inquinamento – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 23 Nov 2024 08:02:07 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Eminenti ecologie. Ambiente e Bellezza in età vittoriana tra idillio e apocalisse https://www.carmillaonline.com/2023/09/02/eminenti-ecologie-ambiente-e-bellezza-in-eta-vittoriana-tra-idillio-e-apocalisse/ Sat, 02 Sep 2023 20:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78745 di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per [...]]]> di Franco Pezzini

[È appena uscito in libreria a cura di Emanuela Chiriacò, per i tipi Primiceri di Padova, il volume La Regina Cannibale. L’immaginario ecologico nell’età vittoriana e post vittoriana, con un saggio conclusivo di Paola Del Zoppo. Quella che segue è la mia prefazione.]

Lo sappiamo, l’età vittoriana con il suo impatto tanto vivido sull’immaginario di oggi, sorta di Paradiso perduto di eroi in mantellina e trine, pince-nez e ombrello (perennemente a spasso nell’odierno orizzonte transmediale, attraverso nuove edizioni di romanzi e racconti, trasposizioni su schermo, pastiche) rappresenta per altri versi e in modo concretissimo, in grazia del suo impero quasi planetario, una sorta di prova generale del nostro mondo globalizzato. Compreso per quanto riguarda i rapporti con la natura e le minacce che la insidiano, il clima e le sue crisi, il fronte che definiamo ecologico. Certo, è dall’inizio dell’Ottocento – o anche molto prima – che emergono inquinamento, sfruttamento industriale e altre situazioni lesive di un’alleanza tra uomo e natura, garantendo senz’altro una serie di benefici moderni ma ponendo al contempo fiumi di domande (comprese quelle di Mary Shelley col suo Frankenstein): però è con l’età vittoriana che una certa consapevolezza emerge in modo più acuto tra nubi di fuliggine spessa.

Grande pregio del testo che andate a leggere è nella proposta di un ventaglio di contributi, articoli, prove in punta di penna niente affatto noti al grande pubblico e per nulla scontati: a offrir voci che in valori e limiti – limiti che non paia ingeneroso rilevare, considerando quanto nell’ultimo secolo sia cresciuta una sensibilità all’ambiente e la percezione di rischi molto concreti – presentano sul tema un ampio panorama di provocazioni.

Si parte da Industrializzazione e città tentacolari, sul rapporto – paradigmatico nel caso di Londra – con la nuova urbanizzazione. Un fenomeno del resto tanto felicemente evocato in pagine di autori-cardine del periodo in questione: si pensi solo a Dickens (dagli impagabili Sketches by Boz, 1833-36, a mille scene dei suoi grandi romanzi, compreso l’emblematico Tempi difficili, 1854, che pure si ambienta a Coketown, trasfigurazione di Preston presso Manchester), a L’uomo della folla di Poe, 1840, ambientato significativamente in una Londra mitizzata, visionaria e febbrile – con il suo vampiresco Ebreo errante della labirintica modernità urbana, in osmosi/dipendenza dalla Notte etica di massa –, ai bassifondi evocati dai polizieschi di Conan Doyle e dalle incredibili tavole a incisione di Gustave Doré per lo “scandaloso” reportage London: a pilgrimage, 1872. È un fatto che, nel corso dell’Ottocento, Londra sia cresciuta in modo vertiginoso, dal primo quarto del secolo è divenuta la città più grande del pianeta (da oltre 1 milione di abitanti nel 1801 ha conosciuto un’impennata a 5,567 milioni nel 1891), il maggior porto esistente e il cuore pulsante di finanza e commercio internazionale, connesso in vario modo a tutto il resto della Terra; e alla fine dell’età vittoriana rappresenta un intero mondo, il luogo delle contraddizioni della modernità (al punto che proprio lì i movimenti dei lavoratori sono spinti a trovare un importante luogo di confronto). Non è un caso che nel Dracula (1897) il Grande Vampiro intenda trasferirsi nella gigantesca pasticceria di una Greater London stimata di 6,292 milioni di persone; e neppure che per intervenire urbanisticamente sull’infernale Babilonia dei quartieri poveri occorra il clamore mediatico del caso Jack the Ripper, 1888. Per contro, autori flâneur come Machen rilevano l’estrema complessità del panorama umano a Londra: dal narrante de La collina dei sogni (1895-1897, pubbl. 1907) nella sua catabasi urbana, al Dyson di La luce interiore, che vede nella capitale “il più grande soggetto che mente umana possa concepire. […] Vede, a volte mi sento disarmato al pensiero dell’immensità di Londra, della sua complessità. Con ragionevole sforzo si può capire Parigi, ma Londra no, Londra resterà sempre un mistero”.

Ma nelle pagine che andrete a leggere il soggetto non è soltanto la pur emblematica Londra. Parte infatti nientemeno che dal Bosforo di Pierre Loti il primo contributo di questa raccolta, l’articolo The Ugliness of Modern Life – La bruttezza della vita moderna di Ouida (all’anagrafe Maria Louise Ramé, 1839-1908), prolificissima e oggi quasi dimenticata scrittrice inglese che ebbe però la stima di Oscar Wilde, morì a Viareggio e fu sepolta a Bagni di Lucca, dalla sua raccolta Critical Studies, T.F. Unwin 1900: e da quel fronte esotico si avventura in una serie di speculazioni sul rapporto tra modernità & cinica indifferenza alla bellezza. Con le sue riflessioni a volte interessanti e controcorrente, a volte discutibili o (ci pare) sgangherate, una libera battitrice come Ouida è forse emblematica della fatica di un’epoca a focalizzare problemi su un fronte tanto ampio, uscendo da soggettivismi e limiti di strumenti d’analisi: una fatica che, senza concederci alibi, fa meglio comprendere resistenze e ritardi in una percezione collettiva anche molto più recente.

Così un certo passatismo dell’autrice risulta simpatico dove contesta le crudeltà sugli animali, gli orrori dell’inquinamento industriale e gli sconci paesaggistici un po’ in tutto il mondo, le sirene svianti di un commercio cieco e avido e del militarismo imperante, nonché l’eccesso di ordine, “sicurezza” e uniformità (“La polizia è ovunque […] mentre fuori casa i ragazzi e le ragazze non devono cantare o ballare, il cane non deve giocare o abbaiare, la sedia non deve spiccare sul marciapiede”) – anche se poi biasima i verdetti troppo miti dei tribunali. Per contro forzate e datatissime sono altre sue valutazioni, scandalizzate e tonitruanti quanto confusive: come la stroncatura dell’arte moderna in generale, la miope ed elitaria critica al fatto che i bambini siano spinti a disegnare, lo sdegno sulla postura antiestetica sui mezzi di locomozione (a due ruote, soprattutto)… Per non parlare del suo grottesco Medioevo idealizzato alla Walt Disney, della guerra di una volta piena “di colore e di sfarzo”; o dell’imputazione dei frequenti traslochi della “maggior parte delle persone del ceto borghese e della classe operaia” a una deprecabile incapacità di capire il valore di una casa – laddove le cause sembrano ben più concrete e drammatiche, specie per i ceti più bassi. Del resto superficialotto è il suo giudizio sulla Comune di Parigi e in generale sul socialismo – a dimostrare, se mai ve ne fosse bisogno, quanto la cifra dell’antimodernismo resti in sé ideologicamente equivoca.

“Penso che non ci sia dubbio che la bellezza fisica stia degenerando rapida, e la frequenza con cui si vede la bocca scrofolosa nei bambini, anche nei bambini degli aristocratici, è allarmante per il futuro della specie”, il che Ouida imputa – non senza alcune ragioni – all’inquinamento: ma certo le preoccupazioni eugenetiche fanno avvertire non distante il Max Nordau di Entartung, 1892. Del resto, nella “Canaglia che si precipita con un urlo stridulo di risate quando colpisce e getta a terra una donna debole o un bambino piccolo” sembra di ritrovare le brutalità del signor Hyde di Stevenson (1886), lui pure ipoteticamente frutto degli ultimi pericolosi studi scientifici. E il dottor Moreau di Wells è appena un passo in là.

L’autrice torna sul tema in un articolo, The Streets of London La bruttezza di Londra. Un appello per le strade belle (inizialmente su Women’s World  data incerta ante 4 settembre, più avanti sul Western Star 8 dicembre 1888), dove interviene con proposte e censure su temi della vita urbana. Ed è interessante ricordare quanto una narratrice popolare quale Ouida, per quanto anticonformista, possa restituire l’eco di discorsi diffusi all’epoca tra persone molto più convenzionalmente allineate.

In ogni caso a rispondere a Ouida è una voce eccellente, William Morris, con il pezzo Ugly London – Londra la brutta (Pall Mall Gazette 4 settembre 1888): dove cerca di affinare la discussione. Che Londra sia brutta, sia scoraggiante (“C’è, davvero, come dice Ouida, qualcosa di mortificante e scoraggiante nella bruttezza di Londra; altre città brutte possono essere più minacciose e feroci nella loro crudeltà, ma nessuna è così disperatamente malmessa, così irrimediabilmente volgare come Londra”), non ci sono dubbi; e Morris si limita a qualche suggerimento che però – ne è cosciente – resta un palliativo. Ma è importante capire la chiave sociale: la bruttura della Londra Ricca deriva in modo diretto dal furto organizzato e legalizzato ai danni della Londra Povera. E di qui, se vogliamo, l’urgenza dell’utopia della Bellezza coltivata da Morris con il suo progetto Arts and Crafts: dove il recupero di istanze di bellezza proprio dal medioevo – ma istanze reali, non stereotipo di maniera, con cui portare bellezza nelle case non dei soli straricchi –, e il riconoscimento di una dignità artistica di buoni artigiani con lo sviluppo di una peculiare poetica delle arti applicate, muovono nel segno di un tentare pace con l’ambiente in modo creativo e illuminato. Certamente non può bastare, ma resta uno degli esempi più alti prodotti su questo fronte nell’Inghilterra vittoriana.

Dalla constatazione dei guasti della modernità e particolarmente in quella capitale che ne è quasi un simbolo, promana la seconda interessantissima sezione, Urbanizzazione e cambiamenti climatici, che vede in primo piano il fenomeno London Fog. Un fenomeno allarmante, presentato da uno scritto di Thomas Miller, London FogLa nebbia di Londra (Picturesque Sketches of London Past and Present, Office of the National Illustrated Library, 1852) come “una concentrazione di zuppa di piselli gialli, densa quel tanto che basta da farsi attraversare senza rimanere del tutto sommersi o soffocati”, che costringe ad accendere le luci e causa surreali incidenti. L’evocazione dei medesimi, in particolare nei quartieri sul Tamigi, è condotta con piglio d’ironia atroce alla Hogarth, ma l’enfasi non toglie nulla alla gravità del quadro.

