infanzia – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 25 Dec 2024 21:00:48 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il concilio di Nicea https://www.carmillaonline.com/2024/12/04/in-privato-concilio/ Tue, 03 Dec 2024 23:10:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85587 Di Jack Orlando

Francesco Berlingeri; Il concilio di Nicea, Eretica Edizioni, Buccino (SA) 2024; 74pp. 15€

Nello sguardo dell’adulto c’è una crepa, una fessura sottile che si snoda in profondità. Spazio insondabile dove si agita un’epica tutta personale, un luogo popolato di fantasmi, affrescato di sogni, storie che ci raccontiamo e immagini che vorremmo tacere.

Ernst Junger, personaggio istrionico e affilato quanto deprecabile, parlava dell’animo umano come di una stratificazione geologica di tracce lasciate dalle generazioni precedenti. Nel cervello dell’individuo moderno sta, rintanato in un angolo, lo spettro dei primi uomini, impauriti predatori seminudi. Tra l’uno e l’altro si affollano [...]]]> Di Jack Orlando

Francesco Berlingeri; Il concilio di Nicea, Eretica Edizioni, Buccino (SA) 2024; 74pp. 15€

Nello sguardo dell’adulto c’è una crepa, una fessura sottile che si snoda in profondità.
Spazio insondabile dove si agita un’epica tutta personale, un luogo popolato di fantasmi, affrescato di sogni, storie che ci raccontiamo e immagini che vorremmo tacere.

Ernst Junger, personaggio istrionico e affilato quanto deprecabile, parlava dell’animo umano come di una stratificazione geologica di tracce lasciate dalle generazioni precedenti. Nel cervello dell’individuo moderno sta, rintanato in un angolo, lo spettro dei primi uomini, impauriti predatori seminudi. Tra l’uno e l’altro si affollano figure artefici della storia e leggende fondative, narrazioni familiari che investono epiche di civiltà.
E va a finire che siamo il prodotto di un’antologia collettanea vecchia di secoli, di cui siamo coscienti solo in minima parte.

In questa convulsa genealogia Berlingeri nuota nel suo romanzo breve, dove brandelli d’autobiografia illuminano una condizione che è del tutto esistenziale.
E lo fa partendo da un pezzo d’infanzia, stazione di partenza per tutte le cazzate che faremo per sopravvivere a noi stessi nella cosiddetta età della ragione.
Che è tra i bambini che si inizia a delineare la forma della vita.
Le prove di coraggio, le sfide con sé stessi e il valore dei propri pari. Lo stare in branco, il respirarsi addosso. La sicurezza e la fuga, il sudore sulle mani dell’eccitazione, magari della paura. O di tutte e due.
La strada, la casa, il cortile, il sugo della domenica e il fumo delle sigarette che bruciava la gola quando ancora fumare in casa non era pratica disdicevole.
Impariamo ad essere noi stessi solo stando con gli altri, pure se a starci con noi stessi non lo apprendiamo mai davvero.

Tra l’avventura infantile di un parco e la malinconica accensione di una pira tradizionale, si sgrana il rosario dei racconti interiori. Si tenta la misura di ciò che era, di ciò che si è.
E non è un solo fatto di esperienze personali, ma di appartenenze che ci delineano.
Si appartiene al proprio tempo. Ne portiamo il segno come nel libro di Berlingeri si osserva la cicatrice della disgregazione di un mondo contadino, che con i suoi ultimi reperti irriducibili si aggrappa al cemento delle palazzine nuove con gli interni arredati in serie, lasciare il posto alle aspirazioni della nuova generazione e un mondo incompleto le cui comunità dovranno essere ricostruite dai piccoli randagi dell’epoca, figli di tutti in mezzo a una transizione incompleta.
La città di Foggia, con le sue strade e i suoi bar moderni che, al giro di boa degli anni ’80, tenta la sua emancipazione consumistica da una storia di contado ne è il teatro.
Una città che trasfigura liricamente in un paesaggio che non si ferma al portone di casa ma si allunga fino a sfumare il confine con la pelle. Assottiglia la distanza tra il dentro e il fuori.
Apparteniamo ai luoghi e ai corpi che ci appartengono.

