Impero – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Avanti barbari! https://www.carmillaonline.com/2024/08/07/avanti-barbari/ Wed, 07 Aug 2024 20:00:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83798 di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte [...]]]> di Sandro Moiso

Louisa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 96, 12 euro

Alle 22 in punto la radio della polizia penitenziaria gracchia frasi in arabo. Carcere minorile Ferrante Aporti di Torino: la rivolta iniziata poco dopo le 20 è in atto ormai da più di due ore. Incendio nelle celle, negli uffici, nei corridoi. Botte agli agenti. «Si sono presi una nostra radio, attenti alle comunicazioni: sentono tutto» dice quello della penitenziaria. No, è peggio. I detenuti del minorile – una cinquantina, forse appena di più – si sono impossessati di gran parte del carcere. (Notte tra i 1° e il 2 agosto 2024, da un articolo di Federico Femia e Caterina Stamin su “La Stampa”)

Come sempre, ad essere sinceri, le recensioni di libri altrui non possono che costituire dei pretesti per parlare di argomenti che premono ai recensori. Tale osservazione vale anche in questa occasione, in cui il bel saggio di Louisa Yusufi, pubblicato lo scorso anno da DeriveApprodi in Italia, ma uscito originariamente in Francia nel 2022, permette a chi scrive di trattare un problema che travalica la “linea del colore” e della “barbarie” inclusa nei confini delle banlieue francesi per mettere in discussione il concetto di civiltà tout-court, all’interno di tutto il modo di produzione e riproduzione basato sui principi del capitale e dell’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta.

Il titolo del testo della Yousfi rinvia, inevitabilmente, al motto “rimanere umani” che da anni accompagna manifestazioni e proposizioni ricollegabili alla rivendicazione in difesa dei diritti delle fasce più deboli e povere della popolazione e, in particolare, delle condizioni di vita dei migranti e degli immigrati, accompagnandosi spesso anche ai discorsi sulla guerra e le sue cruente e spietate logiche di violenza e sterminio. Non a caso il suo presunto ideatore, Vittorio Arrigoni noto come Vik, proprio a Gaza era stato ucciso nell’aprile del 2011 da una cellula jihadista salafita che si opponeva a qualsiasi tipo di intervento umanitario occidentale nell’enclave palestinese.

Quell’atto, per molta parte della sinistra, aveva finito col confondersi con una sorta di frattura tra ciò che è accettabile e ciò che non lo è dell’azione dei popoli in rivolta e delle loro, spesso squinternate e ambigue, milizie. Un episodio drammatico che, certamente, ha contribuito ad approfondire il solco tra coloro che contestano l’attuale modo di produzione senza peraltro uscirne dai limiti delle leggi e dei “diritti” e coloro che che in quei limiti non sono compresi in quanto esclusi per ragioni di classe mascherate da colore della pelle, etnia, religione e quant’altro finisce col contribuire a definire una condizione di “barbarie”, sia nell’agire politico e quotidiano che nella formulazione delle idee che l’accompagnano.

Una separazione che ha finito col rafforzare l’idea che soltanto l’accettazione di certe regole e una certa visione del mondo di stampo liberale e occidentale possa far sì che l’altro sia accettato sul piano della comunicazione e dell’inserimento nella comunità degli “individui aventi diritto”. Una superficiale e opportunistica valutazione in cui può essere considerato umano soltanto chi accetta le regole dettate dal migliore dei mondi possibili, quello bianco, occidentale e liberale, e dalle sue leggi “universali”. Obiettivo per cui, come afferma l’autrice, “i civilizzati” si sforzano di creare dei ponti.

Ah, i ponti… […] vediamo un’intera cricca di sociologi che annuisce con aria di intesa. Sono coloro che lavorano sulla questione […] Il nostro sudiciume, le nostre depravazioni, la nostra presunta predisposizione ad accumulare tutti i vizi dell’umanità, a cedere i nostri atavismi bellicosi, a picchiare coloro che amiamo, donne e bambini, ad andare in cerca di crimini, a sparare in mezzo alla folla, a linciare gli omosessuali e sputare sugli ebrei, non sarebbe altro che la storia di una mancanza. Tutte le cose che abbiamo perso, tutte le opportunità che non ci si sono presentate, tutti i riconoscimenti di cui siamo stati privati, tutto l’amore che non abbiamo ricevuto. Sgocciolano compassione quando credono di restituirci la nostra dignità, quando tremano di commozione nel recitare la triste storia che raccontano di noi: come se non fossimo mai stati abbastanza amati […] Asciugate le lacrime. I barbari non sono selvaggi che si sarebbe dovuto frustare di meno, umiliare di meno e coccolare di più; selvaggi maltrattati dalla civilizzazione […] Questa è la loro grande scoperta: il nostro «imbarbarimento» è il fallimento dell’integrazione1.

Ma Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, dopo aver ironizzato sulle condizioni dell’oppressione che contribuiscono a definire la barbarie, come ha già avuto modo di sottolineare su Carmilla Jack Orlando, coglie ancora nel segno:

seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari. Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana2.

Restare barbari, sola e unica condizione per rimanere umani. Questa la sfida lanciata dalla riflessione della giovane autrice che, nelle settimane scorse, ha avuto modo di partecipare al dibattito promosso dall’Intifada studentesca di Torino al Festival Alta Felicità svoltosi a Venaus dal 26 al 28 luglio e che ha dedicato il suo libro: «ai barbari contemporanei la cui vita e opere ci spiegano, più di qualsiasi altro resoconto, ciò che l’Impero chiama “imbarbarimento”. Si comincia dalla strada e dai suoi profeti. Perché tutti i racconti sul presente […] ci arrivano dai margini dell’impero e dai suoi recalcitranti abitanti»3.