Non stupisce che il pezzo seguente sia un vero e proprio racconto distopico, in qualche modo di fantascienza: The Doom of LondonLa tragica sorte di Londra di Robert Barr (The Idler, novembre 1892, poi nella raccolta The Face And The Mask, 1894). Barr (1849-1912) è un novellista scozzese-canadese trapiantato a Londra, autore di storie umoristiche, poliziesche e del sovrannaturale, amico di Stephen Crane e Conan Doyle (di cui però parodia l’arcidetective nelle avventure di Sherlaw Kombs). In questo caso è in scena una vicenda catastrofistica proprio incentrata sul tema della nebbia soffocante, chiamiamola pure smog: un testo che è di estremo interesse paragonare al successivo della raccolta, The Doom of the Great City; Being the Narrative of a Survivor, Written A.D. 1942La Tragica Fine della Grande Città del micologo e narratore William Delisle Hay (ca. 1853-1885: in volume, Newman and Co. 1880). Anche i titoli originali sono simili, citando entrambi il Doom/destino, ma quello di Hay è precedente di dodici anni: il sospetto è che Barr possa conoscerlo ma, con il suo racconto più neutramente catastrofistico, preferisca smarcarsi dai toni ideologici e moralistici del predecessore. Hay è in effetti un personaggio un po’ particolare, mixa nei suoi testi fantascientifici confusi conati socialisteggianti e spiacevoli posizioni da suprematista bianco. Il suo testo qui presentato è stato considerato il primo racconto moderno di apocalisse urbana, sull’onda della grave crisi d’inquinamento del 1873: ma l’autore vi vede una sorta di punizione per la depravazione della “Grande Città”, una Londra-Babilonia dove la disonestà regna nel lavoro, i poveri sono oppressi, una Chiesa ingiusta benedice lo stato delle cose e la depravazione trionfa, in un meretricio dilagante. A castigare tanta corruzione è la nebbia, che inevitabilmente colpisce anche gli innocenti…

La sezione successiva, La natura tra urbano e rurale, riconduce idealmente a un altro degli spunti di Ouida: e un eccellente punto di partenza è il pezzo Town and CountryCittà e campagna di Morris (The Journal of Decorative Art, aprile 1893), che rendendo più dialettica la contrapposizione, ne affronta una rapida disamina storica. Puntualizza così come a un certo punto il discrimine non sia più stato “tra le città e le campagne, ma tra Londra e il resto del paese, tra le città e il resto” – e il discorso torna a Madre Londra, come la chiamerà Michael Moorcock. Sottolineando anche la complessità del quadro:

 

Per ora si comprende che abbiamo tre cose da affrontare: Londra, la brutalità e la sordidezza apparenti che la vita intellettuale in qualche modo compensa; gli snodi commerciali, che non hanno una tale compensazione, e anche in apparenza sono ben più orrendi di Londra; e il paese, che, invece di essere il giusto compagno e aiutante delle città e della Città, è un’appendice fastidiosa, un incidente imbarazzante della vita cittadina, commerciale o intellettuale, che è la vita reale del nostro tempo.

Il risultato di tutto ciò è la solita confusione arrabattata che opprime l’intera vita di questo tempo di strano e rapido cambiamento, se siamo precipitati in un così angoscioso bisogno di organizzazione ragionevole. Anche Londra, di gran lunga migliore delle città commerciali, è volgare in modo meschino nei quartieri ricchi, fetida e squallida in modo indicibile nei quartieri poveri. E il paese – in questa fine di maggio non dirò che non sia bello – bello più o meno dappertutto dove non ci sono molte case moderne all’orizzonte. Ma conosco bene il paese: e anche per un uomo ricco, un uomo benestante perlomeno, il paese si lascia coinvolgere dalla stupidità arrabattata del tempo. Fra tutta la bellezza soverchia di foglie e fiori, tutta la ricchezza di prati, e terreni, e colline, è avaro, oh così avaro!

 

Il vero Ebenezer Scrooge sembra doversi insomma individuare in questo tessuto di rapporti, che vedono sacrificata al soldo ogni istanza di bellezza. Ma Morris non si ferma alla lamentela e ci parla di come vorrebbe riformata la città, anche in vista di un futuro migliore.

Una sorta di diritto di replica è concesso a Ouida con il brano GardensGiardini (Views and Opinions, 1895), a celebrare il gusto del giardino privato, luogo del pensiero e del sentimento, contro i giardini e parchi pubblici: raccomandando di non eccedere in “pulizie” (“Il giardino, come una donna può essere troppo pulito, troppo freddo, troppo tiré à quatre épingles”), l’autrice vede il giardino ideale in quello di Corisande, nel Lothair di Disraeli, politico celebre ma in precedenza dandy e autore di fiction alla moda, e si mette a ragionare sui migliori accostamenti di piante e sulla tradizione inglese dei giardini. Di nuovo si può discutere sulle affermazioni della Nostra ove polemizza contro “tutto il ‘realismo’ delle esistenze dei poveri [che] si giudica in base a squallore, carestia, crimine, ubriachezza e invidia” – in un’apparente incomprensione del fatto che i “poveri” non si scelgano da soli simili inferni,  che quelli costituiscano il frutto di non casuali contingenze di classe e che i romanzieri non inventino nulla. Basti vedere la documentazione fotografica sulle stanze dormitorio dei bassifondi dove la gente dorme seduta sostenuta da una corda: c’è allora poco spazio per pensare agli idilliaci cottage fioriti di rose di gente pur semplice descritta dall’autrice. Lodevole l’insegnamento ai piccoli dell’amore per i fiori, “Non bisognerebbe mai permettere ai bambini di cogliere i fiori, nemmeno nei campi e nelle siepi, soltanto per buttarli via; bisognerebbe insegnare loro grande rispetto per la bellezza floreale che li circonda”; per contro vivaci – e comprensibili – critiche riguardano lo spreco di fiori nelle case dei nobili e nelle chiese. In generale apprezzabile è il senso del colore e la documentazione d’ambiente nelle pagine di Ouida, pur appesantite da brontolii e comunque non troppo illuminanti dal punto di vista dell’analisi sociale.

Di altro livello, per qualità stilistica e intensità lirica sono le pagine che seguono: il piccolo gioiello In the Botanical GardensAi giardini botanici di Katherine Mansfield (1888- 1923: con lo pseudonimo di Julian Mark, è il suo primo racconto pubblicato a 19 anni, 1907); la visione Dame NatureLa Signora Natura della scrittrice e naturalista scozzese Elizabeth Brightwen (1830-1906: da More about Wild Nature, T.F. Unwin 1893); il vividamente pittorico Where The Forest MurmursDove mormora la foresta di Fiona MacLeod (pseudonimo ma vero e proprio “secondo sé” di William Sharp, 1855-1905, autore di notevole interesse spentosi in Italia a Bronte nel Catanese: da Where The Fortest Murmurs. Nature Essays, R. & R. Clark, 1906) coi suoi bozzetti invernali poeticamente documentaristici. Le stagioni come punto d’osservazione emergono con passo insieme letterario e rigorosamente scientifico anche in The Biology of AutumnBiologia dell’autunno del naturalista scozzese Sir John Arthur Thomson (1861-1933: da The Evergreen A Northern Seasonal. The Book of Autumn, T.F. Unwin 1895). Nell’età vittoriana schiere di studiosi gentiluomini – zoologi, botanici, esploratori, entusiasti a vario titolo – mostrano così di affrontare il mondo della natura con sguardo elegantemente elegiaco e insieme puntuale sui dati scientifici, ma senza immaginare le crisi che un secolo dopo vedranno gli assetti da loro celebrati esposti a rischi radicali.

Il frutto dell’interpretazione essenzialmente patriarcale offerta da gran parte di loro – emblematici gli studi di Bram Dijkstra sulle letture artistiche d’epoca sulla Donna, supportate da un impressionante bacino sessista di convinzioni spicciole e pretese verità scientifiche – verrà ridiscusso in tempi più recenti dalla cosiddetta queer ecology, con la denuncia del predominio del maschile su natura e femminile. Cui è dedicata l’ultima sezione: anche qui, il pregio della raccolta è di scelte per nulla banali e scontate.

Si parte dunque con un testo narrativo, il racconto Pan di un’autrice notevolissima, George Egerton (all’anagrafe Mary Chavelita Dunne Bright 1859-1945) tratto dalla raccolta Symphonies, John Lane 1897. La vicenda si ambienta non in Inghilterra, ma nel coevo mondo basco machista e brutale dei Bassi Pirenei: qui il richiamo dell’uomo capra suonato a una gara di ballo avrà conseguenze sessualmente esplosive e tragiche. A far esplodere la situazione non stupisce che una scrittrice come Egerton, associata almeno agli inizi a un certo orizzonte decadente attraverso marcatori emblematici come le illustrazioni di Aubrey Beardsley, convochi in scena quella divinità della natura scatenata – pulsioni comprese – che in tale arco di decenni conosce un allegro ritorno: si pensi solo a Machen (The Great God Pan, 1894), al romanzo di Knut Hamsun (Pan, 1894), a The Blessing of Pan di Lord Dunsany (1927), a The Goat-Foot God di Dion Fortune (1936) e allo stesso Peter Pan di Barrie, per non parlare dell’attenzione offertagli da pittori, filologi come Wilhelm H. Roscher (poi ricordato da James Hillman nel suo Saggio su Pan) e storici delle religioni come Sir James George Frazer. La fisionomia spiazzante ed eversiva di Pan permette richiami alla natura non mansueti o manieristici, e il significato del suo nome – “il tutto” – svela alle sue evocazioni connotati di spiazzante latitudine.

Un secondo racconto, il bellissimo The Music on the HillLa melodia sulla collina (dalla raccolta The Chronicles of Clovis, John Lane 1911), è pure di firma celebre, Hector Hugh Munro noto come Saki (1870-1916), e pure torna a Pan, con il misto di macabro e ironia caro all’autore. In questo caso il devoto al dio pagano è l’uomo, ma la protagonista ha fatto proprio il sistema di un mondo patriarcale. Con risultati di cui dovrà dolersi…

Mentre il terzo, Miss  Ormerod (The Dial, 1924) di Virginia Woolf è ispirato a un personaggio autentico, l’entomologa Eleanor Ormerod (1828-1901): non sposata e a sua volta perfettamente integrata nella società patriarcale dell’epoca – con una scienza saldamente in mano agli uomini – non mostrò mai interesse a criticare tale assetto. Virginia Woolf ne offre un ritratto scintillante, gustosamente ironico e spiritosamente convenzionale. “Sotto il microscopio si percepisce chiaramente che quegli insetti hanno organi, orifizi, feci; e, sottolineo, copulano”: a richiamare a una delle dimensioni di natura più essenziali e in fondo più provocatorie per un certo orizzonte sociale. Ma senz’altro soggetta al ministero di Pan.

