imprenditori – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 21 Jan 2025 21:20:51 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache epidemiche https://www.carmillaonline.com/2020/03/26/cronache-epidemiche/ Thu, 26 Mar 2020 22:00:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58947 di Giovanni Iozzoli

Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera, indolente, salire verso il cielo. Neanche tanto in lontananza: un paio di chilometri in linea d’aria, da casa mia. Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.

Ora che siamo piombati dentro il peggior incubo distopico – non uscite, non vi assembrate, non vi toccate -, [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Si scorgeva in lontananza una striscia di fumo nera, indolente, salire verso il cielo. Neanche tanto in lontananza: un paio di chilometri in linea d’aria, da casa mia. Pareva l’eco angosciante di epoche lontane – e vicinissime; il fumo triste che dovevano vedere giorno e notte gli abitanti di certe cittadine una settantina di anni fa, dalle loro finestre – la memoria dannata d’Europa. Le nostre anime, passeranno tutte dal camino.

Ora che siamo piombati dentro il peggior incubo distopico – non uscite, non vi assembrate, non vi toccate -, ora che ogni scenario apocalittico o autoritario sembra plausibile, cominciamo a riflettere seriamente sulla nostra condizione. Non come malati o potenziali infettati, ma come esseri umani improvvisamente risvegliati dal sonnambulismo indotto dal tran tran fasullo e quotidiano a cui eravamo avvezzi.

Un mio amico fischietta allegro, quando va a fare la spesa, nel vuoto desolato nel nostro quartierino di prima periferia: dice che la mascherina gli ha migliorato l’estetica, e trova anche tutte le donne attraenti, coi loro volti esoticamente velati dalla FFP3. Fuori c’è un sole di primavera che ricorda l’aprile berlinese del 1945, magistralmente raccontato da Jonthan Littel ne Le Benevole: la città spettrale, vuota di corpi e desideri, scassata e rassegnata, in attesa della Nemesi terribile – mentre la natura fiorisce irridente, dolcissima, struggente e puntuale, promettendo un futuro di normalità che sembra lontanissimo, sepolto dai rimpianti di tutti coloro che vorrebbero tornare indietro, cancellare gli anni della follia, godersi legittimamente la primavera – come agognavano i berlinesi tardivamente pentiti nel ’45. Solo che non c’è nessun nemico, alle porte. Forse è per quello che le strategie difensive si accatastano inutilmente. Dai nostri bunker antivirali, non si coglie uno spiraglio di futuro ipotizzabile. C’è il qui e ora. Le tragedie sono sempre una lucida immersione nel presente – lo raccontava bene Benedetto Croce quando rammemorava la sua esperienza di sepolto vivo sotto le macerie di Casamicciola, durante il terremoto del 1883 che gli uccise la famiglia. Si resta lucidi, guardando il cielo stellato e sperando che i soccorsi arrivino al più presto, a liberare il corpo imprigionato da tufi e calcinacci.

Quello che fa più paura, non è la situazione economica. Ciò che spaventa è l’irreversibilità delle nostre paranoie. Per quanto tempo, quando sarà finita, continueremo a disinfettare il nostro mondo, in una illusione di incontaminazione, di asetticità? Per quanto tempo continueremo a girare in mascherina, a lavarci ossessivamente le mani, a perpetuare solo rapporti a controllata lontananza? L’ideologia del distanziamento sociale viene introiettata da una società che già, embrionalmente, aveva cominciato a praticarla da anni, in dosi omeopatiche. Metà dei nuclei familiari milanesi sono single – il “distanziamento” era già penetrato nei polmoni. Le relazioni umane come un impiccio da evitare – tra un aperitivo, un pilates o una impiccagione per debiti.

Le nostre bardature anti-virus fanno riflettere – per noi sono una fastidiosa novità. Ma sappiamo che milioni di cinesi, indiani, indonesiani, nelle sterminate metropoli d’Asia, indossano già normalmente quelle stesse mascherine, da anni. Fa parte della loro routine. E non per proteggersi dai virus: solo per ripararsi dall’intossicazione di uno smog ormai incontrollato – qualcosa di quotidiano, ineluttabile, non eccezionale, che si sa non passerà. Particelle inerti, non virus. Agenti patogeni che aggrediscono il sistema respiratorio e innescano la tosse cronica con cui si convive, nella frenetica tristezza tipica delle metropoli asiatiche. Dov’è il virus nell’aria lercia e irrespirabile di Bangalore? Non è quello il problema principale, da quelle parti. Ma che razza di vita è quella in cui normalmente decine di milioni di persone barattano un po’ di elevazione sociale, un po’ di modernità e di accesso alle merci, con l’impossibilità fisiologica di respirare in maniera normale? Diventare ceto medio significa soffocare? E’ una buona metafora? Intanto, nella ridente Padania – da sempre catino fetido e stagnante – le autorità fanno a gara a smentire la possibilità che il virus possa essere veicolato attraverso le micropraticelle dell’inquinamento urbano. Sarebbe un bel problema, se fosse così. Meglio non pensarci nemmeno. Come faremmo, dopo, quando sarà passata, a risalire ordinatamente sulla giostra?

Chi sono i vecchi padani che stanno morendo dentro reparti stracolmi e improvvisati, a Brescia o Milano? Pensionati di piccoli paesini, insediati in un contesto di solido benessere, sociale e famigliare. Sono passati nel giro di pochi giorni, dai riti placidi della bocciofila alla terapia intensiva; e adesso sono lì, dentro uno scafandro o attaccati ad un respiratore, con gli occhi sbarrati, la fame insaziabile di ossigeno, soli nella morte come nella nascita. Pure loro, ceto medio, medissimo; vecchi eroi del boom, custodi di una solida ricchezza privata: probabilmente non si erano accorti di quanto, negli anni, fosse stata tanto gravemente erosa quella pubblica – né potevano ipotizzare ricadute così drammatiche sulla propria cartella clinica.

