercializzati, provocava un surriscaldamento delle batterie. Da qui partiva un effetto a catena che portava prima le batteria a gonfiarsi e poi a prendere fuoco. Il problema era così evidente che alcune compagnie aeree hanno vietato ai passeggeri di portare il dispositivo sul mercato. Samsung alla fine ha ritirato il modello. Le batterie al litio che abbiamo nei nostri dispositivi elettronici non sono tutte uguali. In base alla tecnologia con cui sono costruite hanno reazioni diverse alle sollecitazioni esterne. […] Negli ultimi anni sono emersi diversi casi di incidenti che hanno coinvolto le Tesla. Parliamo di batterie diverse, sia per le dimensioni che per le composizione. Anche in questo caso però vediamo delle caratteristiche simili. In caso di incidente le batterie non sono direttamente esplose ma hanno preso fuoco4.

Tralasciando, però, i problemi collegabili all’uso delle batterie al litio, diventa necessario addentrarsi invece nel labirinto delle differenti applicazioni e intelligenze digitali usate quasi quotidianamente da tutti.

Mentre ci si interroga su quale sia il peso della guerra cyber nel conflitto tra Russia e Ucraina, basterebbe fare un piccolo sforzo di astrazione e proiettare in un futuro non molto lontano quello che vediamo a trarne una debita conclusione. Facciamo un passo alla volta e diamo uno sguardo a quale sarà il nostro radioso futuro grazie alle tecnologie dell’informazione. Con diverse velocità, tutti i Paesi del mondo sono proiettati verso la digital transformation, termine vago e utilizzato in maniera ondivaga. Forse sarebbe più comprensibile se si parlasse di grande convergenza, ovvero quel processo che progressivamente interconnetterà tutte le tecnologie digitali. In effetti esse sono più numerose di quanto si possa pensare e per anni sono state separate, alcune completamente altre meno. L’esempio più evidente riguarda il mondo IT, a cui appartengono software e hardware che la stragrande maggioranza delle persone utilizza per lavorare, e quello OT (Operational Technology), che comprende i sistemi industriali destinati a gestire milioni di macchinari e strutture compresi acquedotti, reti elettriche, impianti ferroviari. Un terzo ambito è l’Internet delle Cose, diciamo quelle più piccole: dalle prese elettriche ai termostati di casa per arrivare fino ai dispositivi di quella che si chiama telemedicina. Si tratta di una quantità enorme di oggetti (in Italia sono circa 95 milioni) accomunati tutti dall’aggettivo “smart”. L’obiettivo è l’integrazione di tutte queste tecnologie per raggiungere livelli di servizio e di efficienza impensabili. […] Ecco, alla fine, che giunge l’ultima e forse più potente delle tecnologie: l’intelligenza artificiale, sistemi specializzati e addestrati a gestire enormi basi dati per estrarre conoscenza e quindi suggerire la giusta decisione. Ecco la grande convergenza, e la sua apoteosi sarà rappresentata dalla Smart City5.

Che questi sistemi siano stati e siano tutt’ora facilmente attaccabili è cosa risaputa, anche se spesso il maggiore allarme proviene dai rischi connessi all’uso di dati personali e bancari oppure al sabotaggio hacker di reti di servizio. Pericoli segnalati con dovizia di particolare in riviste e articoli specializzati.

Ogni singolo sistema tecnologico che ho citato presenta dei punti deboli. I sistemi OT hanno cicli di vita molto lunghi, spesso pluridecennali: questo significa che i software che li supportano sono obsoleti e presentano delle vulnerabilità note che non saranno mai corrette. Una volta connessi a Internet saranno raggiungibili attraverso i sistemi IT, esponendo le loro debolezze potenzialmente a chiunque. Il mondo dell’Internet delle Cose è già popolato da svariati miliardi di oggetti, il più delle volte connessi in rete senza alcun tipo di autenticazione. Allo stato attuale la gestione dei dispositivi domestici è affidata nella maggior parte dei casi ai singoli cittadini che dovranno occuparsi anche degli aspetti di sicurezza. A tutto questo aggiungiamo l’intelligenza artificiale la cui fragilità è pari alla sua potenza. È stato dimostrato che modifiche nelle basi dati con cui vengono addestrate oppure nei dati di input le inducono a commettere errori molto grandi. […] L’accessibilità dei sistemi, la complessità gestita da molteplici intelligenze artificiali specializzate che dialogheranno tra loro e l’insieme delle diverse debolezze di ognuna delle tecnologie produrranno una moltiplicazione e dilatazione dei rischi proporzionale alle opportunità. Se c’è del vero nell’affermazione che le auto a guida autonoma potrebbero quasi azzerare gli incidenti stradali, altrettanta verità vi è nella considerazione per cui un malware inserito nei sistemi di aggiornamento delle autovetture smart potrebbe causarne in dieci secondi centinaia di migliaia. Ora possiamo trarre almeno quella conclusione di cui scrivevamo al principio ponendoci una domanda: per colpire una smart city saranno più efficaci ed efficienti i missili o i virus informatici6?

Secondo Federico Rampini, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden avrebbe messo al bando il software cinese installato sulle automobili, decisione che oltre a confermare l’escalation del protezionismo, è anche figlia dell’ultimo exploit del Mossad, poiché col passare dei giorni lo «sterminio dei nemici attraverso gadget tecnologici» ha suscitato altre analisi, ivi compreso nella comunità della difesa Usa.

Dal punto di vista strettamente tecnologico, infiltrare e manipolare a distanza degli apparecchi di uso quotidiano, non è una novità. Gli esperti hanno riesumato dagli archivi molti precedenti, israeliani e non. Gli stessi americani avevano fatto qualcosa di simile, che il mondo intero scoprì all’epoca delle rivelazioni di Edward Snowden: l’intelligence Usa aveva manomesso i cellulari di leader amici, tra cui l’allora cancelliera Angela Merkel, per intercettarne le comunicazioni. Un altro precedente celebre fu l’operazione israelo-americana che entrò nei comandi informatici di una centrale nucleare iraniana guastandola. E tuttavia quelli furono casi di uso «passivo» dei gadget, per fare spionaggio o sabotaggio, non per ucciderne gli utenti. L’exploit libanese (non rivendicato) del Mossad, pur non essendo veramente nuovo, ha oltrepassato numerose linee rosse: in termini di spettacolarità, e per il bilancio di vittime. Perciò ci si chiede se non abbia legittimato una nuova forma di guerra. La cyber-guerra del futuro, quella in cui ogni confine tra militari e civili sarà cancellato, le convenzioni internazionali diventeranno sempre più irrilevanti (non che siano mai state molto rispettate). La banalità degli oggetti in questione — i cerca-persone pre-smartphone — diventa un’aggravante. Perché non immaginare che qualcuno stia studiando di utilizzare a fini bellici i semiconduttori che fanno funzionare i nostri computer e cellulari così come i nostri elettrodomestici, praticamente ogni oggetto animato da memorie e circuiti elettronici? E le nostre automobili, per l’appunto, che ormai sono delle centraline digitali7.

Glenn Gerstell, per anni consigliere generale della National Security Agency, ha recentemente osservato sul «New York Times», a seguito degli attacchi israeliani, che le esplosioni sincronizzate di dispositivi wireless attivate dall’intelligence israeliana contro le milizie islamiche libanesi, rappresenta una impressionante anticipazione dell’accelerazione digitale della guerra. “Questo potrebbe essere il primo e spaventoso scorcio di un mondo in cui, in definitiva, nessun dispositivo elettronico, dai nostri cellulari ai termostati, potrà mai essere considerato completamente affidabile”.

Mentre Alessandro Curioni, esperto in sicurezza informatica ed ex- direttore del Centro di Ricerca IBM di Rüschlikon, si è spinto più in là nella riflessione immaginando come in un conflitto caratterizzato da una cyber war come quello in corso su più fronti anche le caldaie controllate da remoto potrebbero trasformarsi in micidiali strumenti di distruzione di interi stabili oppure di singoli appartamenti8, così come avvenne già durante il bombardamento di Dresda nel 1945 quando migliaia di persone morirono letteralmente bollite vive nelle cantine usate come rifugi antiaerei in cui avevano trovato riparo a causa del surriscaldamento e successiva esplosione delle caldaie a causa dell’innalzarsi della temperatura esterna dovuta all’uso di bombe incendiarie al fosforo da parte dell’aviazione alleata9.

Tutto ciò deve spingerci a riflettere su come tecnologie apparentemente docili e sistemi apparentemente intelligenti costituiscano in realtà, non per complotto programmato ma per semplice costrutto definito dal tempo in cui si vive, un autentico inserimento delle attività belliche in ogni ambito della vita civile, dimostrando come la guerra non costituisca un “errore” nel contesto del modo di produzione capitalistico, ma una costante mentre soltanto la cosiddetta pace, per quanto momentanea, può essere ritenuta “impropria”.

Ma oltre a questo ancora un’altra riflessione si impone a proposito di Intelligenza Artificiale e del suo uso così come è stato immaginato. Talvolta anche a “sinistra” e soprattutto in ambito fantascientifico. Una IA che se lasciata fuori controllo potrebbe essere causa di attacchi nei confronti della specie umana, ma che se usata con piena coscienza potrebbe costituire un’occasione evolutiva per la specie stessa e contribuire al miglioramento delle sue condizioni di vita e dell’organizzazione sociale. Sostanzialmente una visione culturalista, riformista e progressista che annulla l’azione di classe e della specie per il necessario ribaltamento politico delle strutture di governo ed economico-proprietarie legate all’attuale modo di produzione.

Un dibattito che fu particolarmente vivace, fiducioso e ottimistico, al limite della naiveté, nell’ambito del primo Cyberpunk e dei manifesti cyber degli anni Ottanta e Novanta, soprattutto a proposito dell’integrazione tra mente umana, rete e AI oppure della democrazia rappresentata dall’uso delle rete, che allora si andava appena delineando, e che ancora oggi attraverso il post-umanesimo o il trans-umanesimo oppure ancora per mezzo della corrente letteraria del Solarpunk si illude di poter utilizzare gli stessi strumenti per superare l’esistente senza per forza ricorrere agli obbligatori strumenti politici della lotta di classe e della rivoluzione.

Un dibattito di fatto reso nullo dall’attuale attività di controllo dell’enorme quantità di dati, Big Data, che da semplice strumento di controllo dei gusti e delle tendenze degli utenti dei social e di Internet si è trasformato in strumento di violenza e distruzione omicida, sia individuale che collettiva. Uno strumento totalmente sfuggito alle mani degli idealisti della rete e dell’IA e che ormai soltanto i signori del traffico delle informazioni e della guerra possono usare a proprio vantaggio.

Come dimostra anche il recente spostamento verso posizioni trumpiane e ultra-conservatrici, ma fa lo stesso per quelli ancorati al progetto “democratico” della Harris, dei miliardari più rappresentativi di quella che nel periodo sopracitato fu vista come l’utopia “hippie-cibernetica” della Silicon Valley californiana10, «dove esiste una nota “filiera” di innovatori direttamente collegati ad alcuni settori delle forze armate israeliane. Nei dintorni di Stanford e Palo Alto, Cupertino e Mountain View, cioè negli stessi luoghi celebri per i quartieri generali di Google, Apple e Facebook, esistono decine di società di cyber-sicurezza fondate da membri della Unit 8200, una divisione dell’esercito israeliano. È il modello che fu creato dal Pentagono con la Darpa, la sua filiale per il venture capital»11 che Israele ha portato all’ennesima potenza.


  1. Domenico Quirico, Quelle linee rosse disegnate apposta per costringere il nemico alla guerra, 20 settembre 2024 «La Stampa»  

  2. Paolo Mastrolilli, Israele-Libano, raid e missili. Gli Usa: “Evitare l’escalation”, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  3. F. Paci, Intervista a Gilles Kepel: “Netanyahu fa il lavoro sporco che nessuno vuole fare”, 23 settembre 2024 «La Stampa»  

  4. Valerio Berra, Perché non è possibile che i nostri smartphone esplodano per un attacco hacker, 18 settembre 2024.  

  5. A. Curioni, La convergenza fragile dei sistemi digitali e le opportunità del futuro, 7 aprile 2022 – «il Sole 24 ore».  

  6. Ivi.  

  7. F. Rampini, E l’America vieta il software cinese sulle auto, Corriere della sera 23 settembre 2024.  

  8. A. Curioni, La vera vulnerabilità è nell’Internet delle cose, 21 settembre 2024 «il Messaggero»  

  9. Su tale drammatico bombardamento, durato più giorni, si vedano: F. Taylor, Dresda. 13 febbraio 1945: tempesta di fuoco su una città tedesca, Arnoldo Mondadori editore, Milao 2005: J. Friedrich, La Germania bombardata, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004: W.G. Sebald, Storia naturale della distruzione, Edizioni Adelphi, Milano 2004; K. Vonnegut jr., Mattatoio n.5 ovvero la crociata dei bambini, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1970.  

  10. Si veda G. Riotta, Silicon Valley. In fondo a destra, 22 settembre 2024 «la Repubblica»  

  11. F. Rampini, cit.  

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La svolta sincretica digitale https://www.carmillaonline.com/2024/08/17/la-svolta-sincretica-digitale/ Sat, 17 Aug 2024 20:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82049 di Gioacchino Toni

Pietro Montani, Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, Milano 2024, pp. 116, € 12,00

Sulla scia del cinema e dei mezzi elettronici è sorto un modo di comunicare sincretico, in cui i segni grafici e le immagini si miscelano tra loro contemplando anche altri elementi espressivi (suono, gesto, scrittura…), che ha portato gli utenti del web a sviluppare una seconda alfabetizzazione. La stessa intelligenza artificiale generativa, del resto, deriva le sue produzioni da accoppiamenti tra immagini e definizioni verbali.

Per affrontare le immagini sincretiche dell’universo digitale contemporaneo, Montanti parte dalle intuizioni di mezzo secolo fa del [...]]]> di Gioacchino Toni

Pietro Montani, Immagini sincretiche. Leggere e scrivere in digitale, Meltemi, Milano 2024, pp. 116, € 12,00

Sulla scia del cinema e dei mezzi elettronici è sorto un modo di comunicare sincretico, in cui i segni grafici e le immagini si miscelano tra loro contemplando anche altri elementi espressivi (suono, gesto, scrittura…), che ha portato gli utenti del web a sviluppare una seconda alfabetizzazione. La stessa intelligenza artificiale generativa, del resto, deriva le sue produzioni da accoppiamenti tra immagini e definizioni verbali.

