impero zarista – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 03 Mar 2025 06:00:52 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Come la Rivoluzione giunse in Oriente tra cavalieri, banditi, spie e baroni sanguinari https://www.carmillaonline.com/2021/03/31/come-la-rivoluzione-giunse-in-oriente-tra-cavalieri-banditi-spie-e-baroni-sanguinari/ Wed, 31 Mar 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65560 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente” (Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente”
(Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi del lettore un susseguirsi di vicende degne dei migliori romanzi d’avventura, oltretutto ambientate in territori in cui a dominare erano, e spesso ancora rimangono, paesaggi sconfinati, deserti spietati, aspre montagne e una natura che definire selvaggia è ancora soltanto un blando eufemismo.

Scorrendone le pagine è inevitabile riandare con la memoria alle magnifiche tavole di Hugo Pratt, in particolare a quelle della sua storia, anche se sarebbe meglio definirla romanzo, migliore: Corte sconta detta arcana. Appartenente al ciclo di Corto Maltese, il testimone scomodo più che eroe di tante vicende narrate dal disegnatore italo-argentino di origini veneziane, la storia si dipanava proprio negli immensi spazi compresi tra Asia centrale, Russia e Cina negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dava vita a personaggi ripresi dalla o appartenenti alla realtà di quel periodo. Non ultima la figura del barone Ungerer, di cui avremo ancora modo di parlare più avanti.

Il fatto che l’avanzare della rivoluzione bolscevica in Asia si accompagni, nel titolo, alla possibile realizzazione di un impero sovietico in quelle regioni, è dovuto al fatto che il testo chiude una serie di ricerche condotte dallo stesso Hopkirk sul tema del “Grande Gioco” svoltosi, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, in quegli stessi territori che andavano dal Caucaso alla Mongolia e dai confini della Cina imperiale all’Oceano Indiano e ai confini dell’impero coloniale inglese in India, che vide come protagonisti soprattutto gli agenti e i generali agli ordini di Sua Maestà Britannica da un lato e quelli al servizio dello Czar dall’altro.

Tali opere formano una quadrilogia di cui il testo sull’azione bolscevica in Asia costituisce l’ultimo volume. I precedenti sono, infatti, Il Grande Gioco (Adelphi, Milano 2004), Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi, 2006) e Alla conquista di Lhasa (Adelphi, 2008). Ai quali, come corollario, andrebbe ancora aggiunto Sulle tracce di Kim (Settecolori 2021) dedicato al romanzo di Rudyard Kipling incentrato proprio sulle vicende della grande partita asiatica tra Impero Britannico e Impero Zarista.
Peter Hopkirk (1930 – 2014) è stato un giornalista britannico che ha lavorato come reporter e corrispondente per l’Indipendent Television News, il «Times» e il «Daily Express» e per molti anni ha viaggiato e vissuto nei paesi in cui si ambientano i suoi libri: Russia, Asia centrale, Turchia, Caucaso, Cina, India, Pakistan e Iran. Sulle tracce di vicende e personaggi che sono entrati tutti nelle sue ricostruzioni e ai quali, per qualche verso, ha finito col rassomigliare idealmente.

I militanti del bolscevismo giurarono di incendiare l’Oriente usando come innesco la nuova, inebriante dottrina del marxismo. Il loro intento era liberare l’Asia intera, partendo però dall’India britannica, il più ricco di tutti i possedimenti imperiali. Lenin, infatti, considerava l’Inghilterra, la maggiore potenza imperiale di allora, il principale ostacolo al suo sogno di una rivoluzione mondiale. “L’Inghilterra” dichiarò nel 1920 “è il nostro peggior nemico. È in India che la dobbiamo colpire con forza”.
Se l’insurrezione avesse strappato l’India dalla morsa della Gran Bretagna, quest’ultima non avrebbe più potuto tenere a bada i suoi cittadini – inconsapevoli azionisti dell’imperialismo – con la manodopera sottopagata e le materie grezze a buon mercato dall’Est. Ne sarebbe seguito il collasso economico e la rivoluzione in patria. Se si fosse riusciti a fomentare sommosse simili in tutto il mondo coloniale, l’agognata rivoluzione avrebbe segnato il suo percorso attraverso l’Europa. “L’Oriente” proclamava Lenin “ci aiuterà a conquistare l’Occidente”1.

