Insurrezione di Varsavia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 C’è del marcio in Danimarca /1: Dal rock’n’roll di Detroit all’insurrezione di Varsavia del 1944 https://www.carmillaonline.com/2022/01/17/ce-del-marcio-in-danimarca-1-dal-rocknroll-di-detroit-allinsurrezione-di-varsavia-del-1944/ Mon, 17 Jan 2022 21:00:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70112 di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe [...]]]> di Sandro Moiso

Something is rotten in the state of Denmark (Hamlet – William Shakespeare)

E’ da poco giunta la notizia della morte, avvenuta il 15 gennaio scorso, di Rachel Nagy, cantante e fondatrice del gruppo rock Detroit Cobras. Una voce roca, sensuale, ispirata alle radici blues e country del rock’n’roll, probabilmente sconosciuta alla maggior parte dei lettori di Carmilla. Bad girl per antonomasia e degna erede di Wanda Jackson, di cui agli inizi della carriera del gruppo ripropose una versione altrettanto trascinante di Funnel of Love, e di Rose Maddox, avrebbe ispirato a sua volta altre interpreti femminili, non ultima, forse, Amy Winehouse.

Ma non siamo qui per scrivere un pur meritato e commosso elogio della cantante, il cui cognome ne indicava le origini ungheresi1, ma piuttosto per segnalare come in tale occasione i media e i social, non solo italiani almeno per una volta, abbiano riportato tutti che la cantante sarebbe morta all’età di 37 anni, senza cogliere l’evidenza dell’errore nel fatto che se la cantante fosse davvero nata nel 1984, come appunto si afferma da più parti, avrebbe avuto poco più di dieci anni al momento delle prime incisioni del gruppo avvenute nel 1995.

La storia della Nagy era più lunga e complessa di quella di una ragazzina di 11 anni, come sarebbe stata se l’età riportata fosse quella giusta, avendo la stessa esercitato l’attività di “danzatrice esotica” nei night club di Detroit prima di esordire nella carriera di cantante rock’n’roll, soul e blues che, con alterne fortune, non avrebbe più abbandonato fino alla fine dei suoi giorni. I Detroit Cobras erano infatti emersi prepotentemente alla metà degli anni novanta dalla scena garage di Detroit (qui) trovando come possibili rivali nel loro genere soltanto i californiani Bellrays di Lisa Kekaula che li avevano preceduti di qualche anno.

Ora però, sarebbe bastato affidarsi non soltanto al sentito ricordo di uno dei componenti del gruppo di Detroit in cui si afferma che Rachel sarebbe morta all’età indicata dalla maggior parte dei social media, per scoprire, sulla pagina facebook ufficiale dei Detroit Cobras, che in realtà la cantante era nata nel 1971.
Certo, nulla di grave sta nel fatto che l’amico l’abbia voluta ricordare all’epoca in cui Rachel aveva inciso l’ultimo album con il gruppo2, ma la superficialità con cui i media riportano la notizia rivela ancora una volta come la disinformazione imperante non sia frutto di volontarie e strumentali fake, ma soltanto dell’ignoranza e della faciloneria che dominano l’età della rete e dei blog fai da te.

Inutile continuare a stupirsi delle balle e delle narrazioni tossiche che circolano in rete, dalle scie nel cielo al terrapiattismo fino al fatto che il Covid-19 non esisterebbe oppure sarebbe strumento di chissà quale complotto, magari satanico ad ascoltare monsignori quali Carlo Maria Viganò: basta guardare alla dis/informazione ufficiale per capire dove hanno origine le montagne di bufale e frottole che ci accompagnano quotidianamente, specialmente sui social.

Se l’esempio della Nagy sembrasse un po’ riduttivo, varrebbe allora la pena di sottolineare uno svarione storico ben più grave, riportato senza alcuna nota di biasimo, in un libretto appena apparso in edicola, per le edizioni de «il Sole 24 ORE», dedicato all’insurrezione di Varsavia del 19443 e curato da Paolo Colombo, professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso l’Università Cattolica di Milano, che si picca di promuovere la conoscenza storica attraverso il dialogo con il pubblico e l’uso di strumenti mediatici e letterari.

Beato chi gli crede se già a pagina 2 del suo libretto egli riporta, da un testo di storia contemporanea in uso all’Università4, una citazione in cui si afferma che l’insurrezione di Varsavia del 1944, successiva a quella del ghetto ebraico della stessa città del 1943, sarebbe avvenuta a partire dal settembre di quell’anno e non dal 1° agosto 1944 come effettivamente fu. Senza segnalare l’errore e senza, poi, riportare nemmeno in bibliografia gli importanti testi di Marek Edelman, comandante militare dell’insurrezione del ghetto, su quella del 19435.