Per affrontare le immagini sincretiche dell’universo digitale contemporaneo, Montanti parte dalle intuizioni di mezzo secolo fa del mediologo Vilém Flusser a proposito dell’impatto trasformativo delle nuove tecnologie espressive e dalle ricerche della neuroscienziata e pedagogista Maryanne Wolf che l’hanno portata a sviluppare l’idea di “cervello bi-alfabetizzato”, addestrabile, cioè, oltre che all’apprendimento della scrittura alfabetica, ai nuovi sistemi espressivi sincretici utilizzati in internet.

Oltre a guardare alle proposte teorico-pratiche di Sergej M. Ejzenštejn e, più in generale, al cinema delle origini, come a passaggi propedeutici allo sviluppo degli attuali alfabeti espressivi digitali, Montanti ricorre agli studi dello psicologo Lev S. Vygotskij come base per un’indagine neuroscientifica degli habitus simbolici contemporanei. In particolare gli studi di quest’ultimo risultano utili per approfondire la natura multimodale dell’immaginazione umana e per studiarne i processi evolutivi nel loro intrecciarsi con le tecnologie dell’espressione, come il linguaggio verbale, la lettura e la scrittura.

Comparando le modalità compositive di The Waste Land di Thomas S. Eliot, nell’eterogeneità di frammenti che la compongono, con le tesi sull’efficacia delle forme sincretiche elaborate da Ejzenštejn nel medesimo periodo, Montani ribadisce «la centralità che nelle forme espressive sincretiche dev’essere riconosciuta al rapporto tra parola e immagine» e alle modalità che esso assume quando a farsene veicolo principale è l’immagine (come nelle opere audiovisive) o la parola (come nelle opere letterarie, soprattutto nel discorso poetico).

A distanza di un secolo da queste sperimentazioni, il sincretismo delle forme emergente con le nuove tecnologie digitali impone una riflessione sulla seconda alfabetizzazione. Dopo aver esaminato due casi di testi sincretici complessi – una grafic novel animata di Zerocalcare e alcune installazioni interattive del gruppo Studio Azzurro –, Montani si concentra sugli algoritmi in grado di generare immagini conformi a un input di carattere verbale indagando le problematiche emergenti dal sincretismo strutturale dei sistemi di intelligenza artificiale che lavorano su una “materia prima” composta da immensi dataset di immagini «di regola accoppiate a un’etichetta verbale e codificate come lunghe stringhe alfanumeriche».

Se può essere dato per assodato che dall’invenzione della scrittura è derivato un cervello alfabetizzato, dunque l’importanza delle nuove forme espressive sincretiche introdotte dal digitale nella costruzione di un cervello “bi-alfabetizzato”, resta però ancora da chiarire se il sincretismo dei sistemi ITT (Image to Text) e TTI (Text to Image) rientri tra le innovazioni tecnologiche in grado di influire sui processi di interiorizzazione degli esseri umani.

Insomma, «il modo di produzione di questo particolare sincretismo non sembra collegabile a specifici effetti neuroplastici limitandosi a modificare, anche se talvolta in modo massiccio, alcune pratiche […] connesse con l’uso delle immagini». Occorre verificare «se l’addestramento dei sistemi ITT e TTI abbia qualcosa in comune con quello grazie al quale noi umani impariamo a leggere e a scrivere, anche nel senso ‘esteso’ di queste espressioni che ci ha consentito di parlare in modo non metaforico di lettura e scrittura di immagini».

Secondo Montani il sincretismo delle immagini algoritmiche è, ad oggi, da considerarsi “inerte” alla luce del fatto che non è al momento in grado di «mettere a punto risposte al tempo stesso adeguate e innovative alle modificazioni e alle emergenze che si manifestano nel mondo-ambiente in quanto tale e non solo nelle immani raccolte di dati in cui la tecnologia digitale è in grado di convertirlo».

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Tecnopotere totalitario https://www.carmillaonline.com/2024/07/20/tecnopotere-totalitario/ Sat, 20 Jul 2024 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83157 di Gioacchino Toni

Cesare Alemanni, Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 184, € 17,00 (ebook € 9,99).

Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 206, € 18,00 (ebook € 9,99).

Considerato la tecnologia più importante e strategica al mondo ed essendo il manufatto più complesso mai prodotto serialmente e quello riprodotto nel maggior numero di esemplari, il motore di ogni astrazione del mondo contemporaneo, il microchip è divenuto talmente indispensabile da poter essere considerato una materia [...]]]> di Gioacchino Toni

Cesare Alemanni, Il re invisibile. Storia, economia e sconfinato potere del microchip, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 184, € 17,00 (ebook € 9,99).

Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, pp. 206, € 18,00 (ebook € 9,99).

Considerato la tecnologia più importante e strategica al mondo ed essendo il manufatto più complesso mai prodotto serialmente e quello riprodotto nel maggior numero di esemplari, il motore di ogni astrazione del mondo contemporaneo, il microchip è divenuto talmente indispensabile da poter essere considerato una materia prima attorno a cui gravitano le maggiori trame geopolitiche contemporanee.

A ricostruire il passato, il presente e il futuro del semiconduttore di cui non si può più fare a meno provvede il volume Il re invisibile di Cesare Alemanni che ne racconta i presupposti pre-informatici, dunque la nascita della microelettronica applicata al calcolo e di come l’industria dei semiconduttori sia divenuta una complessa filiera globale attorno a cui si sfidano Stati Uniti e Cina, non mancando di soffermarsi sull’importanza di un materiale come il silicio e di un isola come Taiwan, in cui ha sede la più importante fabbrica al mondo di chip.

Alla luce del fatto che la competizione geopolitica, soprattutto se si appresta ad evolvere in conflitto armato, richiede solidità interna in termini di coesione sociale e consenso cultuale, gli Stati capaci di esprimere progetto, consenso e potere, in lotta per l’egemonia, per conquistare leadership o per evitare di perderla, diventano i soggetti centrali delle organizzazioni politico-economiche imperiali attorno a cui si aggregano Stati di minor peso.

Nelle società di massa, la chiamata alla mobilitazione ha sempre necessitato di una certa drammaturgia, di una narrativa capace di incedere sul lato emotivo della popolazione, capace di spaventare, mostrando i pericoli portati dal nemico, ed esaltare la forza che si detiene e i valori di identità e appartenenza. Se, a tale scopo, in ambito cinese la narrazione fa leva soprattutto sull’orgoglio per una rinascita nazionale ottenuta tramite la padronanza delle tecnologie necessarie al dominio, sul versante statunitense si insiste con il raccontare lo scontro in atto come una lotta della democrazia contro la tecno-autocrazia. Su tali narrazioni di carattere più emotivo, si vanno poi inevitabilmente ad innestare retoriche concernenti questioni più materiali, di ordine economico ed occupazionale.

A come lo sviluppo esponenziale della tecnologia – dipendente dal semiconduttore di cui si occupa il volume di Alemanni – stia rapidamente modificando i nuovi assetti geopolitici, provvede il volume Tecnologie dell’impero di Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri. Gli autori non si limitano a mappare lo status quo tecnologico e geopolitico ma ne delineano alcuni possibili sviluppi futuri soprattutto alla luce dell’evoluzione riguardante l’intelligenza artificiale e la rete di telecomunicazione.

Le tecnologie digitali – e in misura particolarmente intensa e pervasiva l’intelligenza artificiale – hanno carattere totalitario, perché investono in modo organico e con effetti di moltiplicazione sinergica la sfera del sociale, quella economica, il simbolico-immaginario e la comunicazione. La potenza di trasformazione del mondo materiale e di riconfigurazione di quello mentale e sociale, già evidente nell’era digitale, abbatte progressivamente i limiti al proprio dispiegarsi. Tutto è digitalizzato e tutto in prospettiva potrà intelligentizzarsi1.

Nell’era dell’intelligenza artificiale, la tecnologia è potere esercitato sulla sfera materiale e su quella biologica, su quella comunicativa e, non da ultimo, sull’immaginario: «la competizione geopolitica – in quanto lotta per il controllo della tecnologia – è perciò conflitto totale per il governo del sociale e del biologico, del mentale e del materiale. Il progetto di potenza è costretto a non avere limiti, proiettato nel post-umano della human augmentation e nelle conoscenze della cognitive warfare. Geopolitica totalitaria nelle sue forme, nei sui strumenti, nei suoi fini»2.

Indubbiamente nel panorama geopolitico presente e futuro uno dei terreni di scontro riguarda le reti di telecomunicazione mobile. Preso atto a metà dello scorso decennio del ritardo accomunato nei confronti della Cina nello sviluppo del 5G – assolutamente strategico per il settore produttivo, così come per i servizi, i trasporti ecc. –, per tentare di recuperare terreno gli Stati Uniti hanno risposto tentando di contenere la diffusione internazionale del 5G cinese e tagliando le forniture di tecnologia statunitense, soprattutto microchip, verso la Cina.

Il contenzioso attorno al 5G ha tutta l’aria di essere una prima schermaglia del conflitto che si scatenerà per il controllo del futuro 6G che rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma. Le potenzialità offerte dal 6G, scrivono gli autori di Tecnologie dell’impero, potranno permettere a sensori e intelligenza artificiale di riorganizzere completamente il mondo fisico delle fabbriche e delle città (intelligence of everyhing). 6G mira a divenire una rete neuronale distribuita in grado di connettere intelligenza artificiale, sensori e capacità di calcolo fondendo i mondi fisico, biologico e cyber, a essere essa stessa un network cognitivo in grado di decentrare nei nodi della rete maggiore intelligenza e capacità di calcolo, integrando cloud computing ed edge computing (intelligence everywhre).

Se in passato si è guardato al cyberspazio globale come ad una superficie omogenea, la conflittualità che si sta dispiegando a livello planetario sta mettendo in luce come questa superficie si stia in realtà frammentando in placche tettoniche che potrebbero entrare in collisione. «Viviamo al contempo una guerra tecnologica e una rivoluzione tecnologica, sull’onda del sovvertimento sistemico annunciato dall’intelligenza artificiale: il sovrapporsi e l’alimentarsi a vicenda di guerra e rivoluzione rendono precaria ogni strategia e imprevedibile ogni sviluppo»3.


  1. Francesca Balestrieri, Luca Balestrieri, Tecnologie dell’impero. AI, quantum computing, 6G e la nuova geopolitica del potere, Luiss University Press, Roma, 2024, p. 11. 

  2. Ivi, p. 19 

  3. Ivi, p. 165. 

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Attenzione e potere nell’era della distrazione digitale di massa https://www.carmillaonline.com/2024/04/09/attenzione-e-potere-nellera-della-distrazione-digitale-di-massa/ Tue, 09 Apr 2024 20:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81514 di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi [...]]]> di Gioacchino Toni

Emanuele Bevilacqua, Attenzione e potere. Cultura, media e mercato nell’era della distrazione di massa, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 221, € 17,00 edizione cartacea, € 9,99 edizione ebook

Attenzione e potere di Emanuele Bevilacqua offre una panoramica ragionata sul rapporto fra concentrazione umana e media digitali, mostrando come, paradossalmente, mentre da un lato l’universo digitale, con la sua frenesia di riversare “attrazioni” in quantità, tende a diminuire la soglia di attenzione degli utenti indirizzandoli ad una sorta di “superficialità di sopravvivenza”, dall’altro è costretto ad ottenerla, con ogni mezzo necessario, in quanto merce preziosa per i grandi colossi come Google, Amazon e OpenAi, dunque per i media d’informazione, le inserzioni commerciali, i servizi online e, non ultima, la propaganda politica. Quella tratteggiata dal libro è una vera e propria battaglia per l’attenzione nell’economia e nella politica digitali.

Se da un lato, come ricorda Emanuele Trevi nella postfazione al volume di Bevilacqua, la lentezza rappresenta la più grande alleata dell’attenzione, è pur vero che quest’ultima rischia di non favorire la curiosità. Concentrare in maniera settoriale l’attenzione rischia di vincolare l’individuo all’interno di una “bolla” che lo isola da ciò che vi sta attorno impedendogli di “scoprire” ambiti e punti di vista non ancora esplorati.

Si pensi a come le piattaforme che ricorrono a sistemi algoritmici di raccomandazione automatica tendano a mantenere l’utente all’interno dell’ambito verso cui ha, appunto, concentrato la sua attenzione limitando, di fatto, la possibilità di aprirsi verso l’esterno di quella bolla che finisce per essere vissuta come comfort zone perpetuante i “suoi” convincimenti, interessi, punti di vista e, in definitiva, il suo immaginario sempre più “algoritmico”. Netflix ed Amazon, ad esempio, riescono a indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti, pur all’interno di un meccanismo di negoziazione, come spiega Massimo Airoldi1, attuato attraverso un feedback loop tra i sistemi di machine learnign e gli esseri umani.

Del deficit di attenzione con cui ci si rapporta al mondo digitale – il tempo medio di permanenza sui siti e sulle piattaforme spesso si misura nell’ordine dei secondi – si sono presto accorti gli analisti, i produttori di contenuti digitali e, soprattutto, gli inserzionisti pubblicitari che a fronte di numeri elevati di visitatori faticano ad ottenere quella soglia minima di attenzione per cui vale la pena “investire”.

I sofisticati sistemi di profilazione degli utenti digitali hanno mostrato agli operatore del settore dell’informazione – su cui concentra la sua attenzione Bevilacqua – come sia poco spendibile l’elevato numero di visitatori digitali se non si ottiene una soglia di attenzione – di cui il tempo di permanenza è condizione necessaria ma di certo non sufficiente – paragonabile all’esperienza pre-digitale. Quotidiani come il “Guardian” si sono pionieristicamente dotati di sistemi di monitoraggio in tempo reale che permettono ai giornalisti di seguire costantemente come i contenuti vengono presi in esame dagli utenti.

