Illuminismo – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Dalla Madre Terra alla Landa selvaggia passando per il Leviatano https://www.carmillaonline.com/2021/05/12/dalla-madre-terra-alla-landa-selvaggia-passando-per-il-leviatano/ Wed, 12 May 2021 21:00:51 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65879 di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman. Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della [...]]]> di Sandro Moiso

Fredy Perlman, Contro la storia, contro il Leviatano, Bepress Edizioni, Lecce 2013, pp. 360, 18 euro

Ancor prima di parlare di questo libro, uscito ormai da diversi anni ma ancora disponibile presso l’editore e nella distribuzione on line, occorre parlare dell’autore: Fredy Perlman.
Autentico Phileas Fogg1 del mondo della critica radicale della nostra civiltà, ancor più che del solo modo di produzione attuale, Perlman, nel corso della sua breve ma intensa esistenza (Brno, 20 agosto 1934 – Detroit, 26 luglio 1985), è stato influenzato da Guy Debord, Jacques Camatte, dal ’68 parigino cui ebbe modo di partecipare e dall’esperienza di contestazione, in loco, del socialismo titoista.

Ognuna di queste esperienze lasciò sicuramente un segno profondo nel suo pensiero e nelle numerose opere che ne derivarono ma, allo stesso tempo, nessuna di esse fu di per sé definitiva per l’autore, scrittore ed editore di origini ceche ma naturalizzato statunitense, oggi considerato uno dei padri ed ispiratori dell’anarchismo primitivista. Anche se certamente lo stesso avrebbe rifiutato, in vita, questa definizione insieme a tutte quelle che finissero in ista, a meno che non si trattasse, come ebbe a dire una volta, di violoncellista (da suonatore di violoncello quale era).

I suoi scritti e le sue opere sono state tradotte fuori dagli Stati Uniti in diverse lingue e in molti paesi ma questa, scritta nel 1983 e che pur rappresenta una sintesi della sua ricerca, è una delle poche tradotte in italiano. E ciò costituisce una grave pecca su cui torneremo alla fine di questa recensione/riflessione.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro affascinante dal quale, una volta iniziata la lettura è difficile staccarsi. Rapisce l’attenzione e la mente nel suo delineare l’evoluzione della comunità umana da quella primitiva, non ancora ossessionata dal possesso e dalla produzione di plusvalenze, alla “civiltà” con l’imposizione di regole, norme e zek (il nome definirebbe i lavoratori coatti dei gulag staliniani e post-staliniani, ma l’autore in spregio alla fallimentare esperienza sovietica lo utilizza per tutti i lavoratori coatti o schiavi) destinati ad arricchire la stessa di beni in eccesso destinati a nutrire e mantenere prima i re e i monarchi, poi i sacerdoti e, susseguentemente, gli scribi e gli Ensi ovvero coloro che già in età sumerica rappresentavano gli interessi del monarca per godere a loro volta di privilegi.

E’ una narrazione che ci spiega come la Storia, nata al maschile con l’utilizzo della scrittura, soppianti poco alla volta la narrazione mitica condivisa del passato. Una narrazione orale che passava di generazione in generazione fondando orizzontalmente la comunità, diversamente dalla narrazione verticale e autoritaria che si imporrà con la nascita delle cronache scritte, destinate a narrare soltanto le verità del potere. Nel fare ciò Perlman usa un registro narrativo che sembra uscire, da un lato, dalla voce degli antenati e dalle loro forme, dimenticate e spesso “al femminile”, di memorizzazione e, dall’altro, dalle riflessioni sul discorso di “verità” su cui si fonderebbero la conoscenza e la memoria moderna così come lo analizzò Michel Foucault a partire dagli anni ’70.

E’ il registro preciso e semplice, ma allo stesso tempo immaginifico, usato dall’autore a coinvolgere il lettore, nonostante le contraddizioni o le semplificazioni in cui incorre nel corso della ricostruzione dell’avvento del Leviatano, destinato a sostituire la comunità umana con lo Stato, le leggi scritte (a beneficio di pochi e a garanzia della miseria dei più), le religioni rivelate e soprattutto la Madre Terra con quella ostile Landa Selvaggia, destinata ad essere combattuta e sottomessa, che sembra affermarsi con la visione del mondo apportata dal cristianesimo, ma non solo.

E’ un assalto selvaggio, radicale, incessante quello che Perlman conduce invece contro tutte le forme di potere istituzionalizzato, contro le religioni che hanno abbandonato l’animismo per rendere l’Uomo (si proprio lui, al maschile) nemico e dominatore della Natura (e conseguentemente della donna creatrice di vita); tanto contro il pensiero liberale del Capitalismo quanto contro la formalizzazione e la razionalizzazione della condizione umana “moderna” avvenuta non solo con l’Illuminismo ma anche attraverso il marxismo e lo stesso pensiero anarchico tradizionale.

Non si fanno sconti e la campagna promozionale del riciclaggio costante dell’esistente come unica forma di vita e di organizzazione viene mostrata per quella che è: una truffa, forse millenaria.
Iniziata quando le donne e, soprattutto, gli uomini iniziarono a perdere quel contatto con l’essenza del mondo che aveva caratterizzato per migliaia di generazioni l’esistenza della nostra specie sul pianeta. Quella sorta di silenzio/assenso nei confronti dell’universo che le circondava che era determinante ai fini di un equilibrio tra specie e Natura oggi definitivamente perso.

Era una coscienza convinta della nullità del singolo di fronte alla Natura, di cui la morte è parte integrante, che è abitata però da forze vive e potenti destinate a riflettersi nelle azioni degli esseri umani finché questi non accettino, per forza, costrizione o convinzione di diventare zek, molle e ingranaggi di una macchina che procede distruggendo tutto quanto la circonda nella finzione del benessere assicurato per tutti. E di cui anche i monarchi, i potenti, i borghesi di oggi e di ieri non sono altro che ubbidienti meccanismi che, in ogni caso, possono essere rapidamente sostituiti con ricambi dello stesso tipo.

Una forma di conoscenza collettiva che obbligava le comunità umane a compiere riti e sacrifici propiziatori destinati a ingraziarsi e rabbonire le forze che le sovrastavano e le divinità che le rappresentavano; oggi sostituiti dal rito del consumo, destinato a celebrare ed eternizzare il capitale nel tempio del mercato, di cui i primi celebranti sono i lavoratori schiavizzati/zek succubi della sua forza e del suo fascino pestifero. Un rito crudele e insensato in cui il prodotto del lavoro in eccesso viene riacquistato e consumato dagli schiavi contenti di ciò. Schiavi ridotti ormai soltanto a contendere ai padroni, e a contendersi tra di loro, un ulteriore surplus di prodotto in cui affogare le proprie vite. Sia nei grandi centri commerciali o cittadini, sia nel mondo virtuale della new economy globalizzata.

Ci mostra Perlman una società che, convinta di essere creativa e fantasiosa, ha in realtà perso gran parte della creatività e della fantasia collettiva che avevano caratterizzato quelle legate alla Natura, finendo col produrre un immaginario individuale e collettivo sempre più miserabile e ristretto. Una società che ha chiamato “luce” la cecità e ha finito col definire ignoranza ogni forma di sapere e conoscenza precedente. Non c’è simpatia per il Rinascimento e i suoi “uomini” in Perlman e tanto meno ne avrebbe oggi nei confronti degli apprendisti scienziati-stregoni che si muovono autoritariamente intorno al Covid, più simili ai bianchi che distribuivano coperte infettate con il vaiolo tra i nativi americani che non ai medici che vorrebbero essere (almeno a parole).

Quello dell’autore americano è un discorso che stride e ancor più spesso urta con le nostre convinzioni, anche con quelle che si pensano più radicali, ma, sia ben chiaro, che non può essere nemmeno digerito in qualsiasi contesto new age o politically correct. E’ un discorso altro, non privo di debolezze intrinseche, ma con cui vale la pena di fare i conti. Anche oggi, mentre la vita viene pian piano spenta dal dio morto del denaro e del profitto. Così come in altre epoche gli dei vivi e vivaci, burloni, feroci e rissosi legati alla Natura furono sostituiti da un dio tetro e morto crocifisso.

Un Dio morto che proclamava «Io sono la vita e la luce» nello stesso momento in cui diffondeva la paura della vita e dei suoi istinti, per rimandare il tutto ad una vita incorporea dopo il buio della Morte della carne, unica vera depositaria della nostra vitalità materiale ed intellettiva.
Non sembri fuori luogo, a questo punto, contrapporre con insistenza Vita e Morte all’interno del discorso sull’evoluzione della società umana e delle sue istituzioni statali, poiché tra le fonti di ispirazione di Perlman vi è proprio l’opera di Norman Brown (La vita contro la morte) che ha segnato, insieme ad Eros e civiltà di Herbert Marcuse, il pensiero anti-repressivo degli anni Sessanta2.

Questa ricerca della vita spinse lo stesso Perlman non solo a girare il mondo in compagnia della moglie Lorraine Nybakken, attuale custode delle sue memorie e continuatrice della sua opera editoriale3, a caccia di esperienze e conoscenze, ma anche a far parte per un periodo del Living Theatre, durante il quale scrisse The New Freedom, Corporate Capitalism e la pièce teatrale dal titolo Plunder.

Ma Perlman fece anche parte del gruppo che fondò la Detroit Printing Co-op e le pubblicazioni della Black and Red, di cui fu l’editore, furono stampate lì, insieme ad altri progetti che andavano dai volantini ai giornali ai libri. Per diversi anni, Perlman fu membro degli Industrial Workers of the World e negli anni Settanta lavorò a diversi libri, sia originali che traduzioni, tra cui la Storia del movimento machnovista di Pëtr Andreevič Aršinov, La rivoluzione sconosciuta di Volin e testi di Jacques Camatte.

Contro la storia contro il Leviatano è un libro da leggere e meditare, anche nelle parti che meno potrebbero convincerci ad una prima lettura (e magari anche ad una seconda), che rivela un autore che forse varrebbe la pena di pubblicare in maniera più consistente anche qui da noi. Numerose sono infatti le sue opere derivate dalle esperienze colte nel suo girovagare e riflettere intorno al mondo e alla vita. Tra tutte, potrebbero essere di interesse per il pubblico italiano: La riproduzione della Vita Quotidiana (The reproduction of daily life,1969) e Il fascino ininterrotto del Nazionalismo (The continuing appeal of Nationalism, 1984), entrambe pubblicate in Italia per Chersi libri nel 2006 con il titolo L’eterna seduzione del nazionalismo. In particolare nella seconda l’autore sostiene che qualsiasi tipo da nazionalismo, sia di destra che di sinistra, è indirizzato al controllo della Natura e delle persone e destinato a sfociare, sia quand’è progressista che conservatore, nel razzismo, nella guerra e nel genocidio.


  1. Phileas Fogg è il protagonista del romanzo d’avventura Il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne.  

  2. Norman O. Brown, La vita contro la morte. Il significato psicoanalitico della storia, Adelphi, Milano 2002 (prima edizione italiana 1971)  

  3. Autrice anche della biografia del marito: Lorraine Perlman, Having Little Being Much. A Chronicle of Fredy Perlman Fifty Years’s, Black and Red, Detroit (Michigan) 1989.  

]]>
Dalla Narodnaja volja a Superman https://www.carmillaonline.com/2020/12/09/da-narodnaja-volja-a-superman/ Wed, 09 Dec 2020 22:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63788 di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il filisteo: lo Stato e l’Io». (Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!» (Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. [...]]]> di Sandro Moiso

Diego Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CZ) 2020, pp. 204, 14,00 euro

«Due sono le costruzioni cui più suinamente s’inchina il
filisteo: lo Stato e l’Io».
(Amadeo Bordiga, Superuomo ammosciati!)

«du sublime au ridicule il n’y a qu’un pas!»
(Napoleone Bonaparte)

L’ultima sulfurea, irriverente e, spesso, caustica fatica di Diego Gabutti, recentemente pubblicata da Rubbettino nella collana Zonafranca, potrebbe benissimo funzionare come corollario dell’ipotesi avanzata dallo storico e saggista Yuval Noah Harari nel suo testo “Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità” (Bompiani 2014), in cui si ipotizza che il motivo dell’affermazione della nostra specie sulle altre sia dovuto, sostanzialmente, alla capacità di produrre realtà intersoggettive, capaci di funzionare da collante per gruppi molto grandi di individui. Realtà “inventate”, cui solo gli uomini come specie possono credere (religione, denaro, Stato, diritto e diritti, solo per citarne alcune), ma che allo stesso tempo si sono trasformate in realtà oggettive o, almeno, in forze produttive reali.

Tema particolarmente caro ai redattori di Carmilla, quello dell’immaginario collettivamente condiviso costituisce un territorio troppo spesso relegato a fattore secondario dello sviluppo sociale e delle leggi che ne regolano il funzionamento. In ogni epoca storica e in ogni fase del cammino dell’Umanità. Una riduttivistica lettura in chiave volgarmente marxista ed economicistica l’ha infatti ridotto a mera sovrastruttura di una struttura portante basata su rapporti di produzione determinati esclusivamente dall’economia e dalla gestione delle necessità da questa pre-detefinite. Dimenticando che per far sì che queste strutture funzionino è necessario che il gruppo sociale ne condivida, intimamente e soggettivamente oltre che collettivamente, principi e finalità. E non dimenticando, neppure, che anche le necessità sono frutto non solo di bisogni materiali, ma anche di un immaginario condiviso.

E’ chiaro come al centro di questi principi condivisi risieda quello del potere e della sua gestione, sia esso di carattere monarchico o elettivo oppure ancora dittatoriale.
Problema non di certo recentissimo se si pensa che già, nel XVI secolo, Étienne de La Boétie poteva chiedersi:

Vorrei soltanto riuscire a comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni talvolta sopportino un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi stessi gli accordano, che ha la capacità di nuocere loro solo finché sono disposti a tollerarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero sopportarlo anziché opporglisi. E’ cosa veramente sorprendente – e pur tuttavia così comune che c’è più da dolersene che da stupirsene – vedere milioni di uomini miseramente asserviti, il collo piegato sotto il giogo, non perché costretti da una forza più grande ma soltanto, sembra, perché incantati e affascinati dal solo nome di uno di cui non dovrebbero temere la potenza […]1

Domanda e ipotesi poi rafforzata da David Hume che, nel 1741, nel suo saggio Sui primi principi del Governo, affermava:

Nulla appare più sorprendente, a chi consideri le cose umane con occhio filosofico, della facilità con cui i molti vengano governati dai pochi, e dell’implicita sottomissione con cui gli uomini rinunciano ai loro sentimenti e alle loro passioni per quelle dei loro governanti. Quando ci chiediamo attraverso quali mezzi si realizzi questo prodigio, troviamo che, essendo la forza sempre dalla parte di chi è governato, chi governa non ha nulla a proprio sostegno se non l’opinione. Pertanto è sull’opinione soltanto che si fonda il governo; e questo principio si estende tanto ai domini più dispotici e militari, come a quelli più liberi e popolari.2

Preludio, infine, a quello stato di minorità volontario di cui avrebbe parlato Immanuel Kant, nel suo Che cos’è l’Illuminismo?, circa quarant’anni dopo, nel 1784.
Mi scuso con i lettori, e con l’autore, per la lunga passeggiata tra i filosofi del XVI e XVIII secolo, ma questa era necessaria per ricollegare le osservazioni iniziali al libro di Gabutti di cui qui si parla, poiché l’autore riporta il problema all’interno dell’epoca moderna, con una lunga cavalcata che a partire dal Palais Royal di fine Settecento, passando per i nichilisti russi, Dostoevskij e Nietzsche giunge fino al ‘900 delle dittature, delle grandi utopie trasformate in incubi e, ancora, alla narrativa popolare di Edgar Rice Burroughs, creatore di Tarzan, ai fumetti della DC Comics con Batman e Superman a farla da padroni e, successivamente, a quelli degli Avengers e di Spiderman della Marvel.