In 63 giorni di insurrezione, i combattenti dell’esercito di liberazione polacco riuscirono a respingere gli occupanti nazisti dal centro cittadino, sotto lo sguardo immobile di Stalin e delle truppe sovietiche che si erano fermate al di là della Vistola, senza avanzare sulla città fino a molte settimane dopo che ogni traccia di resistenza era stata annientata dalle armi tedesche.
La città in quei due mesi fu distrutta all’87% (uno dei tassi più elevati di distruzione urbana dell’intero secondo conflitto mondiale) e due terzi degli abitanti, di una città che inizialmente ne contava un milione e trecentomila, furono eliminati dalla violenza, dalla fame e dalle conseguenze degli incessanti bombardamenti e delle rappresaglie successive alla sconfitta dell’insurrezione.

Se la vera età della Nagy è questione “leggera” e conta poco e se anche i morti polacchi, forse, pesano ancora meno, quello che conta allora davvero è il fatto che la verità mediatica scritta e divulgata, più per ignoranza e dabbenaggine che per un piano contorto, deve comunque sempre trionfare. Purtroppo però quello che rende tutto ciò invisibile e credibile, allo stesso tempo, è l’ignoranza uguale, e talvolta peggiore, di chi vi si dovrebbe opporre. Studiare, confrontare i fatti, verificare i dati, pensare sembrano attività diventate ormai difficili, se non addirittura impossibili, mentre parlare e scrivere costa ormai nulla, manco l’apprendimento delle conoscenze più elementari. Facendo sì che la legge del “copia e incolla” e dei “like”, resa possibile dagli strumenti di comunicazione elettronici e dalla rete, finisca con il dominare oggi ogni forma di riflessione (di fatto annullandola).

Ma come il triste principe danese torneremo ancora sul marciume ideologico e sull’ignoranza profonda che tutto circonda e pervade in questo periodo di emergenze armate e di movimentismo imbelle.


  1. Imre Nagy era il nome del primo ministro ungherese che per aver solidarizzato con gli insorti del 1956 fu impiccato per tradimento dai sovietici nel 1958  

  2. L’ultimo disco ufficiale dei Detroit Cobras, Tied & True, è infatti uscito il 24 aprile 2007, anche se lo stesso gruppo, sempre guidato da Rachel Nagy, ha continuato ad andare in tournée almeno fino al 2019  

  3. Paolo Colombo, Varsavia 1944. Storia della distruzione di una città, Il Sole 24 Ore – Cultura, sabato 15 gennaio 2022, pp. 85  

  4. AA.VV., Storia contemporanea, Donzelli, Roma 1997  

  5. Marek Edelman, Il ghetto di Varsavia in lotta, a cura di Wlodek Goldkorn, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2012; Hannah Krall, Arrivare prima del Signore Iddio. Conversazioni con Marek Edelman, Casa Editrice Giuntina, Firenze 2010; Rudi Assuntino, Wlodek Goldkorn (a cura di), Il guardiano. Marek Edelman racconta, Sellerio editore, Palermo 1998 e Marek Edelman, C’era l’amore nel ghetto, Sellerio editore, Palermo 2009  

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Parigi 1871 – Varsavia 1944 – Kobane 2019? https://www.carmillaonline.com/2019/10/15/parigi-1871-varsavia-1944-kobane-2019/ Tue, 15 Oct 2019 21:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55375 di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador [...]]]> di Sandro Moiso

“Non abbiamo amici, solo le montagne” (proverbio curdo)

Negli ultimi anni ci siamo talmente abituati al pietismo cristiano, al pacifismo imbelle ed inutile, al populismo e al sovranismo di politici miserabili, così come al ritorno sulla scena delle più tristi ideologie nazionaliste e frontiste novecentesche e di una solidarietà pelosa e utile soltanto ai giochi delle politica più infame, da non saper più reagire con il giusto internazionalismo, rivoluzionario e di classe, ai drammi e alle rivolte che agitano il pianeta in queste ultime settimane.