Ho letto che nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo, prima della crisi, c’erano 17 posti disponibili. Non so se il numero sia quello giusto (già la scaramanzia non lasciava presagire nulla di buono), ma comunque era una disponibilità scandalosamente inadeguata, per una grande città. Scenario tipico dell’egemonia liberista: crescono le ricchezze private, decrescono quelle comuni, collettive. Mentre i capannoncini grigi, della meccanica, dell’agroalimentare e della logistica, facevano girare l’economia del Nord, mentre la disponibilità economica delle famiglie ti faceva sentire al sicuro – chi se ne frega delle attese, vado a fare l’esame a pagamento -, ci siamo scordati di vigilare sul lento inesorabile sfilacciamento del sistema pubblico.

Come in un bizzarro cartone animato, una lunga fila di topolini maligni ci aveva sfilato sotto gli occhi migliaia di posti letto, uno alla volta, ogni santo giorno, per anni. Non se ne era accorto nessuno? Reparti chiusi, ospedali e presidi cancellati, pezzi di sanità trasferiti pari pari al privato. Non è vero che il sistema sta facendo fatica ad affrontare la criticità, oggi, per colpa del virus. Era già così da tempo. Adesso sta piangendo il Nord, ma in condizioni normali, erano le strutture sanitarie meridionali, che quotidianamente condannavano ad un’assistenza indegna o addirittura alla morte i pazienti più fragili, anziani, poveri. Con qualche occasionale denuncia pubblica, che dopo due giorni spariva dai giornali, derubricata nell’archivio strapieno, alla voce “malasanità”.

Adesso tra Bergamo e Brescia si sta decidendo a chi dare priorità nelle terapie salvavita. A Sud non c’era bisogno del virus: funzionava più o meno così, nei luridi pronto soccorso trasformati in depositi di fine vita. Abbiamo ballato al ritmo dell’euro-riformismo per vent’anni – ideologia e tagli feroci – e adesso piangiamo sull’austerity versata. Non autosufficienza e invecchiamento: quando la buriana sarà passata, ci ricorderemo che non sono temi a margine? Ci torneranno in mente le file delle bare solitarie caricate dai mezzi militari – i vecchi che spariscono, letteralmente, dai reparti e ricompaiono in forma di urna funeraria? Le bare, Cristo Santo. Almeno quelle le capiamo? Sono un linguaggio esplicito, le bare: 180×50 cm, la misura della verità. Ci ricorderemo, quando qualche illuminato maestrino della Bocconi verrà a dirci che “ce lo chiede l’Europa”? Saremo pronti a reagire, onorando la memoria dei nostri morti?

A proposito di ideologie introiettate: questa estrema, totale, requisizione delle nostre libertà da parte dell’esecutivo – al di là che possa essere ritenuta necessaria in questa fase o meno – quali effetti avrà sulla psicologia di massa? E’ la prima volta, dal 1945, che in questo paese si confinano i cittadini dentro le mura di casa senza una realistica previsione di cessazione della misura. Come ne usciranno gli italiani medi, già immunodepressi sul piano dell’autonomia di pensiero, privati già da tempo di strumenti di lettura o critica che vadano al di là del mugugno anti-casta o anti-negri? Sembrerà normale e acquisito il circuito shock sociale/comando verticale – l’esautorazione di ogni margine non solo di opposizione, ma anche di semplice discussione? L’idea nefasta della “compagine nazionale” potrà essere ritirata fuori dal cassetto ad ogni passaggio di svolta – non solo epidemiologico -, come una specie di bandierina, di retaggio, di orgoglio della “resilienza italiana” che canta dai balconi e invoca i militari nelle strade?

Non preoccupa tanto la propensione autoritaria delle istituzioni – che ormai è un automatismo biopolitico – quanto il pericolo che essa possa trasformarsi, tra la gente, in senso comune, ineluttabilità e indiscutibilità di questi meccanismi. I check point, le ordinanze minacciose, la tracciabilità digitale delle nostre vite: tutte cose già da tempo nella disponibilità degli Stati, ma che adesso rischiano di non aver più bisogno di alcun alibi emergenziale.

Il virus impecorisce o risveglia le coscienze? Certo è che siamo in una congiuntura astrale speciale. Gli imprenditori privati, che per vent’anni avevano rivendicato il primato morale e la guida di fatto del paese, si stanno rivelando meschini bottegai pronti a barattare salute e fatturati; il Presidente del Consiglio è uno scappato di casa, che si trova lì senza sapere bene perché; l’opposizione è clownesca; la Protezione civile assume compiti di governo abnormi e inadeguati. Insomma: non c’è più la borghesia, la classe dirigente che forma le élite del paese e lo dirige. Puff. Estinta. Sparita. La nuova autorità morale è fatta di paramedici che indossano come protezione sanitaria i sacchetti della spazzatura, le infermiere che piangono impotenti i pazienti morti, i medici di famiglia che non sanno che pesci prendere, i facchini e i trasportatori della logistica che alimentano le reti distributive, i lavoratori dei settori di pubblica utilità. I fanti straccioni, insomma – mentre generali e approfittatori di guerra aspettano che passi. A molti verrà il dubbio che tutto sommato, anche “dopo” potremmo fare a meno di loro: capitani d’industria, manager, economisti, euroburocrati, consulenti del nulla.

Nel notte fatale tra il 20 e il 21 marzo, il Governo ha appurato che l’immunità operaia non esiste – né di gregge né individuale. E ha chiuso tutte le attività “non essenziali”, formula che lascia ampi margini di trattativa a squali manageriali di ogni risma. Al momento in cui scriviamo è già aperto il suk sottogovernativo, quello dei protocolli e degli applicativi, dove mezze seghe pseudoimprenditoriali e mezze seghe pseudopolitiche, confrontano le loro mediocrità, patteggiando la soglia della sopravvivenza dei dipendenti o delle aziende. Una trattativa levantina sulle proroghe e le deroghe di ogni genere, guidata dagli ascari di Confindustria. Ricavi, profitti, fette di mercato: se fossero sul Titanic, morirebbero con la calcolatrice in mano.