Rovesciare, dunque, l’umanitarismo occidentale dell’integrazione e dell’accettazione delle sue regole del buon viver civile nel suo contrario, dimostrandone l’implicita disumanità e, allo stesso tempo, rovesciando lo stereotipo del barbaro in quello dell’unica forma residua di umanità possibile. «Il trucco della civilizzazione riproduce continuamente l’illusione. Francamente, per cosa vuoi competere con l’Occidente? Hanno inventato l’innocenza. Hanno massacrato interi popoli e, nel frattempo, inventato Walt Disney»4.

Stiamo però ben attenti; non si tratta di una battaglia di civiltà, come la peggiore saggistica filo-occidentale vorrebbe; qui si tratta proprio di stabilire ciò che permetterà alla specie di mantenere la sua umanità. Indipendentemente dal colore della pelle o delle tradizioni passate e delle aree di provenienza geografica e sociale. Come sostiene ancora l’autrice:

L’imbarbarimento è un processo di integrazione […] i nostri mostri non nascono da una mancanza di voi, ma da un eccesso di voi […] Nulla di questo mondo può salvarci, non solo perché una cosa non può essere al contempo il veleno e la sua cura, ma anche perché non siamo noi a dover essere salvati […] Che i civilizzati evitino dunque di insistere sul nostro destino. Siamo noi che dovremmo piangere per loro. Siamo noi che possiamo salvarli. Non è mai successo il contrario, in nessun modo e in nessun momento della storia5.

Soprattutto in un’epoca in cui un ciclo, quello del dominio occidentale sul resto del mondo, ha iniziato a venir meno e a veder disgregarsi le sue forme politiche e militari. Spingendo spesso gli osservatori a tracciare paragoni con la fine dell’Impero Romano.
Impero che, come ebbe modo di osservare lo stesso Marx, finì «con la comune rovina delle classi in lotta», incapaci entrambe sia di mantenere che di rovesciare le strutture economiche e sociali su cui lo stesso si fondava. Entrambe travolte dall’arrivo dei “barbari”, destinati a destrutturare definitivamente e a rifondare quelle stesse basi sociali e legislative su cui si erano retti i rapporti di forza fino ad allora.

Ecco allora che come unica soluzione possibile, anche, per il proletariato bianco ci sarebbe quella di farsi, più che rimanere, barbaro. Criticando e contribuendo a distruggere quella presunta civiltà di cui troppo spesso la Sinistra, anche radicale, ha sposato le intrinseche ragioni. Ancora una volta è Amadeo Bordiga, con un articolo del 1951, a permetterci di riallacciare il filo di un ragionamento non estraneo ma soltanto interrotto all’interno del movimento antagonista di classe, affermando, con Friedrich Engels, che la civiltà, in fin dei conti, non si riassume in altro che:

“nello Stato che, in tutti i periodi tipici, è, senza eccezione, lo Stato della classe dominante ed in ogni caso rimane essenzialmente una macchina per tenere sottomessa la classe oppressa e sfruttata”. Questa civiltà […] deve vedere la sua apocalisse prima di noi. Socialismo e comunismo, sono oltre e dopo la civiltà […] Essi non sono una nuova forma di civiltà. “Poiché la base della civiltà è lo sfruttamento di una classe da parte di un’altra, l’intero sviluppo della civiltà si muove in una contraddizione permanente”. [Così] con Marx Engels e Lenin noi ultimi ne stiamo fuori.
Può essere conturbante che dalla caduta della civiltà non sia ancora sgorgato il comunismo, ma è ridicolo voler conturbare la soddisfazione capitalistica con la minaccia di alternative barbare6.

Ritornando, poco dopo, a fare la seguente affermazione a proposito della fine dell’ordine imperiale romano:

Furono le giovani forze barbare ad uccidere una marcia burocrazia. “Lo Stato romano era diventato una macchina gigantesca e complicata, esclusivamente per lo sfruttamento dei sudditi. Al di là dei limiti della sopportazione fu spinta l’oppressione con le estorsioni di governatori, di esattori di imposte, di soldati. Lo Stato romano fondava il suo diritto ad esistere sulla difesa dell’ordine all’interno, sulla difesa contro i barbari dall’esterno. Ma il suo ordine era peggiore del peggiore disordine, e i barbari, da cui pretendeva difendere i cittadini, erano da questi considerati come salvatori!”. Sembrò con le vittoriose invasioni, che per quattro secoli, ordinandosi l’Europa strappata a Roma nelle forme della teutonica costituzione di gentes, la storia si fosse fermata, e con essa la civiltà e la cultura. Ma così non fu. […] “Le classi sociali del IX secolo si erano formate non nella putrefazione di una società in decadenza, ma nelle doglie del parto di una civiltà nuova. La nuova generazione, sia padroni che servi, era una generazione di uomini, paragonata a quella dei suoi predecessori romani”.
“Ma che cosa fu quel misterioso incanto con cui i barbari infusero nuova vita all’Europa morente? Era forse un potere miracoloso innato nella stirpe tedesca, come ci vengono predicando i nostri storici sciovinisti? In nessun modo. Non furono le specifiche qualità nazionali dei popoli germanici a ringiovanire l’Europa, ma semplicemente la loro costituzione delle gentes, la loro barbarie”.
“Tutto ciò che di forte e vitale i Tedeschi innestarono nel mondo romano fu la barbarie. Solo dei barbari sono in grado di ringiovanire un mondo, che soffre di civiltà morente”7.

Resta evidente che il pericolo del ritorno alla barbarie insito in tante minacce contenute nei discorsi in difesa della civiltà e del liberalismo, non è costituito da altro che dal ritorno ad una lotta di classe in grado di porre fine al più spietato modo di produzione e appropriazione mai comparso sulla faccia della terra. L’unico ad avere domato prima i propri barbari interni per poi trasformarli in carnefici di quelli esterni con l’avventura colonialista, la promessa del benessere egualitario per i bianchi e l’illusione del mantenimento di un unico impero permanentemente al comando degli affari del mondo.

