indios – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Basterebbe non distogliere lo sguardo https://www.carmillaonline.com/2020/04/08/basterebbe-non-distogliere-lo-sguardo/ Wed, 08 Apr 2020 21:01:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59238 di Barbara Balzerani

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri un estratto dall’ultimo libro di Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, di prossima uscita per DeriveApprodi. Vista però l’attualità e l’interesse dell’argomento trattato abbiamo scelto di pubblicarlo come ‘intervento’. S.M.]

Tu dici che è sempre andata così. Che periodicamente la natura scatena forze incontrollabili. Ma non è tutto sempre uguale. Mai come in questo ultimo scorcio di tempo un manipolo di potenti, solo in quanto esistono, indirizzano le sorti di tutti. Nelle strade di Roma passeggiano i cinghiali. Sui nostri cassonetti della spazzatura fanno le [...]]]> di Barbara Balzerani

[Riceviamo e pubblichiamo volentieri un estratto dall’ultimo libro di Barbara Balzerani, Lettera a mio padre, di prossima uscita per DeriveApprodi. Vista però l’attualità e l’interesse dell’argomento trattato abbiamo scelto di pubblicarlo come ‘intervento’. S.M.]

Tu dici che è sempre andata così. Che periodicamente la natura scatena forze incontrollabili. Ma non è tutto sempre uguale. Mai come in questo ultimo scorcio di tempo un manipolo di potenti, solo in quanto esistono, indirizzano le sorti di tutti. Nelle strade di Roma passeggiano i cinghiali. Sui nostri cassonetti della spazzatura fanno le gare di volo radente i gabbiani. I topi e i lupi ci contendono risorse e spazi di prossimità. Non sono attrazioni per i turisti. Sono i reparti avanzati dei nuovi virus che la febbre del pianeta sta risvegliando. È un segnale di quanto sia malmesso il nostro e il loro ambiente di vita, quanto compromesse siano le difese immunitarie di ognuno. E che a noi occidentali non evochino il terrore ancestrale di serpenti o pipistrelli non elimina il fatto che sia la convivenza anomala tra umani e altre specie che causa le ripetute epidemie. I nostri sconfinamenti produttivi. La bestiola appesa al soffitto di una grotta buia non potrebbe nuocere se certe attività umane non avessero fatto da volano. Tutte legate alla logica capitalistica di distruzione delle condizioni di vita degli ecosistemi. Questa, all’ennesima emergenza, ordinerà le file per mandare in circolo l’ultimo vaccino, fino a esaurimento scorte. E poi da capo. Ancora ci dovrebbero parlare i ciechi di Brughel, anche se, dall’ultima rivoluzione fallita, sembra che sia diventato impossibile anche il solo pensare di liberarci dal virus produttivistico che prospera sul nostro sistema di vita. Eppure la mitizzazione del progresso scientista e tecnologico ha dato ampia dimostrazione non solo della sua nocività ma anche dell’oscuramento della conoscenza non legata ai bilanci di impresa.
Il gigante scintillante della produzione e del mercato mondiale poggia su un mondo di sfruttamento, miseria e devastazioni che ne garantisce il funzionamento. Trovare i modi per smettere di sorreggerlo e vederlo crollare da tempo non è più opera della presa di un palazzo d’inverno. Forse occorrerà sgretolarlo in più punti, danneggiarlo per eroderne le fondamenta. Riconquistare la conoscenza del suo funzionamento in un sistematico sabotaggio, sottraendola dalle mani degli esperti a libro paga. Per quanto possa essere difficile qualcosa si può fare subito. Smettere di assecondare chi parla di catastrofe imminente e sparge motivi di speranza che siano i responsabili del disastro a mettere riparo. Chi più drammatizza la condizione del pianeta e più trova modi per una riparazione del danno che è conservazione dell’esistente.
Se tu ci fossi ancora sapresti svelare l’inganno malcelato dietro le innovazioni industriali che dovrebbero ripulire l’aria dai gas venefici. Per esempio potresti spiegare come funziona un motore e di che si alimentano le tanto magnificate macchine elettriche, ultima trovata dell’affarismo verde. Come se sotto il cavolo delle fiabe si trovassero belle e pronte le batterie che tutto hanno meno che la qualità di non inquinare. Col tuo aiuto potremmo capire quanta energia ci vuole per produrle, di che si alimentano, quante ne servono. Impareremmo che la materia prima non è il vegetale magico. Che, anche se la favola ha come protagonisti dei bambini, questi non passano le loro giornate a vivere avventure ma a estrarre cobalto per pochi spiccioli. Che ne muoiono tanti. Che sono bambini africani di pochi anni d’età. Che le batterie esauste, insieme ai telefoni e gli altri congegni elettronici, torneranno nei loro paesi come rifiuti speciali di impossibile smaltimento. Che alle guerre per il petrolio si sommeranno quelle per il nuovo oro striato di grigio. Che sono già cominciate.
Volti non così difficili da vedere nelle nostre giornate blindate dall’indifferenza. Basterebbe non distogliere lo sguardo.
Non ti stupire. In modi diversi nel mondo stiamo morendo sull’altare imbandito del dio consumo. Non avresti mai potuto crederlo nei tuoi anni di lotta per l’indispensabile. Adesso che la furia della produzione capitalistica ha diradato tante nebbie, possiamo vedere con un po’ più di chiarezza quanto gli stati con i loro confini, le proprietà della terra con le loro recinzioni, la produzione con lo sfruttamento del lavoro e dei territori, le biotecnologie hanno messo in forse alla vita di continuare. Forse è tempo di celebrare il fallimento di questa macchina di morte che nessuna versione ecologica può riesumare. Di incepparne il funzionamento. Anche senza tutte le rifiniture di programma, è questo il tempo. Per gli irregolari, gli illegali, gli scarti, gli indios, i comunardi. L’impasto che ci mette all’altezza di un’altra storia, interamente umana.