È una dimensione liminale, un’osservare sul pelo dell’acqua.
Qualcuno potrebbe definirlo un posizionamento magico, ma non della magia che torna di moda come il vintage, di maghi e fattucchiere; un magico che sta nello sguardo, nella capacità di intuire qualcosa che è appena sotto il visibile delle cose.
È quella dimensione in cui ci si perde volentieri e di cui giusto lo sguardo dell’infanzia può rendere pienamente conto.
Bambini lo siamo stati tutti.
Chi più chi meno, molti di noi lo sono rimasti in strane fogge.
Ma a quello torniamo ciclicamente, costantemente. Pena il sentirci appassire altrimenti.

A otto anni basta un ramo o una spada di plastica per essere un cavaliere templare. Una dozzina d’anni dopo questo potere non c’è più. Ma quel bambino di otto anni che veste i panni del monaco guerriero torna sempre, nascosto, a respirare nell’elettricità di una piazza in tumulto o nel caos di un abitacolo stipato di corpi.
E a quello si rimane in fondo fedeli. Anche se ciò che rimane non pareggia mai i conti di quanto è andato perso.

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La sparizione dell’altro nel trionfo dell’individualismo https://www.carmillaonline.com/2023/07/30/la-sparizione-dellaltro-nel-trionfo-dellindividualismo/ Sun, 30 Jul 2023 20:00:31 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77872 di Gioacchino Toni

«Non mi sarei mai immaginato che l’individualismo, il crollo di valori comuni di riferimento, facesse sparire così drammaticamente l’altro, anzi lo rendesse oggetto della propria necessità di sopravvivere psichicamente, fino al punto di non riuscire a identificarsi con le ragioni evolutive attuali e future di un figlio, di una figlia, di un allievo, di una studentessa» (Matteo Lancini)

A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la famiglia di stampo autoritario in cui i genitori imponevano l’omologazione culturale e comportamentale dei figli, ha via via lasciato il posto a un modello di famiglia incline a motivare [...]]]> di Gioacchino Toni

«Non mi sarei mai immaginato che l’individualismo, il crollo di valori comuni di riferimento, facesse sparire così drammaticamente l’altro, anzi lo rendesse oggetto della propria necessità di sopravvivere psichicamente, fino al punto di non riuscire a identificarsi con le ragioni evolutive attuali e future di un figlio, di una figlia, di un allievo, di una studentessa» (Matteo Lancini)

A partire dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso, la famiglia di stampo autoritario in cui i genitori imponevano l’omologazione culturale e comportamentale dei figli, ha via via lasciato il posto a un modello di famiglia incline a motivare le regole piuttosto che limitarsi a imporle. Anziché plasmare i figli secondo rigidi dettami, il nuovo modello genitoriale ha inteso far comprendere ai figli come le decisioni che li riguardano siano prese in funzione dell’accrescimento delle loro potenzialità individuali. Affiancato da un modello consumistico che non ha risparmiato nemmeno l’infanzia, tale modello famigliare/sociale ha comportato una crescente iperstimolazione dei bambini imponendo loro, di fatto,   un’anticipazione dell’età adulta.

Caricati di aspettative e ideali sulla loro vita presente e futura, con l’arrivo dell’adolescenza non è infrequente che i figli si trovino di fronte a un inatteso ridimensionamento delle aspettative con tutte le conseguenze psichiche del caso. A un’infanzia adultizzata tende a seguire un’adolescenza infantilizzata e il senso di fallimento, di inadeguatezza provato dagli adolescenti viene spesso amplificato dalle accuse di superficialità e di irresponsabilità che il mondo adulto muove loro dopo averli caricati di eccessive aspettative dimenticando il fatto che questi adolescenti sono cresciuti adattandosi alle richieste e ai modelli educativi di stampo narcisistico propri della società contemporanea.