L’essenzialità produttiva e merceologica è una tale catena di sant’Antonio, che alla fin fine anche Gucci potrebbe rivendicarla (sembra una barzelletta, ma pare stiano riconvertendo a camici ospedalieri parte della produzione. Infermieri con poche protezioni e scarse gratifiche: ma elegantissimi). Gli operai italiani hanno manifestato in queste settimane una sana estraneità alle ragioni della produzione. Lo spettacolo delle multe agli innocui frequentatori di parchi, mentre metropolitane e stabilimenti si riempivano di salariati ogni mattina, aveva provocato sdegno e rabbia sacrosanta, dentro i perimetri aziendali.

Si è scioperato per la salute ma anche per strappare la cortina ipocrita dell’iostoacasa, mentre si impediva alla gente proprio il diritto di starsene a casa. Scioperi che hanno incalzato le timidezze dei confederali, sempre propensi a interpretare un ruolo nello spettacolo dell’union sacrée, modesta particina in cui si sono tristemente specializzati. Ma non in tutti i lavoratori è scattato il normale riflesso autoconservativo. C’è anche “l’insana” fetta degli irriducibili – non solo i fidelizzati, o i terrorizzati: ci sono anche quelli che vogliono continuare a lavorare perché quello è ormai l’unico residuo aggancio che hanno rispetto alla loro idea di normalità. Il lavoro come vera casa, come habitat naturale: una vita deprivata dai ritmi del lavoro come indegna di essere vissuta. Una psicosi, insomma. Un po’ come quella dei maniaci che fotografavano i runner dalla loro finestra e mettevano le foto in rete per esporli al ludibrio che meritano gli untori. Il virus è anche un formidabile rivelatore di malattie mentali che la normalità occulta.

Quel filo di fumo non costituiva un richiamo quasi per nessuno. Tutti voltavano la testa imbarazzati. La città sapeva, che stava succedendo qualcosa, là, a Modena, dalle parti di Sant’Anna, al carcere. Le voci cominciavano a girare, nei notiziari locali on line. Davanti ai cancelli solo qualche attivista solitario e impotente – e i parenti, disperati, e torme di divise che entravano e uscivano. Eppure lo vedevamo tutti, dai quattro angoli della città, il fumo di guerra. Quando sono arrivato lì davanti, ho sentito un operatore di polizia che spiegava con disinvoltura ad un avvocatessa: hanno avvisato tutti gli avvocati dei morti, se a te non ti ha chiamato nessuno, vuol dire che i tuoi sono ancora vivi. Qualche passo più in là un’anziana signora tunisina, velata di turchino, singhiozzava con le mani in faccia appoggiata ad una macchina. Tre ragazzoni intorno a lei l’abbracciavano e se la baciavano, come si deve fare con le vecchie madri: hamdullillah, le dicevano per consolarla, ringraziamo Dio. Nostro fratello non è nell’elenco dei morti. E’ solo scomparso, non si trova: è asserragliato, è deportato, chissà dove, chissà in che condizioni…

Fioriscono le analisi, alcune assai interessanti pubblicate anche da Carmilla, circa le conseguenze globali del virus. In che direzione spingerà, questa formidabile accelerazione della storia? Come si ridisegneranno le gerarchie mondiali, nella divisione internazionale del comando, del lavoro, delle risorse, dei mercati? E’ noto che le grandi epidemie, spesso hanno accompagnato massicci mutamenti degli scenari geopolitici – i rapporti tra città e campagna, lo sviluppo delle forze produttive, della scienza, della tecnica: i virus come araldi della krisis, di uno stadio ulteriore della modernità. Una lettura che diffida di ogni crollismo, di ogni catastrofismo fine a se stesso.

Le tendenze in atto sono contraddittorie: le screditatissime élite occidentali, si rilegittimeranno grazie al senso di protezione che i sudditi umanamente coltivano davanti al Male? O ci sarà il collasso finale degli assetti politici, già così precari, dei vecchi epicentri imperialisti – Washington, Londra, Bruxelles? E l’Iran, la Turchia, l’asse dei paesi intermedi – soprattutto quelli che gli Usa odiano – riuscirà a reggere le grandi onde telluriche in atto, tra sanzioni, profughi, crollo dei prezzi del petrolio? E l’epidemia, può essere paragonata ad una guerra, con i suoi ben noti effetti catartici sul ciclo economico? Può essere che questo contesto così distruttivo di ricchezza, possa determinare una nuova fase di ri-accumulazione, che contrasti almeno per un po’ la tendenza alla depressione che da mesi segnava le economie capitalistiche mondiali? Qualcuno si chiede se stiano cambiando i paradigmi, le categorie, le strutture di pensiero, dopo un quarto di secolo di egemonia liberale. Ma quello non è un problema. Il liberismo è sempre stato una religione del pragmatismo. Le ortodossie vanno bene per l’accademia, mica nella vita. Gli economisti sono al servizio di chi paga. E i padroni già invocano l’economia di guerra, l’eccezionalismo, il cambio di passo – precisando però che “niente nuova Iri”, lo Stato dovrà metterci i soldi, le commesse, gli appalti, gli esoneri fiscali, gli iperammortamenti, il finanziamento alle grandi opere, mica pensare di cambiare spartito. Assisteremo alle pantomime del 2008, quando i boss dell’industria e della finanza americana andavano a Washington col capo cosparso di cenere – oh, quanti paradigmi da cambiare! – per ritrovarsi l’anno dopo più arroganti e famelici di prima.