Sono i due, tre secoli in cui è più forte la spinta verso l’affermazione della capacità del singolo individuo, o del manipolo di eroi (organizzati bolscevicamente in Partito oppure in banda dai poteri sovrumani) di cambiare il mondo, distruggendo quello che lo precede o già contiene oppure, molto più prosaicamente, riformarlo eliminandone i cattivi e gli indesiderati guastafeste (Batman contro il Joker, Lenin contro il capitalismo mondiale, Stalin contro gli anarchici e i fascisti, la Lorenzin, oggi Speranza, contro i NoVax, i fascisti e i populisti contro tutti).

E’ una lettura non priva di rischi quella che Gabutti propone al pubblico, ma, sicuramente adatta a vangare e a rivoltare un terreno troppo spesso ricoperto dalla melma dell’ideologia. Ideologia che, troppo spesso, è ancora figlia di una “Rivoluzione” borghese che ha promesso di cambiare radicalmente il mondo senza mai davvero volerlo o poterlo fare. Una promessa o una speranza riposta in individui, di cui i supereroi, buoni e cattivi, non sono altro che le proiezioni popolari e semplificate, che pur Amadeo Bordiga, nel testo citato in epigrafe aveva già liquidato quasi settant’anni fa.

Individui, comunque e sempre, dai ‘trogloditi’ russi3 a John Lennon4, inadatti a cavalcare i movimenti sociali, quasi sempre sotterranei e profondi, che li ispirano. Così, quello di mantenere le cose come sono, se non addirittura peggiorarle, attraverso la promessa di cambiarle per mezzo di un eroe e della sua volontà, rispettando naturalmente la volontà del popolo, è il prodotto di un’epoca, iniziata con l’avvento della macchina e del vapore, preludio di ogni altra energia a venire (da quella elettrica a quella nucleare), che hanno contribuito come pochi altri fattori a ridurre a scarto la volontà e la capacità d’azione dell’individuo. E che proprio di questa impotenza, individuale e collettiva, costituisce l’immagine specularmente rovesciata.

Ecco allora l’individuo, figlio del libero arbitrio cristiano e dell’illusione democratica liberale, che con la bomba e il terrore, oppure indossando le mutande sugli abiti, come ogni buon supereroe, si illude, ma soprattutto illude il singolo oppure le masse che la “libertà” (altro termine fantasmagorico) sia a portata di mano (oppure di pistola, di manganello, di coltellaccio da decapitazione, come negli horror movie prodotti dall’Isis, o qualsiasi altro strumento legato all’uso della forza).

Gabutti proprio non vorrebbe essere accostato ai marxisti (al massimo, ma con distaccata ironia, a Bordiga) eppure come non cogliere in una celebre lettera di Karl Marx a Kugelmann il principio e il motore delle sue riflessioni?

Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stato possibile solo perché non era ancora stata inventata la stampa. Proprio all’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno di quanti se ne potessero un tempo costruire in un secolo5

Peccato, ci sarebbe da aggiungere, che anche quello che dovrebbe essere l’affossatore “naturale” della classe al potere ci creda altrettanto e forse di più. In un’epoca in cui si sono aggiunti il cinema, la radio, i comics, la tv, internet, i social e tutti i loro infiniti derivati. La rivolta luddista corre nelle immagini della serie infinita di film dedicati a Terminator e Skynet e la paura delle macchine si ribalta, poi, ancora in fiducia nelle stesse e nel loro utile e sano uso per tramite delle app suggerite dal governo, sia per contrastare la diffusione del Covid che per il cashback e le sue lotterie natalizie. Così dal teatro pedagogico di Bertold Brecht si è passati alle influnencer “impegnate” alla Chiara Ferragni, ma in un’epoca di mass-media il passo tra i due è stato probabilmente sempre molto breve.

L’emancipazione femminile passa attraverso l’immagine di Uma Thurman di Kill Bill 1 e 2, ma resta pur sempre in mano ad Hollywood e al movimento MeToo che ne è scaturito. Spettacolo nello spettacolo e dello spettacolo. Così, mentre anche a Guy Debord sarebbe iniziata a girare la testa, il Superuomo o Übermensch oppure ancor la Superdonna ne sono il prodotto diretto, così come lo era la creatura di Victor Frankenstein all’epoca dalla prima rivoluzione industriale.

Se, come sottolineava già Pirandello, è la vita a copiare dal teatro oppure, come ci ricorda Gabutti, i poeti tragici vennero raffigurati, già ne Le rane di Aristofane, come educatori del popolo che tenevano alto il modello da ammirare:

Otto e Novecento sono secoli in cui fiction e realtà coincidono quasi del tutto.
E una vertigine. Oscar Wilde, gli anarchici con la fissa della dinamite, Huck Finn e Tom Sawyer, Giuseppe Garibaldi, gli apaches parigini e quelli della frontiera americana, la Regina Vittoria, Madama Butterfly e la Creatura del Barone Frankenstein, Sandokan, lo stesso Nietzsche prima e dopo l’incidente di Torino: quando non sono letterati, sono personaggi letterari, e quel che fanno e sempre e soltanto letteratura e intrattenimento. Showbiz… «è tutta industria dello spettacolo», dirà poi William Burroughs, dadaista pulp. Un utopista che sale al potere, come Lenin in Russia in che cosa si distingue da Fu Manchu, un personaggio immaginario che la vede come lui e che, nella finzione romanzesca e cinematografica, agisce esattamente come gli utopisti agiscono nella realtà storica (smontando e rimontando il giocattolo a molla delle società umane: più libertà, più libero arbitrio… no, meno, di più, così è troppo, così troppo poco)?6

Del superuomo, o più precisamente di chi passa per tale, o semplicemente si richiama a questa spettacolare figura della modernità, si continua naturalmente a parlare. Non si parla, anzi, quasi d’altro. Perché il superuomo non e soltanto, come a volte capita di pensare, una presenza fissa nel nostro immaginario («anche filosofico», aggiunge il pedante). Causa che s’autopromuove – attraverso il cinema, come attraverso la politica e le religioni, ma che conquista spazio e audience soprattutto attraverso la sua eccezionale e finora ineguagliata natura camaleontica, grazie cioè alla sua capacità d’incarnare contemporaneamente la Tecnica che divora il mondo e il suo contrario, cioè la guerra per mare e per terra alla riduzione della vita a incubo chapliniano-orwelliano – l’Übermensch è un’ombra a lato dello sguardo d’ogni nostra esperienza storica recente. E l’abisso che ci restituisce lo sguardo ogni volta che ci affacciamo incautamente nel vuoto. E il fantasma che, come nell’incipit d’un manifesto rivoluzionario old style, infesta il castello della Zivilisation.
Ma non ne sono piu invasati gli avventurieri letterari, come nella belle époque, quando nel calderone della radicalità ribollivano insieme il sesso e la politica, il misticismo e il materialismo, l’impassibilità nichilista, la rivoluzione socialista (o quella conservatrice) e la poesia sfrenata come una danza sufi. Romanzieri e filosofi, artisti e poeti, hanno superato indenni le prove infernali che il XX secolo ha imposto a tutti quanti, persino ai chierici che in genere sgusciano fuori vista quando le cose si fanno difficili, ma non hanno conservato il ruolo che avevano un tempo, quando gli amori di Lady Chatterley, gli inni londoniani al popolo dell’abisso, le imprese militari del Vate e quelle di Lawrence d’Arabia (la prima tarocca, la seconda non del tutto vera) galvanizzano il fan club del superuomo.
Tifosi del sesso libero, della bella morte, della rivoluzione purchessia, di destra o di sinistra è lo stesso, i tifosi dell’intellighenzia oltreumana e «immoralista», attivi soprattutto nell’interregno tra le due guerre mondiali, sciolgono le loro curve sud dell’apocalisse quando a nessuno è più possibile negare l’esistenza del lato oscuro e nichilista del tempo presente: una guerra terribile, uno spaventoso dopoguerra totalitario, seguito da un’altra guerra e da altre sventure. Succede esattamente come nei sixties americani dopo l’eccidio di Bel Air da parte della Famiglia Manson, ala satanista della controcultura. Niente più fiori nei capelli, basta con le svenevolezze e d’ora in avanti, ai concerti rock, nessuno si metta più nudo: prudenza.
E’ il momento in cui l’uomo potenziato, sospettando d’averla fatta troppo grossa, entra prudentemente (anche lui) in clandestinità, come se temesse le torce e i forconi degli abitanti del villaggio planetario, che da un momento all’altro, pensa, potrebbero decidere di dargli la caccia come a una Creatura delle dimensioni del Leviatano di Hobbes, o di Godzilla. Circospetto, sguardo a destra, sguardo a sinistra, questo Übermensch inesistente, simile per consistenza al cavaliere d’Italo Calvino, lascia la copertura metafisica (chiamiamola cosi) e si trasforma, per istinto di conservazione, in un personaggio immaginario, eroe e antieroe dei fumetti, del cinema, dei tabloid. Ma e una precauzione inutile, data la sua natura illusoria7.

Si avvicina Natale e il governicchio dei super-omuncoli vi costringerà a rimanere chiusi in casa più del dovuto e più di quanto vi sareste aspettati. Già solo per questo motivo il libro di Gabutti potrebbe rivelarsi una lettura provocatoria, intelligente e divertente, per sfuggire alle maglie di un quotidiano ormai profondamente addomesticato in ogni sua espressione. Una riflessione destinata, infine, a suggerire come la linea che divide l’utopia dalla distopia e la Storia dalla commedia o da un horror movie sia, quasi sempre, molto sottile.

«Non sono un socialista, sono un furfante» (Pëtr Stepanovič Verchovenskij, I demoni)

«Diventammo sovversivi perché eravamo delinquenti potenziali. Fummo rivoluzionari perché non avremmo potuto essere altro. Inutile raccontarsela o raccontarla diversamente. La coscienza venne dopo. Più tardi. Dopo innumerevoli errori e pratiche irridenti e folli. Alla faccia di qualsiasi ortodossia marxista. Sempre e soltanto pretesa e mai realmente efficace» (S. M., L’estate del 1964 o giù di lì e oltre)


  1. É. De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1576), Edizioni Il Foglio, Milano 2018, p. 4  

  2. D. Hume, Essays, Literary, Moral and Political, ora citato in Murray N.Rothbard, Il pensiero politico di Étienne de La Boétie, Introduzione a É. De La Boétie, op. cit., p. XXXIX  

  3. Come «fu battezzato un piccolo gruppo di giovani rivoluzionari della capitale che si distingueva per il fatto che nessun estraneo sapeva dove abitassero e sotto che nome vivessero. Perciò si disse che avevano trovato rifugio in segrete caverne», secondo Franco Venturi nel suo libro Il populismo russo, Einaudi, Torino 1972  

  4. Übermensch involontario, al quale oggi, in occasione del quarantesimo anniversario della morte, i tg italiani attribuiscono la formazione dei movimenti pacifisti grazie alle sue canzoni Imagine e Give Peace a Chance  

  5. K. Marx, Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma 1976, lettera del 27 luglio 1871, 173  

  6. D. Gabutti, Superuomo, ammosciati. Da Nietzsche a Tarzan, da Napoleone agli Avengers: la fabbrica dell’Übermensch, pp. 96-97  

  7. D. Gabutti, op.cit., pp. 111-113  

]]>
Praticare la pigrizia (con impegno) https://www.carmillaonline.com/2020/05/21/praticare-la-pigrizia-con-impegno/ Thu, 21 May 2020 21:00:47 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60120 di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un [...]]]> di Gioacchino Toni

Gianfranco Marrone, La fatica di essere pigri, Raffaello Cortina Editore, Milano 2020, pp. 168, € 14.00

In un’epoca che glorifica incessantemente la prestazione, riempiendo ogni momento della nostra vita di gesti carichi di necessità produttive, non far nulla è tutt’altro che evidente. Per questo va perseguito, rivendicato come un diritto, praticato come esercizio di libertà. Gianfranco Marrone

Mentre esistono numerose storie del lavoro, pare non ve ne siano della pigrizia. Senza avere l’ambizione di porre rimedio a tale mancanza, Gianfranco Marrone ha il merito di compiere un excursus su una tematica tanto vasta quanto insufficientemente trattata, realizzando un libro godibile ove: passa in rassegna le modalità con cui si è guardato alla pigrizia nel corso del tempo; opera una ricostruzione semantica del termine pigrizia indagandone derivati, sinonimi e contrari in diverse lingue e culture; prende in esame detti, proverbi, fiabe e romanzi (soprattutto russi) che fanno rigerimento alla pigrizia; si sofferma sul personaggio di Oblòmov di Ivan Aleksandrovič Gončarov e su quello di Bartleby di Herman Melville; esamina la figura del pigro nei fumetti prestando particolare attenzione a Paperino di Disney e a Snoopy dei Peanuts; riflette, infine, su alcune affermazioni di Roland Barthes a proposito della pigrizia.

La pigrizia, sostiene Marrone, non è la manifestazione di un carattere individuale ma un sentimento collettivo, una forma di vita che tendenzialmente si manifesta in reazione – per opposizione o per sottrazione – a quei contesti sociali e culturali in cui il sistema di valori esalta l’operosità, il lavoro, il fare. «Poltrire è rifiutare di agire, considerare l’inazione un obiettivo esistenziale, per resistere a chi vorrebbe farci lavorare, per protestare contro ogni forma di insensato stakanovismo.» (p. 13) Lungi dal “non far nulla”; il pigro si trova a compiere ogni sforzo necessario per riuscire in questo suo intento.