Matteo Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta (Raffaello Cortina Editore, 2023), ritiene che il sistema famigliare sopra delineato sia a sua volta stato superato da un nuovo modello in cui la propensione ad adultizzare l’infanzia, a precocizzare le esperienze che i figli farebbero con maggior naturalezza più tardi, a caricarli di aspettative ideali di successo e popolarità viene ulteriormente amplificata inducendo a «un’esasperazione del Sé, della difficoltà ad avvicinarsi e a incontrare gli altri – legata forse a una perdita di grandi valori, a un’incertezza, a una realtà sempre più individualista, sempre più priva di punti di riferimento – che ha fatto sì che si cresca all’interno di un contesto affettivo familiare certamente attento, che fornisce le risorse necessarie alla realizzazione personale dei figli, ma che fatica enormemente a identificarsi con loro e a riconoscere il fatto che esistano bisogni specifici del soggetto che si ha di fronte» (pp. 31-32).

Il recente lockdown legato allo stato di pandemia, con tutto ciò che ha comportato in termini relazionali e di costruzione identitaria, sebbene non possa essere considerato causa dei mutamenti avvenuti nelle famiglie, nella scuola e  più in generale nella società, di certo ha spinto sull’acceleratore delle trasformazioni in atto.

Secondo Lancini, anziché avvicinarsi ai bisogni e alle fragilità del proprio figlio, i genitori pretendono di spiegargli come è fatto e come si sente. Insomma, l’adulto sembra guardare al figlio cercando conferme circa il proprio buon operato come genitore: guarda al figlio guardando, in realtà, a sé stesso, «come se non esistessero l’altro, le sue fragilità e il suo dolore, imponendo anzi un continuo iperadattamento» (p. 32). «Ecco il nuovo mito, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma che iperidealizza ed estremizza il Sé, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo il mandato paradossale: “Sii te stesso a modo mio!”» (p. 37).

Tutto ciò avviene in un contesto in cui internet, vetrina scintillante da cui sono banditi insuccessi e sofferenze, votata com’è a celebrare la prestazione e il successo, ha assunto un ruolo di primo piano nella costruzione dell’identità dell’adolescente. Una verina in cui i modelli suggeriti sono anni luce lontani dagli adulti di riferimento, genitori o educatori che siano, e dal confronto tra la realtà quotidiana e il mondo patinato online non può che derivare frustrazione. «Con l’ingresso nell’adolescenza, segnata oggi dalla delusione più che dal conflitto», sostiene Lancini, «l’ideale dell’Io svela il suo carattere intransigente, mettendo gli adolescenti di fronte al mancato raggiungimento delle aspettative, troppo elevate per essere realizzabili, con cui sono stati cresciuti» (p. 34).

«Al bambino e all’adolescente viene spiegato cosa lui stesso prova, cosa pensa, com’è fatto, quali motivazioni ci sono alla base di ogni suo comportamento. Il tutto è mascherato da intento educativo e proposto sotto forma di regole, di parole dette a fin di bene e tese a una crescita ben regolata, quando in realtà, a ben guardare, corrobora la richiesta incessante di iperadattamenti in base all’umore, al modo di comportarsi e alle esigenze di genitori, di insegnanti, di allenatori, di una società densa di contraddizioni» (p. 38) che «alimenta il valore del soggetto a discapito della curiosità e della capacità di comprendere chi si ha di fronte, una società dell’immagine che dà valore alla presenza estetica più che al contatto fisico e all’interesse per l’altro per quello che è, per come è fatto lui e per quelli che sono i suoi bisogni profondi» (p. 21).

Oggi si vogliono bambini ben educati, espressivi, che vanno bene a scuola, e allo stesso tempo solidali, non competitivi, in una richiesta che va al di là dell’ideale e si articola in una dimensione in cui è il bambino a dover soddisfare completamente le esigenze dell’adulto che si trova davanti e di cui, in maniera anche inconsapevole, coglie tutta la fragilità. È come se i bambini percepissero dentro di loro il potere di determinare la felicità, o quantomeno la serenità, dei genitori, la quale può manifestarsi solo se il bambino è perfettamente aderente non tanto agli ideali e alle aspettative adulte, come poteva accadere fino a qualche anno fa, ma alla richiesta assurda di crescere secondo l’ideologia del ruolo materno, paterno, docente e educativo, e sentirsi al contempo se stesso. Il bambino postnarcisistico non diventa più adolescente inseguendo l’ideale, ma essendo indotto a confermare che è esattamente così che è, che è proprio così che si sente e si comporta ed è così che vuole essere, sentirsi e comportarsi, per propria decisione e volontà. In altre parole, “Sono io che non vado bene se non sento quello che devo sentire” e non “Sono io che vado bene per quello che sento e sono” (pp. 40-41).