Intanto gli animali selvatici si stanno riavvicinando ai centri urbani, silenziosi e salubri come non mai. Volpi, lepri, germani reali e fagiani: il microscopico virus sta generosamente aprendo loro le porte delle città, mentre gli abitanti sono costretti a barricarsi in casa. Ci ricorda che non siamo soli sul pianeta, con le nostre malattie, le nostre ipocondrie, il nostro ventaglio di abitudini sguaiate: c’è un mondo che si muove intorno a noi, spesso invisibile – almeno per chi non vuol vedere.

Milioni di persone stanno ignorando il corona virus, semplicemente perché per loro è normale e naturale vedere un bimbo morire di diarrea o chiamare “vecchio” un cinquantenne: una massa enorme di uomini e donne che vive negli infiniti slums del mondo e che convive con ogni genere di virus – e di morte – senza vie d’uscita. Un popolo senza acqua, senza fogne, dall’alimentazione scarsa, dal sistema immunitario fisiologicamente compromesso fin dalla nascita. La vita e la morte di quelli che non hanno paura del coronavirus, che adesso ci vedono annaspare terrorizzati e magari non capiscono, o pensano che finalmente c’è un po’ di giustizia virale, in questo mondo.

Domenica 8 marzo 2020. Nove cani crepano in seguito alla rivolta nel canile di Sant’Anna, in Modena. Non verrà il Gabibbo, a indagare su quelle morti: erano cani cattivi, idrofobi, accusati di reati contro il patrimonio. Assurdi coltivatori di dipendenze. Morti come si muore nei canili, tra guaiti soffocati e anonimato. Nessuno sa come è cominciata la rivolta, nessuno sa bene quando è finita. Un balletto di versioni contrastanti e fatti occultati per giorni, una censura di Stato degna del Guatemala, del Salvador. La stampa locale, il Garante dei detenuti, le autorità, gli amministratori, tutti allineati e coperti, hanno dedicato poche parole distratte a questo inaudito eccidio modenese – il primo dopo quello delle Fonderie del 9 gennaio 1950.

Rendiamo almeno l’onore del nome a questi cani ribelli e sfortunati: Hafedh Choukane, 36 anni; Slim Agrebi, 40 anni; Ali Bakili, 52 anni; Lofti Ben Masmia, 40 anni; Erial Ahmadi, 37 anni; Salvatore Cuono Piscitelli, 40 anni; Ghazi Hadidi, 36 anni; Abdellah Rouan, 34 anni (fonte Antigone – e ne manca pure uno). Quattro sono morti in viaggio, li avevano caricati mezzi morti sui furgoni per portarli presso altri penitenziari – capita nel trasporto animali. Per loro non c’è stata nessuna mobilitazione della società civile, nessuna indignazione, nessun dibattito si è aperto: il sindaco ha mandato persino una squadra di imbianchini a coprire celermente qualche scritta solidale comparsa sui muri della città, tanto per calibrare le emergenze… Meglio, così ci risparmieranno in futuro le retoriche sul carcere “casa di vetro”, le irriducibili bugie liberali sul carcere “specchio di una società democratica”. Tutte chiacchiere. Non frega un cazzo a nessuno, di quelli là dentro.

A Sant’Anna non è successo niente, poco più di un incidente, questa è la parola d’ordine. Ricostruiranno il canile – distrutto dalla torma degli ingrati rivoltosi – più funzionale e sicuro di prima. Avevano intuito, le autorità, che con l’avanzare del virus la rivolta di Modena sarebbe semplicemente scomparsa dalle cronache, dalla labile memoria di una città attonita – bastava tenere duro e tacere per qualche giorno in più. Non ci sarà nessun comitato di controinchiesta, a bilanciare le versioni ufficiali. Ci fideremo dei PM e archivieremo alla svelta questa pratica incresciosa. Guai ai vinti. Ai perdenti. Saranno cancellati. E così siamo morti da emarginati, da antichi clandestini della storia – recitava il canto dolente di Domenico Rea nel 1980, contemplando la morte umile e dimessa dei cafoni, durante il terremoto d’Irpinia. Nessun poeta canterà invece la morte di Hafedh o Salvatore, nessuna Spoon River racconterà i loro giorni contorti – e poi cosa scriveresti sulle lapidi a beneficio del poeta: epidemia di overdose? Clandestini tra i clandestini, cani selvatici in mezzo ai cittadini civili. Il fumo nero è andato avanti per due giorni.

Restiamo umani, scriveva Vittorio Arrigoni. L’altro giorno, allineati davanti al Conad, una fila disciplinata di gente di mezza età (tra cui io). Tutti muniti di mascherina, più o meno a norma, tranne un signore sulla sessantina, dall’aria preoccupata, gli occhi sgranati, che esibiva sul muso un fazzoletto da bandito-cowboy, annodato alla nuca. Si vede che non aveva trovato di meglio. Uno della fila, allora, si è avvicinato e gli ha passato una mascherina: – tieni, ne ho una in più, nuova. L’altro l’ha presa riluttante, insisteva per pagarla, ma non c’è stato verso – era un regalo e l’ha accettato; se l’è infilata visibilmente soddisfatto e ha detto al donatore ad alta voce: ti auguro tanta salute! – così con semplicità – e si vedeva che era sincero. Un augurio bellissimo. Poche parole. Forse voleva solo dire: abbiamo i capelli bianchi, ne abbiamo viste, passerà anche questa, cazzo, e ci ritroveremo al bar o giù in polisportiva. Ti auguro tanta salute.