Dal Rojava all’Iraq, dall’Ecuador a Hong Kong, passando per le gigantesche manifestazioni giovanili in difesa dell’ambiente, della giustizia climatica e della specie, un enorme movimento tellurico scuote le società, all’Est come all’Ovest o in Medio Oriente.
Un tempo almeno si sarebbe cantato Tutto il mondo sta esplodendo…, ma oggi no: ognuno si schiera con una causa e in ogni causa troveremo chi si schiera sulla base di uno degli elementi elencati in apertura oppure con uno dei due fronti in lotta adducendo motivazioni tratte dal grigio frontismo ereditato dal ‘900.

Tutto ciò non indebolisce soltanto i movimenti in lotta contro l’iniquo presente, ma fa sì che vada persa qualsiasi lucida e necessaria capacità di analizzare le mosse di quello che dovrebbe essere il nostro avversario unico (il modo di produzione capitalistico) e quelle che dovrebbero essere messe in atto da un movimento realmente antagonista.

Piace ai media, in tutte le loro forme, parlare di vittime, soprusi, dolore e terrore, in una maniera tale da creare confusione, come succede nel percorso della Salita della Memoria a Brescia, dove con le formelle sono state affiancate vittime e carnefici di una violenza che sembra essere più una manifestazione del Male assoluto che non il prodotto di reali contraddizioni sociali e battaglie di classe. Così, per fare un esempio, il commissario Calabresi può essere posizionato subito dopo l’anarchico Serantini, mentre di Giuseppe Pinelli non si trova neppure traccia.

Così in queste ore drammatiche, mentre il secondo esercito della Nato, appoggiato dalle milizie integraliste, ha iniziato a schiacciare la resistenza curda nel Rojava, tutti si sono affrettati a denunciare il genocidio (che Erdogan stava evidentemente pianificando da tempo) e a condannare l’azione turca, senza però mai toccare l’argomento dell’esperienza organizzativa, politica, economica, ambientale, di parità di genere e militare che le forze democratiche curde stanno da tempo portando avanti in una delle aree più calde (dal punto di vista militare e geopolitico) del pianeta (qui).

Se la questione profughi durante l’estate scorsa, quando la sinistra istituzionale preparava il proprio immeritato ritorno al governo, ha visto mobilitazioni generose e ampie, la mobilitazione in solidarietà con i curdi del Rojava e le loro unità di combattimento e protezione ha incontrato maggiori difficoltà, di modo che le manifestazioni in loro appoggio, anche se gli ultimi giorni hanno visto ampliarsi il loro numero, non sono mai state fino ad ora abbastanza unitarie oppure abbastanza forti da poter premere su un governo vile e pauroso, incapace di prendere posizione proprio a causa degli interessi delle più di 1400 imprese italiane che operano in Turchia, con la quale l’interscambio commerciale italiano ruota intorno ai 20 miliardi di euro annui.

In tale contesto, poi, i dubbi di molti “compagni” o presunti tali deriverebbero dal fatto che i curdi del Rojava hanno accettato, al fine di potersi armare, l’aiuto americano nel periodo della loro sanguinosa lotta contro l’ISIS, con la quale hanno rappresentato l’unica vera opposizione militare vincente all’espansionismo di Daesh nel Medio Oriente.

Altri ancora, incapaci di pensare alla Russia di Putin come a uno dei tanti attori dell’imperialismo nella regione, non riescono a slegare l’attivismo politico e diplomatico, oltre che militare, del nuovo zar di Mosca dalle loro personali e ingiustificate fantasie nostalgiche sull’URSS di staliniana memoria, contribuendo così a proiettare nel mondo contemporaneo ideali frontisti che già contribuirono alla distruzione del proletariato europeo e della sua autonoma iniziativa di classe nel corso del secondo conflitto mondiale.

Purtroppo, però, anche chi cerca in tutti i modi di appoggiare e difendere l’esperienza del Rojava, dimentica la Storia e può illudersi che un cambiamento di alleanza (il passaggio delle milizie curde a fianco delle truppe di Assad, con l’appoggio molto vago della Russia) oppure un intervento diplomatico europeo possano contribuire a risolvere la situazione militare sul campo. No, cari compagni, state sbagliando anche voi. Soprattutto quando si difende il Rojava mettendo in primo piano la sua azione anti-ISIS piuttosto che l’importanza del suo esperimento politico.

Immemori della Storia ignorate un paio di cose niente affatto secondarie.
La prima è data dal fatto che nessun rappresentante dell’imperialismo internazionale, nonostante le gravi contraddizioni politico-militari ed economico-territoriali che lo attanagliano, potrebbe mai difendere con convinzione e mezzi adeguati un esperimento sociale teso alla sua destituzione e a quella del modo di produzione e dei rapporti di forza sociali che lo fondano.