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La barbarie della civilizzazione e “gli infelici figli della selva” https://www.carmillaonline.com/2020/03/18/la-barbarie-della-civilizzazione-e-gli-infelici-figli-della-selva/ Wed, 18 Mar 2020 22:01:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58167 di Sandro Moiso

Piero Brunello, Trofei e prigionieri. Una foto ricordo della colonizzazione in Brasile, CIERRE edizioni, Verona 2020, pp. 160, 14,00 euro

Le sofferenze, i drammi e le cause dell’emigrazione italiana verso il Nuovo Mondo, tra il 1880 e il primo conflitto mondiale, sono state da tempo ampiamente analizzate e discusse. Una sequenza di numeri e respingimenti che poco hanno da invidiare a quelli attuali e che coinvolsero, soprattutto, contadini poveri provenienti da ogni parte d’Italia anche se, inizialmente, prevalentemente dalle tre principali regioni del Nord: Veneto, Piemonte e Lombardia.

Poco si sa ancora, però, delle conseguenze che tali [...]]]> di Sandro Moiso

Piero Brunello, Trofei e prigionieri. Una foto ricordo della colonizzazione in Brasile, CIERRE edizioni, Verona 2020, pp. 160, 14,00 euro

Le sofferenze, i drammi e le cause dell’emigrazione italiana verso il Nuovo Mondo, tra il 1880 e il primo conflitto mondiale, sono state da tempo ampiamente analizzate e discusse. Una sequenza di numeri e respingimenti che poco hanno da invidiare a quelli attuali e che coinvolsero, soprattutto, contadini poveri provenienti da ogni parte d’Italia anche se, inizialmente, prevalentemente dalle tre principali regioni del Nord: Veneto, Piemonte e Lombardia.

Poco si sa ancora, però, delle conseguenze che tali migrazioni ebbero sui popoli nativi di quel continente sia a Nord che a Sud. Anche se alcuni testi, rivolti principalmente a ricostruire gli avvenimenti accaduti sul suolo dei nascenti Stati Uniti circa un secolo prima o poco più, potrebbero essere utili per comprendere le dinamiche interne alle società colonizzatrici. Spesso composte da “poveri emigranti”.