Gli snodi fondamentali che hanno sancito nel corso del primo decennio del nuovo millennio il repentino passaggio all’universo della comunicazione digitale contemporanea secondo lo studioso sono riconducibili: alla centralità assunta dal web nella vita quotidiana delle persone; all’avvio dei processi di datificazione operati dai grandi colossi del web; all’espansione online dei media tradizionali nella convinzione che la pubblicità li avrebbe “automaticamente” seguiti; alla crisi economica e alla bolla dei subprime che hanno toccato anche l’industria dei media determinando ristrutturazioni e ridimensionamenti; all’emergere delle app come alternativa ai siti web ed al massiccio spostamento verso gli smartphone. A modificare il panorama dell’informazione hanno contribuito in maniera rilevante i social che hanno decentrato l’informazione ampliando enormemente gli ambiti di produzione e diffusione delle notizie ponendo, inoltre, problematiche in ordine all’affidabilità delle fonti e delle notizie trasmesse.

Rivelatosi estremamente fragile, il sistema dei media si è trovato a dover fare i conti con il paradosso digitale che, a fronte di un numero esorbitante di utenti, vede però una scarsa propensione al pagamento dei contenuti online ed una superficialità di fruizione scarsamente profittevole se non per i grandi colossi del web.

A fronte di tale stato di crisi, la riduzione dei costi operata da tanti organi di informazione ha inevitabilmente condotto verso un abbassamento della qualità e dell’affidabilità dei contenuti. La transizione al digitale operata dai media è avvenuta in un contesto caratterizzato da: una sovrabbondanza di contenuti digitali di scarsa qualità; una difficoltà di misurazione dell’attenzione degli utenti; un’ossessiva ricerca di attenzione comportante un consumo sempre più superficiale; una personalizzazione logaritmica dell’offerta che ha condotto a una limitazione dell’esposizione diversificata di informazioni; una qualità dell’attenzione sempre più passiva e distratta.

Numerosi studi scientifici hanno dimostrato i limiti della lettura digitale rispetto a quella cartacea in termini di attenzione profonda, di comprensione del testo, dunque di apprendimento. Analisi dettagliate hanno mostrato come come la lettura digitale tenda a ridurre il tempo dedicato a processi come inferenza, analisi critica ed empatia, fondamentali per il processo di apprendimento. D’altra parte, gli studi di Daniel Kahneman e Amos Tversky hanno evidenziato come gli individui nel prendere decisioni – persino in ambito economico – siano sempre più indotti a ricorrere al “pensiero veloce” (Sistema 1), facilmente condizionabile dalle emozioni, che prevede scorciatoie mentali basate su un numero estremamente limitato di informazioni, anziché fare ricorso al “pensiero lento” (Sitema 2) che prevede regole logiche e la presa in esame di tutte le informazioni disponibili.

Al fine di ottenere lettori “più concentrati” sugli articoli, alcuni quotidiani – es. “Guardian”, “News UK”, “Times” e “Le Monde” – hanno deciso di ridurre la produzione online provando a sottoporre ai lettori una offerta meno dispersiva e più curata ottenendo maggiore attenzione, come dimostrano anche i tempi di permanenza sugli articoli decisamente più lunghi ed un incremento degli abbonamenti. Bevilacqua analizza anche le strategie messe in atto da alcune testate esclusivamente digitali – es. “Vox”, “Medium” e “Substrack” – al fine di conquistare una maggiore attenzione da parte degli utenti, inoltre si sofferma sul ricorso sempre più massiccio alle newsletter.

L’ultima parte di Attenzione e potere è dedicata al ruolo dell’intelligenza artificiale nel panorama editoriale contemporaneo ponendo l’accento su alcune questioni di particolare rilievo come il ricorso a sistemi di editing e correzioni automatizzati, l’affinamento della personalizzazione dell’offerta, l’autenticità, la responsabilità e la tendenziale omogeneità dei contenuti generati da IA e, non da ultimo, l’impatto occupazionale che l’introduzione massiccia di sistemi di intelligenza artificiale comporta.

Sebbene il volume di Bevilacqua sia incentrato sul problema dell’attenzione in relazione soprattutto all’ambito informativo-mediatico, offre non pochi spunti di riflessione validi anche per l’universo educativo-scolastico, ambito in cui la problematica dell’abbassamento della soglia di attenzione è quanto mai evidente e lo sarà a maggior ragione man mano che procedono i processi di digitalizzazione e di introduzione di IA generativa nella didattica.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024. Si veda a tal proposito Gioacchino Toni, Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura, in “Carmilla online”, 7 marzo 2024. 

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Per una sociologia degli algoritmi. La cultura nel codice e il codice nella cultura https://www.carmillaonline.com/2024/03/01/per-una-sociologia-degli-algoritmi-la-cultura-nel-codice-e-il-codice-nella-cultura/ Fri, 01 Mar 2024 21:00:20 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81400 di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi [...]]]> di Gioacchino Toni

Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, pp. 178, € 21,00 edizione cartacea, € 11,99 edizione ebook

Che gli algoritmi siano strumenti di potere agenti sulla vita degli individui e delle comunità, che lo facciano in maniera del tutto opaca e che alcuni di essi siano capaci di apprendere dagli esseri umani e dai loro pregiudizi, è ormai patrimonio diffuso anche perché, in un modo o nell’altro, lo si sta sperimentando direttamente. Dalla percezione di come le macchine sembrino essere sempre più simili agli esseri umani sono sin qua derivati soprattutto studi comparativi incentrati su conoscenze, abilità e pregiudizi delle macchine oscurando quella che Massimo Airoldi ritiene essere la ragione sociologica alla radice di tale somiglianza: la cultura.

Airoldi, sociologo dei processi culturali e comunicativi, vede nella cultura – intesa come «pratiche, classificazioni, norme tacite e disposizioni associate a specifiche posizioni nella società» – «il seme che trasforma le macchine in agenti sociali»1. La cultura nel codice è ciò che permette agli algoritmi di machine learning di affrontare la complessità delle realtà sociali come se fossero attori socializzati. Il codice è presente anche nella cultura «e la confonde attraverso interazioni tecno-sociali e distinzioni algoritmiche. Insieme agli esseri umani, le macchine contribuiscono attivamente alla riproduzione dell’ordine sociale, ossia all’incessante tracciare e ridisegnare dei confini sociali e simbolici che dividono oggettivamente e intersoggettivamente la società in porzioni diverse e diseguali»2.

Visto che la vita sociale degli esseri umani è sempre più mediata da infrastrutture digitali che apprendono, elaborano e indirizzano a partire dai dati disseminati quotidianamente – più o meno volontariamente, più o meno consapevolmente – dagli utenti, secondo Airoldi occorre considerare le “macchine intelligenti”, al pari degli individui, come «agenti attivi nella realizzazione dell’ordine sociale»3, visto che «ciò che chiamiamo vita sociale non è altro che il prodotto socio-materiale di relazioni eterogenee, che coinvolgono al contempo agenti umani e non umani»4. Al fine di comprendere il comportamento algoritmico è perciò necessario capire come la cultura entri nel codice dei sistemi algoritmici e come essa sia a sua volta plasmata da questi ultimi.

La necessità di provvedere a una sociologia degli algoritmi deriva, secondo l’autore di Machine Habitus, dalla combinazione di due epocali trasformazioni: una di ordine quantitativo, costituita dall’inedita diffusione delle tecnologie digitali nella quotidianità individuale e sociale, e una di ordine qualitativo, inerente al livello che ha potuto raggiungere l’intelligenza artificiale grazie al machine learning permesso dai processi di datificazione digitale. «Questo cambiamento paradigmatico ha reso improvvisamente possibile l’automazione di compiti di carattere sociale e culturale, a un livello senza precedenti». Ad essere sociologicamente rilevante non è quanto accade nel “cervello artificiale” della macchina ma, puntualizza lo studioso, «ciò che quest’ultima comunica ai suoi utenti, e le conseguenze che ne derivano»5. I livelli raggiunti dai modelli linguistici con cui operano sistemi come ChatGpt mostrano modalità di partecipazione sempre più attive e autonome dei sistemi algoritmici nel mondo sociale destinati, con buona probabilità, ad incrementarsi ulteriormente in futuro.

Gli algoritmi possono essere sinteticamente descritti come sistemi automatizzati che, a partire dalla disponibilità e dalla rielaborazione di dati in entrata (input), producono risultati (output). Si tratta di un’evoluzione socio-tecnica che ha conosciuto diverse fasi, schematicamente così riassumibili: l’Era analogica (non digitale), che va dall’applicazione manuale degli algoritmi da parte dei matematici antichi fino alla comparsa dei computer digitali al termine della seconda guerra mondiale; l’Era digitale, sviluppatasi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso, che ha condotto all’archiviazione digitale delle informazioni, dunque alla loro circolazione attraverso internet e all’elaborazione automatizzata di enormi volumi di dati ponendo le premesse per la successiva evoluzione; l’Era delle piattaforme, contesto di applicazione delle macchine autonome e fonte della loro “intelligenza” attraverso il deep learning di inizio del nuovo millennio.

Se nell’era digitale la commercializzazione degli algoritmi aveva soprattutto scopi analitici, con il processo di platformizzazione questi sono divenuti a tutti gli effetti anche dispositivi operativi. Dall’effettuazione meccanica di compiti assegnati si è passati a tecnologie IA in grado di apprendere dall’esperienza datificata che funzionano come agenti sociali «che plasmano la società e ne sono a loro volta plasmati»6.

Mentre ad inizio millennio il discorso sociologico in buona parte guardava ai big data, ai nuovi social network e alle piattaforme streaming per certi versi limitandosi ad evidenziarne le potenzialità, in ambiti più tangenziali si ponevano le basi di quegli studi che nell’ultimo decennio hanno dato vita ai critical algorithm studies e ai critical marketing studies che hanno posto l’accento: sulla loro opera di profilazione selvaggia; sui meccanismi di indirizzo comportamentale; sullo sfruttamento di risorse naturali e manodopera; su come l’analisi automatizzata e decontestualizzata dei big data conduca a risultati imprecisi o distorti; su come la trasformazione dell’azione sociale in dati quantificati online risulti sempre più importante nel capitalismo contemporaneo; sulle modalità con cui vengono commercializzati e mitizzati gli algoritmi; su come il meccanismo di delega sempre più diffusa delle scelte umane ad algoritmi opachi restringa le libertà e agency umane e su quanto questi non si limitino a mediare ma finiscano per concorrere a costruire la realtà, assumendo un ruolo di “inconscio tecnologico”.

Alla luce dello svilupparsi di tanta letteratura critica, Airoldi motiva il suo obiettivo di costruire un framework sociologico complessivo a partire da una riflessione sul concetto di feedback loop degli algoritmi di raccomandazione tendenti alla reiterazione e all’amplificazione di pattern già presenti nei dati. Le raccomandazioni automatiche generate dagli algoritmi di una piattaforma come Amazon tendono ad indirizzare notevolmente il consumo degli utenti e siccome, allo stesso tempo, gli algoritmi analizzano le modalità di consumo, si genera un vero e proprio feedback loop. Se l’influenza della società sulla tecnologia e l’influenza di quest’ultima sulla prima procedono di pari passo, si giunge secondo lo studioso a due “quesiti sociologici”: la cultura nel codice (l’influenza della società sui sistemi algoritmici) e il codice nella cultura (l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società).

Circa l’influenza della società sui sistemi algoritmici, lo studioso ricorda come le piattaforme “imparino” «dai discorsi e dai comportamenti datificati degli utenti, i quali portano con sé le tracce delle culture e dei contesti sociali da cui questi hanno origine»7; dunque derivino dalla società pregiudizi e chiusure mentali. Proporsi di “ripulire” i dati, oltre che probabilmente impossibile, non è forse nemmeno auspicabile in quanto presupporrebbe, in definitiva, un pensiero unico costruito a tavolino secondo logiche parziali.

Per quanto riguarda, invece, l’influenza dei sistemi algoritmici sulla società, basti pensare che gli algoritmi di piattaforme come Netflix ed Amazon riescono ad indirizzare circa l’80% delle “scelte” degli utenti; ciò rende l’idea di come i sistemi autonomi digitali non si limitino a mediare le esperienze digitali ma le costruiscano orientando i comportamenti e le opinioni degli utenti. «Ciò che accade dunque è che i modelli analizzano il mondo, e il mondo risponde ai modelli. Di conseguenza, le culture umane finiscono per diventare “algoritmiche”»8.

Spesso, sostiene Airoldi, si è insistito nel guardare le cose in maniera unidirezionale prospettando un certo determinismo tecnologico mentre in realtà diversi studi recenti dimostrano come gli output prodotti dai sistemi autonomi vengano costantemente negoziati e problematizzati dagli esseri umani. «Gli algoritmi non plasmano in maniera unidirezionale la nostra società datificata. Piuttosto, intervengono all’interno di essa, prendono parte a interazioni socio-materiali situate che coinvolgono agenti umani e non umani. Dunque il contenuto della “cultura algoritmica” è il risultato emergente di dinamiche interattive tecno-sociali»9.

Alla luce di quanto detto, le due questioni principali che approfondisce lo studioso in Machine Habitus riguardano le modalità con cui sono socializzati gli algoritmi e come le macchine socializzate partecipano alla società riproducendola.

Airoldi riprende il concetto di habitus elaborato da Pierre Bourdieu: «luogo dove interagiscono struttura sociale e pratica individuale, cultura e cognizione. Con i loro gesti istintivi, schemi di classificazione sedimentati e bias inconsci, gli individui non sono né naturali né unici. Piuttosto sono il “prodotto della storia”»10. Né determinata a priori, né completamente libera, «l’azione individuale emerge dall’interazione tra un “modello” cognitivo plasmato dall’habitus e gli “input” esterni provenienti dall’ambiente. Risulta evidente come un sistema automatico dipenda dalla scelta dell’habitus datificato su cui viene addestrato. «A seconda dell’insieme di correlazioni esperienziali e disposizioni stilistiche che strutturano il modello, l’algoritmo di machine learning genererà risultati probabilistici diversi. Ergo la frase di Bourdieu “il corpo è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel corpo” potrebbe essere facilmente riscritta in questo modo: il codice è nel mondo sociale, ma il mondo sociale è nel codice»11.