Nessuna società decade per le sue leggi interne, per le sue interne necessità, se queste leggi e queste necessità non conducono – e noi lo sappiamo e attendiamo – a far levare una moltitudine di uomini, organizzata con armi in pugno. Non vi è per nessuna “civiltà di classe”, per corrotta e schifosa che essa sia, morte senza traumi.
Quanto alla barbarie, che a tale morte del capitalismo per dissoluzione spontanea andrebbe a succedere, se la sua scomparsa fu da noi considerata una necessaria premessa dell’ulteriore sviluppo, che inevitabilmente doveva passare per gli errori delle successive civiltà, i suoi caratteri come forma umana di convivenza non hanno nulla di orribile, che ne faccia temere un impensabile ritorno.
Come occorrevano a Roma, perché non si disperdesse il contributo di tanti e tanto grandi apporti alla organizzazione degli uomini e delle cose, le orde selvagge che calassero apportatrici inconsce di una lontana e più grande rivoluzione, così vorremmo che alle porte di questo mondo borghese di profittatori oppressori e sterminatori urgesse poderosa un’onda barbarica capace di travolgerla.
[…] Ben venga dunque, per il socialismo, una nuova e feconda barbarie, come quella che calò per le Alpi e rinnovò l’Europa8.

Un passo lungo e audace, ancora ben distante dall’essere accettato e fatto proprio sia dagli oppressi delle periferie razzializzate che da quelli che si illudevano di aver toccato con mano il sogno capitalista del benessere “per tutti”, senza dover abolire proprietà privata e interesse individuale, ma che può costituire un valido strumento per la rimozione delle barriere del perbenismo e del tradizionalismo e della sfiducia, quest’ultima più che motivata, che ancora separano in parti diverse, e spesso nemiche, il corpo unico e pericoloso della moderna creatura proletaria e prometeica creata dal Frankenstein imperialista.

Proprio per questo motivo opere come quella di Louisa Yousfi e Houria Bouteldja9, che l’ha direttamente ispirata, dovrebbero trovare spazio nella biblioteca di chiunque voglia davvero contribuire al superamento di questo mondo orrendo anche se travestito di democrazia elettoralistica e umanitarismo.


  1. L. Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 24-25.  

  2. J. Orlando, Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1, «Carmillaonline», 10 maggio 2023.  

  3. L. Yousfi, op. cit., pp.19-20.  

  4. Ibidem, p.27.  

  5. Ivi, pp. 29-31.  

  6. A. Bordiga, Avanti Barbari!, «Battaglia Comunista», n. 22 del 1951.  

  7. Ibidem, le citazioni tra virgolette sono da F. Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, 1884.  

  8. Ivi. 

  9. H. Bouteldja, I bianchi, gli ebrei e noi. Verso una politica dell’amore rivoluzionario, Sensibili alle foglie 2017.  

]]>
Rebuilding America: Civil War di Alex Garland https://www.carmillaonline.com/2024/04/25/re-building-america-civil-war-di-alex-garland/ Thu, 25 Apr 2024 20:00:15 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82189 di Sandro Moiso

– Chi siete? – Siamo americani. – Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in [...]]]> di Sandro Moiso

– Chi siete?
– Siamo americani.
– Sì, che tipo di americani? (Civil War, 2024)

E’ racchiuso tutto in questo brevissimo dialogo, contenuto in una delle scene più drammatiche del film scritto e diretto dal britannico Alex Garland (classe 1970), non soltanto il senso di una delle opere cinematografiche più intense degli ultimi tempi, ma anche delle divisioni che hanno fatto precipitare il cuore dell’impero occidentale nella guerra civile rappresentata sullo schermo e che, anche nella realtà, covano sotto le cenerei di quel che resta dell’American Dream.

Un film che già ha fatto discutere e che in un panorama politico e culturale asfittico come quello italiano, diviso tra l’intimismo cinematografico troppo spesso travestito da impegno civile e lo sciapo dibattito “antifascista” sulla censura all’ancor più insipido monologo di chi vorrebbe atteggiarsi a novello Matteotti, esplode letteralmente sullo schermo e nello sguardo dello spettatore. Con una forza e una virulenza ormai lontane da qualsiasi prodotto della nostra intellighenzia vacua e perbenista.

Alexander Medawar Garland, scrittore di romanzi e già sceneggiatore di 28 giorni dopo (28 Days Later, 2002) di Danny Boyle, non è la prima volta che porta sullo schermo le possibili conseguenze di una violenza a lungo repressa e negata che può, però, trasformarsi in autentica guerra interna alle società che si credono più evolute e liberali. Ma se nell’opera che gli ha dato la celebrità come sceneggiatore il tema era ancora collegato ad un contesto di carattere grosso modo fantascientifico e anticipatorio, Civil War ci parla, sostanzialmente, del qui e adesso.


Il viaggio della veterana fotoreporter di guerra Lee, dei due giornalisti Joel e Sammy e dell’aspirante e acerba fotoreporter Jessie, non è un viaggio in un futuro distopico, ma fa precipitare lo spettatore nelle contraddizioni di una guerra civile latente già visibile oggi, per gli osservatori più attenti, nelle pieghe di una società sorta da una guerra civile mai del tutto risolta e che da anni torna a presentarsi come inevitabile necessità storica1.

Sono 758 miglia quelle che separano New York, punto di partenza dell’equipe di reporter, da Washington, punto di arrivo programmato per un’ultima e incerta intervista a un Presidente degli Stati Uniti ferocemente abbarbicato al potere, ma ormai circondato dalle truppe del Fronte Occidentale, dell’alleanza tra Texas e California (i due stati più grandi dell’Unione), che hanno mantenuto le strisce bianche e rosse della bandiera nazionale riducendo però le stelle a due, e dell’Alleanza della Florida.

New York è sconvolta dalle proteste per le miserabili condizioni di vita e dagli attentati suicidi dei più disperati delle tendopoli che si sono sviluppate nelle vie della ex-Grande Mela, sul modello di quelle attuali e reali di Los Angeles. Così il viaggio, per motivi di convenienza, punterà prima ad ovest per poi rientrare verso est all’altezza di Charlottesville in Virginia. Quella Virginia che, nel 1862, durante la guerra civile “storica” vide una importante vittoria delle armate secessioniste del Sud e che proprio da lì, sotto la guida del generale Lee, decisero di attraversare il Potomac per marciare su Washington.