Non solo gli Stati Uniti hanno “tradito”, ma pure gli europei, anche quando fingono di voler condannare il sovrano di Ankara. La cui potenza militare, la posizione geo-politica e, ancora una volta, l’interscambio commerciale (80 miliardi di euro annui con la sola Europa) è più importante per la Nato e l’Occidente di qualsiasi altra considerazione umanitaria e “democratica”.
Anzi in realtà, forse, nessuno ha tradito, neanche Trump: semplicemente ognuno ha agito o agisce in base al proprio interesse prioritario. Ai vertici del quale non sta sicuramente la questione curda o la salvezza del Rojava; mentre tutti sono disposti ad inviare le proprie cannoniere in difesa dei giacimenti di petrolio, come sta accadendo in queste ore per i giacimenti ciprioti (qui), ma non a bloccare collettivamente ed immediatamente la vendita di armi al regime di Ankara.

La seconda questione è anche più semplice anche se, una volta dimenticata la Storia dei conflitti sociali e militari, sembra oggi più difficile da comprendere.
Il dramma che sta per avvenire a Kobane, e nelle altre località dove si è maggiormente manifestato l’esperimento del confederalismo democratico curdo, è già avvenuto altre volta nella Storia degli ultimi 148 anni.

Infatti dopo la sconfitta delle truppe francesi e di Napoleone III a Sedan nel 1870, i comandi prussiani non ebbero difficoltà a lasciare che una parte dell’armata francese si riarmasse per reprimere nel sangue l’esperimento della Comune di Parigi, prima forma di autogestione politica, militare ed economica del proletariato francese ed europeo. Il muro dei federati al cimitero di Père-Lachaise, dove il 28 maggio del 1871 furono fucilati 147 comunardi superstiti dopo la caduta della città nelle mani delle truppe versagliesi, è ancora lì a ricordarcelo, anche se tanti corrono a visitare da turisti quel cimitero ricordando soltanto che lì si trova la tomba di Jim Morrison.

L’avanzata delle truppe di Assad, in compenso, sarà lenta. Putin non vuole una divisione della Siria che metta in pericolo la presenza delle basi russe in quell’area e, contemporaneamente non vuole irritare il novello compare Erdogan, che ha contribuito ad armare con i più moderni sistemi di difesa e di attacco attualmente a disposizione della tecnologia militare russa. Per questo si è già chiamato fuori, mentre i militari siriani si stanno spostando verso Kobane, ma quando arriveranno ancora non si può sapere con certezza.
Motivo per cui vale qui un secondo esempio.

Tutti ricordano la gloriosa e disperata rivolta del ghetto di Varsavia nelle primavera del 1943 (19 aprile – 16 maggio). Unico ghetto ad insorgere contro il tentativo tedesco di deportarne tutti gli abitanti, vide circa cinquecento giovani male armati (con revolver e bottiglie molotov principalmente) tener testa per quasi un mese, sotto il comando di Marek Edelman (membro del Bund – Unione Generale dei Lavoratori Ebrei), a migliaia di soldati tedeschi e membri delle SS.
Sono però di meno coloro che ricordano l’insurrezione dell’anno successivo (1 agosto – 2 ottobre 1944), quando l’intera città insorse contro l’occupazione nazista, mentre le truppe sovietiche si trovavano già alle porte della stessa. I combattimenti portarono ad una prima ritirata delle truppe della Wermacht, che però poi tornarono in forze per sconfiggere la resistenza polacca e massacrare decine di migliaia di abitanti (donne e bambini compresi, naturalmente) sotto gli occhi impassibili dei comandanti sovietici che fecero entrare le truppe tra le rovine della città soltanto nel gennaio del 1945.

Stalin e i sovietici preferirono sicuramente assistere al massacro e alla distruzione della città simbolo delle resistenza polacca dalla riva orientale della Vistola, piuttosto che aiutare un popolo ritenuto non solo nemico, ma anche coraggioso, ribelle e fieramente desideroso d’indipendenza.
Proprio quel popolo che sia la Prima Internazionale che Marx e i volontari garibaldini, nel corso di due sfortunate spedizioni (quella di Francesco Nullo, fucilato dalle truppe zariste a Krzykawka, il 5 maggio 1863, e quella di Stanislao Bechi, caduto a Włocławek il 17 dicembre 1863) cercarono di appoggiare durante l’insurrezione del 1863 contro il dominio zarista.