L’habitus codificato dai sistemi di machine learning è l’habitus della macchina. Di fronte a nuovi dati di input, i sistemi di machine learning si comportano in modo probabilistico, dipendente dal percorso pre-riflessivo. Le loro pratiche «derivano dall’incontro dinamico tra un modello computazionale adattivo e uno specifico contesto di dati, vale a dire tra “la storia incorporata” dell’habitus della macchina e una determinata situazione digitale»12. Nonostante siano privi di vita sociale, riflessione e coscienza, gli algoritmi di machine learning rivestono un ruolo importante nel funzionamento del mondo sociale visto che contribuiscono attivamente alla reiterazione/amplificazione delle diseguaglianze sia di ordine materiale che simbolico. In sostanza, scrive Airoldi, ancora più degli esseri umani, tali macchine contribuiscono a riprodurre, dunque perpetuare un ordine sociale diseguale e naturalizzato.

La proposta dello studioso è pertanto quella di guardare ai sistemi di machine learning come ad «agenti socializzati dotati di habitus, che interagiscono ricorsivamente con gli utenti delle piattaforme all’interno dei campi tecno-sociali dei media digitali, contribuendo così in pratica alla riproduzione sociale della diseguaglianze e della cultura»13.

Ricostruita la genesi sociale del machine habitus, Airoldi sottolinea come questo si differenzi dal tipo di cultura nel codice presente in tanti altri artefatti tecnologici, «cioè la cultura dei suoi creatori umani, la quale agisce come deus in machina»14. Nonostante il discorso pubblico sull’automazione tenda a concentrarsi sui benefici che è in grado di offrire in termini sostanzialmente economici (tempo/denaro), ad essere stato introiettato a livello diffuso è soprattutto il convincimento della sua supposta oggettività, dell’assenza di arbitrarietà. Basterebbe qualche dato per dimostrare quanto la tecnologia sia, ad esempio, genderizzata e razzializzata: la stragrande maggioranza degli individui che hanno realizzato le macchine sono uomini bianchi, circa l’80% dei professori di intelligenza artificiale, l’85% dei ricercatori di Facebook ed il 90% di Google sono maschi (Fonte: AI Now 2019 Report).

Di certo per comprendere la cultura contenuta nei codici non è sufficiente individuare i creatori di macchine e il deus in machina; nei più recenti modelli di IA le disposizioni culturali fatte proprie dai sistemi di machine learning non derivano dai creatori ma da una moltitudine di esseri umani utenti di dispositivi digitali coinvolti a tutti gli effetti, in buona parte a loro insaputa, nel ruolo di “addestratori” non retribuiti che agiscono insieme a lavoratori malpagati.

Se correggere i pregiudizi presenti nel design degli algoritmi è relativamente facile, molto più problematico è agire sui data bias da cui derivano il loro addestramento. «Quando una macchina apprende da azioni umane datificate, essa non apprende solo pregiudizi discriminatori, ma anche una conoscenza culturale più vasta, fatta di inclinazioni e disposizioni e codificata come machine habitus»15. Per un sistema di machine learning i contesti di dati sono astratte collezioni di attributi elaborati come valori matematici e per dare un senso a una realtà vettoriale datificata, tali sistemi sono alla ricerca di pattern che non hanno nulla di neutrale, derivando dagli umani che stanno dietro le macchine.

Una volta affrontata la cultura nel codice nelle macchine che apprendono da contesti di dati strutturati socialmente (da “esperienze” datificate affiancate da un deus in machina codificato da chi le ha realizzate), dal momento che, come detto, le macchine imparano dagli umani e questi ultimi dalle prime attraverso un meccanismo di feedback loop, Airoldi si concentra sul codice nella cultura indagando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa.

Gli algoritmi agiscono all’interno di un più generale ambiente tecnologico composto da piattaforme, software, hardware, infrastrutture di dati, sfruttamento di risorse naturali e manodopera, insomma in un habitat tecnologico che, a differenza di quanto si ostina a diffondere una certa mitologia dell’high tech, non è affatto neutro, sottostante com’è ad interessi economici e politici. Risulta dunque di estrema importanza occuparsi di come i sistemi di machine learning prendano parte e influenzino la società interagendo con essa considerando i loro contesti operativi e la loro agency (i loro campi e le loro pratiche, in termini bourdieusiani). Nonostante le macchine socializzate non siano senzienti, queste, sostiene Airoldi, hanno «capacità agentiche». Certo, si tratta di agency diverse da quelle umane mosse da intenzioni e forme di consapevolezza, ma che comunque si intrecciano ad esse. «La società è attivamente co-prodotta dalle agency culturalmente modellate di esseri umani e macchine socializzate. Entrambe operano influenzando le azioni dell’altra, generando effetti la cui eco risuona in tutte le dimensioni interconnesse degli ecosistemi tecno-sociali»16.

Visto che ormai i “sistemi di raccomandazione” delle diverse piattaforme risultano più influenti nel guidare la circolazione di prodotti culturali e di intrattenimento (musica, film, serie tv, libri…) rispetto ai tradizionali “intermediari culturali” (critici, studiosi, giornalisti…), viene da domandarsi se non si stia procedendo a vele spiegate verso una “automazione del gusto” con tutto ciò che comporta a livello culturale e di immaginario. È curioso notare, segnala lo studioso, che se il sistema automatico delle raccomandazioni conosce “tutto” degli utenti, questi ultimi invece non sanno “nulla” di esso. Se tale asimmetria informativa è «una caratteristica intrinseca dell’architettura deliberatamente panottica delle app e delle piattaforme commerciali»17, occorre domandarsi quanto sia effettivamente arginabile attraverso un incremento del livello di alfabetizzazione digitale degli esseri umani e attraverso politiche votate a ottenere una maggiore trasparenza del codice. Quel che è certo è che ci si trova a rincorrere meccanismi che si trasformano con una velocità tale per cui risulta difficile pensare a come “praticare l’obiettivo” in tempo utile, prima che tutto cambi sotto ai nostri occhi.

Airoldi ricostruisce come la cultura nel codice sia impregnata delle logiche dei campi platformizzati, dove i sistemi di machine learning vengono applicati e socializzati, e come le stesse logiche di campo e la cultura siano “confuse” dalla presenza ubiqua di output algoritmici. È soprattutto a livello di campo, ove si ha un numero elevatissimo di interazioni utente-macchina, che, sostiene lo studioso, importanti domande sociologiche sul codice nella cultura necessitano di risposta. «Le logiche di campo pre-digitali incapsulate dalle piattaforme sono sistematicamente rafforzate da miliardi di interazioni algoritmiche culturalmente allineate? Oppure, al contrario, le logiche di piattaforma che confondono il comportamento online finiscono per trasformare la struttura e la doxa dei campi sociali a cui sono applicate?»18.

Dopo essersi occupato, nei primi capitoli, della genesi sociale del machine habitus, delle sue specificità rispetto alla cultura nel codice presente in altri tipi artefatti tecnologici e del codice nella cultura, analizzando i modi con cui le macchine socializzate plasmano la società partecipando ad essa, Airoldi si propone di «riassemblare la cultura nel codice e il codice nella cultura al fine di ricavare una teoria del machine habitus in azione» così da mostrare «come la società sia alla radice dell’interazione dinamica tra sistemi di machine learning e utenti umani, e come ne risulti (ri)prodotta di conseguenza»19.

Una volta mostrato come i sistemi di machine learning sono socializzati attraverso l’esperienza computazionale di contesti di dati generati dagli esseri umani da cui acquisiscono propensioni culturali durevoli in forma di machine habitus, costantemente rimodulate nel corso dell’interazione umano-macchina, Airoldi affronta alcune questioni nodali riconducibili a una serie di interrogativi: cosa cambia nei «processi di condizionamento strutturale che plasmano la genesi e la pratica del machine habitus» rispetto a quanto teorizzato da Bourdieu per il genere umano?; «come le disposizioni cultuali incorporate e codificate come machine habitus mediano nella pratica le interazioni umano-macchina all’interno dei campi tecno-sociali?»; «in che modo i feedback loop tecno-sociali influenzano le traiettorie disposizionali distinte di esseri umani e macchine socializzate, nel tempo e attraverso campi diversi?»; «quali potrebbero essere gli effetti aggregati degli intrecci tra umani e macchine a livello dei campi tecno-sociali?»20.

Inteso come attore sociale in senso bourdieusiano, un algoritmo socializzato risulta tanto produttore quanto riproduttore di senso oggettivo, derivando le sue azioni da un modus operandi di cui non è produttore e di cui non ha coscienza. Non essendo soggetti senzienti, i sistemi di machine learning non problematizzano vincoli ad essi esterni come, ad esempio, forme di discriminazione e di diseguaglianza che però, nei fatti, “interiorizzano”. Le piattaforme digitali sono palesemente strutturate per promuovere engagement e datificazione a scopi di profitto e funzionano al meglio con gli utenti a minor livello di alfabetizzazione digitale e di sapere critico. «Se il potere dell’inconscio sociale dell’habitus risiede nella sua invisibilità […] il potere degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale sta nella rimozione ideologica del sociale dalla black box computazionale, che viene quindi narrata come neutrale, oggettiva, o super-accurata. Al di là delle ideologie, sullo sfondo di qualsiasi interazione utente-macchina si nasconde un intreccio più profondo, che lega gli agenti umani e artificiali alla doxa e alle posizioni sociali di un campo, attraverso habitus e machine habitus»21.

I sistemi di machine learning non soddisfano (come vorrebbero i tecno-entusiasti della personalizzazione) o comandano (secondo i tecno-apocalittici della manipolazione) ma negoziano, nel tempo e costantemente, con gli esseri umani un terreno culturale comune. È dunque, sostiene lo studioso, dalla sommatoria di queste traiettorie non lineari che deriva la riproduzione tecno-sociale della società. A compenetrarsi in un infinito feedback loop sono due opposte direzioni di influenza algoritmica: una orientata alla trasformazione dei confini sociali e simbolici ed una volta al loro rafforzamento.

In un certo senso, scrive Airoldi, «gli algoritmi siamo noi». Noi che tendiamo ad adattarci all’ordine del mondo come lo troviamo, che sulla falsariga di quanto fanno i sistemi di machine learning apprendiamo dalle esperienze che pratichiamo nel mondo riproducendole. Lo sudioso propone dunque una rottura epistemologica nel modo di comprendere la società e la tecnologia: i sistemi di machine learning vanno a suo avviso intesi «come forze interne alla vita sociale, sia soggette che parte integrante delle sue proprietà contingenti»22. Oggi una sociologia degli algoritmi, ma anche la stessa sociologia nel suo complesso, sostiene Airoldi, dovrebbe essere costruita attorno allo studio di questa riproduzione tecno-sociale.

Nella parte finale del libro, lo studioso delinea alcune direzioni di ricerca complementari per una «sociologia (culturale) degli algoritmi»: seguire i creatori di macchine ricostruendo la genesi degli algoritmi e delle applicazioni di IA, dunque gli interventi umani che hanno contribuito a «spacchettare la cultura nel codice e i suoi numerosi miti»; seguire gli utenti dei sistemi algoritmici individuando «gli intrecci socio-materiali dalla loro prospettiva sorvegliata e classificata»; seguire il medium per mappare la infrastruttura digitale «concentrandosi sulle sue affordance e/o sulle pratiche più che umane che la contraddistinguono»23; seguire l’algoritmo, ad esempio analizzando le proposte generate automaticamente dalle piattaforme.

Se è pur vero che le macchine socializzate sono tendenzialmente utilizzate da piattaforme, governi e aziende per datificare utenti al fine di orientare le loro azioni, non si può addebitare loro la responsabilità dei processi di degradazione e sfruttamento della vita sociale. «Il problema non è il machine learning strictu sensu […] ma semmai gli obiettivi inscritti nel codice e, soprattutto, il suo contesto applicativo più ampio: un capitalismo della sorveglianza che schiavizza le macchine socializzate insieme ai loro utenti»24. Altri usi di IA, altri tipi di intrecci tra utente e macchina sarebbero possibili. Certo. Ma si torna sempre lì: servirebbe un contesto diverso da quello sopra descritto.


  1. Massimo Airoldi, Machine Habitus. Sociologia degli algoritmi, Luiss University Press, Roma 2024, p. 10. 

  2. Ivi, p. 11. 

  3. Ivi, p. 13. 

  4. Ivi, p. 15. 

  5. Ivi, p. 17. 

  6. Ivi, p. 24. 

  7. Ivi, p. 28. 

  8. Ivi, p. 30. 

  9. Ibid

  10. Ivi, p. 33. 

  11. Ivi, p. 35. 

  12. Ivi, pp. 35-36. 

  13. Ivi, p. 37. 

  14. Ivi, p. 38. 

  15. Ivi, p. 52. 

  16. Ivi, p. 80. 

  17. Ivi, p. 90. 

  18. Ivi, p. 98. 

  19. Ivi, p. 107. 

  20. Ivi, p. 106. 

  21. Ivi, p. 116. 

  22. Ivi, p. 137. 

  23. Ivi, p. 142. 

  24. Ivi, p. 144. 

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L’essere umano che verrà (insieme all’intelligenza artificiale) https://www.carmillaonline.com/2023/06/12/lessere-umano-che-verra-insieme-allintelligenza-artificiale/ Mon, 12 Jun 2023 20:00:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77094 di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dell’IA in ambiti che vanno dalla medicina all’istruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città all’aprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dall’alienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto [...]]]> di Gioacchino Toni

Il diffondersi dell’intelligenza artificiale sta modificando in profondità lo scenario quotidiano e lo stesso essere umano. Alle visioni di quanti si attendono enormi benefici dagli sviluppi dellIA in ambiti che vanno dalla medicina allistruzione, dalla gestione della mobilità nelle grandi città allaprirsi di un nuovo ambito di business o alla possibilità di liberare l’essere umano dalla routine del lavoro, quando non addirittura dallalienazione del lavoro tout court, fanno da contraltare le visioni di chi, pur cogliendone i potenziali benefici, si preoccupa invece dei “rischi collaterali” che il nuovo rapporto essere umano-macchina comporta a partire dalla comparsa di sofisticati ed invasivi sistemi di controllo e di indirizzo comportamentale e dalla proliferazione di armamenti sempre più autonomi fino al timore per la perdita del controllo su queste tecnologie rese capaci di emanciparsi dallessere umano.

