immaginario vampiresco – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dion Fortune e il furbetto vampiro (Victoriana 42) https://www.carmillaonline.com/2023/09/16/dion-fortune-e-il-furbetto-vampiro-victoriana-42/ Sat, 16 Sep 2023 20:00:52 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78874 di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda [...]]]> di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda dargli.

Come noi sono altri a salire, famiglie, coppie anziane, giovanissimi: e dopo un’adeguata contemplazione – e una piccola sosta nell’antica torre campanaria sopravvissuta a una chiesa crollata sulla vetta – abbiamo preso ormai la discesa quando alle nostre spalle inizia a sollevarsi un canto. Non ci stupiamo, un’altra volta nella torre avevamo trovato un gruppo che celebrava riti entusiasti con campane tibetane: tutto normale, questa è Glastonbury. Con la High Street punteggiata di negozi di tuniche e corone per cerimonie wicca, statuette etniche, minerali e aromi per rituali, librerie dell’arcano, esposizioni di arte esoterica – il tutto in un mix delizioso tra il sapienziale e il kitsch, tra pellegrinaggio dell’inquietudine spirituale e consumismo della mistica, e allora non vuoi stare al gioco?; con le vie battute da tutti i possibili pellegrini dell’Altrove, sacerdotesse della Dea con corone di fiori, famiglie in vacanza con bambini piccoli, fricchettoni estinti in tutto il resto del globo dai lontani anni Settanta; con i suoi luoghi sacri alle spiritualità più varie (nel 2012 in un villaggio tanto piccolo erano rappresentate una settantina di fedi, per parlar solo di quelle organizzate). Dal sincretismo imperante in cappelle e segnacoli per tutte le fedi nello splendido giardino del Chalice Well (vi passeremo al ritorno) alle due fonti lì accanto, Bianca e Rossa, quest’ultima dal sapore acceso di sangue per la quantità di ferro nell’acqua; dai resti meravigliosi – con tanto di tomba vuota di Artù – della grande abbazia vittima della brutale Dissolution of the Monasteries sotto Enrico VIII, al sacro biancospino di Giuseppe d’Arimatea (sulla collina è stato vandalizzato, c’è ancora un alberello vicino all’Abbey)… a tutto il resto.

Compreso, ai piedi del Tor, il frutteto dove Dion Fortune, occultista e scrittrice, stabilì nel 1924 una sede di vita e di studio (il famoso Chalice Orchard) col suo gruppo di confratelli. Vi passiamo davanti, e nella borsa, come lettura di viaggio, ho proprio un romanzo dell’autrice: per la precisione il suo secondo testo di fiction, il thriller occulto The Demon Lover, del 1927 –  in Italia Il demone amante (pp. 304, Roma 2011) per i tipi delle edizioni Venexia che stanno portando avanti un interessante recupero dell’opera di Fortune. Le librerie di Glastonbury sono piene di opere di lei e su di lei.

Nei fatti, il suo primo romanzo, perché l’hanno preceduto dei racconti, The Secrets of Dr. Taverner, editi nel 1922 e raccolti in volume nel 1926. Storie sui casi di un dottore dell’occulto come quelli di moda all’epoca, ma ispirato al mentore che l’ha salvata da una terribile crisi, il dottor Moriarty; e dove comunque l’autrice si è ormai resa conto di poter veicolare le proprie idee in forma narrativa, che prende dunque ad alternare alla produzione di saggi. Non parliamo di esiti di vertiginoso valore letterario, ma di una produzione comunque di onesto livello, godibile alla lettura e di notevole interesse antropologico (nonché magico, per i cultori).

Di Dion Fortune, all’anagrafe Violet Mary Firth (1890-1946), celta gallese, psicanalista e poi occultista, capace attraverso un percorso abbastanza libero di conciliare scuole diverse nell’esaltazione del principio femminile, si è già parlato in altra sede; ha senso qui soffermarsi su questo singolarissimo romanzo. Scritto già nel periodo di Glastonbury ma qui non ambientato (l’autrice dedicherà alla cittadina e ai suoi miti un delizioso Avalon of the Heart, 1934 – in Italia, Avalon. La via segreta al sogno arturiano, Tre Editori, 2004), Il demone amante già presenta il motivo-chiave poi di tutta la sua produzione: la storia di una giovane protagonista che riesce a salvare un uomo – in genere quello amato – da se stesso o comunque gli permette un’autorealizzazione prima impensata, attraverso una crescita spirituale anche propria. In questo senso il romanzo (attenzione, seguiranno spoiler) funge da battistrada per un’intera produzione dipanata negli anni.