Questo il prologo teorico e politico della vicenda narrata che, come in ogni libro di avventure ben congegnato, porterà ad esiti imprevisti dagli stessi protagonisti. Con svolte improvvise e rivolgimenti, per tutte le parti in lotta, dipendenti sia dalle personalità ed intenzioni che dalle contraddizioni sviluppatesi nel frattempo e dal comportamento, anche questo, non sempre prevedibile delle “masse” messe in movimento. Oltre che dal tradimento degli intenti iniziali messo in atto da Stalin e dai suoi accoliti già ben prima della morte di Lenin nel 19242.

In realtà la propaganda bolscevica in Oriente aveva preso forma in un’assemblea che si era riunita a Baku durante il settembre del 1920. Zinoviev e Radek, Presidente e Segretario del Comintern, e Bela Kun giunsero espressamente da Mosca a questo «Congresso dei Popoli dell’Oriente». Ma fu quella una strana adunata, un museo di costumi orientali, una Babele linguistica, una confusione di idee e di fini: Indù, Turchi, Uzbechi, Ingusci, Persiani, Ceceni, Turcomanni, Armeni, Baschkiri, Calmucchi, Ucraini, Russi, Tagiki, Georgiani, in tutto 1891 delegati, appartenenti a trentasette nazionalità erano presenti, mentre una schiera di interpreti urlava dal palco.

Lenin aveva preso in mano una matita e calcolato che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia ed il Giappone, con una popolazione di circa un quarto di miliardo, dominavano paesi e colonie con una popolazione di due miliardi e mezzo: questo fu il messaggio che gli inviati del paese dei Soviet portarono al Congresso di Baku.
La politica del Comintern venne esposta da Zinoviev la sera del 1° settembre: «L’Internazionale Comunista», egli annunciò, «si rivolge oggi ai popoli d’Oriente e dice loro: Fratelli, vi invitiamo ad una Guerra Santa innanzi tutto contro l’imperialismo britannico». «Jihad, Jihad » tuonarono, secondo un osservatore dell’epoca, i delegati. Ognuno saltò in piedi; pugnali tempestati di pietre preziose vennero branditi, spade damascate vennero sfoderate dalle loro guaine, pistole uscirono dalle loro custodie e vennero levate in alto, mentre i loro possessori urlavano: « Lo giuriamo, lo giuriamo ».

Quella riunione passò alla storia sotto il nome di «Primo Congresso dei Popoli d’Oriente ». Esso istituì un’organizzazione permanente nell’idea che sarebbero seguite adunate annuali o periodiche. Malgrado, però, il giuramento sulle armi, la Guerra Santa venne concepita come un’offensiva non militare diretta dal Consiglio di Propaganda ed Azione creato dal Congresso sul tipo del Consiglio d’Azione dei Sindacati Britannici. «La fanteria d’Oriente rinforzerà la cavalleria d’Occidente», come si affermò allora.

Le nazioni orientali, che interessavano il Congresso, erano soprattutto la Turchia, la Persia, 1’Afghanistan e l’India; in esse la parte che aveva l’Inghilterra era la più importante; l’Inghilterra era la più disprezzata; l’imperialismo britannico si offriva quindi in primo piano all’attenzione dell’assemblea. In ciò si manifestava la continuità con la politica zarista che dell’Impero britannico, almeno fino all’alleanza anti-tedesca nel corso del primo macello imperialista, aveva fatto la sua bestia nera in Asia, poiché ne bloccava ‘espansione sia verso l’Oceano Indiano che verso il Pacifico, oltre che averne bloccato l’espansione verso il Mediterraneo già all’epoca della guerra di Crimea (1853-1856)3. Anche se, per paradosso della Storia, a bloccare definitivamente la corsa imperiale zarista verso il Pacifico era stato, nel 1905, il piccolo ma agguerrito e tecnologicamente già più avanzato Giappone imperiale.

Ma i britannici, seppur sfiancati dalla guerra[…] Avevano ancora i più temibili servizi segreti del mondo, i cui tentacoli si estendevano ovunque. Ne seguì una lotta clandestina per il controllo dell’India e dell’Oriente, la cui storia è narrata in questo libro. Ambientato perlopiù in Asia centrale, nel punto di incontro di tre grandi imperi, britannico, russo e cinese, esso è un intreccio di macchinazione e tradimento, barbarie e terrore e, a volte, di vera e propria farsa.
Laddove possibile, lo racconterò attraverso le avventure e disavventure di coloro che, da tutti i fronti, presero parte a questa guerra mai dichiarata. Dalle più remote postazioni d’ascolto, ben oltre il confine dell’India, gli ufficiali dei servizi segreti anglo-indiani sorvegliavano ogni mossa dei bolscevichi contro l’India per riferirla ai superiori, a Delhi e Londra. I loro nomi sono ormai dimenticati da tempo, sepolti negli abissi degli archivi segreti dell’epoca, ma è proprio dai loro rapporti e dalle loro memorie che ho ricostruito gran parte di questa narrazione4.