E’ un paesaggio di autostrade piene di mezzi civili e militari distrutti e abbandonati, di centri commerciali diventati zona di guerra e di campi profughi organizzati negli stadi; di crudeltà di ogni genere compiute da una parte contro l’altra, anche se ben si recepisce che le parti in gioco siano ben più di due, animate spesso da motivazioni diverse eppure guidate dalla stessa ferocia. Di cadaveri abbandonati nei parcheggi dei mall oppure nelle fosse comuni e cosparsi di calce oppure di corpi seviziati, umiliati e offesi in ogni modo, appesi ai cavalcavia se non negli autolavaggi. Di uccisioni a sangue freddo dopo interrogatori sommari oppure senza neanche il bisogno di quelli: la Land of the Free viene fotografata, letteralmente, in tutta la sua possibile barbarie, mentre la musica dei Suicide, da Rocket USA a Dream Baby Dream, funge egregiamente da viatico per l’impresa2.

E’ come se la guerra e la violenza esportata per decenni dall’impero occidentale nel resto del mondo, spesso sotto le spoglie di colpi di stato e guerre civili, avesse deciso di rientrare nel grembo materno, per divorare il corpo della madre dall’interno. Eppure, anche se qui e là appaiono cecchini dalle unghie smaltate, le camicie hawaiane dei Boogaloo Boys o gli sguardi esaltati che ricordano gli assalitori di Capitol Hill, non sono le milizie locali o le armi “casalinghe” a determinare il gioco delle parti, ma forze armate ben addestrate al compito di uccidere e distruggere, dotate di un arsenale e un potenziale di fuoco che comprende armi pesanti, carri armati, elicotteri, blindati Humvee e di ogni altro genere.

L’esercito si è evidentemente disgregato come la Guardia Nazionale, ma la macchina bellica e i suoi armamenti sono rimasti ben oliati e funzionanti e così, mentre le ultime truppe lealiste difendono Washington e il presidente annuncia ripetutamente, come d’uopo anche in questi giorni a proposito di Ucraina e Medio Oriente, la prossima storica vittoria delle forze del bene, tutto viene distrutto oppure violato, insieme alle ultime difese, al Lincoln Memorial e alla stessa Casa Bianca.

La violenza dispiegata è ben più terribile di quella immaginata ai tempi dei film che prevedevano invasioni sovietiche e nord-coreane degli Stati Uniti, come Alba rossa (Red Dawn, 1984) di John Milius. Quarant’anni non sono trascorsi invano, né nella storia reale del declino dell’impero né, tanto meno, per l’immaginario cinematografico americano che spesso, anche là dove non osa parlare della possibile guerra civile che attende l’impero, non smorza certo i toni della critica al dominio imperiale sul resto del mondo, sia nelle serie televisive che, in maniera mediata dalla fantascienza epica, in produzioni come Dune I e II del canadese Denis Villeneuve.

Non ci dice il film a quale campo appartenga il presidente, se repubblicano o democratico, in fin dei conti non occorre, anche se certamente tanta critica ben pensante nostrana e tanto pubblico avrebbero preferito una situazione più definita, per poter almeno parteggiare per una delle due parti in causa. Ma ciò che realmente conta è che il dollaro americano ha perso il suo valore e che la vita può esser considerata normale soltanto una volta accettata la normalità della guerra.

La produzione anglo-americana è seria. Sa che una guerra civile di tali proporzioni non è il prodotto di una semplice e retorica battaglia tra democrazia e autoritarismo oppure riconducibile ad una “lotta di classe” ridotta a teatrino tra due facilmente riconoscibili e “pure” classi in lotta: borghesia e proletariato. Come si è già affermato in un testo di alcuni anni or sono, la categoria di guerra civile può infatti costituire:

un elemento più adeguato per l’interpretazione di un insieme di contraddizioni sociali e di lotte manifestatesi a livello internazionale con una certa frequenza e intensità nel corso degli ultimi anni, la cui eterogeneità organizzativa e di scopi può difficilmente essere ancora rinchiusa soltanto all’interno della più tradizionale, e forse riduttiva, formula di lotta o guerra di classe. Contraddizioni sul piano sociale, economico e ambientale agite da attori multipli, cui gli Stati, indipendentemente dalla loro collocazione geopolitica, hanno dato, quasi sempre, risposte di carattere repressivo ed autoritario3.

Ma che proprio negli Stati Uniti potrebbe trovare, come ci indica il film di Garland, il suo punto finale di espressione. Anche se non è soltanto Garland a suggerirlo, ma anche svariati e attenti studi sulla realtà americana4.

Tralasciando, per ora, il contenuto più evidentemente politico e sociologico del film, oltre a sottolineare l’essenzialità della regia di un film a medio costo e la bravura delle interpreti e degli attori, da Kirsten Dunst (Lee), Wagner Moura (Joel), Stephen McKinley Henderson (Sammy), Cailee Spaeny (Jessie) fino a Jesse Piemons (nei panni di un militare ultranazionalista), quello che occorre qui ancora sottolineare è un altro e importante aspetto delle vicende narrate.

Si tratta della differenza che intercorre tra fotografare la realtà della guerra oppure descriverla in un articolo. La differenza tra lo sguardo e la parola e il diverso collegamento tra occhio e mente rispetto a quello tra la facoltà di scrivere e la riflessione necessaria per metterla in atto. La prima azione è immediata e non può permettersi il lusso della mediazione, mentre la seconda fa della capacità di mediazione interpretativa il suo punto di forza. In altre parole: il reporter, se vuole, può re-inventarsi la guerra, rimuovendo ciò che potrebbe ferirlo di più, mentre il fotoreporter deve per forza accettarne gli aspetti più dolorosi, pena il venir meno alla sua funzione.