La storia presenta Veronica Mainwaring, una ragazza in apparenza molto disarmata e fragile, che viene assunta come segretaria dal fascinoso ed equivoco Justin Lucas adepto ribelle di un ordine magico. Senza che i due sappiano di essere già profondamente legati da vite precedenti in cui lei aveva scelto la Luce e lui l’oscurità: la verità emerge via via, con sconcerto di lui e l’emergere – ça va sans dire – di sentimenti inattesi. Veronica lo vede ora giustiziato per tradimento dagli alti gradi della loggia (Justin ha usato l’inconsapevole segretaria per spedirla in astrale a spiare segreti dell’Ordine, ma, quando i confratelli vogliono colpirla, lui si assume ogni responsabilità) solo per trovarsi avvicinata dal suo ingombrante ritorno come vampiro: e occorrerà l’intervento di alcuni superiori buoni e illuminati per imprimere alla vicenda una svolta positiva inattesa quanto improbabile. Alla base del tutto, dunque, una storia d’amore – come poi in genere i romanzi successivi – e anzi romantica (l’amato maledetto, eccetera) che però si sviluppa nel quadro più complesso di un magistero magico: denso di informazioni, ma a portata di lettori comuni – quindi di valore “formativo” – visto che al di là di singole allusioni un po’ tra le righe nessuna eccessiva oscurità esoterica ammanta il tutto. Una serie di scene gotiche di felice inventiva rende godibile l’insieme.

Merita notare che questo primo romanzo di Fortune costituisce un efficace trait d’union tra l’immaginario dell’occulto vittoriano e la successiva produzione dell’autrice. Anzitutto troviamo un vampiro che strappa una citazione di Dracula, sia pure in un’originalissima interpretazione occulta del vampirismo quale semi-vita in trance: non dimentichiamo d’altra parte che Nosferatu è del 1922, solo cinque anni prima. Ma anche l’assetto di un gruppo magico con tre figure principali ricorda non poco la triade –  William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddell MacGregor Mathers – al vertice della vittorianissima Golden Dawn (è forse Mathers – mai conosciuto personalmente da Fortune, che però avrà un pessimo rapporto con la sua vedova – il livoroso Fordice del romanzo?). Resta il fatto che alla Golden Dawn sicuramente si ispiri il gruppo descritto, al di là del suo carattere fantasioso (nella prefazione all’edizione Weiser del romanzo, 2010, Diana L. Paxson mostra di dubitare qualunque riferimento a vicende reali).

Per tanti versi Dion Fortune è un personaggio che ispira simpatia. Per contro troviamo documentate in The Demon Lover posizioni bislacche francamente spiacevoli, come la convinzione che in fondo gli inquisitori non avessero tutti i torti nel perseguire col rogo i maghi neri: un’idea che in chiave saggistica troveremo sostenuta dall’arcigno Montague Summers (1880-1948), preteso reverendo grande cultore di materie livide in quella stessa Inghilterra. Ma ambiguità ristagnano nella stessa dinamica relazionale sottostante la vicenda, e non basta allegare il diverso rapporto tra i sessi di un’altra epoca. Certo, Justin si salverà pentendosi delle proprie malefatte e anzi scontandole in modo drammatico: come ben sintetizza la citata Paxson, “This is a drama of reincarnation and destiny transcending conventional concepts of Justice”. Le posizioni nella coppia si sono di fatto capovolte: alla fine quello fragile è lui, mentre Veronica recupera un ruolo di potente iniziata. Ma la sensazione del lettore è che il pentimento riguardi anzitutto le scelte metafisiche di Justin, le sue frequentazioni dell’Ombra e la turpe predazione da vampiro di vite umane (in particolare di bambini): resta la normalità di un suo plagio pesante ai danni di Veronica, su cui non emerge mai una critica puntuale, e attutita solo parzialmente dalla storia del loro profondo legame pregresso. Se lui non si macchiasse di colpe ben più gravi finendo bloccato, continuerebbe a manipolare: anche perché a un certo punto si aprono le cataratte delle “giustificazioni”.