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Sull’epidemia delle emergenze / fase 4: pandemia, crisi, clima e guerra https://www.carmillaonline.com/2020/03/24/sullepidemia-delle-emergenze-fase-4-pandemia-crisi-clima-e-guerra/ Mon, 23 Mar 2020 23:01:25 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=58907 di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva. La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.” (The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più [...]]]> di Sandro Moiso, Jack Orlando e Maurice Chevalier

“ We can do it together” (Boris Johnson)

“ Nous somme en guerre” (Emmanuel Macron)

“Ci sono guerre che possono essere vinte soltanto con la disciplina collettiva.
La Francia deve accantonare il suo ribellismo” (Le Parisien, 17 marzo 2020)

“Salvare l’economia” (Les Echos, 18 marzo 2020)

“No society can safeguard public health for long at the cost of its economic health.”
(The Wall Street Journal, 20 marzo 2020)

“La paura della gente si può trasformare in rabbia” (Maurizio Landini)

“E’ la guerra. Tutto è più immediato” (Perfidia – James Ellroy)

Per una volta iniziamo la nostra cronaca da oltre frontiera. Prendendoci, oltretutto, la libertà di modificare parzialmente i nomi dei quattro cavalieri dell’Apocalisse.
Quello che salta subito agi occhi ovunque, dalla Francia agli Stati Uniti passando per l’Australia, è che per i governi e i media la preoccupazione più importante fino ad ora è stata quella di salvaguardare economia, produzione e profitti.

Come al solito gli americani sono i più pragmatici ed espliciti, motivo per cui il Wall Street Journal può tranquillamente ratificare, nell’editoriale redazionale del 20 marzo, che nessuna società può salvaguardare a lungo la salute pubblica al costo di minare quella economica. Chiaro abbastanza no? Ma se l’organo per eccellenza del capitalismo e della finanza americana lo afferma con chiarezza, anche qui da noi non sono mancate le spinte in tale direzione. L’abbiamo misurato con l’enorme ritardo con cui il governo degli ominicchi e degli abbracci è giunto a decretare una chiusura vaga e fumosa che lascia non pochi dubbi sulla sua reale entità, evitata a ogni costo fino all’ultimo momento e poi, una volta varata, posticipata per dare una nuova mano agli squali di Confindustria.

Uno degli aspetti più evidenti è dato dal fatto che la richiesta ufficiale per giungere a tali chiusure non è mai pervenuta dalle associazioni imprenditoriali o da almeno una delle forze di governo, ma principalmente dalle associazioni dei medici che operano sui territori maggiormente colpiti dal virus (qui e qui) e dai sindaci delle province di Bergamo e Brescia (qui), con il secondo che non ha esitato a puntare il dito sulle associazioni degli imprenditori e le loro responsabilità, a livello centrale e regionale, nel ritardare il più possibile la chiusura delle fabbriche.

«Se fossimo partiti tutti prima, il contagio quanto meno sarebbe stato più diluito. Qui è arrivato da Lodi, da Cremona. Come a Bergamo – rileva – si tratta di una zona molto industriale, molto commerciale, dove la gente si sposta rapidamente. Noi, come dodici sindaci dei capoluoghi lombardi, il 7 marzo avevamo chiesto sia alla Regione che al governo di chiudere le attività produttive, tenendo aperte solo la filiera di igiene per la casa e quella alimentare. Oltre alla manutenzione dei servizi pubblici essenziali. Il numero dei lavoratori nelle fabbriche è molto elevato. Fontana ha sempre tenuto una posizione severa, ma il peso del mondo industriale sia su Roma che su Milano si è sentito». Così ha affermato, in un’intervista al Fatto quotidiano del 17 marzo, Emilio Del Bono, sindaco di Brescia1 di area Pd.

Pur muovendo molta aria, meno espliciti sono stati i governatori delle Regioni del Nord e la Lega che hanno invece sviluppato un discorso meno esplicito sulla necessità della chiusura, giocando d’anticipo sul governo emanando, in autonomia, nuove misure restrittive che comunque non toccavano minimamente gli interessi padronali. In un conflitto tra potere centrale e Regioni che ha assunto ancora una volta prima di tutto i caratteri del confronto elettoralistico e della salvaguardia dei rapporti con le associazioni di categoria degli industriali, dei banchieri e del commercio.

Ma il vero motore sotterraneo, per giungere alla proposta di serrata dei luoghi di lavoro e delle fabbriche è stato rappresentato dalle fermate spontanee dei lavoratori delle fabbriche, soprattutto di quelle grandi, e dei magazzini. Tutta una serie importante di blocchi, picchetti, astensioni dal lavoro e resistenze varie che l’opinione pubblica e i media hanno quasi ignorato, ma che non è passata inosservata ai tutori dell’ordine che già si preparavano alle varie misure di contenimento della conflittualità (qui).

Le parole di Maurizio Landini, poste in esergo, ben sintetizzano le paure che i sindacati confederali, sempre tardivi a ricevere ed accogliere le richieste dal basso, hanno sventolato davanti al naso di Conte e degli imprenditori. Imprenditori tetragoni insofferenti, fino all’ultimo momento, a qualsiasi ipotesi di chiusura degli stabilimenti, come ha denunciato fin dal 12 marzo un uomo non certo di sinistra come Carlo Nordio, in un editoriale del Messaggero:

“Poteva e doveva vincere la ragione. Quella dei previdenti, ingiustamente liquidati come Cassandre dagli sprovveduti. Invece è arrivato – per giunta con grande ritardo – il solito compromesso di palazzo. Conte chiude l’Italia a metà. Non c’è l’atteso e necessario blocco totale che serve al Paese per arrestare il contagio e garantire la salute pubblica. Ma solo la chiusura di negozi e commercio, salvando ovviamente alimentari e prima necessità. Restano fuori industrie e fabbriche. Una grave omissione che potremmo scontare tutti a causa delle falle che lascia aperte nella cruciale guerra al virus. […] vi è tuttavia una categoria intermedia, che tenta di conciliare il diavolo con l’acqua santa. Alludiamo alla richiesta inoltrata al Governo dalla Regione Lombardia, che da un lato chiedeva, giustamente, la chiusura delle attività commerciali, artigianali, ricettive e terziarie (escluse, com’è ovvio, quelle assolutamente essenziali), ma dall’altro comunicava che era stato raggiunto un accordo con Confindustria lombarda “che provvederà a regolamentare l’eventuale sospensione o riduzione delle attività lavorative per le imprese”. Insomma, par di capire, la chiusura o meno delle fabbriche sarà affidata – secondo il premier – alla iniziativa degli industriali.”2