Solitamente a essere contrapposto al lavoro e alle sue retoriche è l’ozio e non la pigrizia. Anche se quest’ultima non se ne allontana granché, resta comunque differente; per certi versi ne consegue e per altri lo anticipa. A seconda di come storicamente è stato concepito il lavoro è stato inteso l’ozio.

Bertrand Russell nel suo “Elogio dell’ozio” (1932) prende di mira l’etica di matrice protestante che indica nel lavoro un dovere sociale denunciando come in ciò sia sottesa  una volontà di sfruttamento e polemizza nei confronti della stessa Russia comunista rea di aver ereditato dal capitalismo occidentale l’etica dell’operosità e dello spirito di sacrificio come realizzazione di sé e non come strumento per guadagnarsi da vivere. Soddisfatti i bisogni indispensabili, sarebbe auspicabile, sostiene Russell, una generalizzata riduzione dell’orario dedicato al lavoro. In linea con una tradizione di pensatori anglosassoni che si confrontano con i disastri dell’industrializzazione, secondo il filosofo inglese è attraverso l’ozio che si possono affermare altre forme di necessità indirizzare alla joie de vivre.

Secondo diverse sfaccettature, apologie dell’ozio si ritrovano in Robert L. Stevenson, Oscar Wilde, Jerome K. Jerome e Gilbert K. Chesterton ma, più in generale, la valorizzazione dell’inoperosità non può essere ricondotta esclusivamente all’ascesa dell’industrialismo. Nella Bibbia il lavoro è una maledizione divina derivata da quel peccato originale che, nel testo sacro, inaugura l’ingiustizia di genere (il dominio dell’uomo sulla donna), quella di specie (il privilegio umano sul resto del creato) e quella sociale (la necessità di ricorrere al lavoro finirà per non riguardare tutti allo stesso modo).

Nell’antichità al negotium si oppone l’otium aristocratico e a proposito delle modalità con cui vengono attribuiti valori o disvalori all’ozio, Marrone passa velocemente in rassegna le posizioni di Cicerone, Orazio, Seneca e Tacito. In ambito cristiano al lavoro come marchio d’infamia si è presto sostituita l’idea del lavoro come rifugio dalle tentazioni prodotte dall’ozio: è qua che trova la sua codifica, pur riprendendo alcuni elementi dalla tradizione greca, la colpa di accidia propria della cultura cristiana.

Se nel contesto medievale l’inattività resta un segno di distinzione sociale, progressivamente il lavoro cambia statuto tanto da necessitare di una nuova definizione e rivalutazione. Di come intendere l’operosità e l’ozio si occupano anche i propugnatori della Riforma protestante e i filosofi dell’utopia come Moro e Campanella. Con l’Illuminismo e la Rivoluzione francese vengono presi di mira tanto i privilegi degli inoperosi aristocratici quanto coloro che intendono imitarli

«Lavorare è produrre, mettere in circolazione nuove cose, migliorando le condizioni di vita sulla terra senza attendere l’intervento risolutore dell’aldilà. Come diranno gli economisti, il lavoro è strumento di produzione ma anche, e soprattutto, origine del valore dei prodotti, ossia loro trasformazione in merce.» (pp. 28-29) É con la modernità che il lavoro assume stabilmente lo statuto di valore e di pari passo l’ozio diviene un malcostume che, suggerisce lo studioso, altro non è che una forma di accidia secolarizzata: un peccato mortale trasformatosi in disobbedienza civile. Interi sistemi educativi e teorizzazioni economiche e politiche si preoccupano di esaltare l’attivismo in quanto produttore di valore (e valore esso stesso) e di diffondere rancore e condanna verso tale accidia laicizzata. La stessa psichiatria, ricorda Marrone, si presta con solerzia alla medicalizzazione della pigrizia designandola come malattia da curare.

Già Rousseau, nel sottolineare come l’ineguaglianza degli esseri umani derivi dalla divisione sociale del lavoro e dal progresso della civiltà, esalta l’individuo non ancora “civilizzato” in quanto privo delle angosce dell’operosità. Contro le tesi espresse da Charles Fourier, circa la necessità di trasfigurare il lavoro in piacere, di fare del godimento il fine del lavoro, prende posizione Marx che, anziché preoccuparsi della diminuzione delle ore di lavoro (come fa Russell), si pone il problema di porre fine all’opposizione lavoro/riposo, fatica/svago, in modo da eliminare l’alienazione e permettere all’essere umano di «affermarsi come essere sociale libero e sicuro di sé grazie alla propria attività lavorativa». (p. 33)

Agli slogan inneggianti al diritto al lavoro, Paul Lafargue risponde con Il diritto alla pigrizia (1883): proclamare il diritto dell’essere umano al lavoro significa introiettare l’ingannevole morale diffusa e proposta come universale dal cristianesimo e dal capitalismo. «Che vi sia l’obbligo di lavorare solo tre ore al giorno, di fannullare e di fare bisboccia per il resto della giornata e della notte». I lavoratori, sostiene Lafargue, dovrebbero fare propria la pigrizia che contraddistingue la borghesia e la loro voracità consumistica: il lavoro, in sostanza, deve essere proibito, non imposto o autoimposto.

Le cose, sappiamo, sono andate diversamente da come auspicato: il lavoro non è diminuito, il consumo è divenuto un obbligo sociale e la ricchezza ha finito per concentrarsi sempre più nelle mani di pochi. Non è andata meglio all’idea marxiana circa la necessità di porre fine all’opposizione fra lavoro e tempo libero: tutto si è trasformato in lavoro, anche lo spazio del leisure. Negli sviluppi successivi del sistema capitalista si è giunti a una società dei consumi in cui a produrre identità è l’atto stesso del consumo. Il loisir, la bisboccia, il tempo libero hanno finito per coincidere con il consumo e con il lavoro.

Il fancazzismo non è (più) l’esito triste della disoccupazione, una condizione che occorre necessariamente subire, ma un modo d’essere morale e civile rivendicato come una soluzione possibile, nemmeno così angosciosa. E la pigrizia, tutt’altro che diritto condiviso, diviene rivoluzionaria. O almeno da molti viene considerata tale. Da un altro lato, però, quella che è stata chiamata società della prestazione continua risucchiare al suo interno qualsiasi forma di attività, lavorativa o ricreativa. (pp. 39-40)

Marrone puntualizza come concetti come lavoro, ozio e pigrizia necessitino di una contestualizzazione culturale, oltre che storica: non in tutte le culture operosità e inoperosità assumono lo stesso valore, così come gli stessi concetti di progresso, tempo libero, sussistenza e opulenza non vengono significati nello stesso modo. A riprova di ciò lo studioso si sofferma su un paio di casi derivati da culture non occidentali.

Kenkō Yoshida in Tsurezuregusa (Ore d’ozio o Momenti d’ozio, 1330-1332) non contrappone l’ozio al lavoro o al negotium ma alla noia della quotidianità, esplicitando così un rifiuto per la società vissuto dall’interno. Lin Yutang, nel suo Importanza di vivere (1937), confronta il tradizionale distacco dalle cose terrene della cultura cinese con l’american way of life palesando come l’ozio nella prima venga vissuto, ben diversamente che in Occidente, come vivere alternativo al fare; non si tratta di una contrapposizione a un mondo su cui si vuole incidere ma di una particolare immersione in esso per coglierne le potenzialità.

Nel passare in rassegna le definizioni di pigro e pigrizia proposte dai dizionari, Marrone si sofferma su alcune dimensioni che vi si ritrovano: “estesica” (la pigrizia viene associata con la mancanza efficienza, con la lentezza, il torpore); passionale (il pigro è svogliato, indolente, apatico); cognitiva (la pigrizia ha a che fare con la mancanza di volontà, curiosità e interesse); pragmatica (pur essendo lento, apatico e svogliato, il pigro è tutt’altro che inoperoso: egli fa di tutto per non far nulla. Il pigro, pur scansando il lavoro, è a suo modo un gran lavoratore).

Il pigro, che può anche manifestarsi come attore collettivo, non fa quello che gli altri si aspettano da lui, non adempie agli impegni e ai doveri che la società gli impone rinnegando così il suo essere sociale. A scontrarsi sono due sistemi morali: l’azione di resistenza dispiegata dal pigro attraverso il suo non-voler-fare e non-voler-essere nei confronti della società del dover-fare e del dover-essere, «è tanto più potente quanto più è legata alla coscienza dei valori sociali cui egli si sta opponendo, del lavoro che sta a tutti i costi evitando» (p. 62).

Stando ai dizionari, rispetto alla pigrizia, l’ozio sembra aver più a che fare con una chiusura in se stessi che non con una resistenza ai doveri sociali. A differenza dei termini pigrizia e pigro, ozio indica tanto una “condizione”, una “disposizione” d’animo che un lasso di tempo (“prendersi un periodo di ozio”). L’ozio è indicato, inoltre, come inclinazione posseduta dal soggetto prima di ogni situazione intersoggettiva o tendenza sociale che rimanda alla ricerca indiscriminata del piacere che non può che condurre alla dissolutezza. Il termine può riferirsi anche all’inattività e all’inoperosità imposte dall’esterno a scopo punitivo, come nel caso della prigionia, oppure, in accezione positiva, a una situazione di inoperosità vacanziera.

Nel caso del termine accidia, i primi riferimenti proposti dai dizionari rimandano al peccato capitale, pertanto, in questo caso, l’indolenza non è rivolta ai doveri sociali e agli impegni intersoggettivi ma piuttosto al bene nella sua accezione etico-religiosa. A differenza dell’ozio, che può essere circoscritto a un periodo limitato (assumendo valore negativo o positivo a seconda dei casi), l’accidia, il disinteresse per il fare il bene, non è circoscritta nel tempo.

Prendendo in esame il folklore europeo, Marrone nota come questo sia intessuto di disapprovazione nei confronti della pigrizia. Nei modi di dire e nei proverbi, risulta evidente un’inclinazione moralistica volta a ribadire le conseguenze nefaste dell’inoperosità. D’altra parte, si tratta di massime scaturite da un universo contadino che percepisce il lavoro come strumento indispensabile al proprio sostentamento quotidiano, come destino indiscutibile e il sottrarsi a esso comporta sicura sciagura. Al di là delle convinzioni calviniste e dell’efficientismo capitalistico, anche il mondo delle fiabe, soprattutto russe,  è attraversato da un’ideologia utilitarista votata all’operosità in cui si sostiene l’idea di un’esistenza votata alla realizzazione di sé attraverso il buon superamento delle prove che la vita presenta.

In risposta all’ideologia fattiva e avventuriera della fiaba russa il saggio di Morrone propone un approfondimento dell’Oblòmov di Gončarov che rappresenta la rivincita di «chi non si limita a opporre una pigrizia positiva al dinamismo negativo, ma decostruisce pezzo per pezzo l’ideologia su cui tale attivismo si appoggia, mostrandone i limiti, la violenza costitutiva, la malafede» (p. 84). Il protagonista del romanzo di Gončarov non intende sostituire il sistema valoriale con un altro; semplicemente, e radicalmente, si limita a decostruire quello esistente. «È qualcuno che, conservando strenuamente i propri spazi di felicità, ha additato la banalità del fare. La sua è una pigrizia fattiva, una malinconia euforica, una nostalgia del futuro.» (p. 108)

Se di Oblòmov il lettore finisce per conoscere parecchio della sua complessa interiorità, non altrettanto si può dire di Bartleby di Melville, personaggio che non palesa alcuna volontà di non-fare; semplicemente esprime una preferenza: «I would prefer not to». Si tratta di un grado debole di volontà che lascia il lettore di fronte alla sua testarda indeterminatezza che però non cela alcun mistero. Ed è proprio l’assenza di una motivazione profonda ad affascinare e inquietare.

Ecco una nuova versione politica della pigrizia: non, alla Lafargue, la rivendicazione di un programmatico non-lavoro di contro al lavoro alienato del modo di produzione capitalistico, né il dolce far niente di chi del lavoro se ne infischia perché non ha bisogno, né, ancora, l’idea di un ozio creativo di contro al fare meccanico della modernità. Nulla di radicalmente oppositivo, insomma. Nessun volere, nessun controvolere. Piuttosto, l’esasperazione estrema di una preferenza tanto irragionevole quanto caparbia, di un progressivo ritiro dalle cose del mondo, dai suoi valori, dalle sue necessità e dai suoi piaceri. Non è pigrizia? Probabilmente no: è più che altro desiderio di santità, di ascesa all’ascesi, condotta angelica, emulazione di Cristo. Ma comunque, sotto sotto, alla pigrizia assomiglia parecchio. (pp. 111-112)

Nell’esaminare la figura del pigro nei fumetti – Arcibaldo, Mafalda, Garfield, Andy Capp, Homer Simpson… –, Marrone si concentra sulle specificità della pigrizia di Paperino, ben diversa da quella di altri personaggi disneyani, e su quella di Snoopy. Paperino è un pigro che, pur detestando il lavoro, nelle sue storie non fa altro che lavorare nella speranza di poter tornare alla sua amata amaca. «Il riposo è l’oggetto di valore, l’oggetto cercato o al quale vuol tornare; il lavoro lo strumento per ottenerlo, per tornarvi.» (p. 126)

Se per Paperino la pigrizia è un traguardo o un gesto di resistenza rispetto a chi intende farlo lavorare, per Snoopy è invece uno stato acquisito. Il personaggio di Charles Monroe Schulz poltrisce e basta, non ha doveri da scansare, è un pigro puro che avendo tanto tempo a disposizione lo impiega fantasticando: la sua pigrizia risulta produttiva, stimola l’immaginazione che lo porta a vivere mille vite attraverso meccanismi di assimilazione e identificazione. «Né apocalittico né integrato. Forse eroe decadente, ma – inaspettata forma di pigrizia – con lo sguardo rivolto al futuro.» (p. 140)

Nell’ultima parte del volume, Marrone riprende alcune riflessioni di Roland Barthes in cui passa in rassegna varie forme di pigrizia. Secondo il francese il tempo libero non può essere visto come vera e propria pigrizia, come ozio, in quanto esso presuppone il tempo del lavoro. Pigrizia e ozio dovrebbero esser sganciati da ogni presupposizione sociale. «Per ritrovare la pigrizia occorre piuttosto fuoriuscire dalla coercizione del tempo libero, e prospettare un tempo neutro e un’attività a sé stante: […] “a meno che – precisa Barthes – non si sia presi dal desiderio di finire il lavoro”» (pp. 146).

Il francese propone l’esempio del lavoro a maglia nel suo darsi come gesto puramente intransitivo. Altro esempio di pigrizia riuscita è, secondo Barthes, il restare al letto dopo essersi svegliati senza giustificazione, nemmeno di tipo fisiologico. In alternativa a queste pratiche antisociali si può pensare a uno sconvolgimento quotidiano del ritmo dell’esistenza, al frantumare il flusso abituale del tempo attraverso diversivi del tutto gratuiti, improduttivi.