Non sappiamo se Dion Fortune abbia mai vissuto personalmente l’attrazione per il modello “cattivo soggetto”: si può comprendere che Justin risulti più fascinoso del mamozzo senza fantasia che a un certo punto corteggia Veronica per finire malissimo (senza grossi turbamenti – va detto – né di lei né dei lettori); ma l’autrice resta fin troppo benevola nei confronti di Justin, che invece il lettore avverte come un furbetto piuttosto ripugnante. In sostanza il modello del belloccio manipolatore – perché poverino, con le sue drammatiche esperienze… e poi comunque è coraggioso… –, al netto di un finale “redentivo” lascia in fondo intoccati i più beceri modelli sessisti: lui usa Veronica spregiudicatamente, gioca al bello & maledetto, si compiace di sé. Leggere il romanzo in questa Italia, dopo un’estate di violenze e femminicidi perpetrati da ometti lamentosi e autocompiaciuti, lascia un gusto amaro che l’autrice non aveva certamente previsto e su cui forse, acquisendo via via maturità narrativa, avrebbe speso qualche riflessione in più. Va detto che Il demone amante, divertente e originale, è anche più veloce e scorrevole – per esempio – del più ampio, ponderato e complesso The Goat-Foot God, 1936 (Il dio dal piede caprino, Venexia, 2001), che dell’autrice dice parecchio di più, in modo abbastanza esplicito, o dell’anche migliore The Sea Priestess, 1938 (La sacerdotessa del mare, Venexia, 2002).

In genere il primo testo di fiction di un autore sedimenta riflessioni e sogni covati anni, nonché molto di una storia personale: si sarebbe dunque tentati di riconoscere almeno qualche aspetto del seduttore Justin in persone incontrate dall’autrice – per esempio il bruno medico Thomas Penry Evans da lei sposato proprio nel 1927 e coinvolto come partner nei rituali. Del tutto implausibile, Evans è un gentiluomo, anche se una decina di anni dopo i due finiranno col separarsi (divorziando solo nel 1945, sei mesi prima della morte di lei). Le dinamiche in scena rendono insomma difficile pensare a un nesso biografico, e l’opera si avvicina piuttosto al mondo dei casi di Taverner. A leggere Il demone amante si ha semmai la sensazione di un gioco su modelli letterari, l’amante maledetto di matrice romantica eccetera, riletti in chiave tecnico-occultista per avvicinare a un più generale magistero magico. E insieme a una grande riflessione, di cui l’autrice sente l’urgenza nel mondo moderno, sul salvare le potenzialità dei rapporti di coppia in una rafforzata percezione della dignità della donna. Che non passa attraverso un’impostazione femminista in senso proprio (pur preludendo di fatto a un successivo femminismo neopagano, Dion Fortune ha vedute di tipo conservatore all’inglese) ma per le vie sottili di una riscoperta interiore nel segno del magico.

Al netto insomma di ogni lontananza ideologica, legittimo guardarla con simpatia, ma – per favore – togliamoci i Justin Lucas dai piedi.

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Che angoscia di perderti, / vampira notturna https://www.carmillaonline.com/2021/01/29/che-angoscia-di-perderti-vampira-notturna/ Fri, 29 Jan 2021 21:58:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64728 di Franco Pezzini

Paolo Lago, La rosa di Pola, Transeuropa, Massa 2019, pp. 51, euro 15.

 

Accompagnami sulla vecchia strada in salita

fra i pittori silenti e perduti,

folli di verde e di giallo per gli occhi dei turisti

ed è una lenta salita

verso un tramonto-braciere

 

e quel pittore ebreo sefardita

dal nome italiano,

lui veramente perduto

in un tempo lontano,

amava salire fino al tramonto e al braciere,

fino alla chiesa di Santa Eufemia […].

 

La ricordo abbastanza bene, la costa istriana di fine anni Sessanta con le [...]]]> di Franco Pezzini

Paolo Lago, La rosa di Pola, Transeuropa, Massa 2019, pp. 51, euro 15.

 

Accompagnami sulla vecchia strada in salita

fra i pittori silenti e perduti,

folli di verde e di giallo per gli occhi dei turisti

ed è una lenta salita

verso un tramonto-braciere

 

e quel pittore ebreo sefardita

dal nome italiano,

lui veramente perduto

in un tempo lontano,

amava salire fino al tramonto e al braciere,

fino alla chiesa di Santa Eufemia […].