I protagonisti, spesso dimenticati tra le pagine polverose del libro della Storia, sono un pugno di ufficiali inglesi5, l’indiano M.N. Roy (rivoluzionario di professione e teorico del marxismo, ai primi posti tra i ricercati dai servizi di intelligence britannica) e il russo Michail Borodin, che condivideva con Roy l’idea che la liberazione dei lavoratori oppressi d’Oriente potesse avvenire soltanto per mezzo di un’insurrezione violenta.

Accanto a questi ve ne sono almeno altri tre che val la pena di segnalare, il cui obiettivo era però ricollegabile ad una sete di potere e, almeno in un caso, ad una crudeltà che solo la lunga guerra combattuta senza regole su quei fronti avrebbe potuto soddisfare.

Quello di gran lunga più famoso fu un generale psicopatico dell’Armata Bianca, Ungern-Sternberg, “il barone pazzo”, le cui spaventose atrocità, in Mongolia, vengono ancora oggi ricordate con orrore6,
L’altro che tentò la fortuna fu Enver Pasha, esuberante generale turco, sconfitto in tempo di guerra e poi esiliato in Asia centrale. Dopo aver fatto il doppio gioco con il suo ospite Lenin, cercò di fomentare una guerra santa contro i bolscevichi senza Dio, facendo appello alle masse musulmane dell’Asia sovietica. Inferiore per numero e per armamenti rispetto all’Armata Rossa, l’affascinante turco andò incontro alla fine, con spregiudicato coraggio, ai piedi del Pamir. Si dice che ancora oggi alcuni suoi connazionali si rechino in pellegrinaggio segreto alla tomba solitaria del loro eroe.
L’ultimo ad ambire a un impero fu un giovane ma carismatico signore della guerra di nome Ma Zhongying, noto anche come “grande cavallo”. Un idealista musulmano cinese poco più che adolescente, che lasciò una scia di sangue attraverso il deserto del Gobi prima di fuggire a ovest lungo la Via della Seta su un autocarro rubato, inseguito dai bombardieri sovietici7.

Gli altri protagonisti anonimi di queste vicende furono i cavalleggeri dell’Armata rossa, i pastori guerrieri e guerriglieri delle montagne e dei deserti compresi tra il Caucaso, l’India e la Cina, oltre che mercanti, banditi, signorotti locali e signori della guerra, tutti travolti in un flusso di eventi che portarono, molto spesso, ad altri risultati rispetto a quelli previsti dalle parti in lotta.

Infatti il primo congresso dei popoli d’Oriente rimase anche il solo. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche normali fra i Governi dei paesi orientali e quello russo incominciò ad aver la precedenza sulle relazioni fra i movimenti rivoluzionari dei paesi orientali ed il movimento rivoluzionario russo e le possibilità rivoluzionarie vennero sacrificate sempre di più al desiderio dei Sovietici di aver contatti, sulla base di trattati, con gli stati non rivoluzionari.

Là dove, invece, i bolscevichi riuscirono a prendere in mano la situazione, come ad esempio nel Caucaso e nei territori limitrofi, si ridiede vita ad un atteggiamento di governo “Grande Russo” che richiamava alla memoria la politica di dominio zarista. Alimentata dal georgiano Stalin e dai suoi fedelissimi, come ad esempio l’altro georgiano Grigorij Konstantinovič Ordzonikidze, fu al centro di una delle ultime, disperata battaglie di Lenin per impedire la degenerazione della Rivoluzione che aveva contribuito a realizzare.

Anche il progetto di mobilitare il proletariato occidentale a seguito della rivoluzione in Oriente era destinato a fallire anche se oggi si può affermare che l’unico vero risultato permanente della rivoluzione russa e dei suoi tentativi di esportarla fu conseguito con il risveglio dell’Asia, già immaginato da Lenin, e la conseguente liberazione della Cina dal dominio occidentale e il suo successivo sviluppo come grande potenza economica e commerciale (oltre che tecnologica e, probabilmente, militare).