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Verrà un tempo in cui a muoversi sarà solo l’oscurità https://www.carmillaonline.com/2021/02/10/verra-un-tempo-in-cui-a-muoversi-sara-solo-loscurita/ Wed, 10 Feb 2021 22:00:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64741 di Sandro Moiso

John Woods, Lady Chevy, NN Editore, Milano 2021, pp. 380, 18,00 euro

Darkness, Darkness Be my pillow Ease the day that brings me pain. I have felt the edge of sadness, I have known the depth of fear. Darkness, darkness, be my blanket, Cover me with the endless night (Darkness, darkness – Jesse Colin Young, 1969)

Una storia dalla parte sbagliata della Storia narrata alla maniera “nera” di Jim Thompson: questa potrebbe essere la definizione più sintetica possibile del libro appena pubblicato dall’editore NN. In realtà, però, all’interno [...]]]> di Sandro Moiso

John Woods, Lady Chevy, NN Editore, Milano 2021, pp. 380, 18,00 euro

Darkness, Darkness
Be my pillow
Ease the day that brings me pain.
I have felt the edge of sadness,
I have known the depth of fear.
Darkness, darkness, be my blanket,
Cover me with the endless night

(Darkness, darkness – Jesse Colin Young, 1969)

Una storia dalla parte sbagliata della Storia narrata alla maniera “nera” di Jim Thompson: questa potrebbe essere la definizione più sintetica possibile del libro appena pubblicato dall’editore NN.
In realtà, però, all’interno del primo romanzo di John Woods, giovane scrittore americano cresciuto proprio nell’Ohio Valley descritta nelle vicende, c’è molto, molto di più.
Così come era già possibile verificare in molti romanzi pubblicati dall’editore milanese nel corso degli ultimi anni. A partire da quelli rivelatori, sia sul piano della scrittura che delle osservazioni sulla società descritta, di Kent Haruf: scrittore della realtà rurale americana vista attraverso le storie ambientate nella cittadina (immaginaria ma non troppo) di Holt, Colorado.

Lady Chevy in realtà è l’appellativo dato ad Amy Wrinker, la diciottenne protagonista nonché io narrante del libro di Woods, dai suoi compagni di scuola a causa del suo peso abbondante che la rende “ingombrante” quanto una Chevrolet. Un peso, non solo fisico, che Amy si è portata dentro per troppi anni della sua ancor pur breve vita, destinato prima o poi ad esplodere, insieme ad un’educazione violenta e razzista ricevuta in una famiglia in cui il nonno materno è un ex- Gran Dragone del Ku Klux Klan.

Tiene ancora una cinta di pelle nera nell’armadio, una reliquia cerimoniale con la fibbia d’argento a forma di teschio. Un giorno l’ho vista. Sopra ci sono trentatré buchi, uno per ogni omicidio, mi ha spiegato […] Io sono contenta di portare il cognome di mio padre.
Eppure non posso sfuggire al passato. Su queste colline i morti sono vicini.
Fuori dalla città i boschi sono vasti e fitti. Non troppo tempo fa, le persone scomparivano. I notiziari non parlavano mai di omicidio o linciaggio. Niente corpo, niente crimine. Nessuno troverà mai le loro tombe. Quando un nero svaniva nel nulla, era difficile che il caso venisse risolto o che trapelasse qualcosa. Quelle tombe sono opera di mio nonno Shoemaker […]
Questi sono i miei ingredienti, le spirali di dna che mi hanno reso una persona, che a volte mi fanno sentire forte e speciale, ma più spesso un mostro1.

La piccola città in cui vive, Barnesville, esiste veramente e i suoi abitanti sostengono che sia la località più alta dell’Ohio, annidata sulle colline pedemontane degli Appalachi al confine con il West Virginia. Isolata e dimenticata, ad almeno due ore da qualsiasi altro posto è stata fondata da “arcigni” coloni tedeschi e scoto-irlandesi che sfidarono l’ignota frontiera, «sterminando i nativi Shawnee e forgiando dal sangue una nuova civiltà».

Amy, giunta all’ultimo anno delle scuole superiori con ottimi risultati, ha un unico desiderio: lasciarla, possibilmente per sempre, per laurearsi in Veterinaria presso l’Ohio State University di Columbus, distante sia geograficamente che culturalmente da quel grumo di case, rancori e silenzi che hanno costituto fin dalla sua nascita il suo habitat “innaturale”.
I genitori sono poveri e insoddisfatti, alcolisti e disperati, che hanno ceduto per primi, ad una società dedita al fracking, i diritti di sfruttamento del sottosuolo dei terreni della famiglia. Contribuendo ulteriormente a quel degrado ambientale e impoverimento delle risorse di cui le miniere di carbone a cielo aperto e le falde idriche inquinate in maniera mortale costituiscono il corollario.

Le strutture abbandonate sono il marchio dell’Ohio Valley, giganti architettonici ridotti a mausolei.
Le cose qui vanno male. Lo sappiamo. Ma questi edifici sono la prova che una volta andavamo meglio. Il mondo non è sempre stato così. Una volta davamo il nostro contributo. Eravamo importanti. Contavamo. Adesso parliamo del nostro valore solo al passato, per ricordarci che non siamo più così grandi2.

Come spesso capita nella migliore tradizione letteraria e cinematografica statunitense, fin dalle pagine di Moby Dick, la devastazione della Natura costituisce quasi sempre lo specchio del disagio psichico e morale di un’intera civiltà: bianca, cristiana, razzista. Ma qui, nel cuore della Rust Belt, il tema sfugge alle fin troppo facili formule ispirate al politically correct. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che nella prima opera di ampio respiro di Woods le semplificazioni retoriche sono bandite. E le reazioni sono complicate da un sovrapporsi di sentimenti, tradizioni, rabbie sepolte che poco a poco vengono alla luce e non certo in nome del bene e della fratellanza universale.

La giovane protagonista ha condiviso i suoi sogni con gli unici amici che ha avuto fin dall’infanzia: Paul, il suo impossibile amore, e Sadie la ragazza bella e snella destinata, nonostante la sua intelligenza, ad essere preda e giocattolo dei giovani e brutali maschi locali. Ma Amy vuole andarsene ad ogni costo e ad ogni costo cercherà di farlo. Passando su ogni sentimento di amicizia o di amore e perseguendo con rabbia ostinata il suo obiettivo.

Sarà proprio la devastazione del territorio, che già ha portato in punto di morte il padre di Paul, ex-minatore dai polmoni anneriti e consumati dalla polvere di carbone, e regalato alla famiglia Wrinker un figlio minore, Stonewall, gravemente segnato nel fisico e nell’intelletto, non si sa se per l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria oppure per antiche tare genetiche, a scatenare la catena di violenze in cui l’odio per la società estrattivista, che sfrutta il sottosuolo e fa ammalare chi lo abita in superficie, si accompagnerà ad una serie di omicidi premeditati e non sempre collegati da un unico filo rosso.

I capitoli si alternano infatti tra quelli (numerati) che narrano la storia dal punto di vista di Amy e quelli (contrassegnati semplicemente con una H) in cui si sviluppa pian piano la figura, ambigua e buia quanto quella del nonno Shoemaker, dell’agente Brett Hastings.
Non c’è spazio per la pietà, non c’è speranza nella religione e la carne non custodisce nessuna anima: queste sono le linee di indirizzo che legano tra loro sotterraneamente Amy e l’agente in divisa nera. Così, mentre tutti gli altri personaggi (il padre d Amy, l’agente Durum, lo zio Tom reduce, razzista e piagato nello spirito, dal servizio prestato in Iraq, dove ha ucciso civili e bambini) non sono altro che confusi comprimari, apparentemente la chiarezza, sia essa della ragione o della follia, sembra appartenere soltanto a Lady Chevy e a Brett.

La vera chiarezza, però, non macchiata ideologicamente in nessuna direzione, appartiene soprattutto all’autore, che riesce a farci immergere completamente in quella società bianca ignorante e impoverita che ha contribuito alla vittoria di Trump alle scorse elezioni e che ha tenuto botta, continuando a votare a suo favore, anche nel corso delle ultime. Proprio là dove i confini del repubblicano Ohio segnano, da un lato, una linea di faglia con gli stati “democratici” a Nord e a Est mentre, dall’altro, l’inizio di quelli votati alla causa contraria, dal vicino West Virginia a quelli che si estendono da lì sia verso Sud che verso Ovest.

Su Main Street ci sono come al solito uomini seduti sulle panchine a guardare passare le macchine. Fumano sigarette e bevono Mountain Dew. Alcuni li riconosco, operai che riparano tetti come mio padre e, immagino membri del Klan come mio nonno. Ci salutiamo da lontano. Non hanno niente da fare alle 7,30 del mattino, ma sono svegli e vestiti con jeans, giacche di flanella e scarponi da lavoro, nella speranza di trovare qualcosa. Le acciaierie sono state delocalizzate in Cina già da anni. E ora ci sono legioni di uomini espropriati di tutto, in cerca di un lavoro qualsiasi. Tosano prati, trasportano spazzatura, lavano vetri, dipingono case. Ma perlopiù vagabondano, bevono, o si nascondono dalle madri, rintanandosi al piano di sotto guardando film di guerra, uomini adulti con matrimoni falliti e bambini che non vedono quasi mai. Oppure sono giovani senza figli che non hanno mai nemmeno avuto l’opportunità di crescere.
I più fortunati lavorano nelle miniere di carbone, come il padre di Paul. Strisciano fuori dalla terra come sottospecie tenebrose, tornano a casa al volante di un furgone costoso, e sputano catarro nero come l’inchostro sul tavolo della cucina, dove le mogli gli stringono quelle mani perennemente scure, uomini forti con le rughe disegnate a carboncino e gli occhi umidi luminescenti di brina3.

Alle spalle di questi uomini incattiviti dall’odio e dalle difficoltà economiche ci sono le donne che costituiscono il vero architrave delle famiglie e di ciò che rimane di una società allo sbando, e che spesso, come nel caso di Amy e della sua insoddisfatta e apparentemente volubile madre, sono anche le più forti. Magari in modi che non sempre piacerebbero a quegli ambienti liberal-progressisti che spesso guardano a loro, anche nel romanzo, dall’alto delle loro ville dislocate opportunamente nei quartieri migliori della città.

Le vicende si ambientano ai tempi della presidenza Obama, sicuramente poco amato all’interno del perimetro famigliare da cui proviene Amy, ma che ha poca fiducia anche negli altri presidenti, come Bush jr., che hanno mandato troppi giovani a crepare o trasformarsi in assassini prima in Afghanista e poi in Iraq. «Tua madre ha ragione. A noi ci chiamano bifolchi, morti di fame, ce ne dicono di tutti i colori […] Tu, noi, non possiamo essere bianchi e orgogliosi»4.
Un ambiente sociale in costante allerta, in cui la paura di sparire dal punto di vista genetico si accompagna a quella per la possibile morte per cancro legata alla cattiva alimentazione, ai coloranti chimici e agli zuccheri delle bibite gassate oltre che alle acque inquinate.

Noi odiamo gli ospedali, tutti quegli uomini vestiti di bianco. Le pareti dalle tinte tenui e le luci abbaglianti non ci ingannano. E’ solo un’altra vana istituzione americana, un branco di malati che si prende cura di altri malati.
Non ci fidiamo di loro. Secondo i medici […] l’intera cittadina di Barnesville soffre improvvisamente di “allergie stagionali” e “asma” a causa di una “maggior concentrazione di polline”. Questa è la loro diagnosi professionale. Non badate, stupidi contadini, alla terra che trema, alla foschia nera e a quelle fiamme alte sei metri che bruciano nella notte, non c’entrano nulla. Le falde acquifere sono contaminate. L’aria è tossica. E ancora non ci capacitiamo dell’aumento dei difetti congeniti5.