 

La ricordo abbastanza bene, la costa istriana di fine anni Sessanta con le piazzette similveneziane marcate da bifore, l’ambigua pax titina e le zone A e B. Da Trieste dove un lavoro di mio padre ci aveva portato, varcavamo ogni tanto il confine per visitare luoghi belli (Postumia con le grotte, Lipizza coi cavalli e poi Capodistria, Portorose, Parenzo, Rovigno…) e comprare alimentari a prezzi molto economici: dalla carne (tranci che comprendevano di tutto, e mia madre doveva poi ingegnarsi a distinguere le parti per poterle cucinare) a una cioccolata postasburgica magari con le uvette. Una zona immersa in una tranquillità turistica nel complesso ruspante, tutto era molto semplice (difficile un paragone con l’oggi, soprattutto in rapporto alla costa); ed è possibile trovare su YouTube documentari di quella Iugoslavia remotissima, che per me si confonde con i volti antichi degli sceneggiati epici di Franco Rossi e i ricordi di una fase di vita familiare un tantino mitteleuropea. Tutto ciò non in chiave di semplice amarcord, ma di emozioni al trovarmi davanti un recente volumetto di liriche di Paolo Lago, La rosa di Pola.

Esistono molti modi di viaggiare, e molti sensi schiusi dall’idea del viaggio – a partire da una metafora sulla vita e sul transito tra condizioni interiori. Come appunto nel diversificato ventaglio di scenari toccati da questa specie di travelogue poetico sugli itinerari dell’autore (estate 2019) tra la costa istriana, Stoccolma e il Trentino. Poesia odeporica, di viaggio ma appunto nell’ampiezza variegata del concetto, dove elemento unificante e filo rosso è il profilo di un’ideale interlocutrice, apparsa nei Balcani e che accompagnerà fino alla fine: una figura archetipica di fughe tra dimensioni diverse – una vampira. Con una citazione d’incipit profondamente letteraria, da Il vampiro di Baudelaire: “Tu che, come una coltellata, / sei entrata nel mio cuore piangente…”. Con linguaggio lirico e fiabesco sono dunque in questione le nostre malinconie e i nostri sbandi, e il vampiro è quello saturnino della letteratura, tra nostalgie e ferite profonde che non riescono a rimarginarsi, o quando lo fanno lasciano intravedere che qualcosa è rimasto mozzato, è rimasto tra le ombre.

Ma allo stesso tempo la vampira citata è quella del folklore, creatura intermedia come intermedio tra culture diverse è il mondo dove germina e la stessa dimensione incerta cui appartiene. Non è un caso che il primo vampiro “classico”, cioè coi connotati poi recuperati da tutta una vulgata, non appartenga affatto a remote Transilvanie, ma alla ben più vicina Istria, quel tale Giure Grando di Coriddigo (Krinck o Khring) che nel 1672 seminerebbe panico e morte nella propria comunità, guadagnandosi spazio nella memoria Die Ehre des Herzogthums Krain del Valvasor (Laybach, 1689) – e del resto su tradizioni vampiriche slovene e croate esiste una ricca documentazione. Non un aristocratico, si badi, ma un contadino, il povero Grando: e anche la vampira della raccolta di Lago viene da questa tradizione popolare, ispirata da una venditrice di rose di Pola. Come spiega l’autore, è “una ragazza alta vestita di scuro che girava con un cesto di rose la sera nelle strade e nei locali. Me la sono immaginata discendere dai Balcani, per offrire consolazione e tormento a marinai perduti nella notte in città, che poi sarebbero risaliti sulle loro navi per riprendere il viaggio”. In questo senso, la scena della venditrice tra vicoli e piazzette similveneziane non è forse troppo lontana da quelle che posso ricordare con lo sguardo a mezzo secolo fa, a dispetto del maggior turismo odierno e della memoria calda di esodi e frantumazioni comunitarie dopo la guerra iugoslava:

 

Malandrina come la notte

lei passò nella piazza

ed era una farfalla di rose

che stringevano addii

per i migranti lontani

e per i nostri occhi feriti

dal sale del mare,

dal profumo dei porti…

 