Un ricercatore e sviluppatore dellIA ed uno scrittore di fantascienza hanno deciso di affrontare gli entusiasmi e le preoccupazioni con cui si guarda allo sviluppo e alla diffusione dell’intelligenza artificiale nella realtà quotidiana attraverso una forma letteraria ibrida ricorrendo a brevi racconti di “fiction scientifica” – sviluppati su presupposti tecnologici plausibili a scadenza di qualche decennio – seguiti da considerazioni circa le implicazioni che gli sviluppi e le applicazioni prospettati in forma creativa potrebbero avere sullumanità in un futuro lontano giusto un paio di decenni da oggi. Così è nato il volume di Kai-Fu Lee, Chen Quifan, AI 2041. Scenari dal futuro dell’intelligenza artificiale, trad. it. di Andrea Signorelli (Luiss University Press, 2023).

Kai-Fu Lee è una figura importante nellambito della ricerca, dello sviluppo e degli investimenti sull’intelligenza artificiale sia negli Stati Uniti che in Cina, ex presidente di Google China e dirigente di Microsoft, SGI, Apple e co-presidente del Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum. Chen Qiufan è invece tra i più noti e premiati scrittori cinesi di science fiction che da qualche tempo sperimenta l’uso dellIA direttamente nella composizione delle sue opere, conosciuto in Italia per l’antologia di racconti L’eterno addio (Future Fiction, 2016) e per il romanzo Marea tossica (Mondadori, 2020).

Scrive Kai-Fu Lee nellintroduzione al volume che la maggior parte delle speculazioni sullIA derivano principalmente da tre fonti: fantascienza, informazione e personalità influenti. La prima fonte tende, da tempo, a prospettare scenari distopici in cui le macchine prendono il sopravvento sugli umani. A livello mediatico a “far notizia” sono soprattutto gli errori, i guasti e gli incidenti causati da dispositivi che fanno ricorso all’intelligenza artificiale (come nel caso di auto senza pilota che travolgono pedoni) e l’uso che ne viene fatto da corporation e politici intenzionati a influenzare i comportamenti degli esseri umani attraverso attività di disinformazione, diffusione di deepfake, ecc. Circa le personalità influenti, nota Lee, spesso le loro osservazioni mancano di rigore scientifico e difficilmente si tratta di esperti di tecnologia dellintelligenza artificiale, dunque si tratta in molti casi di pareri formulati senza unadeguata conoscenza delle questioni trattate.

Da tali fonti deriverebbe dunque una visione dellIA allinsegna della cautela quando non di aperta ostilità che andrebbe, secondo Lee, controbilanciata dalla messa in luce dei lati positivi. Visto il ruolo rivestito allinterno dei colossi che investono in IA e la carica direttiva nel Consiglio per l’Intelligenza Artificiale del World Economic Forum, non sfugge come Lee non si soffermi sulle strategie di fascinazione per l’intelligenza artificiale dispiegate dai colossi tecnologici che ben conosce. Insomma, nel ritenere necessario bilanciare le perplessità e le cautele diffuse allinterno di una generica (forse troppo) opinione pubblica nei confronti dellintelligenza artificiale, appellandosi alla necesità di prendere in considerazione «il quadro generale e tutto il potenziale di questa tecnologia di cruciale importanza», Lee non insiste sul benevolo supporto dato allIA da parte di quelle corporation tecnologiche che sono anche potenti macchine-influencer.

Kai-Fu Lee sottolinea come si debba guardare ad AI 2041 non come a unopera di fantascienza, ma piuttosto di “fiction scientifica”. Chen Qiufan spiega infatti come nei suoi racconti, nel prospettare creativamente un futuro distante soltanto un paio di decenni dallattualità, si sia strettamente attenuto a quanto logica e scienza permettono realisticamente di prevedere in termini di sviluppi dellIA.

Al fine di tratteggiare le psicologie e le emotività dei personaggi collocati in tali scenari futuri sono state prese in considerazione le reazioni umane a eventi della storia passata altrettanto capaci di cambiare il mondo. Così sono stati creati dieci racconti ambientati in un futuro distante un paio di decenni dai nostri giorni che, come si trattasse di altrettanti “portali spazio-temporali”, collocano chi legge in situazioni e ambienti caratterizzati dallo sviluppo possibile di applicazioni tecnologiche di intelligenza artificiale nei più diversi settori, o mettono di fronte a questioni sociali e politiche poste dall’IA, come la perdita di lavori tradizionali, l’incremento delle diseguaglianze, i pericoli degli armamenti autonomi, il rapporto privacy/felicità ecc.

Il primo racconto, intitolato L’elefante doro, ambientato a Mumbai, ove una famiglia ha sottoscritto un programma assicurativo basato sul deep learning, palesa i rischi derivati dallaccumulo di dati da parte di unazienda e come dal ricorso allIA insieme a specifici benefici possano derivare anche indesiderati impedimenti. Gli dèi dietro le maschere segue le vicende di un videomaker nigeriano assoldato per creare un deepfake non riconoscibile in quanto tale inducendo a riflettere sugli sviluppi della computer-vision, dunque sullaccumulo ed elaborazione dei dati biometrici. Ne I passeri gemelli viene immaginato il possibile sviluppo delleducazione dellintelligenza artificiale prospettando il rapporto tra due insegnanti IA e due gemelli orfani coreani.

Amor contactless presuppone un prolungarsi della recente pandemia immaginando la presenza pervasiva di tecnologie basate sull’IA e come queste possano incidere nel bene e nel male sulle sorti dellumanità. Allinestricabilità tra reale e virtuale indotta dalluniverso ludico rimanda L’idolo che mi perseguita, mentre Il pilota santo prospetta uno Sri Lanka alla prese col passaggio da una mobilità a conduzione umana ad una a guida autonoma. Genocidio quantistico mette in scena le gesta di un scienziato informatico europeo che, per vendetta, ricorre agli sviluppi tecnologici per fini malvagi.

Il racconto Il salvatore dei posti di lavoro prospetta l’avvento di agenzie per la riqualificazione e ricollocazione di quanti hanno perso il posto di lavoro in quanto sostituiti dallIA, mentre L’isola della felicità invita a domandarsi quale ruolo potrebbe giocare l’intelligenza artificiale nella ricerca della felicità e come questa possa essere definita e quantificata. L’ultimo racconto, Sognare l’abbondanza è ambientato in unAustralia divenuta una “terra dellabbondanza” grazie allIA in cui sono state introdotte due diverse valute: una tessera per aver accesso ai beni essenziali e una valuta virtuale in cui si accumula reputazione in base ai servigi prestati alla comunità.

Con AI 2041 Kai-Fu Lee e Chen Quifan invitano a guardare al futuro non come a qualcosa di già determinato e si dicono ragionevolmente certi che gli esseri umani, indipendentemente dalle tecnologie a venire, continueranno a preservare il controllo sul loro destino. Visto però che storicamente tale opportunità di controllo lungi dallessere la medesima per tutti gli umani, vale la pena domandarsi quanto il diffondersi dellIA in un contesto retto dalle regole del profitto e dalla sostanziale diseguaglianza come l’attuale, diminuisca o incrementi la possibilità di reale autodeterminazione di tutti e tutte auspicata dagli autori.

 

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Anni ’90: frammenti di utopie acquariane https://www.carmillaonline.com/2023/06/06/anni-90-frammenti-di-utopie-acquariane/ Tue, 06 Jun 2023 20:00:43 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77427 di Giovanni Iozzoli

Alle volte basta imbattersi in una vecchia rivista, buttata là, in garage, impolverata, in mezzo a un mucchio di libri e carte da smaltire. Basta prenderla in mano, sfogliarla superficialmente: ed ecco che ti si può magicamente squadernare davanti l’essenza segreta di un epoca, di una memoria collettiva. Ho trovato una copia di “Alpha Dimensione Vita”, mente toglievo ragnatele e spostavo cartoni. Una cimice aveva provato a passarsi l’inverno al riparo tra quelle pagine, ma naturalmente era morta stecchita. La rivista riporta la data: novembre 1995 (il cadaverino della cimice era sicuramente più recente). Costava allora [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Alle volte basta imbattersi in una vecchia rivista, buttata là, in garage, impolverata, in mezzo a un mucchio di libri e carte da smaltire. Basta prenderla in mano, sfogliarla superficialmente: ed ecco che ti si può magicamente squadernare davanti l’essenza segreta di un epoca, di una memoria collettiva. Ho trovato una copia di “Alpha Dimensione Vita”, mente toglievo ragnatele e spostavo cartoni. Una cimice aveva provato a passarsi l’inverno al riparo tra quelle pagine, ma naturalmente era morta stecchita. La rivista riporta la data: novembre 1995 (il cadaverino della cimice era sicuramente più recente). Costava allora 10.000 lire – non poco, ma era di buona fattura grafica. Fu una delle riviste egemoni, probabilmente la più importante, della stagione del new age italiano; credo però che in quegli anni, la definizione “new age” fosse già considerata in quei mondi troppo abusata, effimera, inadeguata: queste pubblicazioni preferivano autodenominarsi un po’ pomposamente “esoteriche”.

Naturalmente non c’era niente di esoterico – cioè di riservato ad anime elette – dentro quelle pagine; anzi, dietro l’aspetto vagamente patinato, si coglie lo sforzo di allargamento verso altre platee, altri segmenti di lettori. La prima cosa che salta agli occhi, infatti, sono le pagine della pubblicità di settore: una sequenza fitta fitta di annunci che rimandano a quella che fu un’attività frenetica di circoli, associazioni, gruppi, seminari; i quali, a loro volta, erano espressione di una “fetta di mercato” non irrisoria: in quegli anni, ogni grande libreria italiana esibiva un robusto settore (la Hoepli di Milano addirittura un piano intero) dedicato a libri, opuscoli, manuali, videocassette e giornaletti, interamente di argomento “esoterico”. Che poi sotto questo cappello si collocasse di tutto – da Renè Guenon allo Shiatzu – questo era solo il segno dell’epoca, confusamente ottimistica.

Ed ecco una rassegna di alcune inserzioni pubblicitarie:

  • Fidia srl – Fabbrica Macchine per Medicina Complementare – Macchine per cromoterapia, camere Kirlian portatili e a valigetta, macchine computerizzate per fotografare l’Aura, Psycotron Virtual Reality (con casco tridimensionale);
  • Associazione culturale laboratorio Avicenna – propone corsi di studio per chi intende incamminarsi sul sentiero della Fratellanza Bianca;
  • Sprigiona il potere in te in un week end – un evento dinamico, elettrizzante, che cambierà la vostra vita, a cura di Anthony Robbins, il trainer più famoso al mondo;
  • Laboratorio sciamanico e capanna sudatoria – per scoprire il tuo lato selvaggio, il tuo lato oscuro, il tuo lato luminoso;
  • La cucina esoterica – corsi settimanali in 5 lezioni teoriche di 2 ore ciascuna.

La vetrina dei video (VHS ovviamente) propone:

  • Le voci di Laura Paradiso e Aura. Il ritorno dello spirito. La piccola entità Aura, una bambina mai nata, tramite i sensitivi del gruppo “umanità in movimento” invia messaggi alle donne che si trovano davanti alla scelta angosciosa di conservare una vita o abortire (40.000 lire per 23 minuti);
  • Operazione Socrate. Il caso Osho Rajneesh.(40.000 lire per 40 minuti).

Il riferimento ad Osho, merita qualche approfondimento; il video (come l’omonimo libro di Valcarenghi) evoca il supposto avvelenamento da tallio del guru Osho, da parte del governo degli Stati Uniti, in epoca reaganiana. Viene naturale il collegamento con gli omicidi di ex spie che in anni recenti la Russia è accusata di aver praticato – anche se onestamente, non si capisce in che modo il povero (e screditatissimo) guru indiano avrebbe potuto nuocere agli apparati di Stato, detenendo come unico prezioso segreto, la minchioneria di tanti giovani americani che l’avevano scambiato per un vero maestro spirituale.

Chandra Mohan Jain – in arte Osho – fu un professore di filosofia indiano che ad un certo punto degli anni ’60, aveva colto la folgorazione (e l’immenso mercato che essa apriva) dei giovani occidentali rispetto ad una indefinita “saggezza orientale”. E aveva capito che quei giovanotti non cercavano tanto l’illuminazione, quanto di risolvere i loro conflitti interiori, soprattutto quelli scaturiti dalla rivoluzione sessuale, dall’implosione della famiglia e dalla crisi dell’occidente. Di sesso e psicanalisi parlava continuamente, nei suoi ammiccanti discorsi: l’occidente moderno era il luogo in cui il Tantra avrebbe incontrato Freud. Le 50 Rolls Roice, la Osho Airlineas, la segretaria che scappò coi soldi, erano tutto un pittoresco contorno – allusioni ad una qualche “pazza saggezza” che solo i veri guru potevano permettersi; ma il nucleo della faccenda era spalmare miele e illusioni sulle nevrosi d’occidente. Sul nome Osho oggi si ironizza, per le vignette fotografiche e il filone di pseudo satira da Bagaglino che hanno avviato. All’epoca, però, era considerato un marchio serio, rinomato, che tirava molto: centinaia di titoli pubblicati da ogni tipo di editore e soprattutto la proliferazione di migliaia di sannyasin occidentali (sembravano fatti con lo stampino) i quali, chiusi gli ashram di Poona e dell’Oregon, tornavano nei loro paesi, al principio degli anni ’80, spacciandosi per Maestri delle più strampalate discipline (spesso inventate di sana pianta o frutto di improbabili mixages), aprendo centri e microgruppi che a loro volta diffondevano il verbo new age a cerchi concentrici. L’intreccio di queste biografie inquiete, con quelle dei residui del ’77 italiano, era noto ed evidente, a partire dal povero Rostagno – che però si portava dietro una grana umana ed etica non comune in quegli ambienti.