Cosa che dopo la delusione dovuta alla mancata chiusura di tutte le imprese attesa dal Dpcm Conte, ha fatto sì che la lotta ripartisse, con dimensioni che non si vedevano da decenni, in numerosi stabilimenti del settentrione dove gli operai e le operaie sono tornati ad incrociare le braccia, quasi sempre con astensioni dal lavoro pari al 100% dei lavoratori. Dall’Avio di Rivalta e Borgaretto all’Alessi Tubi, alle Officine Vilai, all’Alcatar, alla Brugnasco di Avigliana in Piemonte fino a tante altre aziende lombarde (qui). Mentre la Fiom di Verona ha proclamato due giorni di sciopero a partire da oggi e, nelle zone più colpite dal virus, gli operatori sanitari scalpitano per la macanza di sufficienti protezioni individuali e per i turni massacranti dovuti al mancato turn over del personale ospedaliero.

L’abbiamo detto nella terza fase di questa serie di riflessioni: la crisi disvela l’anima di classe e la guerra civile che la normalità quotidiana e la società dello spettacolo solitamente nascondono.
Mentre, però, alcuni grandi stabilimenti hanno chiuso al primo accenno di ripresa dello scontro di classe, sono state quasi ovunque le piccole, piccolissime e medio-piccole aziende ad opporsi alla chiusura e a portare avanti la produzione, chiamando in causa la responsabilità degli operai nel mantenerle in vita. Un discorso/ricatto odioso che fa, finalmente, piazza pulita di quel pietismo per i piccoli imprenditori che è stato cavalcato dal populismo di ogni risma nel corso degli ultimi anni.

Per non fare troppo torto ai piccoli comunque vediamo cosa ha detto in un’intervista Giuseppe Pasini, il presidente degli industriali bresciani che è anche alla guida della Feralpi, uno dei principali produttori siderurgici in Europa, a proposito delle condizioni di salute in fabbrica:

“Abbiamo avuto anche qualche positività, non puoi non averne, ma le aziende hanno messo in atto tutti i controlli e le procedure di sanificazione previste dal governo. Hanno fatto quello che dovevano fare. E Non è detto che quelli che sono stati trovati positivi dentro l’azienda abbiano contratto il virus sul posto di lavoro. Magari sono rimasti contagiati nei giorni precedenti all’ordinanza di chiusura, fuori dalle aziende.“3

Già, affermazione che si accompagna bene con la colpevolizzazione individuale che viene fatta continuamente dagli organi di informazione e dai governanti con il proposito allontanare da sé ogni responsabilità in materia di contagio e mancati provvedimenti per prevenirlo e contrastarlo.
Tralasciando il grottesco flash- mob di solidarietà cui la Abb, azienda italo-svizzera che occupa nei suoi stabilimenti in Italia seimila dipendenti, ha chiamato suoi operai (qui):

“Quasi un terzo dei contagi si trova tra le distese di aziende d’ogni genere dei due polmoni economici d’Italia, Brescia e Bergamo. La prima in vetta alla classifica per densità produttiva, seguita da Milano e, appunto, Bergamo, che ha 4.305 contagi e 84 mila imprese attive nelle quali lavorano 385 mila dipendenti. Brescia ha 3.783 contagi, 107 mila ditte e 402 mila lavoratori. Stare a casa è più facile dirlo che farlo qui, dove per ammissione di Confindustria Lombardia il 73% di piccole, grandi e medie imprese sta andando avanti, come in tutta la regione. Come dire che nelle aree più epidemiche mezzo milione di lavoratori continua a fare avanti e indietro casa-lavoro, anche se poi in fabbrica si è cercato di rispettare i protocolli imposti per decreto. A Brescia nel settore industriale sono stati raggiunti 63 accordi per la sicurezza anti-Covid sul lavoro. A Bergamo soltanto 2, informa la Fiom. Che non possa bastare per contenere la crescita esponenziale dei contagi lo pensano i tecnici del comitato scientifico che affianca il governo e che suggerisce a Conte di «fermare tutto salvo le filiere che producono beni di consumo essenziali». Ci mette la faccia il Presidente dell’Ordine di Milano Roberto Carlo Rossi che tuona: «Mandare avanti la produzione è stato un gravissimo errore, dobbiamo chiudere tutto, lasciare aperto solo chi produce beni alimentari, prodotti per la salute e l’igiene. Vedo ancora capannoni e cantieri pieni di gente, è una follia». E che non siano tutte produzioni di beni essenziali lo si intuisce scorrendo l’elenco delle imprese nelle due province, dove a fianco a quelle zootecniche troviamo aziende che producono acciaio, chiusure industriali per capannoni, verniciature, calcestruzzi, strumenti elettronici. Ma anche auto di lusso come la Bugatti, o armi come Beretta e Perazzi.”4

Al di là del dramma implicito nei numeri, si può e deve affermare che mai come ora il movimento antagonista ha avuto tra le mani tali potentissimi strumenti critici per assalire l’ordine esistente, proprio nel cuore del cuore del capitalismo industriale e finanziario, italiano ed internazionale. Il problema è che gli imprenditori e i loro rappresentanti nei governi e negli Stati lo hanno immediatamente capito davanti ai tre giorni di fuoco nelle carceri e alle prime fermate operaie, affidandosi alle ordinanze prefettizie e agli apparati militari e polizieschi per il contenimento di eventuali proteste e insofferenze diffuse5, mentre ancora tardano a comprenderlo molti compagni, pur volenterosi, che si arrabattano ad inseguire dibattiti piuttosto fumosi sulla limitazione delle libertà individuali (come se il lavoro salariato e coatto non fosse già di per sé la più stringente e odiosa limitazione delle libertà individuali, nato guarda caso proprio all’epoca della fondazione del carcere moderno6) oppure sull’inaspettato pericolo (come se non fosse già presente da lungo tempo) di fascistizzazione di uno Stato che dal fantasma concreto del ventennio non si è poi mai liberato, piuttosto che approfondire l’analisi critica del presente e del divenire che ci attende per poterlo meglio affrontare e rovesciare.