Una “fanciulla di fiaba” dallo “sguardo di ardente tristezza” che è insieme “carezza e ferita”, a cui chiedere che ci accompagni per le vie del borgo e magari “fino a un paese di pietra” nell’entroterra (Valle, con il suo castello vampiresco): sapendo che, sì, inchioderà il nostro cuore sulle torri e tuttavia avremo angoscia di perderla. Perché l’io narrante si rivela a sua volta un viaggiatore perduto, come tante volte ci sentiamo noi in un altro tipo di viaggio: e non a caso l’itinerario parte in quei Balcani di vertiginose compenetrazioni e di continui esili di cui la maschera del vampiro risulta emblematica. A richiamare infiniti altri nostri strappi tra incontri e perdite, in dedali di vie & vite attorcigliate tra i mondi diversi della nostra esistenza: dove spesso la sensazione è di trovarci il cuore inchiodato su qualche vecchio muro – e siamo stanchi di veder salpare presenze importanti, per i più vari motivi di addio. In fondo ciascuno di noi potrebbe attribuire a quella fatale venditrice di rose un volto specifico, a quell’angoscia di perderla – nonostante il dolore, nonostante tutto – un senso particolare.

 

Dall’Istria – tra Rovigno cui sono dedicati i versi all’inizio di questo articolo (La rosa di Pola), la costa e Valle nell’entroterra – il diario poetico punta in vertiginosa virata verso Stoccolma (La fortezza del Nord) tra la casa di Strindberg, alcuni musei (Vasamuseet, Nationalmuseum, Moderna museet), la città vecchia Gamla Stan, il quartiere-isola Södermalm coi loro fantasmi: siamo molto lontani dall’Istria, ma la “fanciulla vampira” resta attesa anche lì “in periferie senza nome”, in un gelo che è anche dimensione interiore personalissima (“Il tuo bacio di sangue / è una luna di neve, / un abbraccio di ghiaccio soltanto per me, / una lieve ferita che aspetto da sempre”), presente nel “morso di luce” e insieme disperatamente rimpianta.

 

Mi porterai, vampira del Nord,

alla fortezza nascosta,

all’inverno spalancato al mio canto,

alla danza su campanili di neve,

 

in un viaggio mi porterai

agli spettri delle case perdute,

dei silenzi passati

e starò ad aspettare la tua voce di rosso e di giallo

e di pioggia e di neve e di pianto

 

e in un soffio fra i ponti ed il mare

finalmente sarà lieve il mio canto.

 

La conclusione dell’itinerario è a Malosco in Trentino (“Desiderio di vento”), dove al cader dell’estate la vampira segue il viaggiatore come sogno, desiderio e carezza. L’autore tesse il suo canto con felice forza visionaria, in un tessuto lirico fervente di emozioni descrittive o evocative: scorci della costa istriana, colpi d’occhio cittadini su Stoccolma, suggestioni da opere d’arte dei musei o invece percezioni sensoriali – il ghiaccio del nord, il clima preautunnale trentino – sono richiamati a tocchi vividi. Chiudendo il volumetto resta la questione: quale volto diamo alla nostra personale vampira, e a quali torri ha inchiodato il nostro cuore?

 

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Nemico (e) immaginario. Vampiri e biopolitiche di sangue https://www.carmillaonline.com/2020/02/02/nemico-e-immaginario-vampiri-e-biopolitiche-di-sangue/ Sat, 01 Feb 2020 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57057 di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria [...]]]> di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria principale, prima di divenire fenomeno cinematografico e televisivo statunitense.

Oltre un secolo e mezzo prima che Bram Stoker con il suo Dracula (1897) dopo essersi appropriato dell’immaginario vampiresco precedente lo aggiornasse alla modernità sino a proiettarlo nei tempi a venire, i vampiri già smascheravano le ansie umane e le biopolitiche del periodo suggestionando la cultura occidentale nel suo tentativo di definire l’essere umano. La storia del vampiro antecedente a quello proposto dal romanzo di Stoker, già indagata puntualmente da Massimo Introvigne1, è stata recentemente ricostruita da Nick Groom nel suo Vampiri. Una storia nuova (Il Saggiatore, 2019) «unendo la visione scientifica ed empirica dei “veri” vampiri dell’Europa orientale con le loro successive rappresentazioni evocate nella letteratura gotica [prendendo] in esame trattati teologici e referti medici, diari di viaggio e allegorie politiche, poesia, narrativa e testi sull’occulto»2.