A settant’anni di distanza l’uno dall’altro, questi episodi sembrano anticipare quello che sarà, in assenza di una maggiore solidarietà internazionalista su scala mondiale, il destino dell’esperimento confederalista del Rojava, a meno che i curdi stessi non scelgano una strada di rinuncia ai loro ideali.
L’invasione turca della Siria del Nord-est ha diverse motivazioni e ancora più diverse sono le contraddizioni in loco che faranno del Vicino Oriente il luogo in cui si scatenerà, molto probabilmente, il prossimo conflitto globale, ma affinché quest’ultima possibilità si dispieghi in tutta la sua orribile determinazione e potenza occorre che il Rojava sia sconfitto, sottomesso e distrutto. Molto probabilmente nel balbettio insignificante dell’Europa (che su quelle sponde finirà di affondare come a Monaco nel settembre del 1938), nel rumore assordante delle manovre diplomatiche di Stati Uniti e Russia, nel mugugnare di opposizioni che dopo aver perso il faro dell’internazionalismo troppo spesso si perdono nel frontismo e nelle dispute ideologiche ormai mummificate, e, soprattutto, tra le urla, i lamenti e le bestemmie dei feriti e dei morenti, dei combattenti e dei civili del Rojava. Ovvero di questa nuova Comune al centro dell’inferno che viene .

Un’area in cui, ancora una volta, si giocherà sulla pelle dei più deboli una partita cinica e spietata, dove anche i profughi diventeranno sempre più un’arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei oppure autentica una volta spostati nel Nord-est siriano ed invitati a difendere il territorio. assegnatogli dal nuovo Saladino, contro i curdi. Anche questa una storia assolutamente non nuova se si pensa che la Francia colonizzò l’Algeria deportando là molti insorti del 1848 e il Regno Unito l’Australia deportandovi sottoproletari e ribelli irlandesi, solo per fare rapidamente due riferimenti storici.

Mentre in un paese politicamente vile da troppo tempo, in cui i combattenti di ritorno dalle miliziue curde sono inquisiti, i traditori di Abdullah Öcalan1, e di qualsiasi altra opzione che non sia quella di servire fedelmente gli interessi del capitale nazionale ed internazionale, fingono di stracciarsi le vesti, stazzonandole peraltro soltanto un po’.

Ultima ora

A dimostrazione della sua ‘democraticità’ e ‘neutralità’, Facebook ha oscurato i profili di alcune testate italiane indipendenti da sempre schierate a fianco della battaglia condotta dai curdi del Rojava. La Redazione di Carmillaonline si schiera e solidarizza con Infoaut, Contropiano, Dinamopress, Radio Onda D’Urto, Globalproject.info e Milanoin movimento.com, nel denunciare l’accaduto, probabile premessa ad ancor più gravi censure future nei confronti di chi si opporrà alla guerra, non solo turca.


  1. Nel 1998 le autorità siriane scelsero di non consegnare il leader del PKK ai Turchi, ma gli intimarono di lasciare il paese. Per Öcalan fu l’inizio di una lunga odissea alla ricerca di asilo politico durante la quale egli si rifugiò prima in Russia da cui fu invitato ad allontanarsi dopo pochi giorni.
    Da Mosca Öcalan giunse a Roma il 12 novembre 1998 dove il leader del PKK si consegnò alla polizia italiana, sperando di ottenere asilo politico, ma la minaccia di boicottaggio verso le aziende italiane spinse il governo D’Alema a ripensarci.
    Non potendo estradare Öcalan in Turchia, e a causa del ritardo nella concessione del diritto d’asilo, che fu riconosciuto a Öcalan troppo tardi, il 16 gennaio 1999, dopo 65 giorni, Öcalan fu convinto a partire per Nairobi.. Il “caso Öcalan” fu origine di critiche al governo D’Alema, accusato tra l’altro di aver trascurato gli articoli 10 e 26 della Costituzione italiana che regolano il diritto d’asilo e vietano l’estradizione passiva in relazione a reati politici.
    Il 15 febbraio 1999 Öcalan fu catturato dagli agenti dei Servizi segreti turchi del Millî İstihbarat Teşkilatı[9] durante un suo trasferimento dalla sede della rappresentanza diplomatica greca in Kenya all’aeroporto di Nairobi e portato in Turchia dove fu subito recluso in un carcere di massima sicurezza. Dove tutt’ora sconta l’ergastolo  

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