Da un certo punto di vista sembra di essere tornati alla vecchia famiglia/società autoritaria finalizzata all’omologazione culturale, valoriale e comportamentale dei più giovani in cui il dissenso non è ammesso. Un autoritarismo, per certi versi più subdolo, attuato con altri mezzi.

In un’epoca contrassegnata dal «vuoto identitario dell’adolescente o del giovane adulto cresciuto all’insegna del “Sii te stesso a modo mio”» (p. 50), per quanto superficiali e semplicistiche possono essere agli occhi degli adulti, quando le giovani generazioni sbottano che è stato loro lasciato un mondo alla deriva senza futuro, manifestando un minimo di conflittualità verso ciò che le circonda, anziché di delusione allo specchio, andrebbero prese sul serio. Il vecchio adagio “Don’t trust anyone over the age of 30” potrebbe persino dover essere rivisto abbassandone l’età.

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Qualcuno sa chi è Jean Sénac? https://www.carmillaonline.com/2018/06/23/qualcuno-sa-chi-e-jean-senac/ Sat, 23 Jun 2018 21:15:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46165 di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato [...]]]> di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato fin dal 1959 con il grandioso e ineffabile titolo “Libro della vita”.

«Andare fino al fondo di uno sforzo mi è sempre costato. Non mi sono concesso che con lentezza e pena» scrive Sénac imprimendo nel lettore un’immagine di sé e un modo di essere dell’opera. Ma c’è di più. L’incompiutezza di disegno e il carattere esemplare di una lingua-stile da collocare ai vertici estetici più esemplari della letteratura mediterranea, figura finalmente un’immagine aurorale, qualcosa di unico nell’orizzonte delle scritture autoteliche nel secondo Novecento. Quel che resta del colossale proposito di scrivere un Libro della vita, il tassello Ritratto del padre. Per finire con l’infanzia, appare dunque come un astro venuto da un altro cielo, un objet étranger caduto come in una plaga terrestre.

L’opera di Pier Paolo Pasolini, autore dalla critica talvolta associato a Jean Sénac, con Petrolio fornisce un modello di non-finito, in cui però l’infinibilità è l’esito naturale della contingenza, che comunque riflette un’estetica compiuta. Si potrebbe parlare – così di Petrolio come del Ritratto – di compimento del non-finito intendendo però il Ritratto, non più Petrolio, come un corpo letterario estraneo alla generale convenzione della finibilità, qualcosa che richiama, proprio per questa sua intrinseca natura, un preciso statuto interiore, una qualità psicologica incarnata nello scrittore di Béni Saf. Non finisce, alla lettera, il Ritratto. Anzi, Sénac si autointerroga sull’esperienza stessa di scrivere, d’avere scritto: «Comen avons nou pu écrire?». Nei fatti, il Ritratto appare come un miracolo volontaristico, il sovrumano sforzo di scrivere qualcosa di predestinato a non finire. E anche nella mera apparenza tipografica, non finisce ancora perché il Ritratto si sgretola, esplode. Ciò che era la parola poetica è ora l’esito di una deflagrazione al di là della quale sulla pagina resta sparsa una marea di scorie, di detriti, la polvere di un’apocalisse:

XWZU
Vnoqrstv ssss
Nmonmnopnopmoupmnopmnop
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Ristabilire l’equilibrio, Ristabilire un ordine disequilibrato
La rivolta L’infanzia pura Ma vivere Ristabilire