Tuttavia, una per una vera e propria pigrizia, secondo l’autore di Miti d’oggi, ci si potrebbe rifare allo Zen, al suo mirare al dissolvimento del soggetto. «Nella pigrizia, ci dice lo Zen, non c’è più il conflitto perché spariscono, prima ancora che le ragioni del contendere, i soggetti stessi che dovrebbero contendersele» (pp. 148-149). O ancora, continua il francese, per innescare una pigrizia risuscita, si potrebbe ricorrere alla via letteraria: legare il non far nulla alla pratica della scrittura, sul modello di Marcel Proust.

«Essere pigri, secondo questa prospettiva, è appunto, per riprendere la metafora proustiana, essere come la madeleine che si disgrega lentamente nella bocca, che, in quel momento, è pigra. Il soggetto si lascia disgregare dal ricordo, ed è pigro. Se non lo fosse ritroverebbe una memoria volontaria» (p. 149). Da questo punto di vista, la pigrizia durerebbe il tempo della preparazione del romanzo, poi, a questa, succede il tempo della scrittura, del lavoro e lì la pigrizia è obbligata a farsi da parte.

A  proposito di ozio e pigrizia, in conclusione vale la pena far riferimento a un bel saggio di Pablo Echaurren (Duchamp politique, Postmedia Books 2019) dedicato all’artista francese in cui l’autore argomenta come l’ozio praticato da Duchamp sia interpretabile come forma elaborata di rifiuto del lavoro e di rigetto della società capitalistica. Attraverso il suo oziare, appartarsi dalla scena artistico-mediatica, rifugiarsi nel gioco degli scacchi, Duchamp opera una rivolta nei confronti dell’accumulazione. La sua proverbiale inoperosità non è però fine a se stessa ma coincide con la critica di un modus operandi, di un amore per il lavoro che ha intaccato anche il mondo dell’arte, ormai pienamente compromesso con i processi di ottimizzazione tayloristi votati al denaro e a ciò il francese risponde con la sua inoperosità. «Preferisco vivere, respirare piuttosto che lavorare».

Insomma, a maggior ragione in questi tempi di pandemia, in un contesto in cui mentre vengono mandate sugli schermi personalità dello spettacolo per invitare la gente a restare chiusa in casa per evitare il contagio, solerti capitani d’impresa richiamano la nazione al posto di lavoro, sottrarsi alla società della prestazione è un lavoraccio che forse vale la pena di fare con impegno.

]]>
Le grandi battaglie di un piccolo uomo* https://www.carmillaonline.com/2020/02/12/le-grandi-battaglie-di-un-piccolo-uomo/ Wed, 12 Feb 2020 22:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57920 di Sandro Moiso

Marcus Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera editrice 2019, pp. 264, 18,00 euro

In questi magri tempi di pesci in barile, citofoni e personaggi che fanno bella mostra di sé in Tv senza aver nulla da dire, il libro pubblicato da éleuthera potrebbe rivelarsi come un’autentica benedizione per chiunque, come il sottoscritto, abbia soltanto voglia di riscrivere i primi versi di S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri (qui) attualizzandoli.

Benedizione, non soltanto per la grandezza e l’incorruttibile determinazione del personaggio narrato, ma anche perché il testo smonta la fake news più diffusa dalla storiografia [...]]]> di Sandro Moiso

Marcus Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera editrice 2019, pp. 264, 18,00 euro

In questi magri tempi di pesci in barile, citofoni e personaggi che fanno bella mostra di sé in Tv senza aver nulla da dire, il libro pubblicato da éleuthera potrebbe rivelarsi come un’autentica benedizione per chiunque, come il sottoscritto, abbia soltanto voglia di riscrivere i primi versi di S’i’ fosse foco di Cecco Angiolieri (qui) attualizzandoli.

Benedizione, non soltanto per la grandezza e l’incorruttibile determinazione del personaggio narrato, ma anche perché il testo smonta la fake news più diffusa dalla storiografia e dall’ideologia dominante ovvero che siano stati il liberalismo democratico borghese e la sua variante illuminista i due principali motori della liberazione della specie a cavallo della modernità industriale e coloniale.

Marcus Rediker, che insegna Storia Atlantica presso la Pittsburgh University ed è Senior Research Fellow al Collège d’études mondiales / Fondation Maison des Sciences de l’homme di Parigi, da anni ha rivolto i suoi studi alla storia della pirateria atlantica e a quella della tratta degli schiavi attraverso lo stesso oceano. In entrambi i casi il punto di vista che egli ha assunto, sia che si tratti di ricostruire l’utopia pirata delle comunità di bucanieri e corsari che si svilupparono tra il XVII e il XVIII secolo nelle isole al largo del continente americano o di quello africano, sia che si tratti di ricostruire le forme e le tecniche di quell’autentica tratta di carne umana su cui si è fondata la nascita del moderno capitalismo, è sempre quello dei ribelli, di ogni colore e genere, che si sono rivoltati contro l’ordine aristocratico, borghese e razzista che ha tenuto a battesimo la società di cui solo adesso iniziamo a comprendere davvero tutte le conseguenze e tutti gli “splendori”1.

Il 19 settembre 1738 Benjamin Lay entrò con passo deciso nell’Assemblea annuale dei quaccheri di Philadelphia. Per arrivarci aveva intrapreso un viaggio a piedi di cinquanta chilometri, nutrendosi soltanto di pesche e ghiande. Quando prese la parola

si rivolse ai «maggiorenti quaccheri» lì presenti, molti dei quali proprietari di schiavi. In Pennsylvania e nel NewJersey i quaccheri si erano arricchiti con il commercio atlantico e molti erano compratori di merce umana. Davanti a un tale consesso Benjamin lanciò la sua agghiacciante profezia, annunciando con voce stentorea che agli occhi di Dio onnipotente ogni essere umano ha pari dignità: i ricchi e i poveri, gli uomini e le donne, i bianchi e i neri. Dichiarò poi che non esiste peccato paragonabile a quello del possesso di schiavi, ponendo a tutti la seguente domanda: come possono persone che professano la Bibbia tenere in catene i propri simili? Infine si levò il cappotto rivelando ai correligionari attoniti la tenuta militare, la spada e il libro. Un mormorio allarmato riempì la sala. In un crescendo di emozione, il profetà proclanò a gran voce la sua sentenza: «Così Dio verserà il sangue di chi riduce in schiavitù suo fratello». Sguainò la spada, sollevò il libro in aria e lo trapassò con la lama. I presenti sussultarono vedendo il fiotto di liquido scarlatto che gli scorreva lungo il braccio; molte donne svennero. Nello shock generale, Benjamin asperse con il «sangue» le teste e i corpi dei proprietari di schiavi, ai quali profetizzò un futuro violento e oscuro: i quaccheri che non avessero prestato ascolto all’avvertimento del profeta sarebbero andati incontro alla morte fisica, morale e spirituale […] Molti quaccheri circondarono il soldato armato di Dio, lo sollevarono2 e lo trascinarono fuori dall’edificio. Benjamin non oppose resistenza. Ciò che doveva dire l’aveva detto. E grazie al suo intervento niente poteva tornare alla «ordinaria amministrazione» fintanto che i quaccheri si fossero ostinati a tenere schiavi. I suoi fratelli e sorelle avevano stretto un patto col demonio, perciò lui aveva usato il proprio corpo per sovvertire le loro routine pie e ipocrite.
Quella spettacolare performance profetica fu solo un esempio tra i tanti del suo «teatro di guerriglia». A più riprese Benjamin mise in scena l’ingiustizia che si era insediata nel mondo3.

La bellezza e l’importanza del testo di Rediker sta tutta nell’aver saputo narrare con passione e attenta ricostruzione storica le vicende e il coraggio di un piccolo “grande” uomo che di fatto fu in assoluto il primo abolizionista a lottare contro la schiavitù. In un paese che avrebbe ancora impiegato quasi centotrent’anni a dichiararla abolita (e soltanto per contingenze di guerra)4.
Un uomo di umilissime origini e di non grande cultura che doveva aver provato sul proprio corpo cosa significava davvero la parola esclusione. Anche in un contesto, oggi spesso citato come esempio di pacifica convivenza, come quello dei quaccheri della Pennsylvania.

Smonta parecchi miti il testo di Rediker e lo fa senza per forza affrontarli direttamente, ma piuttosto attraverso la narrazione, a tratti drammatica e a tratti degna di una commedia o del teatro di guerriglia (di cui Lay è stato sicuramente uno dei primi esponenti), della lunga battaglia condotta dal suo protagonista. Contro una schiavitù che vede nella segregazione razziale, sempre negata negli ultimi decenni a livello ufficiale ma pur sempre attiva nei fatti (e non solo negli Stati Uniti), la continuazione di quelle origini che non hanno mai smesso di minare dall’interno la leggenda aurea della democrazia occidentale. Fin dalla sua rivoluzione fondatrice, quella francese, che non ha mai smesso di portare in sé l’antico gene del razzismo e della superiorità di una razza sulle altre5. Di una classe sociale sulle altre, di un genere sugli altri e di una specie su tutte le altre e sull’ambiente.

E proprio Benjamin Lay si rivelerà essere, per tutti coloro che avranno la fortuna di leggere questo libro, un campione della battaglia contro tutte le discriminazioni, poiché nessuna di esse può eluderne un’altra, come invece vorrebbero gli attuali miserabili rappresentanti della democrazia per fasce culturali, etniche, di classe, di genere o di età. Lontanissimi da quella pratica del dire la verità, anche a costo delle più crudeli conseguenze per chi osa affermarla, che accomuna invece il “piccolo” Lay ai grandi difensori della pratica della parresia, nell’antica Grecia e nel mondo contemporaneo6.

* Dedicato a Nicoletta Dosio e a tutti coloro che per “dire la verità” ancora oggi accettano coraggiosamente di affrontare la repressione e il carcere.


  1. Tra le sue opere principali si vedano: M. Rediker – P.Linebaugh, I ribelli dell’Atlantico, Feltrinelli 2004; M. Rediker, Sulle tracce dei pirati, Piemme 1996; La ribellione dell’Amistad, Feltrinelli 2013 e, ancora, Canaglie di tutto il mondo. L’epoca d’oro della pirateria, éleuthera 2005  

  2. Cosa non difficile considerato che Benjamin era affetto da nanismo e alto non più di un metro e venti  

  3. M. Rediker, Il piantagrane: storia di Benjamin Lay, éleuthera 2019, pp. 8-9  

  4. A differenza di quanto molti ancora credono, la guerra civile americana non scoppiò affatto per liberare gli schiavi del Sud e fu soltanto nel 1863 che Lincoln emanò il decreto per l’abolizione della schiavitù, nella speranza di risollevare le condizioni militari del Nord grazie ad un’eventuale sollevazione degli schiavi neri delle piantagioni. Sollevazione che non ci fu comunque. Anzi, proprio come si narra nel libro The Free State of Jones di Victoria E. Bynum (pubblicato in Italia da Piemme nel 2016) e da cui è stato tratto nel 2016 l’omonimo film di Gary Ross, l’illusione della pacifica convivenza tra ex-schiavi e bianchi poveri durò appena lo spazio di un mattino e si risolse in esperimenti locali tutti destinati a finire con la guerra. Rifiutati sia dai rappresentanti militari e politici del Nord quanto dai rappresentanti del Partito Democratico del Sud, subito dopo la fine, e spesso durante, del conflitto.  

  5. Si veda in proposito la bellissima trilogia di Madison Stuart Bell dedicata alle vicende della rivolta degli schiavi di Haiti durante la rivoluzione francese e alla vita di Toussaint L’Ouverture, che la condusse: Quando le anime si sollevano (All Souls’Rising, 1995 – ed. italiana Instar libri 1999); Il signore dei crocevia (Master of Crossroads, 2000 – Alet 2000) e Il Napoleone nero (The Stone That the Builder Refuse, 2004 -Alet 2008). In assoluto, pur nella sua forma di romanzo, una delle migliori ricostruzioni di quella rivolta e, soprattutto, della falsità del dettato storico sulla rivoluzione borghese e le sue istanze di Liberté, Égalité, Fraternité  

  6. Sul tema della parresia si veda Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma 2019  

]]>
Il grande nulla * https://www.carmillaonline.com/2020/02/04/il-grande-nulla/ Tue, 04 Feb 2020 22:01:53 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57755 di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E proceder il chiami. (La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e [...]]]> di Sandro Moiso

Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
(La ginestra – Giacomo Leopardi)

Mentre tutto il mondo sta bruciando, sia metaforicamente nelle lotte diffusesi su scala globale nel corso degli ultimi mesi sia materialmente dall’Australia all’Indonesia passando per le Canarie a causa degli incendi che stano devastando ogni angolo del pianeta, qui nel paese del grande nulla, dove il fascismo è nato e non è mai morto, l’informazione mainstream, le frange superstiti di partiti ormai morti o in via di estinzione e anche alcuni siti che si vorrebbero antagonisti hanno esultato per la vittoria elettorale dell’”antifascismo”.
Una sorta di rivincita da campionato regionale su un avversario (le cui miserabili imprese politiche ed iniziative securitarie sono state già abbondantemente raccontate e vivisezionate sulle pagine di Carmilla da Alessandra Daniele) che come tattica elettorale, oltre al discorso securitario cucinato in ogni possibile salsa, ha avuto quella di baciare salumi e formaggi e andare a suonare i citofoni degli stabili di periferia, come un monello destinato prima o poi ad essere preso a sberle da qualche inquilino indispettito.

Ma si gongola anche qui e là per la vittoria del rappresentante di un partito che da anni ha fatto del mantenimento dell’ordine pubblico e della stabilità finanziaria la sua unica ragione di vita (e che senza vergogna sta al governo con chi ha precedentemente avvallato tutte le mosse di cui oggi il leader della destra è accusato). Si festeggia, inoltre, la scomparsa di un movimento (fondato da un comico e finito in farsa) nel quale molti dei critici odierni avevano precedentemente creduto, rivelando così, complessivamente, una cecità politica e una visione perbenista della realtà che non sa più assolutamente distinguere il grano dalla pula, la realtà dalla fantasia, il risotto dalla merda e, soprattutto, ciò che serve a liberare il pianeta e la specie dall’oppressione del modo di produzione più vorace e distruttivo che sia mai esistito.