Nel documentatissimo libro di Hopkirk non è soltanto contenuto in nuce tutto ciò, ma anche le radici politiche, sociali, religiose ed economiche delle altre e più recenti vicende cecene e afgane. Una lunga scia di sangue, di speranze infrante, di odi etnico-religiosi e tribali e, soprattutto, di giochi imperiali che ancora oggi non si è interrotta.


  1. Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme, Mimesis 2021, pp. 15-16  

  2. Si veda in proposito Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969  

  3. Sul problema storico della mancata espansione russa verso i mari e gli oceani si veda: Toti Celona, La Russia sul mare, Longanesi & C., Milano 1968  

  4. P. Hopkirk, op. cit., p. 16  

  5. Il colonnello Bailey, il colonnello Percy Etherton e Sir Wilfrid Malleson, personaggio tutt’altro che piacevole, precursore nella specialità del gioco sporco, che gestiva una vasta rete di spie e agenti segreti nel nord-est della Persia, la cui maggiore soddisfazione fu quella di far scannare fra loro bolscevichi e afghani, lasciando sapientemente trapelare presso l’uno il doppio gioco dell’altro (inventandolo, là dove era necessario).  

  6. Sulla sua fosca figura si veda: Vladimir Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi, Milano 2012 e Renato Monteleone, Il Quarantesimo Orso. La saga di un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero Zarista, Gribaudo 1995  

  7. P. Hopkirk, op. cit., p. 20  

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L’esilio in Siberia e le radici della rivoluzione (e della controrivoluzione) https://www.carmillaonline.com/2018/05/16/le-gelide-radici-della-rivoluzione-della-controrivoluzione/ Wed, 16 May 2018 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42660 di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il [...]]]> di Sandro Moiso

Daniel Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, Mondadori editore, 2017, pp. 460, € 30,00

Le cifre sembrano incredibili, ma il territorio siberiano copre un’area di 14 milioni di km. quadrati, con una densità di 2 abitanti al kmq. La sola taiga copre 5 milioni di kmq, un’estensione prossima a quella del continente indiano, e possiede una ricchezza forestale maggiore di quella dell’Amazzonia, mentre è attraversata da 53mila fiumi. Una parte consistente del suo territorio è poi caratterizzato dal permafrost, un ghiaccio perenne che si estende in profondità nel terreno e che durante il disgelo e nella stagione estiva tende a sciogliersi soltanto in superficie, dando vita ad immensi acquitrini.

Nella lingua mongola, “Siberia” significa “terra che dorme” anche se costituisce circa i due terzi della Russia attuale e nell’estremo oriente del suo territorio si raggiungono le temperature più basse registrabili sull’intero pianeta, ad esclusione delle regioni artiche. Si estende dai monti Urali fino alle rive dell’Oceano Pacifico e dalle catene dei monti Altaj fino alle rive del mare Artico ed è straordinariamente ricca di minerali, contenenti quasi tutti i metalli preziosi e comprende alcuni dei più grandi giacimenti di nichel, oro, piombo, carbone, molibdeno, diamanti, argento, zinco oltre ad alcuni dei più importanti giacimenti mondiali di petrolio e gas naturali.

Questi i dati odierni, mentre il testo di Daniel Beer, pubblicato da Mondadori, descrive la storia della sua progressiva conquista nel corso dei secoli e del suo sfruttamento da parte dell’impero zarista. Una storia che per molti versi sembra ripetere o, meglio, anticipare l’espansione statunitense verso Ovest tra la fine del Settecento e la seconda metà dell’Ottocento. Compresa la sottomissione forzata delle tribù preesistenti, appartenenti quasi sempre allo stesso ceppo originario delle popolazioni amerindie. Soltanto specularmente rovesciata verso oriente e su un territorio ancora più vasto.

Svoltasi sostanzialmente tra la fine del XVI secolo e il XVIII, l’espansione nell’oriente siberiano fu inizialmente trainata, ancora una volta come nel caso del West americano, sia dalla necessità di ampliamento territoriale che dall’abbondanza di animali dalla pelliccia pregiata: volpi, scoiattoli, ermellini, martore e, soprattutto, zibellini.