Il ritorno dei morti è una paura primordiale, tanto che morti inquieti, invendicati, desiderosi di punire i vivi popolano miti, leggende e folklore sin dai tempi remoti. Se numerose sono le figure che riprendono vita per scatenare il caos, tuttavia i vampiri sono entità diverse dagli spiriti e dai non-morti ed hanno destato interesse tra gli intellettuali europei in circostanze ben precise. Se fantasmi e demoni hanno spesso antecedenti biblici o derivati da miti antichi, si può dire che i vampiri, invece, siano stati “scoperti”; se lo studio dei fantasmi e delle apparizioni ha preso il via indagando le testimonianze di chi si è imbattuto in essi, per quanto riguarda l’indagine sui vampiri, invece, almeno agli inizi, questa si è svolta su esseri fisici «che avevano un fondamentale (e letterale) “corpo” di prove, costituito dai cadaveri del colpevole e delle vittime»3, pertanto, nel caso dei vampiri, non si è di fronte a demoni primordiali ma, suggerisce Groom, a creature dell’Illuminismo, radicati come sono nei nascenti approcci empirici delle scienze investigative settecentesche, nella biopolitica europea e nel pensiero dell’epoca.

«In altre parole, essi appartengono del tutto al mondo moderno – o meglio: i modi con cui sono stati esaminati sono sorprendentemente moderni. I vampiri nacquero quando la razionalità illuminista incontrò il folklore dell’Europa orientale – un incontro che cercò di dare loro un senso attraverso il ragionamento empirico e che, considerandoli attendibili, li rese reali. Dunque, i vampiri hanno proprio una preistoria folkloristica e, dall’inizio del XIX secolo, i vampirologi si sono applicati per rintracciare le loro origini attraverso esempi archetipici e leggendari di mostruosità»4.

Sebbene i demoni succhiatori di sangue siano presenti già in antiche tavole caldee e assire, nel mondo antico sia greco che romano, nella tradizione giudaico-cristiana e nei poemi epici anglosassoni, i vampiri occupano una posizione particolare tra i succhiatori di sangue e nonostante le loro storie a volte si intreccino con quelle di demoni, fantasmi, spettri, revenant o streghe, dovrebbero essere distinti da quell’insieme di paure verso i morti, i non-morti. «La distinzione tra i fantasmi succhiasangue del mondo classico e il vampiro moderno, come osserva l’occultista Montague Summers5, è che “la qualità peculiare del vampiro, specialmente nella tradizione slava, è la rianimazione di un corpo morto, che è dotato di alcune proprietà mistiche come la dispersione [estensione], la sottigliezza [tenuità] e l’incorruttibilità temporale”6. Sebbene una parte di questa tradizione slava fosse senza dubbio retrospettiva, è sorprendente notare come alcuni peculiari elementi comuni siano stati poi trasposti nei primi avvistamenti di veri vampiri e come la natura accrescitiva delle credenze popolari abbia dato vita, per così dire, al corpus di conoscenze sui vampiri»7.

Se il pensiero vampiresco finisce col riflettersi nelle scienze mediche, soprattutto con lo svilupparsi delle nuove teorie sul contagio, non di meno fornisce un repertorio iconografico all’economia, alla politica e, ovviamente, alla letteratura, avvicinando così finzione, teorie mediche e scienze sociali.

Parlare di vampiri significa parlare inevitabilmente di sangue ed infatti questo, sgorgato dal pensiero settecentesco, resta costantemente presente nel pensiero ottocentesco. «Il vampiro incarnava le contraddizioni del sangue: oscurava le distinzioni tra vivi e morti, umani e non umani, anche tra stabilità psicologica e metamorfosi fisica. Il vampiro era anche la quintessenza del sangue cattivo: del sangue corrotto e virulento. E […] la paura verso il sangue contaminato è stata acuita dal timore del contagio a causa dei luoghi ammuffiti e angusti, dei cimiteri, del marciume e della decadenza, dell’aria viziata, delle infezioni portate nell’atmosfera, della nebbia e dei pericoli invisibili. Tutto questo orrore si condensò con l’avvento del vampiro»8.