Sì, cari lettori e compagni, perché ancora una volta non è stato l’antifascismo a vincere. Quello è stato sapientemente sbandierato da sardine e soci soltanto per nascondere il fatto che la scelta elettorale era tutta all’interno dello stesso campo.
Il campo giustizialista e securitario di chi suona ai citofoni e minaccia i migranti e quello di chi chiede un’identità digitale per accedere ai social e il daspo per chi non rispetta le regole del dialogo civile definite dall’ordine borghese.
Il campo della violenza organizzata delle squadre fasciste e delle ronde anti-migranti e della violenza di Stato che garantisce il dis/ordine pubblico nelle piazze e nei centri di detenzione attraverso la militarizzazione dei territori e del tessuto urbano.
Il campo della “giustizia” che reprime i sindacati di base e i lavoratori in lotta, i difensori della terra e delle comunità locali e sulla quale gli “antifascisti” vincitori non hanno nulla da dire, ma con il quale hanno molto da condividere (scusate se non ricordo, ma chi era il sindaco di Bologna definito lo sceriffo e a quale partito apparteneva?).

Il campo delle grandi opere inutili e dannose al Nord come al Sud (la prima dichiarazione della candidata del centro destra, dopo la vittoria in Calabria, ha riguardato la necessità di portare anche lì l’alta velocità ferroviaria, confermando così di fatto gli interessi della ‘ndrangheta nelle grandi opere, dalla Valsusa al resto del paese).
Il campo di chi reprime i migranti internandoli nei campi libici oppure negando loro lo sbarco sulle nostre coste oppure, ancora, trasformandoli in schiavi per il lavoro nero (soprattutto nell’edilizia e nei campi).
Il campo degli interessi incrociati tra aziende private, cooperative e finanza ed imprese edili di origine illegale.
Il campo dell’estrattivismo dichiarato, a favore delle trivelle nell’Adriatico e degli interessi dell’ENI.
Il campo di chi si affanna ad equiparare la violenza verbale a quella fisica, salvo poi voltarsi dall’altra parte quando i manganelli scendono pesantemente sulle schiene e sulle teste dei manifestanti contrari all’ordine esistente. Oppure di chi non sa cogliere nemmeno lontanamente l’enorme ingiustizia e la violenza insite nei licenziamenti individuali e di massa e nei rapporti di lavoro definiti dalle aziende, multinazionali o nazionali che siano, in nome del profitto e dell’estrazione selvaggia di plusvalore.
Il campo di chi non sta con le lotte, ma con gli imprenditori.
Il campo di chi si crede il mare, ma è soltanto una palude.

Ho sentito parlare di buon governo della regione “rossa”: certo il buon governo del capitalismo ben temperato di prodiana memoria1, in cui dalla collaborazione tra privato e pubblico può sorgere il “radioso avvenire” di una società capitalistica avanzata e magari green.
Il buon governo della triplice sindacale che vota favorevolmente per le grandi opere in nome del lavoro salariato e degli interessi delle azienda e delle coop rosse e bianche oppure, ancor meglio, della Nazione. Buon governo che, però, non sembra aver toccato o convinto tutti allo stesso modo (qui).

No, non è così che si vince il fascismo. Come già sapevano i migliori compagni comunisti, anarchici e antifascisti negli anni ’20 e ’30,2 la cui esperienza fu cancellata dalla controrivoluzione staliniana e dalla carneficina del secondo conflitto mondiale, il fascismo si batte soltanto vincendo sul capitalismo e superando proprio i limiti del dettato nazionale, aziendale, produttivistico e lavoristico su cui fonda il suo discorso. Di cui però gli attuali, momentanei, vincitori della schermaglia elettoralistica sono tra i migliori ed agguerriti rappresentanti.

Un vecchio comunista italiano, Amadeo Bordiga, affermava che chi vuol essere progressista dovrebbe avere almeno il coraggio di dichiararsi fascista, poiché proprio l’idea di progresso, tipica di questo modo di produzione oggi fallimentare in tutti i campi, fin dalle sue origini ha avuto come corollari il rafforzamento degli stati nazionali, il governo dei loro confini, lo sfruttamento in casa e fuori della manodopera schiavizzata nelle fabbriche e nei campi. Qualunque fosse il colore della pelle e a qualsiasi latitudine appartenessero gli imprenditori e i governanti.

Il capitalismo industriale è nato in carcere3 e il fascismo ne ha sempre esaltato le funzioni. Sia dell’uno che dell’altro.
Nazionalizzare le masse, questa la funzione del fascismo (il razzismo, che non può essere ridotto al solo anti-semitismo che è molto più antico, ne costituisce solo uno dei corollari, non il fondamento, poiché nacque con il colonialismo che avrebbe posto le fondamenta dell’attuale immondo modo di produzione)4. Rendere i cittadini tali in quanto orgogliosi del proprio (buon) governo e solidali con gli interessi del capitale e dell’imperialismo.
Non membri di una comunità umana, la marxiana gemeinwesen, di eguali sia dal punto di vista sociale che economico, ma partecipi di una comune fortuna di cui pochi, sempre meno visto che gli italiani più abbienti oggi detengono il 72% della ricchezza nazionale mentre a livello mondiale 26 individui possiedono la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale5, detengono i rubinetti e il patrimonio globale.

Esaltare il lavoro produttivo e la “vittoria” sulla Natura sono altri due aspetti immarcescibili del fascismo e sono entrambi, ullallà, derivati dall’idea di progresso figlia dell’Illuminismo ben pensante e moderato.
Atteggiamenti moderati nei rapporti politici tra le classi, ma smoderati nel consumo di risorse, territori, merci e forza lavoro. Tanto da dimenticare sempre più spesso, nell’attuale gozzovigliare alla tavola della shoa, che i lager nazisti come i gulag staliniani furono sempre e prima di tutto campi di lavoro forzato. In cui “naturalmente” milioni di individui di qualsiasi fede, etnia, nazione, genere ed età sarebbero morti prima di tutto per la fatica, la fame e le malattie. Esattamente come capita ancor oggi, a cielo aperto e senza SS a far la guardia, in tante, troppe parti del mondo.

Esaltare l’ordine e zittire le voci “altre”, contrarie oppure solo critiche del regime è l’altra pratica del Fascismo, che affonda però le sue radici in tutta la Storia di un mondo diviso in classi fin dall’avvento della proprietà privata e che fa delle maggioranze silenziose il proprio ideale di partecipazione politica. Esattamente come possono esserlo le folle che cantano inni patriottici e inneggiano alla figura del Capo nelle adunate di piazza a sostegno di un regime (o di un movimento che ha nel non aver nulla da dire sulla realtà delle contraddizioni economiche e sociali reali la sua unica arma di distrazione di massa).

Pesci in barile, citofonatori e mortadelle benedette non rappresentano dunque altro che le due facce di una stessa medaglia, di uno stesso ordine. Così come lo erano i 5 stelle di qualche anno fa (con l’unica differenza che oggi la rabbia non deve essere nemmeno manifestata o sussurrata, per rispetto del borghesissimo bon ton).
Non vale neppure la pena di far nomi in queste considerazioni, non per timore di denunce o intimidazioni, ma soltanto perché tutti questi miserrimi soggetti, che nascondono la realtà di contraddizioni e di lotte che ci circondano in ogni dove e che in alcuni casi si affannano a definire come “ondata di destra a livello mondiale” (mescolando insieme gilets jaunes e Orban, lotte sociali ed ignobili episodi di razzismo delle periferie che sono in subbuglio senza neanche comprendere appieno il perché) le lotte, spesso sanguinose, che si sviluppano in ogni dove, sono già destinati all’oblio anche se oggi, dando per un momento ragione a Andy Warhol, hanno avuto modo di brillare come meteore per un istante o ancor meno.

I tempi della Storia, invece, sono molto lunghi. Il capitalismo non è stato mai ben temperato se non sulla pelle di qualche popolo o continente dominato e sfruttato per qualche decennio. In questa fasulla modernità la sua anima resta fascista e oggi, ancora una volta, sia in Calabria che in Emilia Romagna, ha comunque vinto il nostro peggior nemico. Quello con cui non possiamo esser altro che in guerra. Perché il dovere di combatterlo ci apparterrà sempre.
Fino alla morte o alla vittoria.

Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che oblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
(G. Leopardi – La ginestra)

* In omaggio a James Ellroy e alla sua nerissima e spietata Storia degli Stati Uniti dal secondo conflitto mondiale agli anni ’70. Una tecnica letteraria (l’abbinamento tra crimine e storia americana) perfetta per raccontare efficacemente la contemporaneità e i suoi sottoprodotti sociali, politici e culturali.


  1. Romano Prodi, Il capitalismo ben temperato, il Mulino, Bologna 1995  

  2. Si veda almeno Arthur Rosenberg, Il fascismo come movimento di massa. La sua ascesa e la sua decomposizione (1934), Circolo Internazionalista Francesco Misiano – Pagine Marxiste, 2019 che sarà recensito nei prossimi giorni su Carmillaonline  

  3. Si veda Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750-1850), Oscar Studio Mondadori, 1982  

  4. Per un’analisi delle origini del razzismo moderno e della cultura che lo ha fondato, basati entrambi tanto sull’ammirazione acritica della cultura greco-romana quanto sull’idea, mai dimostrata, dell’esistenza di una comune radice indoeuropea “bianca”, si veda Martin Bernal, Atena Nera, il Saggiatore, Milano 2011  

  5. “Alla fine del primo semestre del 2018 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 8.760 miliardi di euro, registrando un aumento di 521 miliardi in 12 mesi) vede il 20% più ricco degli italiani detenere il 72% della ricchezza nazionale, il successivo 20% controllare il 15,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero appena il 12,4% della ricchezza nazionale. Il top-10% (in termini patrimoniali) della popolazione italiana possiede oggi oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione.” (qui)  

]]>
Nemico (e) immaginario. Vampiri e biopolitiche di sangue https://www.carmillaonline.com/2020/02/02/nemico-e-immaginario-vampiri-e-biopolitiche-di-sangue/ Sat, 01 Feb 2020 23:01:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=57057 di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria [...]]]> di Gioacchino Toni

L’etimologia della parola “vampiro” risulta problematica, come documentano le molteplici ipotesi circa la sua origine, comunque in genere circoscritta alle lingue dell’Europa orientale. Se nell’intricato folklore dei non-morti esteuropei si trovano svariati esseri sovrannaturali dalle identità e dai confini incerti ed a volte sovrapponibili, dagli anni Trenta del Settecento il termine vampiro in lingua inglese inizia a connotare significati e associazioni ben precisi, tanto da distinguere un essere specifico. Se il mondo dei vampiri ha le sue radici nell’Europa orientale, è l’Inghilterra – o meglio, allargando l’orizzonte, la Gran Bretagna e l’Irlanda – ad essere la sua arteria principale, prima di divenire fenomeno cinematografico e televisivo statunitense.

Oltre un secolo e mezzo prima che Bram Stoker con il suo Dracula (1897) dopo essersi appropriato dell’immaginario vampiresco precedente lo aggiornasse alla modernità sino a proiettarlo nei tempi a venire, i vampiri già smascheravano le ansie umane e le biopolitiche del periodo suggestionando la cultura occidentale nel suo tentativo di definire l’essere umano. La storia del vampiro antecedente a quello proposto dal romanzo di Stoker, già indagata puntualmente da Massimo Introvigne1, è stata recentemente ricostruita da Nick Groom nel suo Vampiri. Una storia nuova (Il Saggiatore, 2019) «unendo la visione scientifica ed empirica dei “veri” vampiri dell’Europa orientale con le loro successive rappresentazioni evocate nella letteratura gotica [prendendo] in esame trattati teologici e referti medici, diari di viaggio e allegorie politiche, poesia, narrativa e testi sull’occulto»2.

Il ritorno dei morti è una paura primordiale, tanto che morti inquieti, invendicati, desiderosi di punire i vivi popolano miti, leggende e folklore sin dai tempi remoti. Se numerose sono le figure che riprendono vita per scatenare il caos, tuttavia i vampiri sono entità diverse dagli spiriti e dai non-morti ed hanno destato interesse tra gli intellettuali europei in circostanze ben precise. Se fantasmi e demoni hanno spesso antecedenti biblici o derivati da miti antichi, si può dire che i vampiri, invece, siano stati “scoperti”; se lo studio dei fantasmi e delle apparizioni ha preso il via indagando le testimonianze di chi si è imbattuto in essi, per quanto riguarda l’indagine sui vampiri, invece, almeno agli inizi, questa si è svolta su esseri fisici «che avevano un fondamentale (e letterale) “corpo” di prove, costituito dai cadaveri del colpevole e delle vittime»3, pertanto, nel caso dei vampiri, non si è di fronte a demoni primordiali ma, suggerisce Groom, a creature dell’Illuminismo, radicati come sono nei nascenti approcci empirici delle scienze investigative settecentesche, nella biopolitica europea e nel pensiero dell’epoca.

«In altre parole, essi appartengono del tutto al mondo moderno – o meglio: i modi con cui sono stati esaminati sono sorprendentemente moderni. I vampiri nacquero quando la razionalità illuminista incontrò il folklore dell’Europa orientale – un incontro che cercò di dare loro un senso attraverso il ragionamento empirico e che, considerandoli attendibili, li rese reali. Dunque, i vampiri hanno proprio una preistoria folkloristica e, dall’inizio del XIX secolo, i vampirologi si sono applicati per rintracciare le loro origini attraverso esempi archetipici e leggendari di mostruosità»4.

Sebbene i demoni succhiatori di sangue siano presenti già in antiche tavole caldee e assire, nel mondo antico sia greco che romano, nella tradizione giudaico-cristiana e nei poemi epici anglosassoni, i vampiri occupano una posizione particolare tra i succhiatori di sangue e nonostante le loro storie a volte si intreccino con quelle di demoni, fantasmi, spettri, revenant o streghe, dovrebbero essere distinti da quell’insieme di paure verso i morti, i non-morti. «La distinzione tra i fantasmi succhiasangue del mondo classico e il vampiro moderno, come osserva l’occultista Montague Summers5, è che “la qualità peculiare del vampiro, specialmente nella tradizione slava, è la rianimazione di un corpo morto, che è dotato di alcune proprietà mistiche come la dispersione [estensione], la sottigliezza [tenuità] e l’incorruttibilità temporale”6. Sebbene una parte di questa tradizione slava fosse senza dubbio retrospettiva, è sorprendente notare come alcuni peculiari elementi comuni siano stati poi trasposti nei primi avvistamenti di veri vampiri e come la natura accrescitiva delle credenze popolari abbia dato vita, per così dire, al corpus di conoscenze sui vampiri»7.

Se il pensiero vampiresco finisce col riflettersi nelle scienze mediche, soprattutto con lo svilupparsi delle nuove teorie sul contagio, non di meno fornisce un repertorio iconografico all’economia, alla politica e, ovviamente, alla letteratura, avvicinando così finzione, teorie mediche e scienze sociali.