Non ricordo, a memoria, andando ora all’altro capo del libro, un incipit più potente del Ritratto, forse qualcosa di altrettanto epifanico lo si potrà leggere in un altro libro della vita, Oga Magoga, il romanzo-universo del gran cuntista Giuseppe Occhiato. Ma leggiamo questa prima pagina del Ritratto, ritroveremo insieme il tratto inconfondibile di Journal du voleur di Jean Genet (per Sénac il «più grande scrittore di questo tempo», cui è dedicato proprio il Ritratto) e la rara presenza di quella écriture des astre, la cui memoria rimanda alla pagina indimenticabile di Maurice Blanchot e il cui significato ultimo rinvia a Emmanuel Levinas, nel luogo dove è saldata in uno l’intercambiabilità tra des astre e désastre:

Uno strano esilio il nostro! Tra fuochi spenti, cammino, sogno, parlo. Ricompongo all’uso del mio cuore una terra che già si sfuoca. Strano esilio. Molto lontano, verso la falesia, mia madre accende il suo fornello a petrolio. Leva delle grida nel mentre mia sorella, di fronte allo specchio frantumato, si trucca. Anch’io sono là, tra gli specchi dell’esilio, cercando nella memoria frivola i temi che, proiettando la mia leggenda, ripetono a mezza voce niente meno che le sillabe della mia verità.

Non un «romanzo» il Ritratto, un «poema» in prosa verrebbe da scrivere, da un lato per la presenza ingombrante della lingua poetica e della poesia, dall’altro per la dimensione astrale di uno stile di scrittura scintillante, un mosaico di balenanti frammenti, qualcosa di formalmente inclassificabile. Al Ritratto, per stare alla palpitante materia del suo contenuto, si potrebbe affibbiare una formula nietzscheana, cioè l’opera è una corda tesa tra la figura platealmente presente della madre di Sénac (Jeanne Comma, prima dedicataria del libro, insieme a Jean Miel, Patrich Mac’Avoy, René Char, Antonin Artaud, per l’appunto Jean Genet, e nel nome neanche tanto occultato di un altro dimenticato della cultura francese del Novecento, Paul Nizan), e il grande assente e insieme il vero duende del Ritratto, il padre, la «mia sete e il mio nulla» come si legge a inizio di narrazione. Non diversamente dall’idea di rivelarsi nella parola autobiografica, questo (in parte) journal intime sembra infoltire una linea maestra, la grande dorsale, il meridiano passante tra le Confessions di Jean-Jacques Rousseau e Mon cœur mis à nu di Charles Baudelaire, con il quale il Ritratto condivide – tra le altre cose – l’identità di opera-relitto, cioè di un restante simbolo di una realtà che forse è stata (o di ciò che forse dovrà ancora essere).
La madre e il padre o l’immagine della paternità, la patria, l’Algeria, queste sono per Sénac le orme su cui rincamminare, su cui rincamminarsi per ricomporre, nel Ritratto, i segnavia del perduto paesaggio dell’origine e della memoria. Come in Proust, anche in Sénac («Ho vergogna di non aver letto completamente Proust»), rincamminare è per così dire la promessa, alla fine, di un «Temps retrouvé», qualcosa che permette al vissuto di rifluire sulla pagina, alla vita di diventare letteratura, di diventare cioè un potenziamento stesso della vita e non una sua mendace o tradita riproduzione.

La madre, Jeanne Comma, è la presenza e l’interlocutrice prima del Ritratto. Se il poema è l’incompiuto ritratto del padre, la figura materna vive nel segno della compiutezza, è un organismo vivente, una creatura del sacrificio e la portatrice stessa della sopravvivenza. Il Ritratto dunque è un libro a due superfici riflettenti, l’evidence o la scena in luce è per la madre, la zona di intercapedine destinale, la filigrana del vissuto è per il padre. Entrambi, però, concorrono a comporre il ritratto del figlio, Jean Sénac, anzi la madre e il padre realizzano una cifra di destino, qualcosa da cui è scaturito propriamente l’indeterminabile, il poema chiamato a contenere la «mitologia» di sé tra due forme del tempo, il tempo perduto e il tempo ritrovato. Se allora il Ritratto è anche una recherche, essa è anzitutto l’esperienza di una riscoperta mitologica, cioè riguarda l’esposizione di una realtà materno-paterna al cui centro il diarista tratteggia l’icona del sé. Nel disegno troviamo collocata la materia prima e creaturale di una scrittura automitografica venuta all’evidenza, ciò perché lo scrivente scrive di sé dalle regioni profonde e oscure di un desiderio autoanalitico. La scrittura è dunque uno strumento del raccontare e del capirsi, un mezzo maieutico in cui non conta più estrarre la verità dall’altro ma solo quel che veramente conta, cogliere in boccio una verità, la verità di sé.