Durante il XIX secolo vengono sostanzialmente mantenute le vecchie credenze popolari circa le virtù curative del sangue, pur assumendo veste scientifica, e si moltiplicano tanto gli esperimenti di trasfusione endovenosa quanto lo studio di malattie ereditarie. Anche un centro nazionalismo fa del “sangue comune” il suo mito fondativo e la donna stessa, agli occhi maschili, appare “contraddistinta dal sangue”. Nell’immaginario ottocentesco l’associazione donne-vampirismo si struttura proprio a partire dal legame donne-sangue derivato, oltre che dalle perdite mestruali, anche, soprattutto nei primi decenni del secolo, dal diffondersi delle analisi del sangue al microscopio per diagnosticare l’anemia particolarmente diffusa in ambito femminile, tanto che la stessa figura del vampiro finisce con l’assume quello che diventerà il suo classico pallore.

L’associazione donna-vampiro ha dato luogo anche a vampiri femminili, come nel caso della protagonista del racconto Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu che, pur con peculiarità tutte sue legate al periodo, si inserisce all’interno di una lunga tradizione di figure femminili che si alimentano di sangue che hanno come antenate sovrannaturali figure come Lamia e Lilith9.

Dopo essere stato medicalizzato nel corso del Settecento, il vampirismo, nel secolo successivo, si lega a malattie e paure connesse al corpo femminile, nella convinzione che la perdita di sangue mestruale potesse addirittura dar luogo a catastrofiche conseguenze fisiche e mentali sull’intera civiltà occidentale e tale timore si collega ad una delle grandi paure di fine Ottocento: l’inversione evolutiva, la degenerazione verso uno stato animalesco o primitivo.

Il teorico della degenerazione Bénédict Morel10, ad esempio, vede nella follia il risultato di un danno fisiologico o di un comportamento immorale capace di trasformarsi in una patologia trasmissibile alle generazioni successive. Si afferma dunque un’idea di psichiatria radicata tanto nel corpo quanto nel comportamento ed è proprio rifacendosi a More che l’antropologo criminale Cesare Lombroso individua nei criminali segni di “evoluzione a ritroso” che li colloca, rispetto ai “normali” esseri umani, ad un gradino evolutivo inferiore; una vera e propria razza primitiva e subumana. In Lombroso anche le donne abitano una scala evolutiva inferiore, essendo, a suo avviso, dotate di un “cervello infantile”, dunque non sviluppato al pari di quello degli uomini. Se a tale “immaturità congenita” femminile si aggiunge una condotta criminale, allora, secondo Lombroso, si raggiunge l’apoteosi del mostruoso.

Sulle orme di Morel e Lombroso, il sociologo Max Nordau11 deriva le prove della decadenza morale della società del tempo dai suoi studi sui criminali, sugli omosessuali, sulle figure femminili più emancipate e sugli artisti più innovativi del tempo. Tale degenerazione deriverebbe dunque, secondo il sociologo, da cause fisiche determinate però dal vivere una modernità segnata dal ricorso smodato a narcotici e stimolanti, dal consumo alimenti avariati e dal respirare veleni organici. Insomma, i vampiri di fine Ottocento non sembrano essere più causa o segno di degenerazione; è l’intero mondo moderno ad essere degenerato e i vampiri, abitandolo, semplicemente ne condividono la sorte. Anche l’aumento dell’isteria, secondo Nordau, è riconducibile alle medesime cause.

Le immagini del sangue e del succhiasangue, come detto, hanno finito con il fornire un repertorio iconografico anche all’economia ed alla politica, inoltre, l’ottocentesca ossessione per il sangue ha probabilmente contribuito al revival della medievale “accusa del sangue” mossa nei confronti degli ebrei, rafforzando così l’antisemitismo. Se il vampirismo era già stato identificato da intellettuali come Voltaire e Rousseau con il commercio e con le operazioni finanziarie, tale associazione si è spinta ben oltre nel corso dell’Ottocento quando la metafora del vampiro risulta ben presente nei circoli della sinistra hegeliana, nella pubblicistica socialista e, soprattutto, diventa ricorrente nelle opere di Karl Marx.

Come ha ricostruito Luca Cangiati, se Marx ricorre alla metafora del vampiro in numerose opere – Sacra famiglia, Lotta di classe in Francia, Diciotto Brumaio di Napoleone Bonaparte, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai – è nei Grundrisse che tale metafora acquisisce uno status epistemologico innegabilmente costitutivo. «In questi famosi quaderni di appunti il filosofo afferma che “Nel capitale viene posta la perennità del valore… caducità che passa – processo – vita. Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro”. Che la metafora capitale/vampiro sia a tutti gli effetti costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento è testimoniato inoltre dalla dialettica tra il lavoro vivo, costituito dagli esseri umani lavoratori, e quello morto, cristallizzato nei mezzi di produzione, cioè nel capitale: “Il lavoro vivo si presenta come puro mezzo per valorizzare il lavoro materializzato, morto, per permearlo con un’anima vivificante e perdervi la propria”»12.