Mentre nella società dello spettacolo attuale, senza necessità di adunate oceaniche, la mobilitazione solidale con lo Stato e il capitale nazionale può essere convocata via FB, Twitter, WA e tutti gli altri social per invitarci a sventolare il tricolore dai balconi e dalle finestre, ad accendere fiammelle e torce cantando inni nazional-popolari di ogni genere e risma e diffondere l’idea dello spionaggio collettivo per denunciare qualunque comportamento ritenuto anomalo, mentre le forze dell’ordine procedono con assoluta arbitrarietà a eseguire direttive confuse e mai chiare e a comminare multe e ammende a pioggia. Il pop incontra il nazionalismo con alcune tra le più note influencer che iniziano ad imbrattare le coscienze collettive fingendo un impegno che resta comunque tutto di parte.

La crisi da coronavirus ha aperto anche un’altra solida possibilità in cui si incrociano due grandi temi che, fino ad ora, erano stati unificati nelle idee (di alcuni) ma lontani tra di loro nella realtà materiale: la lotta operaia e la lotta per l’ambiente. In questi giorni infatti risulta sempre più chiaro che la lotta per la difesa della salute, in fabbrica e fuori, è strettamente intrecciata al discorso della crisi climatica e ambientale. Occorre sviscerare il tema e diffonderlo in una situazione che per un certo periodo sarà feconda e ricettiva. Un metro di Tav vale quanto centodieci giorni di terapia intensiva è solo l’inizio di una parola d’ordine destinata a coinvolgere molte più persone e molti più lavoratori rispetto a prima, in un contesto in cui:

“Chi segue anche da dilettante questi fenomeni sa che da anni una nube tossica sosta sul cielo della pianura padana.[…] la nostra più grande pianura ha condizioni meteo-climatiche e geofisiche uniche in Europa, e che gli inquinamenti dominanti sono dovuti agli allevamenti intensivi, alla concimazione chimica dei campi, ai fumi della fabbriche, alle emissioni dei motori diesel.
Mancano per la verità, in questo sintetico quadro, gli inquinanti atmosferici che non sono affatto scomparsi nelle città con la riduzione dello smog e che sono in aumento: l’ozono e il particolato M5 ed M10, le minute particelle che si depositano nei polmoni dei cittadini europei.[…] Oggi il Covd19 colpisce cittadini dai polmoni compromessi da decenni di smog.[…] Ebbene, questi dati non ci consolano e oggi servono a poco. Ma sono indispensabili per l’immediato futuro, per ripensare con radicale severità lo sviluppo capitalistico dominante.”7

“La correlazione tra inquinamento atmosferico ed infezioni delle basse vie respiratorie è ormai scientificamente dimostrata. E’ un fattore che aggrava la situazione infettiva senza alcuna ombra di dubbio”, dice Giovanni Ghirga, membro dell’Associazione medici per l’ambiente. Il 19 febbraio ha scritto una lettera pubblicata dal British Medical Journal, sottolineando l’esistenza di un comune denominatore tra l’esplosione in Cina, Sud Corea, Iran e Italia del nord: tutte aree dove l’indice di qualità dell’aria è molto basso.
Una ricerca della Società Italiana di Medicina Ambientale (Sima) ha già trovato una risposta: esaminando i dati delle centraline che rilevano lo smog e in particolare il superamento dei limiti di legge, ha potuto trovare una correlazione con il numero dei casi di persone infettate dal Covid-19. Le curve dell’infezione hanno avuto delle accelerazioni, a distanza delle due settimane necessarie alla manifestazione, con i livelli più alti di polveri sottili.
Numerosi esperti dunque stanno ora identificando nel cambiamento climatico e nell’inquinamento le cause che hanno portato il Pianeta a essere vittima della pandemia.
«La correlazione tra attività antropiche e diffusione dei virus è sempre più evidente. E non è un caso se le aree di maggiore diffusione del Covid-19 sono le stesse dove si verificano più casi di patologie oncologiche. Bergamo, e soprattutto Brescia, hanno i numeri più alti di bambini malati di cancro. Inoltre, a causa della tolleranza indotta, vale a dire al fatto che mediamente le persone hanno già un certo grado di infiammazione polmonare, non è stato possibile accorgersi subito dell’espansione. I sintomi lievi non sono stati notati.»”8

Non si contano ormai le ricerche che dimostrano che crisi climatica, consumo del suolo, inquinamento industriale e coronavirus sono strettamente collegati e che l’unica alternativa è quella di rovesciare di direzione e senso l’attuale produttivismo industrialista e capitalista, di cui il lavoro salariato costituisce l’indispensabile corollario. Tenerne conto diventerà sempre più obbligatorio, anche di fronte alla minaccia contenuta in uno studio realizzato dall’Organizzazione del Lavoro (che riunisce i governi, i sindacati e le organizzazioni degli industriali di 187 Paesi) che dimostra che la pandemia rischia di provocare la perdita di 25 milioni di posti di lavoro al termine del tunnel attuale9. Cui però, senza esitazione, occorrerà contrapporre i milioni di morti che la stessa pandemia, ultima di una lunga serie di morbi contemporanei, potrebbe causare proprio a causa del regime attuale. Ad esempio in Italia, dove negli ultimi vent’anni sono stati tagliati 70.000 posti letto, a beneficio di una sanità privata che anche negli attuali frangenti cercherà di gonfiare i propri guadagni con autentici profitti di guerra che lo Stato, esattamente come durante i due conflitti mondiali, non si è minimamente preoccupato di calmierare, contribuendo così a ridistribuirne i costi sulla pelle dei cittadini.