Questa semplice e immediata considerazione sembra riflettersi nel carattere dei personaggi, nelle loro scelte e nel loro destino. Apparentemente più cinica e distaccata appare la fotoreporter più vecchia, pienamente in grado, però, di trasmettere alla sua giovane “erede” la capacità di cogliere il momento attraverso lo scatto, costi quel che costi sia sul piano fisico che emozionale. Uno sporco mestiere in cui l’”attimo fuggente” è tutto e richiede di saper scollegare la sensibilità dalla disposizione ad agire automaticamente per mezzo della macchina fotografica, anche a costo di perdere la propria umanità, proprio per trasmettere al grande pubblico la disumanità di ogni guerra. Oppure conservarla dentro di sé, fimo ad esserne straziati, come accade a Lee, che proprio in virtù di questo è, però, ancora l’unica capace di un gesto estremo .

Mentre il giornalista può comunque prendere tempo per narrare i fatti attraverso la mediazione della scrittura. In viaggio, sul campo di battaglia oppure in uno di quegli hotel per giornalisti tipici delle zone di guerra che nel film, almeno per una volta, non sono più soltanto in Medio Oriente, Asia, Africa o sui confini orientali d’Europa, ma in una New York in cui l’attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001 sembra costituire, più che un preavviso o un avvertimento, soltanto un pallido ricordo, mentre il cratere di Ground Zero sembra aver davvero inghiottito definitivamente tutto.


  1. Si veda in proposito quanto precedentemente affermato dall’autore di questo articolo qui, qui e qui.  

  2. A proposito del seminale gruppo musicale americano si veda qui  

  3. S. Moiso, Miseria, repressione e crollo delle verità/mondo: ovvero perché parlare ancora di guerra civile, introduzione a S. Moiso (a cura di), Guerra civile globale. Fratture sociali del terzo millennio, Il Galeone Editore, Roma 2021, pp. 9-10.  

  4. Si veda in proposito, solo per citare alcune riflessioni più recenti, la Parte III del numero 3/2024 di Limes, Mal d’America, con i saggi di Chris Griswold, Michael Bible, Kenneth J, Heineman, Tiziano Bonazzi, Jeremy D. Mayer, Mark J. Rozell e Jacob Ware, pp. 201-248.  

]]>
L’impero a puntini https://www.carmillaonline.com/2022/09/27/limpero-a-puntini/ Tue, 27 Sep 2022 20:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74238 di Mario Coglitore

Daniel Immerwahr, L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America, Einaudi, 2020, pp. 603, euro 34.

Ha scritto molto tempo fa Alfred Korzybski, ingegnere e matematico – a lui si deve la fondazione della cosiddetta Semantica generale –, che “la mappa non è il territorio”. Di più, sosteneva ancora Korzybski, anticipando di alcuni decenni le riflessioni dello stesso Foucault, “la parola non è la cosa” (Molto brevemente, per comprendere i fondamenti della General Semantics: secondo Korzybski gli esseri umani hanno dei limiti piuttosto consistenti nell’atto del conoscere il mondo [...]]]> di Mario Coglitore

Daniel Immerwahr, L’impero nascosto. Breve storia dei Grandi Stati Uniti d’America, Einaudi, 2020, pp. 603, euro 34.

Ha scritto molto tempo fa Alfred Korzybski, ingegnere e matematico – a lui si deve la fondazione della cosiddetta Semantica generale –, che “la mappa non è il territorio”. Di più, sosteneva ancora Korzybski, anticipando di alcuni decenni le riflessioni dello stesso Foucault, “la parola non è la cosa” (Molto brevemente, per comprendere i fondamenti della General Semantics: secondo Korzybski gli esseri umani hanno dei limiti piuttosto consistenti nell’atto del conoscere il mondo a causa della struttura del loro sistema nervoso e dei loro linguaggi. La realtà viene essenzialmente sperimentata attraverso “astrazioni”, impressioni non verbali che provengono appunto dal sistema nervoso e che vengono poi portate alla coscienza e verbalizzate per mezzo della lingua che ciascuno di noi utilizza).

Questi due concetti si attagliano perfettamente all’analisi che Daniel Immerwahr ci propone nel suo corposo e vibrante saggio, interpolando i lemmi della storia, dell’economia, della politica e, buona ultima ma essenziale, della geografia, in un’opera di ampio respiro che a tratti è capace di sorprendere per la ricchezza delle informazioni e degli aneddoti forniti, tutti egualmente importanti per ricomporre le tessere del complicato puzzle che ci ritroviamo davanti a fine lettura.

Siamo abituati, nella nostra proiezione immaginativa, a far coincidere gli Stati Uniti con la mappa-logo, così la definisce l’autore, costituita dall’insieme degli Stati federati che confina a nord con il Canada, al sud con il Messico e a Ovest ed Est rispettivamente con l’oceano Atlantico e l’oceano Pacifico; dimenticando quasi sempre, sia detto en passant, l’Alaska che, troppo in alto forse per il nostro sguardo accidentato, sfugge nove volte su dieci alla corretta evidenza che pure lo rende una formale porzione degli States. La mappa rimanda visioni del territorio imperfette durante le quali si manifesta davvero l’assoluta distanza tra le parole e le cose, anche a causa, se vogliamo, della scarsa importanza che viene tradizionalmente attribuita alla geografia nella nostra cultura, e nell’apprendimento scolastico di ogni ordine e grado fino agli studi universitari.