Per tutto ciò anche da qui, da queste pagine6, dalle nebbie pestifere che oscurano le valli oppure che confondono le menti, dai discorsi sui diritti che non hanno gambe materiali su cui muoversi ma che giustificano l’oppressione borghese sul resto della società, occorre partire per comprendere l’America profonda, oscura e malata di oggi. Anche i fatti di Capitol Hill, poiché «il terreno sotto di noi non è instabile. Semplicemente non esiste»7.


  1. John Woods, Lady Chevy, NN Editore, Milano 2021, pp.34-35  

  2. J. Woods, op. cit., pp.148-149  

  3. op. cit., p. 94 

  4. Ibidem, p. 166  

  5. ibid., p.163  

  6. A differenza di quelle di Hillibilly elegy. A Memoir of a Family and Culture in Crisis di J.D. Vance, che non riescono invece a raggiungere l’obiettivo che l’autore si era dichiaratamente proposto. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2017, recensito su Carmilla il 6 gennaio scorso  

  7. J.Woods, op.cit., p. 110  

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Il nemico interno/5 https://www.carmillaonline.com/2020/09/10/il-nemico-interno-5/ Thu, 10 Sep 2020 05:14:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62695 di Alexik

Che cos’è la violenza ? Quanto ne è permeato il nostro ordinamento giuridico ? Il diritto penale è uno strumento per combatterla o per esercitarla? Domani a Lecce, in due luoghi diversi della città, avranno inizio in contemporanea le udienze per il maxiprocesso contro il movimento No TAP e quelle contro i vertici della società Trans Adriatic Pipeline.

Luoghi diversi, dicevo, perché 92 compagne e compagni salentini che in questi anni si sono oppost* alla devastazione del loro territorio verranno processat* nell’aula bunker attigua al carcere [...]]]> di Alexik

Che cos’è la violenza ?
Quanto ne è permeato il nostro ordinamento giuridico ?
Il diritto penale è uno strumento per combatterla o per esercitarla?
Domani a Lecce, in due luoghi diversi della città, avranno inizio in contemporanea le udienze per il maxiprocesso contro il movimento No TAP e quelle contro i vertici della società Trans Adriatic Pipeline.

Luoghi diversi, dicevo, perché 92 compagne e compagni salentini che in questi anni si sono oppost* alla devastazione del loro territorio verranno processat* nell’aula bunker attigua al carcere della città, mentre i 19 imputati di TAP e appaltatori si accomoderanno presso il tribunale di Lecce.

L’utilizzo delle aule bunker per i processi ai movimenti fa ormai parte di una tradizione consolidata, inaugurata nove anni or sono dalla magistratura di Torino che scelse l’aula bunker del carcere delle Vallette per il dibattimento a carico di due sindaci della Val Susa, inquisiti per una manifestazione No TAV.
Una decisione finalizzata evidentemente ad equiparare i movimenti per la difesa ambientale e sociale alla lotta armata di quasi mezzo secolo fa ed alla criminalità organizzata di ieri e di oggi, a cui l’aula in questione era destinata.
Quei sindaci vennero assolti, ma la criminalizzazione rimase.
Contro il movimento No TAV venne ancora ampiamente utilizzata l’aula bunker, così come gli strumenti della legislazione emergenziale sviluppati contro le organizzazioni armate ed applicati a un’opposizione popolare1.

La scelta della location ebbe un successo che riuscì travalicare i confini del Piemonte.
A Modena, come ci racconta su Carmilla Giovanni Iozzoli, l’aula bunker adiacente al carcere viene usata per i procedimenti contro gli operai e i sindacalisti del Si Cobas “colpevoli” di lottare alla Alcar Uno e all’Italpizza, in un territorio che ha fatto già da scenario al tentativo (fallito) della procura di trasformare le vertenze per la regolarità salariale in reato di estorsione, il riscatto della dignità del lavoro in attività delinquenziale.

Domani l’aula bunker del carcere di Lecce vedrà alla sbarra 92 compagne e compagni salentin*, riunit* in un maxiprocesso potpourri che accorpa tre procedimenti diversi, per fatti avvenuti in tempi e luoghi differenti.

La contestazione più frequente, con buona pace dei diritti costituzionali, riguarda il reato di manifestazione non preavvisata, attribuito a soggetti responsabili di aver “sventolato bandiere ed esibito striscioni con la scritta No TAP” , “usato il megafono per lanciare appelli e slogan“, “usato un fischietto per attirare l’attenzione dei passanti“.
Alcuni sono accusati di violenza per aver tentato di impedire il transito delle autovetture di TAP stendendosi sul cofano col proprio corpo, o ponendosi di fronte alle macchine.
E’ questa, dunque, la violenza, per gli esegeti del codice penale.

Fra gli imputati di domani vi sono anche i 52 che il 9 dicembre 2017, dopo un corteo contro il gasdotto, raggiunsero a piccoli gruppi attraverso le campagne uno dei cancelli posti a delimitazione dell’area di cantiere di San Basilio (Melendugno), fermandosi ad intonare dei cori di protesta.
Sulla via del ritorno vennero inseguiti nei campi dagli agenti in tenuta antisommossa, con lanci di lacrimogeni e con l’elicottero della polizia di Stato che calava bassissimo sulle loro teste.
Vennero catturati, ammanettati e costretti in ginocchio fra pietre e rovi, con i cellulari requisiti per impedire che chiamassero gli avvocati, aggrediti coi manganelli ad ogni tentativo di protesta.
Una delle ragazze inseguite dagli agenti, che era caduta rompendosi una gamba, rimase a lungo senza soccorso. L’ambulanza del 118, giunta a San Basilio su chiamata di altri manifestanti, venne infatti bloccata al varco e respinta dalle forze dell’ordine, che poi si preoccuparono di portare la compagna non all’ospedale ma alla questura di Lecce.
All’interno della questura, gran parte dei fermati vennero chiusi per ore nelle celle di sicurezza senza poter andare in bagno per molto tempo.
Le donne venivano accompagnate fin sulla soglia dei bagni da agenti di sesso maschile, e una delle compagne ha avuto modo di denunciare insulti sessisti e omofobi giunti a suo carico.
Solo dopo ore di attesa sotto la pioggia battente, gli avvocati presenti vennero informati del fatto che tutti i manifestanti sarebbero stati rilasciati, e che nei loro confronti sarebbe stata formalizzata una denuncia a piede libero per i reati di riunione non preavvisata, inosservanza dei provvedimenti dell’autorità ed accensioni pericolose2.
Con queste accuse andranno domani a processo, dovendo affrontare la violenza di un giudizio che li vede sul banco degli imputati e non su quello delle parti lese e, prevedibilmente, l’ulteriore violenza dell’impunità riservata ai loro aggressori.
Inutile dire che le loro denunce per il trattamento subito rimangono ancora “in fase di indagine e a carico di ignoti”, perché nel Belpaese – come altrove – l’obbligatorietà dell’azione penale è uguale per tutti, ma per qualcuno è più uguale che per altri.

Fra i militanti del movimento molti hanno già ricevuto pesanti sanzioni amministrative (soprattutto per blocco stradale) per aver tentato di ostacolare la costruzione di un’opera devastante, climalterante, platealmente speculativa.
Multe insostenibili per giovani disoccupati e precari o per chi vive del proprio lavoro, con mutuo e figli a carico, in una regione del sud e in tempo di crisi.
La repressione economica è una forma  di violenza ampiamente utilizzata contro i movimenti, secondo un copione ancora una volta sperimentato in Val di Susa3.
Una forma  di violenza particolarmente ricattatoria, nel momento in cui costringe a mettere su un piatto della bilancia la difesa della propria terra, e sull’altro quanto costruito col lavoro di una vita.
Al momento gravano sul Movimento No TAP € 240,000 per sanzioni amministrative a carico dei militanti e € 70,000 per spese legali.

Gravano le sanzioni comminate tramite i  decreti penali di condanna per le violazioni dei fogli di  via, distribuiti dalla questura a piene mani4.
Grava indirettamente il prezzo pagato da chi ha perso il lavoro a causa delle restrizioni nella libertà di movimento, visto che molti destinatari dei fogli di via da Melendugno lavoravano come dipendenti negli alberghi delle sue marine.

Ma al di là dei risvolti economici, al di là dei manganelli e delle restrizioni  alla libertà personale, la violenza più grande è quella degli uliveti espiantati, dei fondali marini distrutti, dei pozzi avvelenati, dei danni irreversibili causati alla Natura.
Alcuni aspetti di questa violenza saranno oggetto del processo contro i vertici di TAP: le violazioni delle prescrizioni della VIA, i lavori svolti in assenza di autorizzazioni ambientali, idrogeologiche, paesaggistiche ed edilizie, gli espianti irregolari.
L’inquinamento delle falde attorno al pozzo di spinta, avvelenate con nichel, arsenico, manganese, bromo e soprattutto cromo esavalente, un potente cancerogeno e genotossico5.
Tutte violazioni al vaglio di una magistratura che non ha comunque fermato il cantiere, attuate all’interno di una Zona Rossa sottratta al controllo popolare per decreto prefettizio, perpetrate davanti a un nutrito schieramento di forze dell’ordine che non solo non le ha bloccate, ma le ha difese manu militari contro una popolazione che voleva impedirle.
Non mi aspetto, dati i precedenti sull’impunità di chi inquina (dal disastro di Seveso all’Ilva di Taranto …), che qualcuno paghi per tutto questo.
Il diritto penale ambientale è strutturato per tutelare il profitto, e non nei tribunali otterremo giustizia.
Ma nel coltivare la capacità di una risposta dal basso, a partire dalla abilità del Movimento di trasformare il terreno della criminalizzazione giudiziaria in una occasione di lotta, in un momento di verità.

 

Sostieni la Cassa di resistenza No TAP !

Ci siamo.

L’11 settembre partirà il maxi-processo contro 92 attivisti notap, colpevoli di aver lottato per difendere un territorio e un ideale.
Quasi cento imputati riuniti in un’aula bunker, di massima sicurezza, come fosse uno di quei processi che fanno la storia dell’avvocatura Italiana.
E noi, in quell’aula, la faremo davvero la storia!
Perché continueremo a camminare a testa alta, rivendicando i diritti di un intero territorio, perché non ci tireremo indietro davanti a chi cerca di imporre un modello di sviluppo anacronistico e imposto.
Perché siamo sempre più convinti di non essere nel torto.
Tutto il territorio é a processo quel giorno.
Tutta quella popolazione che, unita, continua a dire NO a chi vuole costringerci a un sistema estrattivista che non ci appartiene.
Lo stesso 11 settembre andranno a processo anche i vertici di TAP e le ditte esecutrici dei lavori, per reati a nostro giudizio ben più gravi.
E noi saremo presenti anche a quel processo, perché la nostra lotta non si ferma davanti a nulla, la nostra lotta va avanti sempre più forte.
Non si potrà mai processare la voce di una lotta che cerca di difendere il futuro.
Il nostro crimine è soltanto quello di essere in grado di sognare…

Movimento No TAP

 


  1. Per approfondire: Livio Pepino (a cura di), Come si reprime un movimento: il caso TAV. Analisi e materiali giudiziari, Quaderni del Controsservatorio Valsusa, Edizioni Intra Moenia, 2014. 