L’Ottocento è anche un secolo funestato dalle pandemie di colera in Europa e nel Nord America, coincidenti spesso con guerre e disordini politici. Il contagio ottocentesco è dunque un “contagio moderno”, vissuto nella sua concretezza. Messi da parte i capri espiatori tradizionali, le accuse finiscono per focalizzarsi sulla professione medica ed a ciò si è prontamente adeguato l’immaginario riferito al vampiro. Quest’ultimo, inoltre, già ritenuto vettore di malattia, non tarda ad essere associato agli spazi urbani malsani delle città industriali.

Se ancora nella prima metà del secolo la febbre viene trattata con l’aerazione, nella seconda metà dell’Ottocento inizia ad essere vista come una malattia infiammatoria a cui si risponde con la pratica del salasso spesso mediante sanguisughe ed in tale periodo la popolarità del tema del vampiro e sua efficacia nel metaforizzare paure e problemi d’epoca si lega proprio a quella per la suzione di sangue. Nella seconda metà dell’Ottocento, la teoria dei germi sostituisce parzialmente la teoria del miasma ed il diffondersi della convinzione che la malattia potesse essere causata da parassiti viventi, secondo Laura Otis13, si presta ad essere interpretata come metafora delle paure dell’epoca nei confronti di tutti i “nemici invisibili”, militari, politici o economici.

Riflettendo sulle analogie tra il prendere piede della teoria dell’infezione microbica ed il fatto che, più o meno in maniera figurata, questa la si ritrova già sia in diversi racconti di vampiri che nei tentativi di spiegare il contagio vampirico del secolo precedente, Groom osserva come, non a caso, i successivi racconti di vampiri vittoriani si soffermino spesso «su minuscole prove giudiziarie (piccole lesioni nella pelle, polvere) o su forze invisibili (mesmerismo, effetti psichici, psicologici e telepatia). Il contagio e il corpo, il sangue e l’economia, il potere politico, l’invisibile e il vampirismo sono dunque coesistiti nell’immaginario vittoriano. E il romanzo di Bram Stoker, Dracula, ne è la dimostrazione migliore»14.

Ed è proprio il libro di Stoker a palesare una svolta: capace di far suo l’immaginario vampiresco procedente, Dracula si presenta come concentrato di mitologie, sogni ed incubi propri del mondo vittoriano ma si rivela anche in grado di prefigurare inquietudini e desideri del mondo che sarebbe venuto, come documenta l’opera in due volumi che Franco Pezzini vi ha recentemente dedicato15.


  1. M. Introvigne, La stirpe di Dracula. Indagine sul Vampirismo dall’antichità ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 1997. 

  2. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, Il Saggiatore, Milano, 2019, p. 13. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. Ivi, pp. 22-23. 

  5. M. Summers, The Vampire, His Kith and Kin, Kegan, Paul, Trench, Trubner & Co., London, 1928 e M. Summers, The Vampire in Europe, University Books, New York 1968. 

  6. M. Summers, The Vampire in Europe, cit., p. 1. 

  7. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 33. 

  8. Ivi, p. 38. 

  9. Sulla figura di Carmilla si veda: F. Pezzini, Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira, Ananke edizioni, Torino, 2000. Sulla tradizione dei vampiri femminili si veda: A. Conti, F. Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, Castelvecchi, Roma, 2005. 

  10. B. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, 1857. Testo in cui Morel mescola cattolicesimo e teorie relative all’ereditarietà dell’evoluzionista Jean-Baptiste Lamarck 

  11. M. Nordau, Degeneration, 1898. Tr. it.: M. Nordau, Degenerazione, Piano B edizioni, Prato,2009. 

  12. L. Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, G. Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018. 

  13. L. Otis, Membranes: Metaphors of Invasion in Nineteenth-Century Literature, Science, and Politics, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1999. 

  14. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 188. 

  15. F. Pezzini, Il conte incubo. Tutto Dracula, Volume 1, Odoya, Bologna, 2019 e F. Pezzini, Abraham Van Helsing e l’ultima crociata. Tutto Dracula, Volume 2, Odoya, Bologna, 2019. 

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