Soprattutto un testo di Richard Hofstadter, America at 1750 (1971), ci racconta come la maggior parte dei coloni bianchi arrivati nelle colonie nord-americane tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700 fossero giunti lì in qualità di schiavi “temporanei”, ovvero obbligati a ripagare in settimane, mesi o anni di lavoro il viaggio transoceanico che qualche proprietari terriero coloniale aveva pagato anticipatamente per loro.
Una volta sopravvissuti all’esperienza e rimesso il proprio debito, gli stessi neo-coloni avrebbero poi potuto recarsi, da soli o con le loro famiglie al seguito, sulla “frontiera” dove avrebbero contribuito a far avanzare il progresso e la civiltà. Disboscando e liberando i territori dalla presenza dei “selvaggi” per trasformarsi in nuovi proprietari terrieri e assumendosi i rischi e le responsabilità connesse a tutto ciò1.

Piero Brunello, dopo aver insegnato Storia sociale all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si occupa da anni di migrazioni, scrittura, storia urbana, culture popolari, musica e anarchismo e proprio in questo suo magmatico e stimolante insieme di interessi trova spazio la sua ultima opera di ricerca, da poco pubblicata dalle edizioni CIERRE di Verona.
In tale veste, e a partire da una vecchia fotografia che lo ha accompagnato nelle sue ricerche fin da un primo testo scritto sull’argomento2, in cui una rielaborazione grafica della stessa appariva già in copertina, Brunello non solo insegue i fantasmi di coloro che in tale fotografia appaiono, sia bianchi che nativi, ma soprattutto tende a ricostruire un aspetto troppo spesso rimosso dalla storia dell’emigrazione e della colonizzazione: quello del rapporto tra emigranti giunti in terra straniera e culture native. Accompagnato da un’inevitabile riflessione sia sul ruolo della chiesa missionaria che delle donne indigene all’interno di tale contesto.

E’ una storia violenta e crudele quella che esce da queste pagine, che, ancora una volta, tende a smontare quel mito degli Italiani “brava gente” che accompagna le narrazioni di tutte le imprese militari e coloniali italiane dopo la nascita dello Stato Italiano nel 1860. Una narrazione ad uso interno ed internazionale che, come ogni buona narrazione di parte, tende a sminuire la tristezza e la violenza degli eccidi perpetrati3 attraverso la descrizione delle difficoltà in cui gli italiani e i loro governi si sarebbero trovati a “dover” agire. Attraverso pratiche e strumenti che solo tangenzialmente potevano appartenere al carattere della Nazione. Unendo così, per anni, in un unico leitmotiv sia la narrazione di destra che di sinistra della storia patria.

Tornando però al nostro testo e alla fotografia che compare sin dalla copertina, Brunello compie un’opera certosina di ricerca per capire chi siano i personaggi fotografati e i fatti che avevano precorso quell’immagine. Dieci “coloni” e tre bambini indigeni, inizialmente visti nella figura riportata nel libro di memorie, pubblicato a Firenze nel 1904 con il titolo Coloni e missionari italiani nelle foreste del Brasile, di un parroco di origini piemontesi che si era trasferito, o era stato trasferito dalla sua diocesi, in Brasile negli anni dell’ultimo decennio del XIX secolo, Don Luigi Marzano. In una “colonia” in Brasile, quella di Urussanga nello Stato di Santa Catarina, costituita prevalentemente da famiglie di emigranti di origini venete.

Quello che poco per volta esce dalle ombre del passato è una vicenda di scorrerie delle tribù native locali, soprattutto dedite alla caccia e raccolta, destinate a impadronirsi di pannocchie di mais dei campi coltivati oppure ad impedire il disboscamento messo in atto dai coloni per aumentare la disponibilità di terreni agricoli oppure la caccia messa in atto da questi di quella selvaggina che costituiva un’importante fonte di alimentazione per le prime. Scorrerie, che in qualche caso portano a delle vittime tra i coloni, alle quali questi ultimi rispondono con incursioni nell’interno, il cui risultato sarà la strage dei gruppi di nativi, il taglio delle orecchie delle vittime per intascare una taglia messa sulla testa di ogni indigeno ucciso e il rapimento dei bambini superstiti per far loro “dono” della catechizzazione e della superiore civiltà del lavoro, della repressione e del pentimento.