Insomma o la vita o il salario e il suo vampiro, il profitto.
Termini decisivi e incompatibili tra chi lotta per salvaguardare la specie e chi lotta e opprime per salvaguardare il presente modo di produzione. Inconciliabili tra di loro e, oltre tutto, irriformabile il secondo. Se ne faranno una ragione le anime pie che lo credono capace di modificarsi per mezzo del green capitalism.

Non a caso quello che molti governi, e molti titoli anticipati in apertura, mettono in risalto è l’autentico clima di guerra che si va via via allargando sul pianeta. Guerra psicologica e di classe, poca guerra al virus e tanta preparazione per i giochi militari e geopolitici, tutt’altro che pacifici, che seguiranno la crisi economica mondiale, ineludibile alla fine della pandemia e già durante il suo decorso.

Con buona pace di tutti coloro che hanno sempre pensato alla guerra allargata come ad un’ipotesi risibile e catastrofista, proprio nel pieno di questa crisi, ogni potenza sta già giocando le sua carte e mettendo in campo le sue strategie economiche e geopolitiche. La fine dell’Europa Unita si profila come scenario credibile ormai, con la politica dell’ognuno per sé, in cui la Germania ha già iniziato a schierare tutte le sue pedine in vista di un terzo tentativo di riprendersi un lebensraum ormai di dimensioni continentali, con buona pace per portavoce del governo che hanno sventolato con troppa bramosia i “soldi facili” provenienti dal Mes (qui).

La Cina si presenta come la vincitrice, per ora, politica del confronto basato sulla crisi indotta dal Covid-19 e i suoi medici, medicinali e aiuti fanno parte di un moderno Piano Marshall sanitario indirizzato a raccogliere consensi e alleati all’interno del pianeta NATO. Idem per la Russia che con il suo invio di aerei, medici e virologi oltre che ospedali da campo in Italia gioca sullo stesso campo, pestando un po’ i piedi sia alla prima che agli Stati Uniti. Non sono pochi gli indizi del sorgere di un rinnovato bipolarismo in cui l’Europa torna frontiera e terreno di contesa e l’Italia un nuovo tassello cruciale da conquistarsi al proprio campo.

Gli Usa nel chiamare, come vuole Trump, lo stesso virus con il nome di virus cinese già affilano le armi comunicative che saranno ben presto affiancate da nuove armi di distruzione di cui il missile ipersonico (capace di volare ad una velocità superiore di cinque volte a quella del suono, qui) appena testato è solo l’anteprima. Mentre nemmeno la gara per la scoperta, produzione e distribuzione del vaccino sfugge ad una logica di confronto che soltanto nella guerra aperta per il controllo del mercato mondiale troverà, presto o tardi, la sua soluzione.

Ospedali da campo di varia nazionalità, truppe per le strade da New York a Milano, discorsi sempre più marcati da termini come nemico comune, guerra, solidarietà nazionale preparano, o almeno dovrebbero preparare, le popolazioni al clima di guerra reale che seguirà a questo periodo di clausura; quando non solo gli interessi geopolitici, ma la fame, le economie disastrate e parassitate e le rivolte per una vita degna dilagheranno in scontro aperto nei tessuti metropolitani. Riuscirà il nostro nemico collettivo e dichiarato, che per ogni nazione avrà prima di tutto il volto del proprio governo e dei propri spietati imprenditori, a ottenere l’effetto desiderato (qui)? Forse, soprattutto se noi, dopo aver seppellito in silenzio i nostri morti ed aver accettato per forza di cose quarantena ed isolamento, non sapremo opporci, sia nelle lotte che nell’immaginario politico che le produrrà e di cui sarà il prodotto, con altrettanta forza e determinazione al suo percorso catastrofico, che in questo ultimo periodo ha ulteriormente sfoggiato il suo volto più autentico, cinico e spietato.

In tutti i frangenti e con ogni mezzo necessario.

“Noi abbiamo il compito quasi impossibile di promulgare un amore che sia ancora più spietato, e con uno spirito di sacrificio che non avremmo mai conosciuto, se non fossimo stati chiamati dalla Storia. In questo momento, le nostre opzioni sono soltanto due: fare tutto, oppure non fare nulla.” (Perfidia – James Ellroy)


  1. https://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/coronavirus-del-bono-le-fabbriche-andavano-chiuse-prima-1.3467623  

  2. C. Nordio, I ritardi del governo. Compromesso al ribasso che lascia esposto il Paese, Giovedì 12 Marzo 2020 il Messaggero  

  3. G. Colombo, “Il motore bresciano si sta fermando”. Intervista a Giuseppe Pasini, Huffington Post 20 marzo 2020  

  4. I. Lombardo, P. Russo, Governatori e scienziati a Conte: “Fermi le fabbriche in Lombardia”, La Stampa 20 marzo  

  5. Si veda come esempio https://torino.repubblica.it/cronaca/2020/03/22/news/
    il_questore_torino_e_ubbidiente_ma_in_periferia_primi_segnali_di_insofferenza_-251968980/?ref=RHPPTP-BH-I251947184-C12-P5-S11.3-T1  

  6. M. Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Mondadori 1978 e D.Melossi, M.Pavarini, Carcere efabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, il Mulino 1977  

  7. P. Bevilacqua, Ambiente e pandemia: il drammatico connubio della pianura padana, il Manifesto 20 marzo  

  8. M.Bussolati, Sembra che il Covid-19 colpisca più duro nelle aree più inquinate, Business Insider 18 marzo 2020  

  9. P. Del Re, Coronavirus: la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati, la Repubblica 20 marzo  

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