  2. Avv. Elena Papadia, Difendere i Difensori della Terra. un dossier sulla repressione dei movimenti salentini, opuscolo dell’Associazione Bianca Guidetti Serra, ottobre 2018, pp.56. 

  3. Per approfondire: Prison Break Project, Ultimi  sviluppi  della  criminalizzazione  delle  lotte:  la “repressione  economica, p. 9, luglio 2015. 

  4. Alcune sentenze, come questa, ne hanno ratificato l’illegittimità. 

  5. Agostino di Ciaula, Il rilascio di cromo esavalente da opere realizzate nel cantiere TAP impone la rapida adozione di misure finalizzate alla tutela di ambiente e salute, ISDE, 12 agosto 2019. 

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Sull’epidemia delle emergenze / fase 4: pandemia, crisi, clima e guerra https://www.carmillaonline.com/2020/03/24/sullepidemia-delle-emergenze-fase-4-pandemia-crisi-clima-e-guerra/ Mon, 23 Mar 2020 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58907 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva. La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.” (The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva.
La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.”
(The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più immediato” (Perfidia – James Ellroy)

Per una volta iniziamo la nostra cronaca da oltre frontiera. Prendendoci, oltretutto, la libertà di modificare parzialmente i nomi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Quello che salta subito agi occhi ovunque, dalla Francia agli Stati Uniti passando per l’Australia, è che per i governi e i media la preoccupazione più importante fino ad ora è stata quella di salvaguardare economia, produzione e profitti.

Come al solito gli americani sono i più pragmatici ed espliciti, motivo per cui il Wall Street Journal può tranquillamente ratificare, nell’editoriale redazionale del 20 marzo, che nessuna società può salvaguardare a lungo la salute pubblica al costo di minare quella economica. Chiaro abbastanza no? Ma se l’organo per eccellenza del capitalismo e della finanza americana lo afferma con chiarezza, anche qui da noi non sono mancate le spinte in tale direzione. L’abbiamo misurato con l’enorme ritardo con cui il governo degli ominicchi e degli abbracci è giunto a decretare una chiusura vaga e fumosa che lascia non pochi dubbi sulla sua reale entità, evitata a ogni costo fino all’ultimo momento e poi, una volta varata, posticipata per dare una nuova mano agli squali di Confindustria.

Uno degli aspetti più evidenti è dato dal fatto che la richiesta ufficiale per giungere a tali chiusure non è mai pervenuta dalle associazioni imprenditoriali o da almeno una delle forze di governo, ma principalmente dalle associazioni dei medici che operano sui territori maggiormente colpiti dal virus (qui e qui) e dai sindaci delle province di Bergamo e Brescia (qui), con il secondo che non ha esitato a puntare il dito sulle associazioni degli imprenditori e le loro responsabilità, a livello centrale e regionale, nel ritardare il più possibile la chiusura delle fabbriche.

«Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito. Qui è arrivato da Lodi, da Cremona. Come a Bergamo – rileva – si tratta di una zona molto industriale, molto commerciale, dove la gente si sposta rapidamente. Noi, come dodici sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali. Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato. Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito». Così ha affermato, in un’intervista al Fatto quotidiano del 17 marzo, Emilio Del Bono, sindaco di Brescia1 di area Pd.

Pur muovendo molta aria, meno espliciti sono stati i governatori delle Regioni del Nord e la Lega che hanno invece sviluppato un discorso meno esplicito sulla necessità della chiusura, giocando d’anticipo sul governo emanando, in autonomia, nuove misure restrittive che comunque non toccavano minimamente gli interessi padronali. In un conflitto tra potere centrale e Regioni che ha assunto ancora una volta prima di tutto i caratteri del confronto elettoralistico e della salvaguardia dei rapporti con le associazioni di categoria degli industriali, dei banchieri e del commercio.

Ma il vero motore sotterraneo, per giungere alla proposta di serrata dei luoghi di lavoro e delle fabbriche è stato rappresentato dalle fermate spontanee dei lavoratori delle fabbriche, soprattutto di quelle grandi, e dei magazzini. Tutta una serie importante di blocchi, picchetti, astensioni dal lavoro e resistenze varie che l’opinione pubblica e i media hanno quasi ignorato, ma che non è passata inosservata ai tutori dell’ordine che già si preparavano alle varie misure di contenimento della conflittualità (qui).

Le parole di Maurizio Landini, poste in esergo, ben sintetizzano le paure che i sindacati confederali, sempre tardivi a ricevere ed accogliere le richieste dal basso, hanno sventolato davanti al naso di Conte e degli imprenditori. Imprenditori tetragoni insofferenti, fino all’ultimo momento, a qualsiasi ipotesi di chiusura degli stabilimenti, come ha denunciato fin dal 12 marzo un uomo non certo di sinistra come Carlo Nordio, in un editoriale del Messaggero:

“Poteva e doveva vincere la ragione. Quella dei previdenti, ingiustamente liquidati come Cassandre dagli sprovveduti. Invece è arrivato – per giunta con grande ritardo – il solito compromesso di palazzo. Conte chiude l’Italia a metà. Non c’è l’atteso e necessario blocco totale che serve al Paese per arrestare il contagio e garantire la salute pubblica. Ma solo la chiusura di negozi e commercio, salvando ovviamente alimentari e prima necessità. Restano fuori industrie e fabbriche. Una grave omissione che potremmo scontare tutti a causa delle falle che lascia aperte nella cruciale guerra al virus. […] vi è tuttavia una categoria intermedia, che tenta di conciliare il diavolo con l’acqua santa. Alludiamo alla richiesta inoltrata al Governo dalla Regione Lombardia, che da un lato chiedeva, giustamente, la chiusura delle attività commerciali, artigianali, ricettive e terziarie (escluse, com’è ovvio, quelle assolutamente essenziali), ma dall’altro comunicava che era stato raggiunto un accordo con Confindustria lombarda “che provvederà a regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese”. Insomma, par di capire, la chiusura o meno delle fabbriche sarà affidata – secondo il premier – alla iniziativa degli industriali.”2

Cosa che dopo la delusione dovuta alla mancata chiusura di tutte le imprese attesa dal Dpcm Conte, ha fatto sì che la lotta ripartisse, con dimensioni che non si vedevano da decenni, in numerosi stabilimenti del settentrione dove gli operai e le operaie sono tornati ad incrociare le braccia, quasi sempre con astensioni dal lavoro pari al 100% dei lavoratori. Dall’Avio di Rivalta e Borgaretto all’Alessi Tubi, alle Officine Vilai, all’Alcatar, alla Brugnasco di Avigliana in Piemonte fino a tante altre aziende lombarde (qui). Mentre la Fiom di Verona ha proclamato due giorni di sciopero a partire da oggi e, nelle zone più colpite dal virus, gli operatori sanitari scalpitano per la macanza di sufficienti protezioni individuali e per i turni massacranti dovuti al mancato turn over del personale ospedaliero.

L’abbiamo detto nella terza fase di questa serie di riflessioni: la crisi disvela l’anima di classe e la guerra civile che la normalità quotidiana e la società dello spettacolo solitamente nascondono.
Mentre, però, alcuni grandi stabilimenti hanno chiuso al primo accenno di ripresa dello scontro di classe, sono state quasi ovunque le piccole, piccolissime e medio-piccole aziende ad opporsi alla chiusura e a portare avanti la produzione, chiamando in causa la responsabilità degli operai nel mantenerle in vita. Un discorso/ricatto odioso che fa, finalmente, piazza pulita di quel pietismo per i piccoli imprenditori che è stato cavalcato dal populismo di ogni risma nel corso degli ultimi anni.

Per non fare troppo torto ai piccoli comunque vediamo cosa ha detto in un’intervista Giuseppe Pasini, il presidente degli industriali bresciani che è anche alla guida della Feralpi, uno dei principali produttori siderurgici in Europa, a proposito delle condizioni di salute in fabbrica:

“Abbiamo avuto anche qualche positività, non puoi non averne, ma le aziende hanno messo in atto tutti i controlli e le procedure di sanificazione previste dal governo. Hanno fatto quello che dovevano fare. E Non è detto che quelli che sono stati trovati positivi dentro l’azienda abbiano contratto il virus sul posto di lavoro. Magari sono rimasti contagiati nei giorni precedenti all’ordinanza di chiusura, fuori dalle aziende.“3

Già, affermazione che si accompagna bene con la colpevolizzazione individuale che viene fatta continuamente dagli organi di informazione e dai governanti con il proposito allontanare da sé ogni responsabilità in materia di contagio e mancati provvedimenti per prevenirlo e contrastarlo.
Tralasciando il grottesco flash- mob di solidarietà cui la Abb, azienda italo-svizzera che occupa nei suoi stabilimenti in Italia seimila dipendenti, ha chiamato suoi operai (qui):

“Quasi un terzo dei contagi si trova tra le distese di aziende d’ogni genere dei due polmoni economici d’Italia, Brescia e Bergamo. La prima in vetta alla classifica per densità produttiva, seguita da Milano e, appunto, Bergamo, che ha 4.305 contagi e 84 mila imprese attive nelle quali lavorano 385 mila dipendenti. Brescia ha 3.783 contagi, 107 mila ditte e 402 mila lavoratori. Stare a casa è più facile dirlo che farlo qui, dove per ammissione di Confindustria Lombardia il 73% di piccole, grandi e medie imprese sta andando avanti, come in tutta la regione. Come dire che nelle aree più epidemiche mezzo milione di lavoratori continua a fare avanti e indietro casa-lavoro, anche se poi in fabbrica si è cercato di rispettare i protocolli imposti per decreto. A Brescia nel settore industriale sono stati raggiunti 63 accordi per la sicurezza anti-Covid sul lavoro. A Bergamo soltanto 2, informa la Fiom. Che non possa bastare per contenere la crescita esponenziale dei contagi lo pensano i tecnici del comitato scientifico che affianca il governo e che suggerisce a Conte di «fermare tutto salvo le filiere che producono beni di consumo essenziali». Ci mette la faccia il Presidente dell’Ordine di Milano Roberto Carlo Rossi che tuona: «Mandare avanti la produzione è stato un gravissimo errore, dobbiamo chiudere tutto, lasciare aperto solo chi produce beni alimentari, prodotti per la salute e l’igiene. Vedo ancora capannoni e cantieri pieni di gente, è una follia». E che non siano tutte produzioni di beni essenziali lo si intuisce scorrendo l’elenco delle imprese nelle due province, dove a fianco a quelle zootecniche troviamo aziende che producono acciaio, chiusure industriali per capannoni, verniciature, calcestruzzi, strumenti elettronici. Ma anche auto di lusso come la Bugatti, o armi come Beretta e Perazzi.”4

Al di là del dramma implicito nei numeri, si può e deve affermare che mai come ora il movimento antagonista ha avuto tra le mani tali potentissimi strumenti critici per assalire l’ordine esistente, proprio nel cuore del cuore del capitalismo industriale e finanziario, italiano ed internazionale. Il problema è che gli imprenditori e i loro rappresentanti nei governi e negli Stati lo hanno immediatamente capito davanti ai tre giorni di fuoco nelle carceri e alle prime fermate operaie, affidandosi alle ordinanze prefettizie e agli apparati militari e polizieschi per il contenimento di eventuali proteste e insofferenze diffuse5, mentre ancora tardano a comprenderlo molti compagni, pur volenterosi, che si arrabattano ad inseguire dibattiti piuttosto fumosi sulla limitazione delle libertà individuali (come se il lavoro salariato e coatto non fosse già di per sé la più stringente e odiosa limitazione delle libertà individuali, nato guarda caso proprio all’epoca della fondazione del carcere moderno6) oppure sull’inaspettato pericolo (come se non fosse già presente da lungo tempo) di fascistizzazione di uno Stato che dal fantasma concreto del ventennio non si è poi mai liberato, piuttosto che approfondire l’analisi critica del presente e del divenire che ci attende per poterlo meglio affrontare e rovesciare.