Parlare di vampiri significa parlare inevitabilmente di sangue ed infatti questo, sgorgato dal pensiero settecentesco, resta costantemente presente nel pensiero ottocentesco. «Il vampiro incarnava le contraddizioni del sangue: oscurava le distinzioni tra vivi e morti, umani e non umani, anche tra stabilità psicologica e metamorfosi fisica. Il vampiro era anche la quintessenza del sangue cattivo: del sangue corrotto e virulento. E […] la paura verso il sangue contaminato è stata acuita dal timore del contagio a causa dei luoghi ammuffiti e angusti, dei cimiteri, del marciume e della decadenza, dell’aria viziata, delle infezioni portate nell’atmosfera, della nebbia e dei pericoli invisibili. Tutto questo orrore si condensò con l’avvento del vampiro»8.

Durante il XIX secolo vengono sostanzialmente mantenute le vecchie credenze popolari circa le virtù curative del sangue, pur assumendo veste scientifica, e si moltiplicano tanto gli esperimenti di trasfusione endovenosa quanto lo studio di malattie ereditarie. Anche un centro nazionalismo fa del “sangue comune” il suo mito fondativo e la donna stessa, agli occhi maschili, appare “contraddistinta dal sangue”. Nell’immaginario ottocentesco l’associazione donne-vampirismo si struttura proprio a partire dal legame donne-sangue derivato, oltre che dalle perdite mestruali, anche, soprattutto nei primi decenni del secolo, dal diffondersi delle analisi del sangue al microscopio per diagnosticare l’anemia particolarmente diffusa in ambito femminile, tanto che la stessa figura del vampiro finisce con l’assume quello che diventerà il suo classico pallore.

L’associazione donna-vampiro ha dato luogo anche a vampiri femminili, come nel caso della protagonista del racconto Carmilla (1872) di Joseph Sheridan Le Fanu che, pur con peculiarità tutte sue legate al periodo, si inserisce all’interno di una lunga tradizione di figure femminili che si alimentano di sangue che hanno come antenate sovrannaturali figure come Lamia e Lilith9.

Dopo essere stato medicalizzato nel corso del Settecento, il vampirismo, nel secolo successivo, si lega a malattie e paure connesse al corpo femminile, nella convinzione che la perdita di sangue mestruale potesse addirittura dar luogo a catastrofiche conseguenze fisiche e mentali sull’intera civiltà occidentale e tale timore si collega ad una delle grandi paure di fine Ottocento: l’inversione evolutiva, la degenerazione verso uno stato animalesco o primitivo.

Il teorico della degenerazione Bénédict Morel10, ad esempio, vede nella follia il risultato di un danno fisiologico o di un comportamento immorale capace di trasformarsi in una patologia trasmissibile alle generazioni successive. Si afferma dunque un’idea di psichiatria radicata tanto nel corpo quanto nel comportamento ed è proprio rifacendosi a More che l’antropologo criminale Cesare Lombroso individua nei criminali segni di “evoluzione a ritroso” che li colloca, rispetto ai “normali” esseri umani, ad un gradino evolutivo inferiore; una vera e propria razza primitiva e subumana. In Lombroso anche le donne abitano una scala evolutiva inferiore, essendo, a suo avviso, dotate di un “cervello infantile”, dunque non sviluppato al pari di quello degli uomini. Se a tale “immaturità congenita” femminile si aggiunge una condotta criminale, allora, secondo Lombroso, si raggiunge l’apoteosi del mostruoso.

Sulle orme di Morel e Lombroso, il sociologo Max Nordau11 deriva le prove della decadenza morale della società del tempo dai suoi studi sui criminali, sugli omosessuali, sulle figure femminili più emancipate e sugli artisti più innovativi del tempo. Tale degenerazione deriverebbe dunque, secondo il sociologo, da cause fisiche determinate però dal vivere una modernità segnata dal ricorso smodato a narcotici e stimolanti, dal consumo alimenti avariati e dal respirare veleni organici. Insomma, i vampiri di fine Ottocento non sembrano essere più causa o segno di degenerazione; è l’intero mondo moderno ad essere degenerato e i vampiri, abitandolo, semplicemente ne condividono la sorte. Anche l’aumento dell’isteria, secondo Nordau, è riconducibile alle medesime cause.

Le immagini del sangue e del succhiasangue, come detto, hanno finito con il fornire un repertorio iconografico anche all’economia ed alla politica, inoltre, l’ottocentesca ossessione per il sangue ha probabilmente contribuito al revival della medievale “accusa del sangue” mossa nei confronti degli ebrei, rafforzando così l’antisemitismo. Se il vampirismo era già stato identificato da intellettuali come Voltaire e Rousseau con il commercio e con le operazioni finanziarie, tale associazione si è spinta ben oltre nel corso dell’Ottocento quando la metafora del vampiro risulta ben presente nei circoli della sinistra hegeliana, nella pubblicistica socialista e, soprattutto, diventa ricorrente nelle opere di Karl Marx.

Come ha ricostruito Luca Cangiati, se Marx ricorre alla metafora del vampiro in numerose opere – Sacra famiglia, Lotta di classe in Francia, Diciotto Brumaio di Napoleone Bonaparte, Indirizzo inaugurale dell’Associazione internazionale degli operai – è nei Grundrisse che tale metafora acquisisce uno status epistemologico innegabilmente costitutivo. «In questi famosi quaderni di appunti il filosofo afferma che “Nel capitale viene posta la perennità del valore… caducità che passa – processo – vita. Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro”. Che la metafora capitale/vampiro sia a tutti gli effetti costitutiva della teoria del plusvalore e dello sfruttamento è testimoniato inoltre dalla dialettica tra il lavoro vivo, costituito dagli esseri umani lavoratori, e quello morto, cristallizzato nei mezzi di produzione, cioè nel capitale: “Il lavoro vivo si presenta come puro mezzo per valorizzare il lavoro materializzato, morto, per permearlo con un’anima vivificante e perdervi la propria”»12.

L’Ottocento è anche un secolo funestato dalle pandemie di colera in Europa e nel Nord America, coincidenti spesso con guerre e disordini politici. Il contagio ottocentesco è dunque un “contagio moderno”, vissuto nella sua concretezza. Messi da parte i capri espiatori tradizionali, le accuse finiscono per focalizzarsi sulla professione medica ed a ciò si è prontamente adeguato l’immaginario riferito al vampiro. Quest’ultimo, inoltre, già ritenuto vettore di malattia, non tarda ad essere associato agli spazi urbani malsani delle città industriali.

Se ancora nella prima metà del secolo la febbre viene trattata con l’aerazione, nella seconda metà dell’Ottocento inizia ad essere vista come una malattia infiammatoria a cui si risponde con la pratica del salasso spesso mediante sanguisughe ed in tale periodo la popolarità del tema del vampiro e sua efficacia nel metaforizzare paure e problemi d’epoca si lega proprio a quella per la suzione di sangue. Nella seconda metà dell’Ottocento, la teoria dei germi sostituisce parzialmente la teoria del miasma ed il diffondersi della convinzione che la malattia potesse essere causata da parassiti viventi, secondo Laura Otis13, si presta ad essere interpretata come metafora delle paure dell’epoca nei confronti di tutti i “nemici invisibili”, militari, politici o economici.

Riflettendo sulle analogie tra il prendere piede della teoria dell’infezione microbica ed il fatto che, più o meno in maniera figurata, questa la si ritrova già sia in diversi racconti di vampiri che nei tentativi di spiegare il contagio vampirico del secolo precedente, Groom osserva come, non a caso, i successivi racconti di vampiri vittoriani si soffermino spesso «su minuscole prove giudiziarie (piccole lesioni nella pelle, polvere) o su forze invisibili (mesmerismo, effetti psichici, psicologici e telepatia). Il contagio e il corpo, il sangue e l’economia, il potere politico, l’invisibile e il vampirismo sono dunque coesistiti nell’immaginario vittoriano. E il romanzo di Bram Stoker, Dracula, ne è la dimostrazione migliore»14.

Ed è proprio il libro di Stoker a palesare una svolta: capace di far suo l’immaginario vampiresco procedente, Dracula si presenta come concentrato di mitologie, sogni ed incubi propri del mondo vittoriano ma si rivela anche in grado di prefigurare inquietudini e desideri del mondo che sarebbe venuto, come documenta l’opera in due volumi che Franco Pezzini vi ha recentemente dedicato15.


  1. M. Introvigne, La stirpe di Dracula. Indagine sul Vampirismo dall’antichità ai nostri giorni, Mondadori, Milano, 1997. 

  2. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, Il Saggiatore, Milano, 2019, p. 13. 

  3. Ivi, p. 22. 

  4. Ivi, pp. 22-23. 

  5. M. Summers, The Vampire, His Kith and Kin, Kegan, Paul, Trench, Trubner & Co., London, 1928 e M. Summers, The Vampire in Europe, University Books, New York 1968. 

  6. M. Summers, The Vampire in Europe, cit., p. 1. 

  7. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 33. 

  8. Ivi, p. 38. 

  9. Sulla figura di Carmilla si veda: F. Pezzini, Cercando Carmilla. La leggenda della donna vampira, Ananke edizioni, Torino, 2000. Sulla tradizione dei vampiri femminili si veda: A. Conti, F. Pezzini, Le vampire. Crimini e misfatti delle succhiasangue da Carmilla a Van Helsing, Castelvecchi, Roma, 2005. 

  10. B. Morel, Traité des dégénérescences physiques, intellectuelles et morales de l’espèce humaine, 1857. Testo in cui Morel mescola cattolicesimo e teorie relative all’ereditarietà dell’evoluzionista Jean-Baptiste Lamarck 

  11. M. Nordau, Degeneration, 1898. Tr. it.: M. Nordau, Degenerazione, Piano B edizioni, Prato,2009. 

  12. L. Cangianti, FantaMarx. Critica dell’economia immaginaria, pp. 85-86, in: L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, G. Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018. 

  13. L. Otis, Membranes: Metaphors of Invasion in Nineteenth-Century Literature, Science, and Politics, Johns Hopkins University Press, Baltimore (MD), 1999. 

  14. N. Groom, Vampiri. Una storia nuova, op. cit., p. 188. 

  15. F. Pezzini, Il conte incubo. Tutto Dracula, Volume 1, Odoya, Bologna, 2019 e F. Pezzini, Abraham Van Helsing e l’ultima crociata. Tutto Dracula, Volume 2, Odoya, Bologna, 2019. 

]]>
Rapporto su una guerra già da lungo tempo in atto 2/2 https://www.carmillaonline.com/2018/10/17/rapporto-su-una-guerra-gia-da-lungo-tempo-in-atto-2-2/ Wed, 17 Oct 2018 20:01:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49223 di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai [...]]]> di Sandro Moiso

[Qui la prima parte di questo articolo.]

«Le decisioni che prenderemo sull’energia proveranno il carattere del popolo americano e la capacità di governare la nazione da parte dei presidente e del congresso. Questo nostro sforzo sarà l’equivalente morale di una guerra.» (Presidente Jimmy Carter, 18 aprile 1977)

Nessun governo o partito può essere realmente ‘amico’ dei movimenti che lottano contro l’estrattivismo, in difesa dei territori e del futuro della specie, così come hanno dimostrato gli ultimi voltafaccia pentastellati a proposito delle grandi opere inutili, ma non bisogna mai dimenticare che il grimaldello per scardinare i diritti e i provvedimenti in difesa dei territori e dei lavoratori è stato troppo spesso fornito dalle forze che si vorrebbero e che si sono sempre sfacciatamente dichiarate democratiche e ‘progressiste’, come l’affermazione dell’ex-coltivatore di arachidi della Georgia, nonché ex-membro della Commissione Trilaterale e premio Nobel, posta in esergo rivela abbastanza chiaramente.

Le differenti forme di pacificazione, infatti, non dipendono dalla qualità dei governi in carica, ma dalle differenti strategie da questi messe in atto per cercare di colpire, frantumare e distruggere i movimenti che ad essi si oppongono.
Da questo punto di vista, ad esempio, le sanzioni amministrative e le pene pecuniarie messe in atto, sempre più spesso, nei confronti degli oppositori dalla Val di Susa al Salento agli Stati Uniti non hanno tanto la funzione di ‘ammorbidire’ gli strumenti repressivi, quanto piuttosto quello di rendere più flessibile e invasiva la pacificazione stessa.

Ad esempio, le pesanti sanzioni pecuniarie adottate dallo Stato contro una parte dei militanti del Movimento No Tav sembra rispondere a una logica di differenziazione della repressine per fasce d’età, cercando di colpire maggiormente i più giovani con la minaccia di lunghi periodi di reclusione e i più anziani con una piuttosto pesante nei confronti dei beni risultanti da una vita di lavoro (casa, risparmi, etc.). Anche se poi, come dimostra la più recente sentenza a carico di 16 militanti di varia età, la condanna alla pena detentiva sembra essere spesso quella più apprezzata dai pubblici ministeri (anche a costo di vedersela dimezzare com’è avvenuto proprio nel corso dell’ultimo processo per i fatti del 28 giugno 2015).

Altri strumenti selettivi di carattere pecuniario, come diversi relatori hanno confermato nel corso del workshop internazionale di Melendugno, possono essere collegati ad una differente ripartizione dei risarcimenti offerti agli abitanti dei territori interessati dal fracking, dalla costruzione di grandi opere o da tutti gli altri aspetti di ‘estrattivismo’ di cui si è precedentemente parlato.
Ripartizioni che in alcuni casi possono essere del 100% della cifra promessa oppure del 30% o anche del tutto assenti, a seconda della partecipazione o meno delle comunità o dei singoli individui alle lotte di opposizione ai progetti proposti in loco.

Uno strumento utile quindi, là dove riesce a far breccia, a dividere le comunità e i comitati di lotta sulla base di interessi economici e a sviluppare all’interno di esse rivalità ed egoismi legati all’interesse privato o alla salvaguardia delle proprietà famigliari.
Che, come ad esempio negli Stati Uniti nei territori ormai sempre più ampi interessati dal fracking, può essere costituito da bollette energetiche differentemente ripartite tra comunità e comunità, anche qui a seconda delle resistenze che in esse si manifestano contro la devastazione ambientale.

Bollette che colpiscono la comunità anche se i resistenti in essa presenti sono una minoranza, cercando così di scatenare un’autentica “caccia alle streghe” nei confronti di chi resiste oppure fa propaganda per la resistenza e delegando quindi alla comunità nel suo insieme il compito di autogestire la pacificazione. Forma sottile e subdola per giungere ad una frammentazione ed esclusione interna di quella che potrebbe diventare o già essere invece una comunità resistente.

Anche in ciò può consistere quel «Restringimento degli spazi per i movimenti italiani in difesa dell’ambiente» di cui ha parlato in apertura del convegno Italo Di Sabato dell’Osservatorio sulla repressione. Ma questa modalità operativa può essere classificata anche secondo quelle modalità di costruzione del diritto penale del nemico sul quale si sono espressi i membri del collettivo Prison Break Project parlando, appunto, di «Il ‘nemico interno’: repressione dei movimenti e criminalizzazione penale del nemico».