  • Caterina Cucuzza – pranoterapia, C.so Garibaldi Milano. I pranoterapeuti andavano per la maggiore, a partire dalla celebre Rita Cutolo, pluri invitata in tv, detta la “donna magnetica” per la sua capacità di far aderire oggetti al palmo della mano. Ricordo che in quel periodo scoppiò una querelle col Cicap, che provò anche a sottoporre ad un controllo scientifico le abilità “adesive” della signora Cutolo (rileggendo il verbale di quei test c’è da ridacchiare, anche sul Cicap, che disquisisce sull’”appiccicosità” naturale delle mani della Cutolo e i livelli di zucchero nel suo sudore, che favorirebbero i fenomeni). Certo è che c’erano più pranoterapeuti che malati, in giro.
  • Laura Rangoni editore pubblicava “Il manuale della perfetta strega” – collegandosi a tutto un filone, oggi molto stantio, sulla stregoneria come magia naturale del femmineo…etc etc. Gli studi sul gender non credo approverebbero la visione della Madre che cura e custodisce la natura.
  • Sri Sri Ravi Shankar: l’Arte di vivere. Promuove seminari a Milano e a Firenze. Questo era un guru giovane, moderno, vagamente cristico nella figura, ma sveglio e molto in linea con i tempi: organizzava seminari e strategie di gestione dello stress per manager. Tutto con marchi registrati. Era una espressione dell’India rampante dei primi anni ’90, che si lanciava nella globalizzazione, ma con la benedizione del nazionalismo indù e l’alibi di un qualche arcaismo culturale da preservare, tanto per non svendersi troppo smaccatamente all’occidente.
  • Sentieri di gioia a Milano, organizza corsi di rebirthing (in acqua calda e fredda, con canti e suoni di guarigione). Il Rebirthing era una disciplina respiratoria, con pretese catartiche e liberatorie; particolarmente spiacevole da eseguire, spesso provocava iperventilazione (che paradossalmente è una delle manifestazioni di insorgenza degli attacchi di panico).
  • Associazione culturale Padma: organizza incontri con sciamani (evidentemente autoctoni, a leggere i nomi dei conduttori dei workshop). C’erano effettivamente in quegli anni in giro un po’ di sedicenti sciamani, sull’onda della riscoperta di Castaneda. Anche io ne avevo conosciuto uno, piuttosto improbabile: mi pare fosse di Caltanissetta ma sosteneva di poter viaggiare nel mondo degli spiriti toltechi. Chissà che fine avrà fatto.

Negli annunci si nota tutto un fiorire di poderi, masserie, ville e case di campagna ristrutturate e offerte per i seminari, i corsi, i weekend esperienziali. Il giro è grosso e viaggiano soldi quasi esclusivamente in nero. La new age è il regno dell’assegno post datato.

  • Francesca e Gabriella Varetto pubblicano il Cantico dell’Universo, in cui, con una certa modestia, affrontano le leggi universali che governano la vita dell’uomo.
  • A Rimini in quel periodo c’è il Secondo Convegno internazionale di pranoterapia e parapsicologia (nel ricco carnet spicca Erena Rangiamri, guaritrice Maori che eseguirà diagnosi del pubblico in sala). Il tema “guarigione” fa da leit-motiv ad ogni seminario o pubblicazione: tutti sentono di dover guarire da qualcosa.
  • Sempre a Milano – evidentemente un epicentro, come al solito – il sig. Candry, astrologo indiano, esegue lettura della mano a livello professionale.

Poco più giù, un altro annuncio propone “ciondolini di alluminio i cui atomi ed elettroni sono stati modificati in modo che tali oggetti siano in risonanza con l’energia di base dell’universo; un miracolo della scienza – oggetti di energia positiva”

  • Riccione. Convegno: la vita oltre la vita. Questo consesso, che si riconvocava ogni anno, aveva assunto il titolo di un fortunato libro del medico Raymond Moody. Ma più che indagare sugli stati Near Death Experience, l’obiettivo di questo ed altri gruppi era ricercare contatti medianici con i defunti. Di questo gruppo ricordo una certa serietà organizzativa, il rapporto con la Chiesa cattolica (che spesso inviava osservatori ufficiali ai convegni), e lo sforzo di dare un assetto credibile, moderno e culturale a quello che, nel succo, era il vecchio spiritismo ottocentesco. Il piatto forte dei convegni consisteva nella performance delle medium inglesi che in diretta, sul palco, “canalizzavano“ spiriti di defunti, interagendo con le persone in sala. Nel corso di quegli eventi l’atmosfera si faceva pesante e piena di ansia: perchè una parte di quel pubblico era costituito da genitori che avevano precocemente perso i figli, magari pochi mesi prima. E anche in quel contesto tragico – maledetta commedia all’italiana – si potevano innescare dinamiche ridicole. Ero in mezzo al pubblico in uno di quei convegni (credo nel ’99) svolto in un albergo della mia città e ricordo un episodio increscioso. Si era nel nel corso di un’affollata pubblica canalizzazione, e mentre le medium sul palco imponevano un silenzio carico di attese e mistero e la tensione giungeva al suo acme, in attesa di una manifestazione spiritica, qualcuno – evidentemente personale dell’albergo – si era malandrinamente inserito sulla linea audio e aveva ululato un “ECCOOOCI STIAMO ARRIVANDOOOO” che aveva raggelato le 300 persone in sala e indignato la povera Paola Giovetti, curatrice dell’evento, volto noto della tv, che era letteralmente sbiancata, balbettando: “sono scherzi che non possiamo accettare”. In Italia non si può fare un’evocazione seria, avranno pensato le medium inglesi.
  • Matha Gitananda Ashram. Questo è un ashram attendibile, tutt’ora operante, sede dell’ Unione Induista Italiana, allora piccola realtà, poi gonfiatasi nel corso degli anni grazie al contributo dei nuovi emigranti indiani e delle Mauritius. Il fondatore è un guru italiano, Yogananda Giri, che, dopo molti anni di studio in India, divenne monaco e fu autorizzato ad esportare il verbo. Vantano una fedeltà cristallina al Sanatana Dharma e collaborazioni con ambienti accademici; sono sicuro che abbiano cercato nei decenni di sottrarsi alla effimera nuvola new age. Ricordo solo di aver involontariamente fatto incazzare il guru, quando, in perfetta buona fede, durante una conferenza pubblica a Modena, gli chiesi se era vero che per gli induisti ortodossi noi occidentali eravamo tutti, dalla nascita, irrimediabilmente dei fuori casta. La sua irritazione rivelò un nervo scoperto. Più rivendichi la fedeltà alla Tradizione, per giustificare la tua genuinità, più devi essere pronto a difenderla, anche nei suoi aspetti incompatibili con la modernità. E questo apre le porte ad ogni contorsionismo.

E’ lo stesso problema del buddismo tibetano, che esplode in quegli anni con il trionfale export del “prodotto Tibet” e del suo principale promoter, il Dalai Lama. Aveva cominciato Bertolucci, con il suo favolistico Piccolo Budda, e poi era arrivata Hollywood. Gli Usa cominciavano a prendere le misure del gigante in crescita e usavano il Tibet (e più tardi l’affaire Falun Dafa) come uno degli strumenti di pressione e disturbo, sulla leadership in ascesa di Pechino. I centri di “buddismo tibetano” aprivano in gran numero nelle città italiane ed europee. Però, lì dentro si insegnavano solo pratiche potabili per gli occidentali – om mani peme hum, vogliamoci bene e tanta compassione universale…Le faccende più controverse e delicate erano propriamente quelle tipiche della tradizione tibetana e di quelle si parlava poco o le si collocava nella dimensione metaforica o simbolica – ad esempio la devozione verso Dei e Protettori del complicatissimo pantheon lamaista. Il Buddismo tantrico è una teurgia – cioè un sistema di evocazione delle divinità fino a farsi incorporare da esse. Dirlo esplicitamente sarebbe stato poco comprensibile per l’occidentale degli anni ’90, che sentiva il bisogno di una spolveratina spirituale, ma senza trovarsi tra i piedi la figura di un qualche dio ingombrante che frenasse la sua cavalcata vitale attraverso l’ottimismo di quegli anni .

Poi arriviamo al “paginone centrale” della rivista, che è dedicato ad Alice Bailey – esoterista e teosofa molto conosciuta nell’ambiente. Fu lei una delle prime a teorizzare all’inizio del secolo, l’avvio dell’età acquariana, come epoca di rivelazione ed illuminazione. Fu l’ultima grande musa ispiratrice della Teosofia, movimento ad inizio secolo talmente in voga da finire citato nei libri di Pirandello e influenzare l’opera di Yates, di Lewis Carrol e Conan Doyle. La signora Bailey, dopo una vita avventurosa (mai quanto la sua maestra, Madame Blavatski) sosteneva di essere entrata in contatto con un Maestro tibetano che le avrebbe dettato telepaticamente, nel corso degli anni, migliaia, di pagine di “rivelazioni” iniziatiche. Dalla Bailey nasce la Lucis Trust, che occupa anche un posto nel Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite – ed è oggi accusata in ambienti complottisti di utilizzare l’Onu per misteriose finalità paramassoniche e illuminate. Accusa giustificata forse dal fatto che la denominazione primitiva dell’associazione era stata agli esordi Lucifer Trust – ossequio alla narrazione gnostica che sta alla base di tanta speculazione massonica: Lucifero come angelo di luce, vagamente prometeico, che vuole liberare l’umanità dal giogo del Demiurgo, pasticcione cosmico. Lucifer si converte nel più politicamente corretto Lucis, anche in questo caso per evitare troppe imbarazzanti spiegazioni ai sostenitori e finanziatori occidentali (la polemica cattolica antimassonica sostiene che il segreto massonico del 33° grado sia così segreto proprio perchè custodisce questa rivelazione luciferina, che solo chi è preparato può conoscere. E del resto, più luciferino di Licio Gelli…). Comunque: sei pagine dedicate alla Baley e alle sue creature – con indirizzi internazionali a cui rivolgersi per iscriversi alla sua Scuola Arcana dai costi, immaginiamo, assolutamente iniziatici – lasciano supporre un certo investimento economico e una discreta capacità di spesa.

Nelle pagine successive, il sociologo Peter Roche De Coppens predica un ottimismo illimitato, sfrenato, contagioso. Fu un teorico del Think Positive, del “crea la tua realtà”, forgia il tuo futuro, fai fluire i tuoi desideri. Lo ricordo spesso ospite da Maurizio Costanzo: una specie di caricatura del professorone anglosassone, che parlava con l’accento di Dan Peterson, fumava la pipa e indossava una giacchetta di velluto a coste con le toppe sui gomiti. Una specie di vate dell’ottimismo globalizzato anni 90. Una sorta di “motivatore” (figura allora già in auge negli Usa) che spingeva le persone a riscoprire il proprio “potenziale” e adattarsi ai tempi brillanti che il fine secolo serbava a chi era in grado di entrare in sintonia con le vibrazioni positive di questa nuova era.

Questo del “potenziale umano” era un tema ricorrente, seppur declinato attraverso categorie diverse. Un richiamo costante al vitalismo dormiente, da risvegliare mediante tecniche interiori: la meditazione, le arti marziali, le mille versioni dello Yoga, che da sacro darshana induista, diventava definitivamente esercizio ginnico e/o terapia. Le figure del motivatore, dello psicologo, del trainer e del guru, si sovrapponevano – anche nelle biografie dei medesimi carismatici individui che si proponevano come maestri: dove finiva la parte spirituale e cominciava quella mondana? La passione degli occidentali per la “tecnica” – quasi sempre avulsa dal suo retroterra religioso – portava enormi masse a sperimentare pratiche, spesso complicate, che venivano rapidamente abbandonate e duravano il tempo di un corso: nessuna “tecnica” può cambiare di punto in bianco un individuo, con tutto il suo carico di nevrosi e aspettative; e tutte richiedono, per avere un minimo di senso, di venir calate dentro un contesto ed uno stile di vita consono. Dalla metà degli anni 60, milioni di occidentali hanno provato qualche genere di meditazione (più di quanto non abbiano fatto gli indiani, di sicuro), soprattutto per imparare a “rilassarsi”. Dov’è il risultato oggi di tutto questo accumulo di “rilassatezza”? Sono pratiche nate secoli fa in ambienti sideralmente lontani; e soprattutto non si ponevano come fine il “benessere” o l’”integrazione psico-fisica” o la piramide di Maslow – questioni che di sicuro non erano nelle priorità degli ascetici precursori.

L’inseguimento delle “tecniche”, da acquisire, collezionare, confrontare con gli altri, era solo l’espressione della solita ingordigia del bianco euro-americano, che sentiva di essere al centro di un grande ciclo di dominio globale; che era consapevole di aver raggiunto un livello di ricchezza, comfort e sicurezza mai toccato prima nella storia della civilizzazione umana; eppure si sentiva ancora insoddisfatto, incompleto, inquieto: voleva impadronirsi anche di “discipline” ( meglio se velate da qualche pseudo-segreto), grazie a cui poter esibire ed estrinsecare la propria poliedrica personalità. Era la stessa propensione che i vecchi colonialisti manifestavano quando strappavano ai popoli colonizzati tesori d’arte, monumenti, antiche vestigia e li portavano in patria: un po’ conquista, un po’ onore delle armi, un po’ nobilitazione del proprio grezzo spirito predatorio.

Dagli anni ’60 ai ’90 si era consumata (oltre a tante altre cose) anche una parabola spiritualista su cui oggi, a posteriori, sarebbe riduttivo limitarsi ad ironizzare: coinvolse decine di milioni di occidentali, artisti, leader e persone comuni. All’inizio fu una spinta avventurosa verso oriente, che manifestava un ethos critico, una repulsione verso i miti del consumismo, l’oriente come fuga dal materialismo occidentale. Poi, tra gli ’80 e i ’90, si verifica un “rientro” verso ovest, una specie di rinculo o di riassorbimento in cui brandelli masticati e rimodernati di quel viaggio collettivo verso oriente, venivano reimportati, impastati e usati non per fuggire ma per meglio adattarsi al presente – ed è il tema di quello che fu definito “materialismo spirituale”. Al viaggio mistico dei giovani inquieti verso oriente, si andava sostituendo il viaggio comodo verso occidente di guru, visioni, testi e arti varie, alla ricerca di un pubblico pagante. Nessuno dalle nostre parti anelava al poco attraente nirvana (l’estinzione dell’ego); tutti desideravano invece aumentare le loro performance e implementare le potenzialità dell’Io. E’ un po’ la medesima mutazione genetica che avvenne nello stesso periodo, nelle abitudini di consumo delle droghe: dall’eroina e dall’Lsd – lisergiche, alienanti, creatrici di esilio, controcomunità, rifiuto – si passava alla coca e alle sostanze chimiche: performanti, destinati ad accrescere le possibilità di competere nelle relazioni sociali, sessuali e persino nel lavoro.