Mentre nella società dello spettacolo attuale, senza necessità di adunate oceaniche, la mobilitazione solidale con lo Stato e il capitale nazionale può essere convocata via FB, Twitter, WA e tutti gli altri social per invitarci a sventolare il tricolore dai balconi e dalle finestre, ad accendere fiammelle e torce cantando inni nazional-popolari di ogni genere e risma e diffondere l’idea dello spionaggio collettivo per denunciare qualunque comportamento ritenuto anomalo, mentre le forze dell’ordine procedono con assoluta arbitrarietà a eseguire direttive confuse e mai chiare e a comminare multe e ammende a pioggia. Il pop incontra il nazionalismo con alcune tra le più note influencer che iniziano ad imbrattare le coscienze collettive fingendo un impegno che resta comunque tutto di parte.

La crisi da coronavirus ha aperto anche un’altra solida possibilità in cui si incrociano due grandi temi che, fino ad ora, erano stati unificati nelle idee (di alcuni) ma lontani tra di loro nella realtà materiale: la lotta operaia e la lotta per l’ambiente. In questi giorni infatti risulta sempre più chiaro che la lotta per la difesa della salute, in fabbrica e fuori, è strettamente intrecciata al discorso della crisi climatica e ambientale. Occorre sviscerare il tema e diffonderlo in una situazione che per un certo periodo sarà feconda e ricettiva. Un metro di Tav vale quanto centodieci giorni di terapia intensiva è solo l’inizio di una parola d’ordine destinata a coinvolgere molte più persone e molti più lavoratori rispetto a prima, in un contesto in cui:

“Chi segue anche da dilettante questi fenomeni sa che da anni una nube tossica sosta sul cielo della pianura padana.[…] la nostra più grande pianura ha condizioni meteo-climatiche e geofisiche uniche in Europa, e che gli inquinamenti dominanti sono dovuti agli allevamenti intensivi, alla concimazione chimica dei campi, ai fumi della fabbriche, alle emissioni dei motori diesel.
Mancano per la verità, in questo sintetico quadro, gli inquinanti atmosferici che non sono affatto scomparsi nelle città con la riduzione dello smog e che sono in aumento: l’ozono e il particolato M5 ed M10, le minute particelle che si depositano nei polmoni dei cittadini europei.[…] Oggi il Covd19 colpisce cittadini dai polmoni compromessi da decenni di smog.[…] Ebbene, questi dati non ci consolano e oggi servono a poco. Ma sono indispensabili per l’immediato futuro, per ripensare con radicale severità lo sviluppo capitalistico dominante.”7

“La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è ormai scientificamente dimostrata. E’ un fattore che aggrava la situazione infettiva senza alcuna ombra di dubbio”, dice Giovanni Ghirga, membro dell’Associazione medici per l’ambiente. Il 19 febbraio ha scritto una lettera pubblicata dal British Medical Journal, sottolineando l’esistenza di un comune denominatore tra l’esplosione in Cina, Sud Corea, Iran e Italia del nord: tutte aree dove l’indice di qualità dell’aria è molto basso.
Una ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha già trovato una risposta: esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog e in particolare il superamento dei limiti di legge, ha potuto trovare una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid-19. Le curve dell’infezione hanno avuto delle accelerazioni, a distanza delle due settimane necessarie alla manifestazione, con i livelli più alti di polveri sottili.
Numerosi esperti dunque stanno ora identificando nel cambiamento climatico e nell’inquinamento le cause che hanno portato il Pianeta a essere vittima della pandemia.
«La correlazione tra attività antropiche e diffusione dei virus è sempre più evidente. E non è un caso se le aree di maggiore diffusione del Covid-19 sono le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche. Bergamo, e soprattutto Brescia, hanno i numeri più alti di bambini malati di cancro. Inoltre, a causa della tolleranza indotta, vale a dire al fatto che mediamente le persone hanno già un certo grado di infiammazione polmonare, non è stato possibile accorgersi subito dell’espansione. I sintomi lievi non sono stati notati.»”8

Non si contano ormai le ricerche che dimostrano che crisi climatica, consumo del suolo, inquinamento industriale e coronavirus sono strettamente collegati e che l’unica alternativa è quella di rovesciare di direzione e senso l’attuale produttivismo industrialista e capitalista, di cui il lavoro salariato costituisce l’indispensabile corollario. Tenerne conto diventerà sempre più obbligatorio, anche di fronte alla minaccia contenuta in uno studio realizzato dall’Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) che dimostra che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro al termine del tunnel attuale9. Cui però, senza esitazione, occorrerà contrapporre i milioni di morti che la stessa pandemia, ultima di una lunga serie di morbi contemporanei, potrebbe causare proprio a causa del regime attuale. Ad esempio in Italia, dove negli ultimi vent’anni sono stati tagliati 70.000 posti letto, a beneficio di una sanità privata che anche negli attuali frangenti cercherà di gonfiare i propri guadagni con autentici profitti di guerra che lo Stato, esattamente come durante i due conflitti mondiali, non si è minimamente preoccupato di calmierare, contribuendo così a ridistribuirne i costi sulla pelle dei cittadini.

Insomma o la vita o il salario e il suo vampiro, il profitto.
Termini decisivi e incompatibili tra chi lotta per salvaguardare la specie e chi lotta e opprime per salvaguardare il presente modo di produzione. Inconciliabili tra di loro e, oltre tutto, irriformabile il secondo. Se ne faranno una ragione le anime pie che lo credono capace di modificarsi per mezzo del green capitalism.

Non a caso quello che molti governi, e molti titoli anticipati in apertura, mettono in risalto è l’autentico clima di guerra che si va via via allargando sul pianeta. Guerra psicologica e di classe, poca guerra al virus e tanta preparazione per i giochi militari e geopolitici, tutt’altro che pacifici, che seguiranno la crisi economica mondiale, ineludibile alla fine della pandemia e già durante il suo decorso.

Con buona pace di tutti coloro che hanno sempre pensato alla guerra allargata come ad un’ipotesi risibile e catastrofista, proprio nel pieno di questa crisi, ogni potenza sta già giocando le sua carte e mettendo in campo le sue strategie economiche e geopolitiche. La fine dell’Europa Unita si profila come scenario credibile ormai, con la politica dell’ognuno per sé, in cui la Germania ha già iniziato a schierare tutte le sue pedine in vista di un terzo tentativo di riprendersi un lebensraum ormai di dimensioni continentali, con buona pace per portavoce del governo che hanno sventolato con troppa bramosia i “soldi facili” provenienti dal Mes (qui).

La Cina si presenta come la vincitrice, per ora, politica del confronto basato sulla crisi indotta dal Covid-19 e i suoi medici, medicinali e aiuti fanno parte di un moderno Piano Marshall sanitario indirizzato a raccogliere consensi e alleati all’interno del pianeta NATO. Idem per la Russia che con il suo invio di aerei, medici e virologi oltre che ospedali da campo in Italia gioca sullo stesso campo, pestando un po’ i piedi sia alla prima che agli Stati Uniti. Non sono pochi gli indizi del sorgere di un rinnovato bipolarismo in cui l’Europa torna frontiera e terreno di contesa e l’Italia un nuovo tassello cruciale da conquistarsi al proprio campo.

Gli Usa nel chiamare, come vuole Trump, lo stesso virus con il nome di virus cinese già affilano le armi comunicative che saranno ben presto affiancate da nuove armi di distruzione di cui il missile ipersonico (capace di volare ad una velocità superiore di cinque volte a quella del suono, qui) appena testato è solo l’anteprima. Mentre nemmeno la gara per la scoperta, produzione e distribuzione del vaccino sfugge ad una logica di confronto che soltanto nella guerra aperta per il controllo del mercato mondiale troverà, presto o tardi, la sua soluzione.

Ospedali da campo di varia nazionalità, truppe per le strade da New York a Milano, discorsi sempre più marcati da termini come nemico comune, guerra, solidarietà nazionale preparano, o almeno dovrebbero preparare, le popolazioni al clima di guerra reale che seguirà a questo periodo di clausura; quando non solo gli interessi geopolitici, ma la fame, le economie disastrate e parassitate e le rivolte per una vita degna dilagheranno in scontro aperto nei tessuti metropolitani. Riuscirà il nostro nemico collettivo e dichiarato, che per ogni nazione avrà prima di tutto il volto del proprio governo e dei propri spietati imprenditori, a ottenere l’effetto desiderato (qui)? Forse, soprattutto se noi, dopo aver seppellito in silenzio i nostri morti ed aver accettato per forza di cose quarantena ed isolamento, non sapremo opporci, sia nelle lotte che nell’immaginario politico che le produrrà e di cui sarà il prodotto, con altrettanta forza e determinazione al suo percorso catastrofico, che in questo ultimo periodo ha ulteriormente sfoggiato il suo volto più autentico, cinico e spietato.

In tutti i frangenti e con ogni mezzo necessario.