Protagoniste di queste scorrerie destinate a portare terrore, morte e distruzione tra le comunità indigene furono quelle che Don Marzano, l’estensore delle note del 1904, definisce come “compagnie di coraggiosi” che armati di fucili e coltellacci penetravano nella selva per assolvere il loro triste mestiere. Compagnie formate di volta in volta da soldati, coloni e soldati oppure di soli coloni. Compagnie la cui definizione è destinata a ricordarci le “coalizioni dei volenterosi” che vari governi americani hanno messo in piedi, negli ultimi trent’anni, per le guerre nel Vicino Oriente.

Coraggiosi, volenterosi termini che definiscono a prescindere l’utilità del gesto. Anche del più distruttivo. Compagnie che talvolta, oltre che per “punire” gli indigeni difensori dei propri territori, servivano anche per riportare nelle colonie gli emigranti impauriti o scoraggiati che da queste cercavano di fuggire. Delusi da ciò che avevano trovato in quel Brasile che la propaganda, cui avevano creduto prima di imbarcarsi, aveva definito come una nuova terra promessa, rigogliosa e fertile. In cui sarebbe stato facile arricchirsi oppure, più semplicemente, uscire dalla povertà che si erano lasciati (?) alle spalle.

Nella vulgata popolare e populista, oltre che auto-assolutoria, sarebbe facile parlare di guerra tra poveri (una definizione ancora davvero troppo usata oggi dalla Chiesa e da una Sinistra che ha da tempo dimenticato termini quali imperialismo e lotta di classe), ma in realtà non fu comunque così.
Da un lato c’erano sicuramente degli emigranti abbastanza poveri da vedere come nemico chiunque si frapponesse sul loro cammino verso l’arricchimento o l’uscita dalla povertà. Ma dall’altra c’erano indios che non sapevano di essere poveri e che vivevano in armonia con la selva e il territorio, senza bisogno di sentirsi ricchi, poiché, come afferma Carlos Taibo in un suo testo4, anche il concetto di povertà deve essere inculcato nelle menti di chi non si è ancora assuefatto alle regole della società mercantile e della mercificazione dei prodotti della natura, della terra e del lavoro.

A questo secondo, e tutt’altro che ininfluente aspetto della civilizzazione, si sarebbero dedicati i missionari che, pur piangendo sulle violenze subite dai nativi, non mancavano di definirli sempre attraverso i loro “vizi” poiché “solo a contatto con una popolazione cristiana gli indios si sarebbero adattati al lavoro, abbandonando col tempo le cattive abitudini.”5 Vizi che, in una sua relazione del 1879, il missionario cappuccino padre Luigi da Cimitile non aveva esitato ad elencare in questi termini:

Gli indios erano oziosi, ladri e ubriaconi; praticavano la poligamia, il divorzio, la prostituzione l’incesto; tra i lro riti più deprecabili, le danze e le orge funebri. Impossibile («eccetto un miracolo della Provvidenza») che «i vecchi cedano e imparino le verità della nostra santa Religione», perché, anche se lo promettono, «poi non ne fanno nulla»; unica speranza di convertirli è quella «d’inculcar loro il lavoro». E cocludeva: «Non c’è altro mezzo: bisogna che col sudore della fronte si guadagnino gli oggetti di cui hanno bisogno per vivere, che acquistino orrore al furto, all’omicidio, ai quali sono oltremodo proclivi».6

Conclude quindi Brunello:

Era questo in fondo lo scopo della catechesi che il governo imperiale del Brasile affidava ai cappuccini: legare alla terra le tribù nomadi (per usare il linguaggio dell’epoca), impiegare gli indios in lavori salariati e incutere loro timore e rispetto nei confronti dei bianchi. Quanto a convertirli, era opinione comune che tre o quattro generazioni non sarebbero bastate.7

Operazione destinata a creare quelle idee di povertà, bisogno e lavoro salariato o schiavo, cui da secoli si erano rassegnati gli antenati dei migranti italiani dell’epoca. Che, e proprio qui sta il paradosso storico, diventavano così gli esportatori di un’ideale di civiltà “bianca e cristiana” che prima di tutto aveva dovuto schiantare, in Italia e in Europa nei secoli precedenti, qualsiasi alternativa comunitaria, agricola o nomade questa fosse.

Esportatori di una visione razzista e razziale del mondo, in cui i “bianchi”, anche se poveri, potevano sentirsi superiori ai « figli della selva».