Quest’ultimo punto, però, ha anche a che fare con quella costruzione dell’immaginario che troppe volte il movimento antagonista ha sottovalutato, rischiando così di affrontare il proprio nemico, sostanzialmente il capitalismo estrattivista e non, rimanendo nell’ambito ‘territoriale’ politico, economico e giuridico definito a priori dallo stesso. Come ha rimarcato il già precedentemente citato professor Michele Carducci.

Immaginario che, come s è appena detto, investe anche la nozione di ‘progresso’ sociale e economico e tutte le teorie che ne derivano. Soprattutto nella sinistra partitica tradizionale e che soltanto i movimenti reali dal basso e sui territori iniziano, per intrinseca necessità, a scalzare. Opera di scalzamento che, in futuro, costringerà i movimenti, e coloro che li studiano ed appoggiano, a fare i conti con le differenti narrazioni storiche, economiche e socio-antropologiche che fondano l’esistente e che entrano, ancora oggi, a far parte dell’opera di pacificazione culturale messa in atto da sempre dalle classi dirigenti e (al momento) vincitrici. Una cancellazione della memoria che va ben al di là della banalizzazione della ‘memoria’ costantemente rivendicata dalla vulgata antifascista e democratica, sempre comunque fedele alla ‘memoria’ di un ordine liberale e democratico mai realmente esistito. Nemmeno nel ricco Occidente.

La violenza dello sradicamento della comunità umana e delle sue sopravvivenze, che l’attualità riporta alla ribalta e all’attenzione, è stata tale da far dimenticare che quell’Occidente colonialista con cui oggi dobbiamo ancora fare i conti, qui a casa come nel resto del globo, prima di poter essere tale dovette rimuovere al suo interno tradizioni e comunitarismi che impiegarono secoli ad essere piegati alla logica del mercato, della proprietà privata dei beni comuni e degli stati nazionali unificati da religioni uniche e autoritarie, oltre che accentratrici del potere.

Ben prima della Rivoluzione industriale e dell’Illuminismo che, al contrario di quanto troppo spesso si è creduto, più che rappresentare la liberazione delle forze produttive ed intellettuali del continente europeo, segnarono la fase finale di un processo di assoggettamento delle comunità ai principi dell’appropriazione privata e soggettiva della ricchezze e dei beni prodotti e utilizzati collettivamente. E che, sostanzialmente, costituirono la pietra tombale su ogni forma di comunitarismo derivante dalle organizzazioni sociali che erano esistite per millenni senza stato e senza appropriazione privata dei suoli e dei beni e dei saperi prodotti collettivamente.

Oggi i movimenti hanno bisogno di confrontarsi al di là delle barriere nazionali, come l’assemblea del venerdì sera ha potuto dimostrare, e di dar vita a nuove forme di coordinamento, organizzazione e interazione su scala locale e internazionale, proprio a partire dal fatto che la socializzazione delle lotte, della resistenza alla pacificazione e dei loro risultati non è più legata a principi di carattere ideologico ma ad una reale necessità dovuta al fatto di riconoscersi gli uni negli altri. Al di là della lingua, del colore della pelle o della collocazione a Nord o a Sud del mondo. Nonché realizzando già nei fatti, qui e adesso, una vita migliore per gli attivisti, i militanti e i membri delle comunità che resistono insieme alla pervasività del capitalismo estrattivista. Proprio come ha sostenuto, nel suo applauditissimo intervento serale, Guido Fissore del Movimento No Tav valsusino.

Lotte in cui la massiccia presenza delle donne e l’importanza del loro ruolo al loro interno, dal Rojava alle comunità indigene fino a Taranto, Melendugno, Val di Susa e in qualsiasi luogo di difesa della Terra e dei suoi abitanti presenti e futuri, rivelano come la riduzione a servaggio della condizione femminile e la riduzione dell’autonomia delle stesse all’interno delle società sia servita proprio ad attaccare e frantumare quelle comunità che oggi vanno gradualmente ricomponendosi, grazie proprio alla ripresa e riaffermazione di un modello femminile collettivo di lotta e partecipazione molto distante da quello riproposto da quello della “donna in carriera” pubblicizzato dai media, da Hollywood e dall’immaginario borghese.

Dal giorno di Piazza San Giovanni, nel 2011, ad oggi gli attivisti indagati in Italia sono arrivati ad essere 15.782, 852 quelli arrestati, 345 quelli colpiti da fogli di via e 241 quelli condannati alla detenzione. Proviamo a sommarli a quelli colpiti nel resto del mondo, più o meno per gli stessi motivi, e ai morti ammazzati (che a certe latitudini aumentano vertiginosamente) ed è difficile non comprendere che ci si trova davanti ad una autentica guerra civile mondiale condotta dal capitale e dai suoi funzionari, in divisa e non, contro i movimenti, le comunità e i territori.

Un capitale che cerca in ogni modo di liberare al massimo, più ancora che liberalizzare, la propria azione di estrazione di valore da qualsiasi vincolo politico, sociale, legale e ambientale. Un capitale che per fare ciò ha abbattuto anche i confini e i poteri dei parlamenti nazionali, non importa che questi siano caratterizzati da governi di ‘destra’ o di ‘sinistra’. Un capitalismo frenetico che, come ha sostenuto e dimostrato Tia Dafnos, a partire dal Canada, con la sua relazione su «Logiche della pacificazione della resilienza critica alle opere infrastrutturali», più che dalla realizzazione delle infrastrutture e delle grandi opere riesce a trarre profitto anche dalla vendita della loro progettazione agli stati. Considerazione che la dice lunga anche sull’attuale balletto intorno alla ricostruzione del ponte Morandi di Genova e sulla velocità con cui il solito Renzo Piano e la Società Autostrade sono riusciti a presentare in tempi brevissimi progetti per la sua ricostruzione. Non occorre essere responsabili della sua ricostruzione, ma è importante vendere il progetto. Non solo allo Stato ma anche ai media e all’immaginario collettivo.

Un capitalismo che si presenta armato di tutto punto, sotto ogni punto di vista, alla guerra con i movimenti. I quali, forse, devono ancora pienamente comprendere il tipo di scontro epocale che è in corso e in cui sono coinvolti. Una guerra che prepara a guerre ancora più estese e devastanti, in cui però la diffusione a macchia di leopardo dei movimenti e delle aree in lotta più che rappresentare una debolezza degli stessi, come qualcuno durante il workshop ha ipotizzato, rappresenta invece la loro forza ovvero quella di un movimento comune senza confini nazionali, unito dalla necessità di raggiungere scopi simili e di combattere le medesime tecniche di pacificazione. E lo stesso nemico: il capitalismo in ogni sua forma, nazionale e internazionale. Finendo così con il costituire le macchie di ruggine diffuse che finiranno col corrodere e distruggere dall’interno la macchina del dominio mondiale del profitto privato e del suo dannato e, solo apparentemente, infinito processo di accumulazione.

Le reti e il filo spinato, i blocchi di cemento e gli agenti del disordine pubblici e privati schierati a difesa dei cantieri e di confini che già sono stati condannati dalla storia, unificano la Val di Susa con la Palestina, il Salento con il confine norteño del Messico e le esalazioni mortali di Taranto con ogni altra area del pianeta in lotta per la vita e un reale futuro per la specie. Un movimento che, se sarà in grado di trovarsi e di coordinarsi ancora e sempre più frequentemente, così come si espresso il workshop nel suo insieme, saprà fare anche delle sue attuali e apparenti debolezze un momento straordinario di riflessione e di forza unificante.

Soprattutto, però, in questi giorni di delusione per le promesse mancate, ma che allo stesso tempo sono serviti a demolire anche le ultime illusioni partitiche e parlamentari, occorre ricordare, sempre, ciò che ha scritto Arundhati Roy:

«Il sistema collasserà se ci rifiutiamo di comprare quello che ci vogliono vendere, le loro idee, la loro versione della storia, le loro guerre, le loro armi, la loro nozione di inevitabilità. Ricordatevi di questo: noi siamo molti e loro sono pochi. Hanno bisogno di noi più di quanto ne abbiamo noi di loro. Un altro mondo, non solo è possibile, ma sta arrivando. Nelle giornate calme lo sento respirare.»

Qui di seguito però, poiché le lotte non vanno solo raccontate ma anche sostenute fattivamente, si rende necessaria la pubblicazione del comunicato redatto dall’avv. Michele Carducci, ordinario di Diritto Costituzionale Comparato presso l’UniSalento, sulle ultime giravolte pentastellate a proposito del TAP.

LE OMISSIONI DEL GOVERNO CONTE SUI COSTI TAP

La storia dell’analisi costi-benefici su TAP non ha fine e ora sembra tramutarsi in una farsa.
Durante l’estate, tutti i Ministeri interpellati con il sistema del c.d. “FOIA” (accesso civico generalizzato) sono stati costretti ad ammettere l’assenza di documenti e conteggi sugli effettivi benefici di TAP (in termini economici, climatici, ambientali, di risparmio ecc…) e sui costi di abbandono dell’opera (in termini di titoli legali di legittimazione verso lo Stato italiano). Persino il Ministero dello Sviluppo Economico, recalcitrante sino all’informativa all’autorità interna anticorruzione, ha dovuto riconoscere che non si dispone di atti, ma solo di probabili dichiarazioni verbali rese da esponenti azeri a rappresentanti politici italiani oppure di mere deduzioni. Il Vicepresidente Salvini è stato addirittura smentito dal suo Ministero sui presunti risparmi della bolletta del gas.
Poi, il 15 ottobre, il Sindaco del Comune di Melendugno, nella provincia di Lecce dove dovrebbe approdare il gasdotto TAP, è stato urgentemente convocato a Palazzo Chigi insieme ai parlamentari e rappresentanti territoriali del Movimento Cinque Stelle.
Alla presenza della Ministra per il Sud Barbara Lezzi, ha parlato il Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, il Sen. pentastellato Andrea Cioffi, componente dell’ “Associazione interparlamentare Italia-Azerbaijan”.
Egli ha riferito di suoi personali conteggi su TAP, riguardanti impegni contrattuali sull’estero (perché il gas di TAP servirà principalmente l’estero) e probabili mancati profitti, concludendo per un ammontare di 20 miliardi. Ha dunque parlato di presumibili costi contrattuali di terzi, ma non di analisi costi-benefici tra attivazione dell’opera e contesto socio-economico-ambientale-climatico dello Stato italiano e del suo ecosistema.
Le due prospettive non descrivono in nulla la stessa cosa: l’analisi costi-benefici è richiesta sia dall’Unione europea, che pretende l’inclusione dei costi climatici riferiti agli obiettivi di Parigi sul contenimento di emissioni di CO2, sia dall’OSCE che impone che l’analisi costi-benefici della sicurezza energetica sia declinata con l’analisi costi-benefici della sicurezza ambientale di lungo periodo, oltre che dalla Banca Centrale Europea che vorrebbe finanziare l’opera TAP.
È richiesto da tutte le istituzioni sovranazionali e internazionali di strategia energetica e di investimento finanziario; com’è giusto che sia, giacché l’analisi costi-benefici sulle opere di impatto intertemporale risponde a una garanzia di trasparenza dei decisori pubblici nei confronti non solo dei cittadini di oggi, ma soprattutto delle generazioni future e del loro contesto di vita: contesto che inesorabilmente deve misurarsi sulla dimensione climatico-ambientale.
Di tutto questo il Sottosegretario non ha parlato. Egli non ha neppure voluto consegnare alcuna documentazione al Sindaco. Nulla ha saputo replicare alle domande sui titoli giuridici a fondamento delle eventuali pretese creditorie italiane e non estere. Ha taciuto sul computo dei costi ambientali dell’opera TAP rispetto alla tenuta dell’ecosistema della costa di San Basilio, rispetto ai fenomeni dell’erosione costiera. Nulla è stato detto sui costi climatici rispetto ai criteri ribaditi proprio questo mese dal “Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico” dell’ONU.
Del resto, non è superfluo ricordare che il Governo italiano è pericolosamente privo del “Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Forse anche per questo, il Presidente Conte e la Ministra Lezzi si sottraggono all’onere di un tavolo pubblico e trasparente tra agenzie indipendenti di studio ambientale (come ISPRA e ARPA), rappresentati del governo e del territorio e TAP.
In definitiva, e una volta in più, di analisi costi-benefici non si sa che dire; come, ancora una volta, la Convenzione di Aarhus sulla democrazia ambientale, che prevede il coinvolgimento del pubblico nell’analisi costi-benefici, è stata violata.
Questo è un fatto molto grave, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, perché priva tutti i cittadini del diritto all’informazione completa ed esaustiva sulle scelte politiche dei governanti nei confronti di un’opera che riguarda i diritti delle generazioni future.
La circostanza di un Sottosegretario di Stato inadempiente negli oneri documentali e informativi verso un Sindaco rappresentante di un territorio della Repubblica, non definisce solo un gesto istituzionalmente scorretto; identifica una lacuna istituzionale pericolosa.
In questo scenario, paradossale appare infine il silenzio della coalizione giallo-verde e di Luigi Di Maio che, nel suo “Contratto per il governo del cambiamento”, esplicitamente ha voluto contemplare, per opere come TAP, tre obblighi metodologici totalmente disattesi: la istituzione di un “Comitato di conciliazione” per definire le modalità di azione; l’analisi costi-benefici (non solo quindi l’analisi costi contrattuali esteri); trasparenza e partecipazione di comunità locali e cittadini.
Di Maio tradisce il suo “Contratto”, votato dai suoi elettori.
La leale collaborazione tra istituzioni nazionali e locali e tra istituzioni e cittadini è il cemento della democrazia. Prendersi gioco della leale collaborazione è un illecito costituzionale che va denunciato.
È già partito l’accesso FOIA verso il Sottosegretario Cioffi. Ma sono già state attivate anche tutte le azioni propedeutiche alla denuncia del Governo italiano presso l’Unione europea, l’OSCE e le altre istituzioni che tutelano i diritti di informazione e di trasparenza delle decisioni nelle democrazie.
L’analisi costi-benefici è un dovere verso i diritti delle generazioni future e un presupposto di serietà di una democrazia.
Non pretendere chiarezza su tutto questo significa diventare complici di una erosione dei diritti di cittadinanza, che danneggia tutti e irresponsabilmente condiziona il futuro.