“Noi abbiamo il compito quasi impossibile di promulgare un amore che sia ancora più spietato, e con uno spirito di sacrificio che non avremmo mai conosciuto, se non fossimo stati chiamati dalla Storia. In questo momento, le nostre opzioni sono soltanto due: fare tutto, oppure non fare nulla.” (Perfidia – James Ellroy)


  1. https://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/coronavirus-del-bono-le-fabbriche-andavano-chiuse-prima-1.3467623  

  2. C. Nordio, I ritardi del governo. Compromesso al ribasso che lascia esposto il Paese, Giovedì 12 Marzo 2020 il Messaggero  

  3. G. Colombo, “Il motore bresciano si sta fermando”. Intervista a Giuseppe Pasini, Huffington Post 20 marzo 2020  

  4. I. Lombardo, P. Russo, Governatori e scienziati a Conte: “Fermi le fabbriche in Lombardia”, La Stampa 20 marzo  

  5. Si veda come esempio https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/03/22/news/
    il_questore_torino_e_ubbidiente_ma_in_periferia_primi_segnali_di_insofferenza_-251968980/?ref=RHPPTP-BH-I251947184-C12-P5-S11.3-T1  

  6. M. Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Mondadori 1978 e D.Melossi, M.Pavarini, Carcere efabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, il Mulino 1977  

  7. P. Bevilacqua, Ambiente e pandemia: il drammatico connubio della pianura padana, il Manifesto 20 marzo  

  8. M.Bussolati, Sembra che il Covid-19 colpisca più duro nelle aree più inquinate, Business Insider 18 marzo 2020  

  9. P. Del Re, Coronavirus: la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati, la Repubblica 20 marzo  

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Terra desolata https://www.carmillaonline.com/2020/01/29/terra-desolata/ Wed, 29 Jan 2020 22:01:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57722 di Sandro Moiso

Alessia Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, con 62 fotografie dell’autrice, 10 di Elia Sequani e 9 di John Hwang, CIERRE edizioni, Verona 2017, pp. 149, euro 12,50

Che radici premono, quali rami crescono Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo, Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole, Dove l’albero morto non ripara, il grillo non conforta, E la pietra riarsa non dà suono d’acqua. Solo Con questi resti ho alzato [...]]]> di Sandro Moiso

Alessia Turri, Wasteland. Viaggio nella California dimenticata tra città fantasma e deserti addormentati, con 62 fotografie dell’autrice, 10 di Elia Sequani e 9 di John Hwang, CIERRE edizioni, Verona 2017, pp. 149, euro 12,50

Che radici premono, quali rami crescono
Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo,
Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo
Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole,
Dove l’albero morto non ripara, il grillo non
conforta,
E la pietra riarsa non dà suono d’acqua. Solo
Con questi resti ho alzato argini
Alle mie rovine. (La terra desolata – Thomas Stearns Eliot)

Sicuramente Alessia Turri deve amare profondamente gli Stati Uniti e le infinite storie che si possono trarre dal loro paesaggio e dalle loro piccole e disperse comunità delle quali da anni è instancabile ricercatrice e fotografa. Ma è proprio questo amore, poiché è bene ripeterlo non si tratta di un invaghimento giovanile o superficiale, a spingerla a scavare nella Storia e nelle storie di quell’immenso paese per trarne non le abituali visioni monumentali (dai grattacieli ai canyon fino alle forme bizzarre delle rocce rosse e altissime della Monument Valley), cui ci hanno abituati il cinema di Hollywood nel passato e i depliant pubblicitari ancora oggi, ma altre immagini ugualmente folgoranti.

Immagini forti e coinvolgenti, sia che si tratti di fotografie o di storie raccolte sul campo oppure ancora rivissute con la forza dell’immaginazione, ispirate più alle cronache di Joan Didion o al realismo visionario di Cormac McCarthy e alle catastrofi, sia della ragione che naturali, di James Ballard che all’epica di John Ford o ai sogni “on the road” di Jack Kerouac. Storie e immagini che per forza di cose finiscono col rendere un ritratto dell’anima profonda di un’America del Nord troppo spesso idealizzata, tanto per essere ammirata quanto per essere odiata, come uniformemente ricca e agiata, ma che invece spesso nasconde contraddizioni sociali violente e forme di povertà ed emarginazione estrema.

Forme di disagio che si trasmettono anche attraverso le sue strade, i suoi luoghi di villeggiatura passati di moda e abbandonati, i laghi inquinati e una Natura che ha subito ripetutamente gli assalti dell’Uomo così come le popolazioni originarie, che con essa vivevano a stretto contatto, hanno subito prima l’invasione e i soprusi degli Spagnoli e poi degli Anglosassoni e di tutti gli altri giunti al loro seguito.

Lo fa a partire proprio dalla California, il Golden State con un PIL pari a 2.602.672 milioni di dollari nel 2016 (pari a un decimo del Pil complessivo degli Stati Uniti e superiore a quello italiano e quasi pari a quelli di Francia e Regno Unito), che vede i villaggi di tende degli homeless occupare le strade di Los Angeles e il Sunset Boulevard perché non è tutto oro quel che luccica.

Alessia ci racconta, così come ha fatto anche nel suo successivo Everland (qui), la storia e la realtà profonda di un paese destinato a segnare ancora per lungo tempo l’immaginario del mondo occidentale, non solo per scelta politica e culturale delle élite dirigenti ma, ancor di più, perché ne indica, da più di un secolo, in anticipo il destino.
Tutto questo e altro ancora ci racconta l’autrice, con le parole e le fotografie e, in entrambi i casi, lo fa molto bene.

E’ da vent’anni che le tilapie muoiono a migliaia sulle spiagge del lago Salton. Il 4 agosto del 1999 si registrò un lugubre record di 7,6 milioni di pesci morti. La temperatura altalenante dell’acqua si è rivelata fatale per i pesci tropicali, inseriti nel lago per la loro incredibile capacità di adattamento all’acqua salata. Anche le infiltrazioni di veleni agricoli nelle falde acquifere potrebbero aver causato qualche problema. Il Salton, infatti, è come un enorme livido sul viso di un deserto agricolo. Arida chiazza di morte, avvolta da una cornice di frutteti e foreste di palme. Piantagioni d’arance, limoni e pompelmi si alternano a campi di tenera lattuga, granturco profumato e alberi d’ulivo. Dalle fronde appuntite dei palmeti, grappoli di datteri maturi attraggono le api e le foglie dei pomodori verdi rinfrescano l’aria. Spruzzi d’acqua dissetano le piante, prendendosi cura di quell’oasi agricola in pieno deserto. Un progetto riuscito. Una bonifica straordinaria. Florido angolo d’orgoglio californiano.
Alle sue spalle, però, fluttuano le ceneri del fratello fallito. Quell’enorme lago salato, progettato per diventare paradiso, destinato a diventare inferno. Discarica di sogni a cielo aperto, zombie invidioso, osserva di traverso il rigoglio agricolo che gli fiorisce accanto accogliendo a bocca aperta i suoi rifiuti. Pesticidi, inquinamento, veleni. Come una spugna, il lago beve tutto per poi risputarlo sotto forma di pesci, alghe e uccelli morti.
Le sue rive sono coperte di carcasse, scheletri e rifiuti di modernariato. I suoi villaggi sono comunità devastate, corrose, dimenticate. I suoi abitanti sono pochi, accaniti sognatori che non si arrendono allo scorrere del tempo. Non temono la solitudine e nemmeno le bufere di polveri tossiche. Affrontano il caldo, le zanzare e la morte. Protestano alzando la voce, avvolti da nubi di sabbia salata.[…] Oasi di dinosauri, indiani, invasori, minatori, turisti e tilapie. Il lago più grande della California, il più inquinato, il più enigmatico. Enorme livido sul viso di un deserto agricolo.1


  1. A. Turri, Wasteland, pp. 32-33  

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Se i migranti sono gli europei: apocalissi future per la disumanità del Potere https://www.carmillaonline.com/2016/11/20/migranti-gli-europei-apocalissi-future-la-disumanita-del-potere/ Sat, 19 Nov 2016 23:01:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34370 di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che [...]]]> di Paolo Lago

cover_qualcosa_fuoriBruno Arpaia, Qualcosa là fuori, Guanda, Milano, 2016, 220 pp., € 16,00

Qualcosa là fuori, l’ultimo romanzo di Bruno Arpaia, parla, in forma distopica, soprattutto del nostro tempo, piuttosto che del futuro: non soltanto perché l’intero racconto ruota attorno al reale pericolo del surriscaldamento globale del pianeta, ma anche perché l’autore insiste continuamente sulla fine dell’umanità, intesa sia come razza umana che come humanitas, come sentimento di comprensione, solidarietà e apertura all’altro. Ed è così che, nello specchio dell’Europa del 2070 tratteggiata nel libro, dobbiamo guardare noi stessi. Sembra che Arpaia abbia utilizzato la stessa strategia attuata a suo tempo da George Orwell in 1984: ambientare un racconto nel futuro per denunciare (a cominciare dal titolo, rovesciamento della data della stesura del romanzo, 1948) le problematiche del suo tempo.

Protagonista della storia è il napoletano Livio Delmastro, anziano professore universitario di neuroscienze, che si ritrova incolonnato insieme a migliaia di altri profughi italiani verso l’Europa del Nord. Siamo intorno al 2070 e tutta l’Italia e l’Europa centrale si sono trasformate in deserto. A causa dell’inquinamento, infatti, il pianeta si è surriscaldato e le fasce climatiche aride si sono espanse; il clima temperato, quello che ha sempre caratterizzato la zona del Mediterraneo e l’Europa, ormai, si è spostato a nord, in Scandinavia la quale, insieme al Canada e ai territori settentrionali del Globo, si presenta come l’unica terra abitabile. Il racconto ci mostra, in forma distopica, un futuro che però non è solo fantascienza, purtroppo: la principale denuncia del romanzo è contro la leggerezza con la quale i governanti affrontano il problema del surriscaldamento globale. Come Arpaia scrive in una Avvertenza finale, il suo racconto si basa sugli scritti e sui saggi di numerosi scienziati, nonché sui rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change) – e non è la prima volta che lo scrittore si confronta direttamente con la scienza: basti ricordare il precedente L’energia del vuoto (2011), ambientato nel mondo dei fisici delle particelle.

Si tratta di un immaginato scenario futuro apocalittico che potrà essere non troppo lontano da quello reale se non si ridurranno drasticamente e rapidamente le emissioni inquinanti. La narrazione prosegue alternando le vicende di Livio e degli altri profughi in viaggio verso il Nord a quelle di un lungo flashback in cui viene raccontata la giovinezza del protagonista: l’amicizia con Victor e la loro diversità di opinioni in fatto di cambiamento climatico, l’innamoramento con la fisica Leila e la loro successiva convivenza, la nascita del figlio Matias, la decisione dei due giovani di trasferirsi in California per seguire le proprie ricerche scientifiche. Sullo sfondo, l’aumento progressivo delle temperature, l’inaridimento della terra e l’innalzamento del livello dei mari, eventi segnati, periodicamente, da terribili catastrofi naturali.