Tra orfanità di padre e senso di spaesamento esistenziale, forma della relittitudine, Sénac domanda alla realtà del mondo quale sia infine il mondo della realtà. Qui è esposta la ferita meno medicabile, quella coscienza dell’assurdo che tiene in una sola culla l’esistenza del diarista e il pensiero di Camus, l’interlocutore paterno di un’«amicizia impossibile». Alla memoria e alla tessitura di un ordito disorganico di eventi, laceranti lutti, giochi erotici, visioni, deliri e sogni Sénac affida il compito di develare proprio il mondo della realtà, develarlo non per comprenderlo ma per comprendersi nel profondo, donarsi un nome abitando il sacro mistero della realtà del mondo. Qui la figura assente del padre, il «non-visto, non-nominato», è una sorta di demoniaca divinità, una creatura perturbante venuta ad assumere il ruolo di demiurgo dell’immaginario filiale. Per essere, il figlio dovrà penetrare in quell’«Essere» superiore che è il padre. Non uccidere il padre però ma sopravvivere, divorandone il nome, alla sua mitologia. Il Ritratto allora si rovescia nel suo ideale contrario, diviene cioè un autoritratto in forma di figlio alla recherche del padre, in forma di figlio alla ricerca di una patria, l’Algeria (o le patrie che l’Algeria è), e che resta sempre una terra abitata e anche da abitare, il luogo dell’abitabile espresso nella sua radicalità, nella sua identità rinviante per l’appunto a inestirpabili «radici»: «La felicità, talvolta è questo attimo di radici» scrive Sénac.

Un radicale canto, un canto delle radici, anche questo è il Ritratto. E la forma stessa del poema, la sua struttura poematica, rimanda l’immagine del rizoma. Qui la scrittura incede seguendo una ramificazione visionaria, è propriamente innescata da uno stile per l’appunto rizomatico, questo così mosaicale di Sénac, specie quando la memoria del padre e della madre espone il narratore al recupero (memoriale) non di una narrazione lineare ma come di una costellazione, un informe aggregato, un insieme molecolare di balenii, di pulsanti brani di vita ricamati infine in un arazzo automitografico. Non si è dinanzi a un delirio narcisista né qui è in scena il monologo egotista di un velleitario del ricordo, tra le pagine del Ritratto troviamo un Sénac tutt’altro che imprigionato nel sé, semmai il teatro del sé espone in luce anche uno scrittore sensualmente coinvolto nella vita algerina, una vita per così dire erotizzata in ogni momento della sua afrodisiaca espressione esperienziale.
La più efficacie definizione del Ritratto è fornita proprio dallo scrittore quando parla en passant dell’arte del pittore serbo Petar Omcikous, «macchie appena modulate ma che procedono per sortilegi fino alla sinfonia, all’unità, all’universo». Qual è allora la condizione unica e immodificabile di un siffatto sortilegio? Per una volta, alla ricerca del sortilegio, e per un’icastica occorrenza, Sénac sembra non soccorrere il lettore. Ritratto incompiuto del padre, nel sottotitolo occulta la chiave stessa del diario. Non più allora Per finire con l’infanzia ma il suo speculare e stravolto contrario, non dover mai finire con l’infanzia. Proprio in questa resa alla verità sembra collocarsi il sortilegio. La sua vita infinibile traccia allora l’esemplare via di questa scrittura di abbandono e patimento, di dolcezza e ferocia, questa scrittura votata alla miseria, alla preghiera e al sole, al cuore, al sacrificio, questa visione che procede in circolo dall’infanzia anagrafica in direzione di un’altra infanzia, uno stato di fanciullezza destinato a durare oltre ogni possibile fine.

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