Il significato complessivo che si ricava dal perspicuo studio di Immerwahr, a cui egli ha dedicato quasi una decina d’anni, emerge, pagina dopo pagina, sempre più evidente: la storia degli Stati Uniti, esemplare sotto molti punti vista tanto l’intero pianeta ne è stato condizionato e trasformato, da Oriente a Occidente senza soluzione di continuità, è storia di un impero mai formalmente riconosciuto e abilmente non caratterizzato dalle conquiste e annessioni colonialiste che vedono la luce con le prime avventure dei portoghesi, e poi degli olandesi e degli spagnoli, in terre d’oltremare invase e depredate senza tanti complimenti, sino alla fase coloniale tecnologico-economica otto e novecentesca così ben incarnata dalla spietata Gran Bretagna e dall’altrettanto intrusiva Francia, passando per Belgio, Germania e persino, in formato ridotto ma non per questo meno letale, Italia. È storia quella americana di un imperialismo diffuso e reticolare del quale, a tratti, si è cercato di delineare i contorni, tentando di far riemergere dalla secche della ricostruzione storica un “paesaggio” sottratto ai più e lasciando che il flusso degli eventi della storia mondiale percorresse i consueti, tradizionali percorsi; anche qui utilizzando l’aggettivo “americana” per identificare la mappa-logo di cui si diceva e prendendo una parte per il tutto, dato che il termine America dal punto di vista geografico non è assimilabile ai soli Stati Uniti. L’Impero statunitense rappresenta, in sostanza, un rimosso. Ma, secondo quanto ci ha insegnato Sigmund Freud, il rimosso tende a ritornare spesso come sintomo. Negare l’esistenza di questa “conformazione imperiale” ci impedisce di apprezzare alcune sensibili variazioni nelle vicende che sono occorse al pianeta negli ultimi duecento anni circa, determinando la nascita e lo sviluppo di pratiche economiche, militari, sociali e culturali capaci di cambiare il corso degli eventi, e di segnarne possibilità e tipicità.

Ritorniamo alla geografia e al fascino che esercitano le mappe. Sapremmo dire, senza pensarci su troppo, dov’è l’isola di Guam? O dove sono collocate esattamente le Hawai’i? Sapremmo indicare in un attimo, senza smarrirci nell’imprecisabile, dove si trovano Puerto Rico o le Isole Marianne settentrionali? Forse no. La mappa-logo ci costringe a puntare gli occhi soltanto lì dove la potenza territoriale degli Stati Uniti ha fatto bella mostra di sé in una mitopoiesi carica di genealogie addomesticate: lungo le carovane dei coloni che si spostavano verso il “favoloso” Far West, a totale detrimento della popolazione pellerossa gradualmente e implacabilmente messa in condizione di non nuocere e sterminata poco a poco, oppure lungo i binari della ferrovia – oggetto di altrettanta mitizzazione cui la cinematografia hollywoodiana contribuì esportandone l’immaginario simbolico ovunque – che congiunse i due oceani poc’anzi nominati. Praterie sterminate e branchi di cavalli selvaggi, mandrie di bisonti alla cui caccia spietata Buffalo Bill, prima di girare per l’Europa con il suo improbabile Circo, non si sottrasse, canyon sontuosi e imponenti, fiumi dal corso impetuoso e dalla straordinaria lunghezza e portata, e mille altre suggestioni colmano la nostra fantasia di incalliti occidentali.

La carta geografica declina la sostanza di un mezzo continente che già nelle premesse sembra contenere il futuro destino della grandezza delle sue genti di importazione, giunte dalla Vecchia Europa, incredibilmente più piccola e insignificante, e della missione cui la storia ha chiamato quel nuovo costrutto politico e culturale che, a tutt’oggi, per gli statunitensi è la “nazione” con la sua robusta e immarcescibile identità. Secondo Immerwahr è questo insieme di sollecitazioni socio-antropologiche che va messo in discussione. Ridisegnando la mappa, per l’appunto.
Per farlo, si tratterà di dare un’occhiata oltre i confini di terra e stabilire, se mai sarà possibile, quelli di mare. L’oceano Atlantico è stato oggetto di decine di opere letterarie, dai romanzi ai saggi, che ne hanno dipanato l’epica narrativa e le stagioni. Decisamente meno si parla del Pacifico, non fosse altro perché, probabilmente, non è identificato tout court con la storia dell’Occidente. Eppure è in quelle acque e tra quelle correnti, dentro alle quali si mosse la Pequod di Melville all’inseguimento di Moby Dick, che gli Stati Uniti hanno trovato la ragion d’essere del proprio affrancamento continentale verso una strategia insulare di tutto rispetto, agendo in una rete di isole grandi e piccole con conseguenze nella maggioranza dei casi tragiche, all’insegna del conflitto permanente e del sangue, sparso dappertutto.

Ci racconta, così, l’autore, delle guerre che hanno lacerato le Filippine, territorio dalla densità politica e militare rilevante e dallo sconcertante tasso di mortalità tra gli abitanti sottoposti prima al dominio spagnolo, di seguito a quello americano e giapponese, e infine di nuovo a quello americano; e ancora, costretti a feroci contrapposizioni tra gruppi di isolani accerchiati dal dominio di nazioni che si contendevano un territorio strategico, adagiato nel Sud-est asiatico da decenni teatro di aspre contese. Ma sono le isole minori del Pacifico a destare la maggior curiosità nel momento in cui esse diventano punti di torsione di una cartografia militare che dà sostanza al potere statunitense ben prima che il governo di Washington decidesse di partecipare alla Seconda guerra mondiale. Segnando il tempo della onnivora conquista di geografie e mercati, delle migliaia di morti in un esercito mandato a combattere su più fronti nel pianeta e di una spettacolarizzazione della violenza, culminata con i due tremendi ordigni nucleari sganciati sul Giappone ai primi d’agosto del 1945.

A tutto ciò fece seguito l’approntamento di un efficiente e compulsivo sistema tecnico-economico, le cui premesse datavano già dall’intervento durante la Prima guerra mondiale, che ha fatto del Novecento il “secolo americano”, come ha ben argomentato parecchi anni fa con grande dovizia di particolari Geminello Alvi1.

Spartiacque tra un prima e un dopo durante i quali idealmente si ricongiunsero meditati approcci a politica ed economia, esaltando una pervasiva logica del dominio – di altro non si può parlare in questo atlante del potere in cui sono state fatte scorrere al meglio le risorse, codificandole e ottimizzandole in funzione degli obiettivi prefissati –. la Seconda guerra mondiale ha contribuito ad espandere al massimo l’impero americano con una popolazione dei territori d’oltremare che in termini numerici superava di gran lunga, negli anni successivi alla fine delle ostilità, quella del continente. In questo raffinato dispositivo strategico l’influenza esercitata prescindeva dall’esistenza o meno di colonie e, anzi, un classico impianto coloniale avrebbe impedito lo sviluppo del complessivo assetto di controllo.