Oltre, quindi, al ‘macrotema’ del cambiamento climatico, il romanzo ci offre altri ed interessanti spunti di riflessione. Come precedentemente accennato, quell’Europa del futuro che si sta sgretolando sotto distruzioni e disumanità non è nient’altro che uno specchio in cui guardare la nostra società. Quelle migliaia di migranti europei che si muovono verso il Nord come profughi in fuga dalla desertificazione e dalle guerre chi altro sono se non i migranti del nostro tempo, che fuggono dalle guerre e dalla progressiva desertificazione di molti paesi africani e asiatici? E quegli stati, Svezia, Norvegia, Finlandia, Canada ecc. che nel racconto di Arpaia si chiudono a riccio in una Unione del Nord e che, dopo un rigidissimo controllo, permettono l’ingresso solo ai profughi che abbiano già dei parenti sul loro territorio cos’altro sono se non la civilissima, attuale Unione Europea, all’interno della quale si erigono muri e si creano sempre maggiori controlli per impedire l’arrivo di profughi dal sud e dall’est del mondo? E quella specie di campi di concentramento, che l’autore descrive con orrore, come veri e propri inferni, che si trovano sulle coste del Mare del Nord e nei quali vengono rinchiusi i profughi che non riescono a entrare in Svezia, cos’altro sono se non i nostri cosiddetti “CPT”, i “centri di permanenza temporanea”, spesso dei veri e propri lager dove vengono rinchiusi gli immigrati?
Vale la pena, a questo proposito, leggere uno dei numerosi flashback presenti nel libro, nel quale, quando ancora Livio e Leila sono giovani e non si è arrivati al disastro finale, si narra una situazione mondiale in netto peggioramento, situazione che sembra avere le sue radici al giorno d’oggi:

Il Mar Mediterraneo era relativamente piccolo e poco profondo: si stava riscaldando molto, perdendo la capacità di mitigare le temperature sulla terraferma dei paesi che bagnava. E l’afflusso di clandestini dalle sue coste meridionali sembrava impossibile da arginare se non con le maniere forti. Alla Germania, alla Francia e ai paesi nordici non era bastato cancellare gli accordi di Schengen per evitare di essere invasi da quei disperati, anche se l’Unione europea aveva deciso di vendere a prezzo ridotto derrate alimentari all’Italia, alla Spagna e alla Grecia per calmare le acque. Il capitano dell’incrociatore Ardito, Olimpio De Falco, era diventato famoso perché era stato il primo a dover eseguire l’ordine di sparare a vista sui barconi degli immigranti. Il numero dei morti non era mai stato accertato (p. 65).

E, successivamente, dopo alcuni anni, quando Livio, Leila e Matias sono tornati in Italia, a Napoli, per stare vicino alle rispettive famiglie, la situazione è notevolmente peggiorata: le strade della città ormai sono irrimediabilmente sconnesse, i cinema, i teatri e le librerie sono scomparsi, dovunque “baraccopoli di cartoni e lamiere che nascevano e si sviluppavano come un cancro alla periferia e nel cuore del centro urbano” e i “pochi ricchi si barricavano in quartieri recintati da poliziotti e cani”, mentre per le strade imperversa la violenza in uno scenario socialmente e politicamente apocalittico:

i moti di piazza di folle affamate e assetate che saccheggiavano supermercati, magazzini, chiese, moschee e palazzi, Venezia che sprofondava in mare, piazza Navona e la fontana del Bernini completamente distrutte durante i violenti scontri del 2068, il Colosseo ridotto a un accampamento di senzatetto, la terra arida delle campagne che si spaccava e luccicava di sale, i profughi africani e italiani che si spostavano in massa verso nord, i palazzi Vaticani razziati da un’orda di miserabili, il mare che lambiva Padova, L’ultima cena ridotta a calcinacci durante gli scontri fra bande rivali per il controllo di Milano, gli Uffizi accartocciati su se stessi sotto un fitto fuoco di mortai, gli attentati ai server e la Rete che funzionava sempre peggio finché una sera non aveva più dato segni di vita e anche l’Italia si era ritrovata catapultata a un secolo prima, ma senza più nessuno che fosse in grado di fare a meno dei computer. Livio l’aveva visto da bambino nei vecchi film di fantascienza, ma non avrebbe mai pensato di potervi assistere davvero: l’ultima finzione di Stato si esaurì per stanchezza, per inutilità. Senza troppa sorpresa, le elezioni non vennero più celebrate e nessuno sembrò sentirne la mancanza. Le bande dei signorotti locali, spesso malavitosi, si spartirono il territorio in miriadi di guerre locali che sembravano non avere mai fine. Era già successo in Spagna e in Grecia, poi avvenne in Francia, in Belgio, nell’Olanda risucchiata dal mare, nella Germania centrale, lontana dalle acque fredde dell’Atlantico e devastata ormai quasi quanto l’Italia. Allora l’Unione del Nord si era chiusa a riccio come l’Inghilterra: aveva arretrato le proprie frontiere allo Skagerrak e al mar Baltico, abbandonando al proprio destino il resto dell’Europa (pp. 190-191).

Si tratta di uno scenario veramente apocalittico: un mondo devastato dal disastro climatico ma anche dall’autodistruzione verso cui l’umanità si è incamminata, un’umanità che, sempre più chiusa in se stessa, ha perduto le sue prerogative ‘umane’. Lo scenario inquietante delineato da Arpaia fa venire in mente un altro bel romanzo italiano di questi ultimi anni, Nina dei lupi (2011) di Alessandro Bertante – venato comunque di tonalità più fantastiche – nel quale si narra di una “sciagura” che avviene in Italia e nel mondo e che provoca una grave crisi finanziaria. Anche nella storia di Bertante, le città vengono abbandonate, tutti si chiudono in se stessi e vige il diritto del più forte: quelli che nella società erano stati i più cinici ed egoisti (rozzi manager e uomini di potere) adesso imbracciano armi e fucili e si organizzano in bande violente. Solo il montanaro anarchico Alessio, intrepido e generoso, erede della Resistenza partigiana, riuscirà, in un paesino perduto fra le montagne, a salvare e proteggere la piccola Nina dalle violenze e dal disastro.

In questa apocalisse infernale, i muri, le barriere, la chiusura non sono altro che sinonimi di autodistruzione. Il più significativo punto di forza di Qualcosa là fuori, perciò, è la capacità di rappresentare questa devastata società del futuro come se fosse la nostra società en travesti, in una narrazione all’interno della quale l’allusione spesso si fa metafora. Come a voler dire: non dimentichiamo, noi europei ‘benestanti’, che, se un tempo fummo noi stessi migranti, potremmo ridiventarlo in futuro a causa di una apocalisse naturale scatenata dall’incuria e dal cinismo degli uomini di potere sottoposti al diktat neocapitalistico. Nel romanzo si possono intravedere, inoltre, altre allusioni alla società contemporanea, soprattutto a quella statunitense. Ad esempio, nel poliziotto corrotto che, a un posto di blocco a Napoli ferma Leila e il piccolo Matias diretti all’ospedale e che, di fronte all’impossibilità di Leila di pagarlo, non esita ad ucciderli, si può incontrare un riferimento alla violenza della polizia nei confronti di molti giovani di colore in America; oppure, nella figura del reverendo Thomas Hayne, della Coalizione di Dio, ferocemente xenofobo, in corsa per la presidenza degli Stati Uniti nel 2050, si può intravedere un riferimento all’attuale candidato repubblicano Donald Trump.

Nei momenti finali del libro, i personaggi, dopo essere stati controllati da poliziotti in tute protettive e rinchiusi in una stanza in attesa (davvero, vengono in mente molte sequenze del toccante documentario Fuocoammare, del 2016, di Gianfranco Rosi, dedicato agli sbarchi dei migranti a Lampedusa), guardano da una finestra la vita che si svolge nella cittadina svedese, una vita ancora ‘normale’. Due bambini, che facevano parte della colonna dei migranti europei e italiani – e che potrebbero essere benissimo bambini africani che al giorno d’oggi vedono per la prima volta una città italiana – la osservano: “loro non avevano mai visto una città calma e ordinata, la gente che passeggiava tranquilla in riva al mare, le auto silenziose, i grattacieli, l’acqua delle fontane sul corso principale, le case dai colori accesi senza una sbavatura nell’intonaco, i giardini così belli e rigogliosi” (pp. 209-210).

Perciò, in quel “qualcosa là fuori”, nella realtà codificata dal nostro cervello, come spiega Livio a Marta, una compagna di sventura con la quale si stabilisce un rapporto di affetto, mentre marciano incolonnati per il Nord, ci dovrebbe essere spazio per l’umanità, per l’apertura all’altro, per l’ibridazione di società e di culture. Nell’erigere muri contro i migranti, nella chiusura a riccio di un’Unione europea che conosce solo le leggi dell’economia e della finanza, dimenticandosi i diritti umani, nell’arringa populista dello xenofobo di turno, c’è la distruzione, la catastrofe, l’apocalisse. Nell’apertura all’altro, nella solidarietà, nell’ibridazione, nel “restare umani”, invece, c’è un mondo da guadagnare.

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CazzAria https://www.carmillaonline.com/2016/01/03/cazzaria/ Sun, 03 Jan 2016 22:06:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=27716 di Alessandra Daniele

smog– Siamo consapevoli che le misure a lungo e medio termine elaborate dal nostro governo per fronteggiare l’emergenza inquinamento, benché indubbiamente efficaci, non bastino a risolvere il problema alla radice – esordisce il ministro in conferenza stampa – infatti, abbiamo preparato un rivoluzionario intervento strutturale. Una grande riforma che farà dell’Italia il paese all’avanguardia del settore. La Riforma Polmonare. Il megaschermo alle sue spalle s’illumina. Il ministro indica l’immagine stilizzata della slide. – Due polmoni che fanno lo stesso lavoro: questo è uno spreco. Bisogna superare il bipolmonarismo perfetto. Uno dei due sarà modificato in modo [...]]]> di Alessandra Daniele

smog– Siamo consapevoli che le misure a lungo e medio termine elaborate dal nostro governo per fronteggiare l’emergenza inquinamento, benché indubbiamente efficaci, non bastino a risolvere il problema alla radice – esordisce il ministro in conferenza stampa – infatti, abbiamo preparato un rivoluzionario intervento strutturale. Una grande riforma che farà dell’Italia il paese all’avanguardia del settore. La Riforma Polmonare.
Il megaschermo alle sue spalle s’illumina. Il ministro indica l’immagine stilizzata della slide.
– Due polmoni che fanno lo stesso lavoro: questo è uno spreco. Bisogna superare il bipolmonarismo perfetto. Uno dei due sarà modificato in modo da poter ricavare ossigeno dallo smog.
– Ma… come? – Chiede uno dei giornalisti in fondo alla sala.
– Nella prossima busta paga, gli italiani troveranno un bonus di 80 euro impregnati d’un virus mutageno che indurrà la necessaria trasformazione nel loro DNA.
– Con quali effetti collaterali?
Il ministro indica la nuova slide apparsa alle sue spalle.
– L’unico effetto collaterale rilevante sarà il fatto che gli italiani per respirare avranno bisogno d’una maggiore dose di smog nell’atmosfera.
– Questo significherà aumentare il consumo di combustibili fossili? – Chiede una giornalista dalla prima fila.
Il ministro annuisce.
– Sì, ma la spesa sarà ammortizzata da un’altra grande riforma. La privatizzazione dell’aria.
La sala è percorsa da un brusio.
– Quindi… respirare sarà a pagamento? – Chiede ancora la giornalista.
– Sì, però il miglioramento del servizio varrà la spesa, che oltretutto contribuirà alla fondamentale ripresa dell’economia.
Il ministro sorride. Alle sue spalle compare l’immagine d’una gigantesca banconota.

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