Fin dai primi tempi della conquista portoghese, bugres è un termine dispregiativo per indicare tutti gli indios. A quanto pare deriva da bùlgari, che in Europa nel tardo medioevo designava i seguaci di una setta eretica sviluppatasi in Bulgaria, per assumere poi i significati di sodomita, usuraio e bugiardo. Dopo la conversione dei Guaranì al cattolicesimo, il termine rimase ad indicare solo gli indios che rifiutavano la civiltà. In altre parole gli indigeni, al pari degli animali, potevano essere o mansos, cioè addomesticati, oppure selvaggi. Questi ultimi erano detti bugres: gli immigrati italiani che giunsero nel sud del Brasile, a partire dal 1875 li chiamavano bùlgari o bùlgheri, che nell’Italia settentrionale di fine Ottocento manteneva ancora il vecchio significato medievale.8

Nel racconto di Don Marzano, ancora in un apposito capitolo, sono dipinti così

«I Botocudos, o selvaggi»: nudi, color del rame,usano archi e frecce […], divorano i prigionieri di guerra nel corso di «una festa terribile» in cui si ubriacano e danzano «al suono di tamburelli e canne di bosco». Civilizzarli? Troppo tardi oggi «anche il solo avvicinarli è divenuta un’opera difficilissima e pericolosa».9

Dimostrando così che «la foresta era troppo piccola per due civiltà così diverse – l’europea e la “rossa”». Due civiltà che pur affrontandosi nello stesso luogo appartenevano a due tempi diversi, non sincronizzabili sugli orologi che pure i coloni si portavano appresso, poiché caratterizzati da un prima e un dopo molto distanti tra di loro. Prima e dopo l’avvento della proprietà privata dei suoli e del prodotto del lavoro comune trasformato in merce, cui quella dei coloni era assuefatta da tempo mentre quella degli indios no.
Motivo per cui una delle due doveva obbligatoriamente scomparire.

E la fotografia? Il libro esplora tutte le possibili spiegazioni di una fotografia che nel tempo è stata definita anche un fotomontaggio e lo storico giunge anche a delle conclusioni che qui non si rivelano per non privare il lettore del piacere della scoperta.
Anche se, in chiusura, occore sottolineare che l’aspetto principale e più importante del bel libro di Brunello è proprio quello di problematizzare aspetti della Storia del colonialismo e dell’emigrazione troppo spesso dati per scontati, ad uso di facili verità, scarsamente conflittuali con l’ordine esistente.


  1. R. Hofstadter, L’America coloniale. Ritratto di una nazione nascente, Arnoldo Monadori Editore, 1983. Per l’esperienza degli Italiani sulla Frontiera si vedano le testimonianze comprese in: Francesco Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti 1776-1880, Volume primo, Mondadori 2001  

  2. P. Brunello, Pionieri. Gli italiani in Brasile e il mito della frontiera, Donzelli 1994  

  3. Anche nei dieci anni di guerra contadina interna passata sotto la definizione di “brigantaggio meridionale”, ben documentati in testi quali: Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Feltrinelli 1964 e Enzo Ciconte, La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio, Laterza 2018  

  4. C. Taibo, Anarchici d’oltremare. Anarchismo, indigenismo, decolonizzazione, Zero in condotta, Milano 2019  

  5. P. Brunello, Trofei e prigionieri, p. 45  

  6. P. Brunello, op. cit. p.47  

  7. ibidem, pp. 47-48  

  8. ibid. pp.11-12  

  9. ivi, p. 26  

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La Patagonia senza confini di Jorge González https://www.carmillaonline.com/2015/09/16/la-patagonia-senza-confini-di-jorge-gonzalez/ Tue, 15 Sep 2015 22:01:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24826 di Simone Scaffidi L.

1cf5e5497e015bcbb2c0657e3f84b58cJorge González, Cara Patagonia, 001 Edizioni, 2013, pp. 280, € 29,00

Di questo romanzo a fumetti, suggestiva commistione di finzione e storia della Patagonia, impressionismo e naturalismo, in Italia se n’è parlato troppo poco, come spesso accade alle opere dei grandi disegnatori e fumettisti internazionali. Uscito in Francia e Spagna nel 2011 è il secondo lavoro di Jorge González pubblicato in Italia (2013), preceduto da Fueye. Il suono del Tango (2009) – un racconto migrante e sottoproletario dove il pastello incontra il bandoneòn in un potente amplesso di colori [...]]]> di Simone Scaffidi L.