“Le pellicce che i promyšlennikki (commercianti privati di pellame – NdR) riportavano dalla Siberia, spuntavano prezzi astronomici in Russia e altrove. Bastava una sola pelliccia di volpe artica per acquistare una fattoria di buone dimensioni,completa di cavalli, bovini, pecore e pollame.
Nella loro avanzata verso est, i russi usarono un insieme di incentivi e violenza per esigere tributi dalle popolazioni indigene della Siberia. Chi collaborava con i promyšlennikki poteva contare su denaro e protezione, mentre chi non lo faceva, oppure era sospettato di nascondere la propria ricchezza, pagava un prezzo terribile: torture, prese di ostaggi e omicidi erano all’ordine del giorno, e interi villaggi vennero distrutti. Alcune tribù, come gli ostiachi, già abituati a pagare tributi ai precedenti governatori mongoli, cercarono un accordo con i russi che avanzavano, restando sconvolti dall’avidità dei nuovi padroni. Altri, come i buriati, opposero fin dall’inizio resistenza all’invasione. Le tribù della Siberia, tuttavia, anche quando si dimostrarono capaci di unirsi in una difesa coordinata delle loro terre, riuscirono a presentare solo una resistenza sporadica. Nessuna era in grado di opporsi alla potenza di fuoco delle forze russe, e decine di migliaia di loro morirono per le malattie portate dagli invasori.”1

L’attrattiva esercitata da quelle terre rimaneva però limitata, ad esempio rispetto a quelli dell’Ovest americano, a causa del clima e delle difficoltà oggettive opposte dal territorio ad un’autentica espansione di carattere agricolo. All’inizio del XIX secolo, infatti, la popolazione siberiana ammontava a non più di un milione di abitanti, quasi tutti concentrati nella Siberia occidentale e in città che spesso non superavano le dimensioni di un grande villaggio. Problema che per certi versi permane ancora oggi, considerato che il territorio siberiano è attualmente abitato da un quarto della popolazione russa complessiva.

Era stata forse questa difficoltà ad aprire le porte di quello che sarebbe successivamente diventato il cuore di tenebra dell’impero per gli stessi russi “bianchi”. Un’autentica prigione a cielo aperto, grazie all’istituzione dell’istituto dell’esilio.

“L’esilio era un atto di espulsione. Ioann Maksimovič, vescovo di Tobol’sk e della Siberia, dichiarò nel 1708: «Così come dobbiamo eliminare dal corpo gli agenti nocivi, in modo che il corpo non muoia, lo stesso deve avvenire nella comunità dei cittadini: tutto ciò che è sano e innocuo si può tollerare, ma ciò che è dannoso va tagliato via». Gli ideologi dell’impero tornarono più volte sull’immagine della Siberia come di un mondo oltre le frontiere immaginarie dello Stato nel quale il sovrano poteva eliminare le impurità per proteggere la salute del corpo pubblico e sociale. Con il passare del tempo, le metafore cambiarono, ma rimase la convinzione di fondo che la Siberia fosse il ricettacolo d’ogni male che affliggeva l’impero”.2

Inizialmente usato per malfattori, assassini e prostitute ben presto l’istituto dell’esilio fu applicato ai contadini rivoltosi, ai nobili attratti dal pensiero democratico dell’Illuminismo e, successivamente e spesso soltanto come alternativa alla pena di morte, per i congiurati decabristi, i ribelli e i rivoluzionari polacchi, gli esponenti dei movimenti populisti e terroristi anti-zaristi, gli anarchici e gli esponenti del socialismo o, meglio della nascente socialdemocrazia russa.

Nobili, contadini, operai, studenti, malavitosi, soldati (russi e stranieri prigionieri), prostitute, rivoluzionari, terroristi, uomini e donne, russi, polacchi ed esponenti delle varie nazionalità oppresse dall’impero iniziarono ad affollare una terra desolata, dalle distanze incommensurabili, in piccoli villaggi, sperdute cittadine, campi di lavoro o fattorie isolate. Da cui era difficile fuggire non tanto per la solerzia dei funzionari o delle guardie, spesso facili da corrompere o dallo scarso ossequio nei confronti del dovere e delle norme, ma proprio a causa delle distanze, del freddo, della diffidenza degli altri abitanti.