Furono alcune innovazioni introdotte a partire dalle esigenze belliche a fare la differenza. La prima, e più importante, fu lo sviluppo della tecnologia aerea; la seconda, certamente l’approntamento di basi militari. Il sistema di comunicazione che gli aerei garantiscono in termini di duttilità, efficacia, velocità e sicurezza – non dimentichiamo il radar la cui tecnologia fu sviluppata proprio in quello scenario bellico dagli stessi americani a sostegno delle flotte dei cieli – non ha paragoni con il trasporto via nave che ugualmente aveva reso possibile lo spostamento di persone e merci tra Ottocento e Novecento. Oltre al ruolo determinante che l’aereo ebbe sul piano militare per dar voce tonante a quella che potremmo chiamare la “filosofia” del bombardamento negli anni dal 1940 in poi, non dobbiamo trascurare il fatto che, al pari di ciò che è stato il treno per tutto il XIX secolo e oltre, l’aereonautica sarebbe diventata settore di punta dell’industria mondiale; in aggiunta, gli studi sulla tecnologia del volo avrebbero presto condotto alla realizzazione di vettori da spedire nello spazio o, molto prosaicamente, di testate missilistiche da lanciare contro il nemico, chiunque esso fosse, evitando di compromettere, o compromettendo molto meno, la sicurezza e l’incolumità degli esseri umani che si occupavano di quell’operazione.

Quanto alle “basi”, esse possono diventare totalmente indipendenti da rifornimenti via terra, costosi e molto spesso soggetti ai pericoli legati alla natura del terreno e alle sue insidie, e possono essere dislocate lontano dalla madrepatria, pur servendone gli scopi. L’aereo, d’altronde, garantisce proprio questo elemento fondamentale per la collocazione di una “base”, vale a dire il fatto che è in grado di coprire distanze molto ampie. E su questo giocarono, e giocano ancora, gli Stati Uniti istituendo quello che Immerwahr chiama l’Impero “puntillista”, soltanto in apparenza caratterizzato da un forte radicamento territoriale nel continente. Di puntino in puntino, grande e meno grande, la “disposizione imperiale” di piste d’atterraggio intorno alle quali fioriscono strutture logistiche interconnesse che diventano presto ampie come città alimenta la catena di controllo planetaria riverberando i suoi effetti perfino nel territorio che circonda la “base”, quando esso appartiene ad altra sovranità. Una buona parte delle attuali 800 installazioni militari statunitensi sparse nel globo lo dimostrano con relativa facilità, se appena pensiamo all’Italia di Aviano e alla micro-economia sorta attorno alla “base” laggiù attiva che prospera in virtù della presenza del personale americano in quell’area.

Non esclusivamente aerei, ci ricorda Immerwahr: ma anche elettronica, medicina, e persino cultura popolare; il “puntillismo” a stelle e strisce ha promosso opportunità scientifiche sostenute da solidi enti di ricerca e creato ex novo, o semplicemente modificato con la sua invasiva permanenza, interi ambienti sociali, inducendo evoluzioni e conseguenze del tutto particolari.

Dahran, Arabia Saudita; un posto dimenticato da Dio e dagli uomini. Negli anni Trenta del Novecento l’Aramco (conglomerata statunitense che comprende all’epoca Standard Oil, Texaco, Exxon e Mobil) si stabilisce tra quelle sabbie inospitali per estrarre petrolio con il permesso del governo locale. Vanno costruiti degli insediamenti per ospitare operai e personale tecnico e l’azienda americana se ne assume l’onere. Tra i manovali ce n’è uno particolarmente esperto e energico che non tarda a fiutare l’affare e a mettersi in proprio con il consenso del suo Paese e il gradimento dell’Aramco, fondando una piccola impresa di costruzioni. Muhammad Bin Laden entra nella lobby imprenditoriale giusta: molto petrolio, molti affari, molta espansione. Gli Stati Uniti premono affinché i Sauditi collaborino fattivamente, tenuto conto che considerano l’Arabia uno snodo centrale delle linee intercontinentali di trasporto. Dal 1945 al 1962 ottengono in affitto una grande base aerea a Dahran per la quale c’è bisogno di ulteriori lavori di costruzione, in piccola percentuale affidati al rampante Muhammad che inizia così una proficua collaborazione anche con gli americani a suon di lauti contratti più o meno ufficiali per non destare sospetti nel suo Re. Quando i rapporti con coloro che il popolo saudita considera di fatto “invasori” e per di più “infedeli” si fanno tesi e la concessione del terreno viene sospesa, l’esercito USA abbandona il luogo nel 1962. Ma Muhammad vola già alto e qualcuno dei suoi 54 figli se ne va a studiare direttamente negli Stati Uniti.

Alla sua morte nel 1967, alcuni dei rampolli si dedicano agli affari di famiglia per potenziare un’azienda che valeva già svariate centinaia di milioni di dollari. Tra loro spicca per impegno e dedizione il giovane Osama, che di questioni tecniche sembra capirci parecchio. Quando all’ingegneria dei materiali l’erede Bin Laden affianca anche la politica, la strada appare segnata. Contro l’imperialismo occidentale Osama si schiera fin da subito e non può sottrarsi all’appello che nel 1978 i Mujahidin lanciano a tutti i veri credenti dopo che l’Unione sovietica ha invaso l’Afghanistan. Arriva a Peshàwar vicino al confine afghano dove mette subito a frutto la sua perizia nello scavare tunnel e costruire strade; non gli mancano certo i mezzi, che fa affluire abbondanti in Pakistan, e la competenza. La jihad prende piede e chiama a raccolta i suoi devoti apostoli. Nel 1988 Osama fonda una piccola organizzazione per dirigere la sua guerra santa; la chiamerà al-Qaida al-Askariya che in arabo significa “la base militare” e più tardi sarà conosciuta semplicemente come al-Qaida, “la base”. Il resto della vicenda è abbastanza noto alle cronache. Quel che preme sottolineare qui, e che certo lascia interdetti, è la concatenazione di eventi che porta dal misconosciuto muratore analfabeta Muhammad, cresciuto professionalmente nel brodo di coltura promosso dagli Stati Uniti in quello specifico frangente della loro espansione “puntillista”, alla lotta di resistenza benedetta da Allah che il figlio Osama intraprende contro Mosca all’inizio della sua carriera di condottiero. In qualche modo, l’“Impero nascosto” ha colpito ancora.