1cf5e5497e015bcbb2c0657e3f84b58cJorge González, Cara Patagonia, 001 Edizioni, 2013, pp. 280, € 29,00

Di questo romanzo a fumetti, suggestiva commistione di finzione e storia della Patagonia, impressionismo e naturalismo, in Italia se n’è parlato troppo poco, come spesso accade alle opere dei grandi disegnatori e fumettisti internazionali. Uscito in Francia e Spagna nel 2011 è il secondo lavoro di Jorge González pubblicato in Italia (2013), preceduto da Fueye. Il suono del Tango (2009) – un racconto migrante e sottoproletario dove il pastello incontra il bandoneòn in un potente amplesso di colori e musica – e seguito dal più recente Ritorno in Kosovo (2014) scritto a quattro mani con il disegnatore Jakupi Gani.

La storia – alla cui sceneggiatura hanno partecipato Horacio Altuna, uno dei maestri del fumetto argentino, e gli scrittori Hernán González y Alejandro Aguado – si dipana lungo un secolo, geograficamente frammentata tra la Terra del Fuoco, la provincia di Chubut e Buenos Aires. Si apre con una battuta di caccia contro gli indigeni Yamana e Ona da parte dei mercenari al soldo dei proprietari terrieri inglesi, nell’anno 1888. Prosegue narrando la Patagania Ribelle degli anarchici e la feroce repressione degli estancieros e dello Stato argentino negli anni ’20; per toccare la dittatura militare degli anni ’70 e arrivare ai giorni nostri, all’indebita appropriazione da parte delle grandi multinazionali degli sconfinati territori della Patagonia. Un viaggio dunque dal bene comune e condiviso delle risorse naturali alla proprietà privata dei ruscelli, degli animali e delle montagne.

– Vuoi portarti un fucile?
– Laggiù non si scherza. È terra di Benetton.

Nell’opera di González la Patagonia, terra di confine per antonomasia, è un mondo senza limiti e contorni finiti, come la natura, il vento che soffia e la storia taciuta delle popolazioni indigene che abitano queste lande estreme. Della volontà di sconfinare lo stereotipo ne è testimone il tratto che sfuma, rievocando le grandi tele di Turner – guardare per credere pagina 32 tra le altre – e la potenza espressiva del colore che a contatto con l’acqua sgorga insistenti sinestesie. Ciò che è visivo quando passa dalle mani di González riesce a trasformarsi in sensazione uditiva o tattile, assenza di rumore o esplosione di movimento. L’autore sembra voler abbatere il muro che separa le arti e i sensi per dissolvere nei contrasti di luce e colore un confine che è il prodotto di un’umanità vorace nell’affermare le barriere dell’identità e della proprietà.

– …Questi indios non vogliono capire che nessuno tocca le mie pecore.

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La violenza della natura viene diluita, ma non per questo smorzata, con la violenza dei colonizzatori, dello Stato e delle multinazionali, raggiungendo lo scopo di ridurre la purezza e l’immagine mitica dell’una e dell’altra esperienza. I disegni, grazie al meccanismo sinestetico a cui si è accennato, rievocano le parole di due dei più grandi narratori e esploratori della Patagonia, coloro che forse meglio di tutti riuscirono a raccontare la radicalità e le contraddizioni politiche e naturali di questa terra: il cileno Francisco Coloane e l’argentino Osvaldo Bayer, anche se a loro non piacerebbe vedere il proprio nome attraccato a una nazionalità.

Quella di González è una storia che, come gli iceberg che doppiano Capo Horn, s’immerge negli abissi della memoria e delle rimozioni per regalarci un’immagine dura e non monolitica della Patagonia. Dalle tavole emerge la complessità di una montagna nel mare, la cui vetta spianata dai venti è solo il preludio superficiale della somma di storie ben più profonde, colme di umanità e riscatto, violenza e sconfitta.

Jorge González (Dear Patagonia, pág. 85)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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