Un autentico inferno bianco di cui Beer, professore associato di Storia presso la Royal Holloway dell’Università di Londra, traccia le drammatiche vicende, delineando ritratti, vite, disavventure di un foltissimo stuolo di personaggi. Tracciando però anche un percorso cronologico lungo il quale si delinea una sorta di continuità ideale tra le storie e gli ideali dei deportati, democratici, ribelli, populisti e rivoluzionari socialisti che mostra come la continuità di scelte e di pensiero che caratterizzò l’azione sia dei riformatori democratici che dei rivoluzionari russi avesse nell’esilio siberiano le sue radici “storiche”.

Per ognuno di quegli esiliati le premesse potevano essere infatti diverse per tempo, classe sociale di appartenenza, lingua, nazionalità, credo politico o religioso, ma tutto finiva nel confluire in una pentola, in costante ebollizione, di odio e disprezzo nei confronti dello zarismo e delle sue istituzioni. Così, nonostante le morti, le rese o i pentimenti necessari alla sopravvivenza, la Siberia divenne davvero il luogo, oltre le frontiere immaginarie dell’impero, dove si andò formando la negazione politica e ideologica del corpo sociale edificato dagli czar e la reale coscienza della necessità del suo superamento.

Tutti i rivoluzionari russi, o almeno quelli sopravvissuti alle forche, passarono da lì. Tutti lasciarono un segno, una traccia. Fosse anche soltanto la guardia uccisa per poter fuggire o quelle intimorite dagli attentati in difesa delle condizioni di vita dei prigionieri, messi in atto soprattutto dopo la repressione dei moti rivoluzionari del 1905.3 Tutti impararono qualcosa ed ebbero modo di riflettere. Tutti insegnarono qualcosa ai nuovi venuti. Se non a parole, almeno con l’azione o il comportamento individuale.

La trasmissione della memoria storica e politica, imprescindibile per qualsiasi movimento rivoluzionario, si era fatta concreta. Si potrebbe dire che facesse parte dell’esperienza dell’esilio e dei lavori forzati. Le idee si erano trasmutate in carne e sangue dei deportati e le loro stesse vite finirono col diventare snodi di una rete infinita di comunicazione delle esperienze, concrete ed ideali allo stesso tempo.

Sarà per questo, forse, che l’istituzione successiva dei gulag, soprattutto a partire dal periodo staliniano, fu caratterizzata da quella che venne definita come “ingegneria delle anime”,4 cioè dall’azione costante e determinata tesa ad estirpare nell’esiliato/detenuto qualsiasi velleità critica o di costruzione di un consenso altro da quello stabilito dal regime. Il prigioniero doveva infatti perdere qualsiasi caratteristica individuale, qualunque capacità di pensiero autonomo, per concentrarsi esclusivamente sulla propria sopravvivenza e sulla propria colpa, così come dimostrano opere letterarie straordinarie come i Racconti della Kolyma di Varlan Salamov oppure Una giornata di Ivan Denisovič di Aleksandr Solženicyn o, ancora, molti romanzi di Victor Serge.

Così, al contrario di ciò che si potrebbe pensare, proprio per gli ideali di liberazione individuale e collettiva più alti che collegano, per linee apparentemente invisibili, gli esiliati della scuola di rivoluzione siberiana alle vittime della Siberia della controrivoluzione stalinista e successiva (basti dire che la Prigione centrale per i lavori forzati di Tobol’sk, costruita a metà Ottocento, è rimasta attiva come istituzione penale fino al 1989), la letteratura rimane uno strumento validissimo e indispensabile per ricostruire e comprendere l’immaginario politico e i fenomeni sociali di ogni società, passata o presente che sia. Come restano a dimostrare anche capolavori quali Memorie dalla casa dei morti di Fëdor Dostoevskij (cui si ispira il titolo del testo di Beer), Resurrezione di Lev Tolstoj o, ancora, la cronaca del viaggio in Siberia di Anton Čechov: L’isola di Sachalin.

Opere di cui l’autore inglese ha sicuramente tenuto conto nella stesura di un testo importante e leggibilissimo allo stesso tempo.


  1. D.Beer, LA CASA DEI MORTI. La Siberia sotto gli zar, pp.22-23  

  2. Beer, pag. 25  

  3. A tal proposito si veda: Jurij Trifonov, I riflessi del rogo. Vita e morte di un rivoluzionario sovietico, Mursia 1981  

  4. Si vedano in proposito, tra le tante opere sull’argomento: Frank Westerman, Ingegneri di anime, Feltrinelli 2006 e Oleg V.Chlevnjuk, Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, Einaudi 2006  

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