Con l’11 settembre 2001 finisce il ‘900, ha scritto qualcuno, stiracchiando il secolo breve ben oltre il 1989. Passati i ’90, di new age nessuno se la sente più di parlare. Si cerca di sostituire il prodotto difettoso con la Next Age, ma la cosa non funziona, non apre alcun filone né commerciale né di costume. Non c’era un mondo nuovo e luminoso dietro l’angolo. La crisi globale comincerà a sciorinare i suoi effetti in occidente: guerra e miseria ritornano all’ordine del giorno anche nelle società affluenti, mentre Cina e India, da depositi di “antica saggezza”, si rivelano come moderne bestie capitalistiche lanciate furiosamente al galoppo nella storia. Non c’è alcun posto in cui fuggire: il mercato e le sue mutazioni colonizzano l’immaginario in forme ogni giorno nuove, con strumenti sempre più pervasivi, fino a costituire una inedita sfera virtuale dell’esperienza umana, ormai pienamente inglobata nel nostro quotidiano. Mala tempora.

Ma non furono solo anni di esotismo e suggestioni naif. Sotto traccia, dietro ai balocchi new age, marciavano nel cuore della storia, due potenti revival – assolutamente religiosi, non genericamente interiori o spirituali – che avrebbero provocato nel corso degli anni grandi conseguenze geo politiche: l’evangelismo pentecostale (che sta stravolgendo l’antropologia di pezzi enormi di America Latina e Africa ed è figlio della crisi del cattolicesimo istituzionale); e l’islam militante – che è prodotto a sua volta dal fallimento storico delle correnti laiciste del medioriente, nasserismo, kemalismo, baathismo. Un ridisegno colossale, antropologico, culturale. L’immaginario di centinaia di milioni di uomini e donne, si ricolloca in un senso esistenziale nuovo, muta comportamenti e gerarchie secolari, sprigiona energie tutte da studiare.

Rileggendo gli annunci di quella rivista, viene da chiedersi: cosa è rimasto di quella stagione? E viene la voglia di contattare qualcuno di quei vecchi riferimenti, interrogare qualche voce sopravvissuta, sapere se ha prevalso l’estinzione o lo spirito di adattamento.

Studio Omega. Viaggio verso il centro interiore. Sedute di regressione e trasformazione energetica multidimensionale. Ho la tentazione di chiamare il numero che compare nell’inserzione di questo Studio Omega, uno tra i tanti. Tanto, dopo 30 anni, chissà quell’utenza se sarà ancora attiva. Provo a telefonare – prefisso milanese, come al solito. Mi risponde una voce femminile un po’ scocciata; è la segretaria di un ambulatorio fisioterapico; fingo di aver sbagliato numero. Rimango un po’ deluso. Chissà perchè, speravo che quelli dello Studio Omega avessero romanticamente resistito. Ma forse sono ancora loro, quelli delle regressioni. Forse hanno solo convertito la loro professionalità, si sono diplomati, o che so io, e adesso sono diventati rispettabili appartenenti alla comunità medica e non pretendono più di aprirti i chakra. E non so dire se questo sia davvero un progresso; è chiaro che la new age era troppo poco per “reincantare” il nostro cronico disincanto. Ma chi si candida a ricoprire questa funzione oggi? l’Intelligenza Artificiale e le nuove tecnologie provocano ormai paura, disagio, repulsione. La gente comune ha la sensazione di essere fottuta, in trappola, dentro una meta-macchina che controlla tutto e corre senza direzione, senza uno straccio di finalità, di senso. E non c’è trascendenza, neanche quella un po’ farlocca del new age, ma non c’è neanche umanesimo. Niente. Non c’è nessuna nuova rivelazione, all’orizzonte. Forse solo qualche sana apocalisse.

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L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/lesperienza-umana-nellepoca-dellintelligenza-artificiale/ Wed, 10 May 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76777 di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto [...]]]> di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.

L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.

Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.

L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).

A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).

Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.

L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).

Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).

La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).

Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.

A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.

Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.

L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.

Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).

Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).

Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).

Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.

Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).

L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.

L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).

L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).

Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.

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WestWorld: la valle della disrupzione / 2 https://www.carmillaonline.com/2023/04/03/westworld-la-valle-della-disrupzione-2/ Mon, 03 Apr 2023 20:00:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76559 di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo. Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade [...]]]> di German A. Duarte

Essere host

Come accennato, anche se inseriti in una lunga tradizione che va oltre la fantascienza, gli hosts della serie finiscono per riformulare la figura dell’androide presente nell’immaginario collettivo.
Tuttavia, il motivo di questa riformulazione non sembra giustificarsi nella completa somiglianza morfologica con gli umani. Questo tema era già stato reso popolare alla fine degli anni Sessanta da Philip K. Dick nel suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968), ed è diventato parte primaria dell’immaginario collettivo con il successivo adattamento cinematografico diretto da Ridley Scott, “Blade Runner” (1982). Neppure rappresenta una novità la capacità degli hosts di mostrare facoltà cognitive autonome.

Nel WestWorld di questo millennio, in effetti, il test di Alan Turing ci rimanda a un passato remoto, così come era percepito già nel secolo scorso nell’opera di Dick appena menzionata. Nell’impossibilità di distinguere morfologicamente un umano da un androide, e avendo anch’esso raggiunto delle capacità cognitive percepite come intelligenza, lo scrittore americano immaginò come ultima spiaggia dell’essere umano la capacità di sviluppare empatia per un altro essere vivente. Essendo questa una facoltà esclusiva degli umani, un semplice test capace di misurare tale capacità sarebbe anche capace di rivelare chi fosse androide, perché questo sarebbe ovviamente incapace di soffrire la sofferenza dell’altro (ma, anche, ovviamente di provare la gioia o la tristezza dell’altro). Questa problematica sollevata da Dick ci porta naturalmente a riflettere sulla capacità, o incapacità, di provare i sentimenti dell’altro, e su come questa esclusiva facoltà umana sia continuamente modificata dal diffondersi delle tecnologie.

In linea con l’ipotesi di una singolarità tecnologica, nella serie, le capacità cognitive degli androidi sembrano ormai superare quelle degli umani. Inoltre, l’esistenza degli hosts, inserita in percorsi narrativi ben definiti, è capace di abbracciare un ipotetico passato dove essi provano sentimenti che finiscono per dotarli – sempre apparentemente – di empatia. Emerge qui, a mio avviso, una differenza sostanziale rispetto alla precedente figura di androide. L’androide proposto dalla serie sembra non posizionarsi mai nella valle perturbante; e, dunque, esso non genera mai repulsione in quanto macchina con sembianze umane. Inoltre, esso manifesta non solo capacità intellettive, ma anche una solida identità plasmata attraverso ricordi traumatici, che sono condivisi e sofferti.

Possiamo notare come nel WestWorld attuale, gli androidi, grazie alle facoltà umane appena menzionate, siano diventati nodi dello spazio sociale, e, di conseguenza, siano entrati pienamente nel processo percettivo degli umani. Così come i soggetti fondano il processo percettivo attraverso gli oggetti1, attraverso gli host gli umani pensano, percepiscono ed esistono. Inoltre, si potrebbe affermare che in una sorta di processo speculare, la violenza scatenata sugli hosts non sia altro che la necessità dell’umano di percepire e di sentire il proprio corpo, ormai scomparso per via dei processi tecnologici digitali: qui, ormai abbiamo a che fare con un corpo non solo incapace di diventare luogo dell’esperienza sensibile che rende possibile l’incontro tra soggetto e oggetto, ma, soprattutto, di sentire il prossimo2.
Nel secondo episodio della seconda stagione questo fenomeno speculare emerge chiaramente in un dialogo tra William e Dolores, dove William, un umano, si rivolge all’androide con queste parole:

Sei davvero solo un oggetto. 
Non posso credere di essermi innamorato di te. 
Sai cosa mi ha salvato? 
Ho capito che non si trattava affatto di te. 
Non mi hai fatto interessare a te, mi hai fatto interessare a me. 
È venuto fuori che non sei nemmeno una cosa.
Sei un riflesso. 

Attraverso gli hosts, la serie sviluppa un’analisi del modo in cui certe tecnologie digitali cominceranno a far parte del processo percettivo degli umani, cioè, cominceranno a diventare nodi su cui si sviluppa lo spazio sociale. Inoltre, la serie fonda la figura dell’androide sulla natura flessibile degli oggetti digitali. Di conseguenza, l’androide del WestWorld di questo millennio non rappresenta più una semplice entità intelligente dotata di facoltà considerate esclusive agli umani, ma diventa luogo di conquista transumanista.

La figura dell’androide presente nella prima stagione della serie è sostanzialmente un luogo di migrazione dove teoricamente l’essere, ormai privo di un corpo integro, sarebbe in grado di ritrovare un corpo dove può avvenire nuovamente l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto. Questa nuova figura di androide ci riporta ad un dibattito che si considerava ormai (quasi) concluso con l’opera di Maurice Merleau-Ponty, che si pensava esaurito nel concetto di Dasein heidegeriano, e che aveva trovato conferma proprio nell’introduzione di questo concetto – quest’ultima portata avanti da Hubert Dreyfus – in seno alle riflessioni sullo sviluppo della intelligenza artificiale.

In effetti, come Dreyfus ha dimostrato nella sua fondamentale ricerca – fondata su un’analisi approfondita ed esaustiva della grande opera di Heidegger – sull’era dell’informatica, il dualismo cartesiano ha trovato dei meccanismi analoghi nell’ipotizzare che i supposti biologici e psichici si rispecchiavano rispettivamente nel hardware e nel software. Come dimostrato da Dreyfus, questa riformulazione cartesiana non solo presupponeva che la condotta umana fosse priva di contesto, ma anche, e soprattutto, che l’intelligenza, seguendo sempre questa logica, non fosse altro che un semplice compimento di regole formali che si esaurivano in una relazione biunivoca e catalogabile secondo un’analisi quantitativa. In altre parole, il concetto di intelligenza si esaurirebbe in un ruled-based algorithm. Ciononostante, questo approccio, criticato con veemenza da Dreyfus, e che cadeva con la semplice introduzione del Dasein heideggeriano nella discussione, portava di nuovo a galla la questione cartesiana che, in linea con il paradigma meccanicista, aveva in passato generato una serie di analogie tra l’uomo e la macchina. Da qui sono poi derivate discussioni attorno alla questione se il pensiero potesse essere diviso dal corpo; se la sensibilità, una chiara condizione della conoscenza, potesse fare astrazione del corpo.

Possiamo dunque notare come la serie costruisca la figura dello host su un processo di riduzione dell’essere nella formulazione tradizionale oggetto-soggetto. Ma questa riduzione non si effettua attraverso la natura tradizionale dell’androide, cioè, attraverso apparenti facoltà cognitive autonome sviluppatesi al di fuori del corpo, con piena esclusione dell’esperienza vissuta. La figura dello host ci riporta alla riduzione oggetto-soggetto attraverso la componente transumanista, la quale esclude il corpo come luogo in cui avviene l’esperienza e finisce così per escludere la sensibilità della conoscenza, poiché ipotizza che l’esperienza possa essere ridotta a sua volta in computi ricombinati e traducibili. Seguendo questa logica, si ipotizza che l’esperienza possa essere trasmessa, o meglio, scaricata (downloaded) in altro supporto o device tecnologico; questo, a sua volta, può essere un altro corpo o un semplice hardware.

È qui che lo scopo dell’androide costruito dal WestWorld di questo millennio emerge più chiaramente. Gli hosts diventerebbero in una prima fase ricettori d’informazione, codificatori dei comportamenti umani, e in una seconda fase, semplici ospiti (hosts) che accolgono l’essere codificato in bits. In particolare, seguendo l’ipotesi transumanista, la figura dell’androide proposta dalla serie inciampa nell’errore di non distinguere l’Erlebnis (esperienza come fatto, avvenimento) dall’Erfahrung (esperienza come familiarità) e, di conseguenza, la serie finisce per ipotizzare con leggerezza la possibilità tecnologica di immagazzinare, riprodurre ed installare l’esperienza umana in un altro ‘dispositivo’.

Con il dipanarsi di una narrazione strutturata e vissuta quotidianamente dagli hosts, la serie ipotizza che attraverso l’analisi e la registrazione della differenza introdotta da variabili rappresentate dai comportamenti umani si potrebbe compiere pienamente l’opera di codificazione, e rielaborazione, dell’esperienza umana. Questo non solo permetterebbe di migliorare sostanzialmente la tecnologia che avrebbe portato in vita gli hosts ma, soprattutto, finirebbe per permettere a noi umani di trovare un luogo dove migrare; un corpo non deperibile dove trovare la vita eterna. Vediamo come la figura del host proposta da questa serie ignori dunque la lezione fenomenologica laddove teorizza che è il corpo a creare le cose, a trasformare gli oggetti in cose e, dunque, che è proprio nel corpo che converge quello che chiamiamo vita, conoscenza e intelligenza. Infatti, è nel corpo che avviene l’esperienza, intraducibile (non-codificabile) conoscenza. E sebbene l’esperienza si trasformi in continuazione, e sia determinata dal contesto tecnologico, il corpo rimane il territorio in cui essa viene vissuta. Il corpo è dunque il luogo dove il presente si declina, perché è proprio lì dove la realtà si manifesta3.