 


  1. Si veda Geminello Alvi, Il secolo americano, Milano, Adelphi, 1994. 

]]>
Eredità imperiale https://www.carmillaonline.com/2008/01/24/eredit-imperiale/ Thu, 24 Jan 2008 03:22:46 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=2519 di Alessandra Daniele

StarcrashImperatoreUniverso.jpgIl presidente Raff era certo che la scoperta d’una rete di wormhole che pareva collegare tutta la galassia sarebbe stata rivoluzionaria. Per questo era deciso a mantenerla segreta. L’anomalia spazio-temporale incontrata dalla sonda Gloryfinder a metà strada fra Marte e la terra s’era rivelata una sorta di condotto subspaziale collegato a molti altri, capaci di mettere in contatto istantaneo alcuni tra più lontani angoli del cosmo. Agli occhi di Hilaryus Raff, presidente ereditario degli Stati Uniti d’Occidente, si spalancava una nuova era di possibili conquiste che non intendeva certo spartire. Appena entrato nella sala operativa sotterranea, notò passare [...]]]> di Alessandra Daniele

StarcrashImperatoreUniverso.jpgIl presidente Raff era certo che la scoperta d’una rete di wormhole che pareva collegare tutta la galassia sarebbe stata rivoluzionaria. Per questo era deciso a mantenerla segreta.
L’anomalia spazio-temporale incontrata dalla sonda Gloryfinder a metà strada fra Marte e la terra s’era rivelata una sorta di condotto subspaziale collegato a molti altri, capaci di mettere in contatto istantaneo alcuni tra più lontani angoli del cosmo. Agli occhi di Hilaryus Raff, presidente ereditario degli Stati Uniti d’Occidente, si spalancava una nuova era di possibili conquiste che non intendeva certo spartire.
Appena entrato nella sala operativa sotterranea, notò passare sul megaschermo centrale un rapido mix delle immagini riprese dalle sonde spedite in esplorazione. Visioni confuse ma suggestive, che Hilaryus trovò colme d’una loro fosca bellezza.

– Sono molto scure, i toni dominanti sono seppia e ruggine… professor Grogan, si riesce ugualmente a decifrare quei simboli? — Chiese indicando un angolo del megaschermo. Grogan annuì soddisfatto.
– Sì, e grazie al mio programma di decodifica presto saremo in grado di metterli nella giusta sequenza e tradurli — Mostrò al presidente una serie di immagini ingrandite sullo schermo del suo laptop — Le sonde ne hanno trovato una serie su ogni pianeta che hanno ripreso sbucando dai vari wormhole connessi al nostro.
– Stupendo! — Commentò Raff — Questa rete di condotti subspaziali è di certo opera d’una grande civiltà galattica del passato… un Impero Stellare, e noi stiamo per raccoglierne l’eredità — disse, pensando “da un Impero all’altro”.

Grogan e gli altri lo fissavano, pallidi.
– Allora? — Sbottò Raff — Vi siete precipitati a svegliarmi nel cuore della notte per comunicarmi i risultati della traduzione, che cazzo aspettate a farlo?
Grogan deglutì, e si fece avanti col suo fido portatile.
– Ecco, signor presidente, come può vedere in questa sequenza, i vari simboli formano una sorta di fraseggio algoritmico spiraliforme…
– Venga al dunque, cosa ci dicono della rete subspaziale che abbiamo scoperto?
– Che è una rete… fognaria.
Cosa?
– La civiltà galattica che l’ha costruita la usava per scaricare le scorie su pianeti lontani dal centro dell’impero. I rilevamenti compiuti sui vari corpi celesti raggiunti dalle sonde lo confermano: sono tutti immense discariche di liquami e rifiuti.
Il presidente crollò a sedere sulla poltrona preferita di sua nonna.
– Ma perché lo facevano? – Obbiettò avvilito — Perché non scaricare la spazzatura nel vuoto interstellare?
– Perché ci vivevano — rispose Grogan — La loro forma di vita cresceva e prosperava nello spazio esterno, quindi era logico per loro considerare invece i pianeti come… pattumiere gravitazionali dove scaraventare le scorie, che venivano appunto lì trattenute dalla forza centripeta.
– Ed è questa dunque la loro eredità imperiale?
– Beh, in fondo qualcosa del genere è già successo, abbiamo ereditato le fognature dall’Impero Romano.
Raff sradicò un bracciolo della poltrona della nonna, e lo tirò su Grogan, che si riparò col portatile.
– Signor presidente, aspetti, non è tutto! Pare che la civiltà artefice dei condotti non sia del tutto estinta, e occasionalmente li adoperi ancora.
– Anche questo l’avete dedotto dai simboli?
– No, abbiamo intercettato e tradotto un loro messaggio.
– E cosa diceva?
Un bizzarro frastuono cominciò a scuotere la Casa Bianca. Sembrava provenire dal cielo.
Grogan deglutì ancora.
– Parlava della terra – Alzò la voce cercando di superare il rumore crescente — La definiva “Scarico inutilizzato nel quale si sono sviluppati parassiti nocivi” e concludeva con l’ordine di… “Spurgare, e riutilizzare”.
Il frastuono fece esplodere i vetri. Poi cominciò la pioggia acida.

]]>