Nonostante ciò, forse sotto l’effetto dell’ebrezza dell’utopia distopica del transumanesimo, la serie, benché denunci la nostra condizione attuale di soggetti incapaci ad afferrare l’oggetto con un copro dilaniato dall’invasione tecnologica, per ben due stagioni ipotizza una possibile migrazione in un luogo in cui poter sviluppare l’incontro sensibile tra oggetto e soggetto; un luogo, cioè, dove poter essere (Dasein), ed essendoci, dove poter sperimentare un presente, dove poter esperimentare il regno del reale.

Non è tanto sorprendente che la figura dell’androide di questo millennio possa diventare quel luogo così ingenuamente ricercato, ma la cui ricerca è così terrificante. Ed è terrificante proprio per la sua condizione di entità facente parte del processo percettivo umano, condizione che gli androidi acquisiscono progressivamente. Lo si nota chiaramente con il procedere della serie verso la terza stagione, quando l’androide trova i suoi limiti come luogo di migrazione dell’esperienza e rimane nodo portante del processo comunicativo degli umani. L’uso dell’androide è limitato all’osservazione e registrazione di comportamenti umani, ricordando, in un certo modo, i meccanismi della interveglianza (interveillance) che si sono sviluppati con la diffusione dei social media e dell’interazione quotidiana tra umani e oggetti digitali in rete. Allora, l’impressione che se ne ricava è che, alla fine, l’androide disegnato dalla serie non riesce a diventare luogo d’immigrazione transumanista, ma rimane e si perfeziona nella registrazione e nell’interveglianza dei comportamenti umani. In altre parole, la serie si arrende all’evidenza della complessità e intraducibilità dell’esperienza umana mostrando l’impossibilità della metamorfosi dell’androide in un ricettacolo dell’essere; l’androide rimane un oggetto in più del dispositivo di profilazione e interveglianza.

(2continua)


  1. Si veda Esposito R., (2014), Le persone e le cose, Einaudi, Torino.  

  2. Zoja L., (2009), La morte del prossimo, Einaudi, Torino.  

  3. Bachelard G., (1931) L’intuition de l’instant, Stock, Paris, p. 14.  

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La perdita della presenza https://www.carmillaonline.com/2023/01/07/la-perdita-della-presenza/ Sat, 07 Jan 2023 21:00:07 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75240 di Gioacchino Toni

Dal momento che «la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, è vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva», Eugenio Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis 2022), si chiede se «in nome delle “magnifiche sorti e progressive” della realtà virtuale, della realtà aumentata […] gestita dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale», non si stia sradicando la vita dell’essere umano, il suo «esserci, dall’essere-nel mondo di presenza fin qui abitato, promettendo un ampliamento degli spazi “vitali” [...]]]> di Gioacchino Toni

Dal momento che «la dimensione vitale, relazionale, sociale e comunicativa, lavorativa ed economica, è vista, agita e proposta come frutto di una continua interazione tra realtà materiale e analogica e la realtà virtuale e interattiva», Eugenio Mazzarella, Contro Metaverso. Salvare la presenza (Mimesis 2022), si chiede se «in nome delle “magnifiche sorti e progressive” della realtà virtuale, della realtà aumentata […] gestita dagli algoritmi dell’intelligenza artificiale», non si stia sradicando la vita dell’essere umano, il suo «esserci, dall’essere-nel mondo di presenza fin qui abitato, promettendo un ampliamento degli spazi “vitali” accessibili all’esperienza individuale» (pp. 11 e 15).

Nel corso di una conferenza tenutasi il 28 ottobre del 2021, Mark Zuckerberg ha annunciato l’intenzione di voler superare il social network da lui creato costruendo un ambiente capace di fondere offline e online. Nonostante il progetto Metaverso sia stato presentato come novità volta a sostituirsi all’esistente, in esso è forse piuttosto individuabile uno sviluppo di un processo di ibridazione tra online e offline in corso da tempo e che sarebbe semplicistico ridurre ad aggiornamento del sistema di produzione-consumo pianificato a tavolino da qualche diabolica corporation, affondando le radici in una serie di innovazioni tecnologico-comunicative – dalle pretese ontologiche foto-cinematografiche, passando dalla televisione per poi giungere alla svolta digitale che, con i suoi sviluppi interattivi, plasma la contemporaneità – non per forza di cose progettate da qualche Grande Fratello ma, piuttosto, abilmente sfruttate e indirizzate a scopi profittevoli.

Rivoluzione o evoluzione che sia, sarebbe, dunque, riduttivo vedere nel progetto Metaverso una mera trovata commerciale, visto che, almeno nelle intenzioni di chi lo ha presentato, per quanto fumosamente, sembrerebbe piuttosto ambire a diventare una sorta di «“sistema operativo” delle nostre vite e della nostra società» (p. 17) risultando ben più invasivo di quanto le tecnologie siano sin qua state.

A quale ansia da “prestazione”, se vuole essere all’altezza di questo “mondo” digitale, sarà sospinto [l’essere umano] che conosciamo […]? Per tacere della già classica domanda nietzscheana strutturante il nostro rapporto con il passato, su quanta memoria, nei termini dell’onlife, della realtà ri-ontologizzata dal digitale, dalle ICT (cioè su quanti data, ovvero informazioni già date, quante tracce mnestico-cognitive magari affluenti in tempo reale, quello di una digitazione informativa) sia in sé capace di reggere l’hardware psico-biologico umano conosciuto; quello almeno che l’evoluzione fin qui ci ha consegnato nelle mani. Dietro una tale, inedita promesse de bonheur sembra celarsi una pulsione neo-gnostica (tecno-gnostica) che è vero e proprio disprezzo per il corpo, odio per la carne (p. 21).

Secondo lo studioso risulta quanto mai importante riflettere sul processo di dismissione del reale, sul transito nell’onlife innescato dai più tradizionali social web, con le sempre più evidenti degenerazioni in termini di alienazione sociale, esistenziale e percettiva «in obbedienza a un esse est percipi ormai declinato sempre più grazie al web in senso mediale-passivo come un essere percepiti che rimbalza e costruisce non solo il nostro percepire ma il nostro stesso percepirci. Il web essendo per comune ammissione la più potente tecnologia di manipolazione del sé sociale – individuale e collettivo – che si sia mai conosciuta» (p. 25).

Mazzarella individua dunque nel web «la nuova gleba a cui siamo asserviti […] racchiusa nel fazzoletto di terra di uno schermo che ci viene fornito a “casa”», uno stato di  gleba che entrerebbe a regime nel momento in cui il connubio tra AI (Intelligenza Artificiale) e ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) realizza «il transito definitivo dall’attuale struttura sintattica dell’AI al suo farsi struttura semantica autonoma (significante, significativa, e produttiva di senso). Non più semplice “intelligenza” computazionale in senso ingegneristico, capace di riprodurre l’agere, il fare che è stato programmato, ma intelligenza para-umana in senso proprio, produttiva cioè del senso che, per quanto efficiente computazione, ancora non è capace di filare da sé al pari di quella particolare macchina biologica che siamo […] e che la macchina vorrebbe imitare» (pp. 26-27).

Se il processo di dissolvimento della presenza, di relazione sociale offline, non può dirsi “derivato” dalle misure di distanziamento messe in atto per contenere la recente pandemia, è innegabile che queste hanno comportato un’accelerazione in tale direzione conducendo a un livello di onlife da cui sembra difficile poter tornare agevolmente indietro proprio perché non di “svolta improvvisa” si è trattato ma di un più “lungo” sviluppo che, innovazione dopo innovazione, senza per forza essere stato progettato da una “centrale di comando”, si è costituito in immaginario largamente condiviso del quale non solo si preferisce non guardare gli effetti negativi ma da cui non si intende rinunciare.

Occorre, sostiene Mazzarella, prendere atto che «la “quarta rivoluzione” dell’infosfera è un passaggio epocale nella storia dell’alienazione intrinseca all’umano nel rapporto con i suoi mezzi, con l’ambiente – che lo con-costituiscedella sua strumentalità: l’esteriorizzazione essenziale al suo esserci, il suo ontologicamente costitutivo portarsi fuori da sé (il suo trascendersi) che gli ritorna addosso determinandolo (codeterminandolo con la sua base biologiconaturale) nel suo Sé» (p. 60).

Se non è attraverso il “luddismo digitale” che si potranno cambiare le cose – non di meno questo, come tutti i luddismi, avrebbe le sue ragioni, ammette lo studioso – occorre almeno porsi politicamente contro un’ulteriore riduzione dell’umano a protesi della tecnica e «difendere l’essenziale del “mondo di ieri”, il carattere di presenza dell’individualità umana non surrogabile dalla sua digitalizzazione, dalla sua implementazione virtuale quanto a definirne la “realtà”» (p. 98).

Di certo con questo intrecciarsi di prodigi digitali si è giunti a un punto di svolta circa il carattere presenziale della natura umana, il suo essere.

Un passaggio epocale che riguarda il modo in cui l’esserci umano ci-è a sé stesso, agli altri e al mondo, e cioè vincolato alla realtà come presenza di sé e delle cose; un modo sempre più sospinto nella presenza atona del digitale intesa come virtualità, che non è irrealtà ineffettuale, bensì una potenza, una forza, una virtus, estranea al qualcosa in cui si mette in atto […]. Virtus che quindi, implementando questo qualcosa, ne muta la natura, l’essenza nelle sue potenzialità, facendo del qualcosa implementato, quando non lo annichili in un’altra cosa, una protesi della sua autoattuazione come realtà. Che è lo scenario di rischio di quel qualcosa che siamo noi, il qualcuno. […]
È difficile pensare che una virtualità così invasiva del nostro esserci quotidiano possa essere gestita con la riserva mentale autoconsolatoria che possiamo sempre premere il pulsante dell’on/off in modo reversibile, riassorbendo i tempi brevi dell’esposizione del nostro sistema, della nostra “energia iniziale”, alle particelle virtuali che noi stessi avremo generato, per altro immaginando un’AI che possa anche generarle autonomamente.
È questo l’orizzonte di rischio antropologico che in un mondo intramato di reti artificiali e di AI abbiamo davanti. Con in aggiunta un altro potente strumento di disabilitazione della presenza come “presenza a noi stessi” in capo alla padronanza di noi come abilità innanzi tutto deliberativa e morale; e cioè le neuroscienze, già attrezzate a venire in soccorso dello stress di questa distopia dell’umano nell’universo digitale, di questa dislocazione dalla presenza finora abitata dal nostro esser-ci. A stupefarci con una farmacologia che da riparativa si propone da tempo ampiamente come possibilità di riprogrammare la stessa psichicità umana (pp. 109-112).

A rivelare la portata dell’incidenza delle tecnologie digitali sull’identità stessa dell’essere umano può essere, ad esempio, quel senso di disagio prodotto dall’uso continuativo di piattaforme per il lavoro o la formazione a distanza accresciuto in maniera esponenziale durante la fase di distanziamento adottato in risposta alla recente pandemia. Secondo le neuroscienze, ricorda Mazzarella, tale malessere è determinato dallo “spiazzamento” subito da una serie di neuroni (place cell e border cell) che si attivano quando si occupa una posizione nell’ambiente permettendo di orientarsi nello spazio. L’individuo costruisce la sua identità attraverso il ricordo degli accadimenti e delle persone presenti nei luoghi frequentati; quando si vivono “luoghi multipli” – si è contemporaneamente in una stanza e sullo schermo in videoconferenza – il cervello umano, sempre stando alle neuroscienze, non riesce a identificare le piattaforme di presenza digitale come luoghi, dunque non collega le esperienze vissute sullo schermo con la memoria autobiografica e ciò fa vivere una sensazione di “eterno presente digitale” che non lascia segni, dunque non sviluppa identità.

Sarebbe, in definitiva, tale cancellazione della presenza, con i suoi riflessi sull’identità, a procurare il senso di disagio vissuto nell’overdose digitale contemporanea. Le ricerche relative allo “stress da lavoro correlato” andrebbero aggiornate tenendo conto che questa, a maggior ragione dovesse andare in porto il Metaverso fantasticato da Zuckerberg, potrebbe presto diventare una fonte importante di malessere legato alle condizioni di lavoro.

Se da un lato la sparizione dei corpi, della loro comunione quotidiana, della carnalità del nostro spirito, sembra consegnarci a «una relazionalità di pura ragione, magari produttiva», dall’altro

è proprio per come siamo “incarnati” che possiamo contare sul fatto che non andrà così, e non deve andare così. Perché sarà proprio la nostra costitutiva “anima bassa”, sensitiva, volitiva, quella che ogni progetto di “vita buona” ha sempre voluto e dovuto domesticare, a salvarci come lo spirito che siamo. Saremo salvati – questo è il felice paradosso di questa congiuntura del distanziamento sociale – dai sensi bassi, come sensi della prossimità, di una prossimità insopprimibile: dall’olfatto, dal gusto, dal tatto. Da quanto della nostra cinestesi corporea non è “viralizzabile”, dislocabile sul virtuale-reale della relazione di distanza (la vista e l’udito). E che ci trattiene presso noi stessi, nello stesso dialogo con noi che la storia del genere ci ha approntato. Perché “io” è una costruzione conquistata alla coscienza, nella coscienza; perché “io” non ho solo relazioni, ma sono relazione, anche però con me stesso, il me stesso dell’intimità, del foro interno della coscienza (di cui l’invocazione della privacy oggi nell’infosfera è un ben debole schermo di difesa) che ho costruito e che il decentramento nel virtuale sta tacitando, facendo sempre più parlare il sé omologato e controllato costruito dalle ICT e dall’AI come tecnologie del Sé.
La nostra umanità relazionale sarà salvata dall’incomprimibilità espressiva dei corpi, dell’anima bassa (pp. 66-67).

Mazzarella invita a cercare la possibile salvezza da questa deriva che riduce l’umano a protesi della tecnica proprio in quella fisicità che se storicamente il potere ha preteso di addomesticare, ora le tecnologie potrebbero letteralmente cancellare.

Contro Metaverso ha il merito di tracciare sinteticamente la portata del cambiamento in atto evidenziando come questo stia nei fatti, già da tempo, lavorando alla cancellazione della presenza, dunque della centralità che vengono ad assumere i corpi in una lotta che più che di resistenza assume il carattere di una vera e propria lotta per la sopravvivenza dell’essere umano. E non sarà sufficiente cambiar di segno all’impianto o sostituire la bandiera sul palazzo.

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