Prof. Avv. Michele Carducci
Difensore Movimenti e cittadini NoTAP

]]>
Contro l’unilaterale racconto della modernità https://www.carmillaonline.com/2018/09/27/contro-lunilaterale-racconto-della-modernita/ Wed, 26 Sep 2018 22:01:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=48746 di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo [...]]]> di Sandro Moiso

Sandro Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 308, € 20,00

A quasi sessant’anni dalla prematura scomparsa dell’autore, l’opera di Frantz Fanon (1925 – 1961) sembra acquisire una sempre maggior importanza nell’ambito degli studi post-coloniali e una ancor più significativa nell’ambito della più generale riflessione sui temi dei rapporti tra dominatori e oppressi, cultura e nazione e, soprattutto, sui concetti di modernità, progresso e diritti così come ci sono stati trasmessi da una vulgata storica, politica e filosofica ancora troppo influenzata dai miti e dagli scopi indicibili del colonialismo europeo e dei rapporti di produzione/sopraffazione di stampo occidentale.

La figura e l’azione dell’intellettuale originario della Martinica hanno infatti influenzato non soltanto i movimenti di liberazione nazionale dell’Africa e di quello che un tempo veniva definito, con un termine che derivava ancora da uno schema classificatorio figlio della concezione di progresso tipica dell’Occidente conquistatore, Terzo Mondo e dei suoi leader . Non solo ha influenzato Che Guevara e il Black Panther Party, ma anche, guardando con più attenzione, l’opera successiva di Michel Foucault oppure il radicalismo di una intellettuale e militante come Houria Bouteldja (qui).

Le sue opere principali,1 scritte sostanzialmente nel decennio 1951- 1961 e pubblicate in gran parte dopo la sua morte per leucemia, sono ancora di grandissima attualità e utilità, soprattutto per chi voglia adoperare e applicare nelle proprie ricerche il concetto di post-moderno così come è stato definito da Jean-François Lyotard.

Se infatti appare sempre più evidente come le grandi narrazioni globali prodotte dall’Illuminismo, dal Positivismo e da un troppo male inteso Marxismo, che Karl Marx per primo avrebbe rigettato, siano sempre meno adeguate per spiegare e ricostruire le vicende che hanno portato agli attuali rapporti di potere e dominazione tra classi sociali, generi e nazioni e se è sempre più evidente come il concetto di razza e nazione siano sempre più fragili di fronte alla reale esperienza storica e alle più moderne ricerche e conferme della genetica,2 l’opera di Fanon può ancora costituire non soltanto una guida per la ricerca e per l’azione, ma anche un autentico grimaldello per scardinare troppo facili certezze e assunti che finiscono spesso per l’inquinare ancora la riflessione e il pensiero politico di un malinteso antagonismo ancora influenzato dalle teorie tardo ottocentesche. Di fatto dal liberalismo e dal razionalismo positivista di stampo borghese ed eurocentrico.

E’ per questo motivo che l’opera di Sandro Luce, pubblicato da Meltemi in una collana, Linee, che da tempo presta particolare attenzione alle ricerche prodotte dai Postcolonial Studies e da quelle degli studiosi dei Subaltern Studies, è interessante, utile e necessaria.
L’autore, dottore di ricerca presso l’Università di Salerno e autore di un saggio su Michel Foucault3 e di numerosi altri pubblicati su riviste e volumi collettanei, nella prima parte del testo sottopone il pensiero di Fanon alla “prova della modernità” mentre nella seconda analizza la sua influenza sugli studi postcoloniali aprendo una sorta di serrato confronto tra gli autori di questa corrente e le principali intuizioni e formulazioni dello stesso, in particolare sui temi dell’idea di nazione e di cultura, dell’anticolonialismo e degli intrecci tra corpi, psiche e dominio coloniale.

Quest’ultimo punto si rivela particolarmente significativo, considerato che il “vissuto”, individuale e collettivo, assume nella riflessione fanoniana una centralità decisiva. Da qui

i suoi ripetuti appelli alla rivolta degli oppressi, le sue invocazioni contro il dominio dei saperi – si pensi a quello psichiatrico – che si affermano ineludibilmente come verità assoggettanti. Sono analisi potenti, prive di eufemismi, che rinviano sempre ad una realtà violenta e drammatica nella quale la condizione degli oppressi emerge innanzitutto dai loro corpi umiliati, segnati dalla brutalità coloniale, privati della loro voce, eppure inquieti, attraversati dal desiderio di ribellione e dall’ambizione di contrapporre al dominatore la forza della propria azione.
Fanon mette in campo una vera e propria “fenomenologia del corpo” che, nell’evidenziare quanto i meccanismi di disumanizzazione siano inscindibili dall’oggettivazione e dalla bestializzazione dei corpi dei soggetti colonizzati, ne preannuncia anche le capacità metamorfiche e la potenza eversiva.4

Ma Fanon apre anche la riflessione su come la violenza sui corpi si accompagni ad una forse ancora più pericolosa: quella esercitata sulle culture “altre” attraverso un’assimilazione al canone europeo «per mezzo di una vasta operazione di culturalizzazione che va tenacemente combattuta». Motivo per cui la lingua, il velo delle donne, l’uso degli strumenti di comunicazione di massa possono diventare strumenti di rivendicazione culturale, utili a diffondere il verbo rivoluzionario proprio rovesciando e mostrando la reale funzione degli assunti di un’unilaterale narrazione della modernità, bianca e occidentale.

«Strappare la maschera bianca significa per l’oppresso rifiutare la figura dell’alterità nella quale viene incapsulato e liberarsi così dai complessi di inferiorità e dai meccanismi nevrotici che lo assillano».5 Allo stesso tempo

l’obiettivo fanoniano non è però quello di riattivare figure arcaiche attraverso le quali plasmare identità essenzializzate e comunitarie da opporre, secondo la logica binaria Noi/Loro, a quella del colonizzatore occidentale. I comportamenti e le pratiche culturali vanno sempre pensate all’interno di precise articolazioni storiche e non possono che essere l’esito mai definitivo di un movimento incessante ed indefinito.6

Questo aspetto, naturalmente, finisce col riguardare la definizione del concetto di Nazione, che rischia, una volta assunto un canone identitario “stretto”, di assumere i connotati in esso infusi dal canone europeo, con tutte le conseguenze inerenti la repressione delle minoranze o di coloro con non appartengono alle etnie o alle classi dominanti una volta raggiunta la liberazione dall’assoggettamento coloniale. Contribuendo così a diffonderne, ancora ed ancora, le sue velenose radici. Tema particolarmente importanti all’interno degli studi postcoloniali e motivo per il quale, secondo Luce:

Solo attraverso un’operazione di ‘provincializzazione’ del lessico politico-giuridico della modernità occidentale e della sua attitudine generalizzata e formalizzante, dietro le quali si nascondono inevitabili forme di gerarchizzazione ed esclusione, sarà possibile provare ad immaginare quelle […] ‘sfere pubbliche diasporiche’, crogiuoli di un ordine politico post e trans-nazionale nel quale le soggettivazioni politiche saranno l’esito, mai definitivo, di rivendicazioni e di antagonismi che nascono dalla relazione tra elementi eterogenei e da un’attività di immaginazione, che sia capace di “strappare il velo del reale” e trasformarsi in impulso per l’azione.7

A questo punto però, anche se il testo di Sandro Luce non si addentra in questo discorso, sarebbe d’uopo sottolineare che i Postcolonial Studies e le formulazioni di Fanon potrebbero costituire sicuramente anche un ottimo punto di partenza per ripercorrere la storia dello stesso Occidente e della stessa Europa in cui una mai abbastanza discussa unità culturale e cristiana nasconde, in realtà, un lungo processo di sradicamento e repressione di tutte le forme comunitarie, di tutte le culture e di tutti i modi di produzione che hanno preceduto l’avvento prima della società mercantile e del suo dominio formale e, successivamente, di quella capitalistica, industriale e finanziaria, e del suo dominio totale sulle genti, le culture e l’immaginario, Una battaglia durata secoli, iniziata molto prima dell’avvento della rivoluzione industriale e spesso liquidata troppo facilmente a ‘sinistra’ con la riduttiva formula dell’“accumulazione originaria”.

In cui il moderno concetto di nazione «colma il vuoto lasciato dallo sradicamento di comunità e gruppi parentali, trasformando quella perdita in linguaggio della metafora.»8 Linguaggio in cui l’idea dello Stato-nazione ha costituito la metafora più potente, per cui la violenza esercitata sui corpi e sul corpo sociale nel suo insieme ha finito col sostituire la sacralità del corpo e dei corpi (compresi quelli dei re e dei santi) con il corpo sacro e intangibile dello Stato nazionale.

In questo modo l’individuo europeo potrebbe scoprire di aver vissuto con molto anticipo i drammi vissuti successivamente dai popoli colonizzati e dati per scontati come conseguenza dell’”inevitabile” progresso e della modernità e ritrovarsi così davanti alla necessità di strapparsi anch’egli dal volto la “maschera bianca” impostagli ormai da lungo tempo. Cancellando così in un sol colpo le panzane di cui si nutrono non solo i sovranismi e i nazionalismi, ma anche i socialismi e le democrazie nazionali e contribuendo alla riscrittura di un discorso di lotte che, una volta liberato anche dagli identarismi partitici non solo parlamentari, possa realmente aprirsi ad una maggiore integrazione tra comunità, generi, etnie, culture accomunate dalla volontà/necessità di opporsi all’oppressione politica, economica e culturale odierna.
Superando in questo modo anche l’annosa questione del “soggetto rivoluzionario” per riscoprire i ‘soggetti’. In ogni angolo del mondo.
Pensiamoci.


  1. F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 1962; F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, ETS, Pisa 2015 e tutti gli altri scritti raccolti sia nelle opere selezionate curate da Giovanni Pirelli e raccolte in Fanon, voll. 1 e 2, Einaudi, Torino 1971, che negli Scritti politici volume I. Per la rivoluzione africana, DeriveApprodi, Roma 2006 e Scritti politici volume II. L’anno V della rivoluzione algerina, Derive Approdi, Roma 2007  

  2. Occorre a questo proposito qui ricordare la figura di Luigi Luca Cavalli Sforza, recentemente scomparso, che con la sua ricerca sul genoma umano ha sicuramente contribuito a demolire definitivamente il concetto di “razza”, così come il colonialismo e l’imperialismo occidentali avevano contribuito a creare a partire dalla seconda metà del XVIII secolo proprio allo scopo di creare una separazione netta e un muro invalicabile tra dominatori e dominati, tra popoli bianche a popoli altri secondo una linea del colore assolutamente insignificante in Natura. Si consiglia a questo proposito la lettura o la consultazione di L.L. Cavalli Sforza, Geni, popoli e lingue, Adelphi, Milano 1996 sintesi del ben più ampio L.L. Cavalli Sforza, A. Piazza, P. Menozzi, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano 1997  

  3. S. Luce, Fuori di sé. Poteri e soggettivazioni in Michel Foucault, Mimesis, Milano 2009  

  4. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste. Frantz Fanon e la critica postcoloniale, Meltemi editore, Milano 2018, pp. 9-10  

  5. S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p.10  

  6. Ivi, p. 11  

  7. Ivi, pp. 186-187  

  8. H.K. Bhabha, I luoghi della cultura in H.K. Bhabha (a cura di), Nazione e narrazione, Meltemi, Roma 1997, p. 196 cit. in S. Luce, Soggettivazioni antagoniste, op. cit., p. 180  

]]>
Dal gusto al disgusto https://www.carmillaonline.com/2015/10/15/dal-gusto-al-disgusto/ Thu, 15 Oct 2015 21:00:20 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24872 di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto [...]]]> di Gioacchino Toni

gusto disgustoMaddalena Mazzocut-Mis (a cura di), Dal gusto al disgusto. L’estetica del pasto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015, 205 pagine, € 19,00

Il saggio curato da Maddalena Mazzocut-Mis indaga il rapporto fra gusto e disgusto a cavallo tra estetica ed alimentazione passando in rassegna diverse epoche storiche. Mentre i sensi come la vista e l’udito hanno goduto di una speciale considerazione nel pensiero occidentale in quanto considerati vie privilegiate di accesso alla conoscenza, il gusto è invece stato frequentemente relegato ad un livello decisamente inferiore. Platone, collegando il gusto al basso piacere dell’alimentazione, lo indica addirittura come nemico dell’attività intellettuale. È tra il Sei e Settecento che si ha una sorta di riabilitazione del gusto pur senza affrancarlo dalla carnalità sensoriale attivata dall’alimentazione.

Tenendo in considerazione l’incidenza delle trasformazioni sociali sulla dimensione culturale, i diversi contributi di Maddalena Mazzocut-Mis, Paola Vincenzi, Claudio Rozzoni e Serena Feloj, analizzano, a partire dalle premesse rinascimentali, i mutamenti del gusto in ambito culinario, in particolare nel corso del Sei e Settecento, passando in rassegna la trattatistica relativa alla scienza culinaria, le credenze mediche, la messa in scena dei banchetti e l’aspetto decorativo delle vivande nel passaggio “dal commestibile al godibile”. Una parte della trattazione è dedicata alla ricerca settecentesca di giungere ad una convincente definizione di “piacere” ed al binomio appagamento sessuale-soddisfacimento dello stomaco che rappresenta una costante del pensiero libertino dell’epoca.

Nel secolo dei Lumi, il gusto ha a che fare con la “capacità di discernerne la bellezza artistica e naturale”, pertanto esso si offre come strumento in grado di ampliare le possibilità di entrare in rapporto con le cose. In linea con i principi dell’Encyclopédie, l’individuo non può lasciarsi guidare dal gusto senza che quest’ultimo sia stato educato; occorre fornire al soggetto la capacità di gestire quanto potrebbe disturbarlo o corromperlo nel corpo e nell’intelletto. “L’amore disordinato della buona tavola va di pari passo con la degradazione dei costumi ed è considerato alla stregua dei vizi corruttori dell’animo umano”.

Particolare attenzione viene riservata alle trasformazioni del gusto in rapporto alla mobilità sociale della Francia settecentesca; l’ascesa borghese determina, ovviamente, anche a tavola, nuovi riti di socializzazione e nuove modalità di consumo del cibo dando luogo ad un tipo di alimentazione sempre più lontano dalla secentesca opulenza aristocratica. Dall’analisi dei testi di cucina dell’epoca si comprende, inoltre, come il nuovo gusto francese, affrancatosi degli interdetti religiosi del secolo precedente, sia rivolto ad una “fruizione degustativa regolata”, in linea con lo spirito illuminista.

Nel corso del XVIII secolo, il disgusto si configura come minaccia al piacere estetico derivata dalla sensazione fisica di nausea di fronte al cibo. L’indagine del rapporto tra estetica ed alimentazione introduce alla questione del disgusto. Nell’Encyclopédie il disgusto viene affrontato dal punto di vista medico, non tanto come degenerazione del gusto ma come malfunzionamento della degustazione che porta alla mancanza di appetito. Il Settecento non ammette una fruizione estetica del disgusto, essendo trattato come mera devianza patologica. “Il disgusto è una sensazione chiusa all’interno di una negatività che non porta mai verso un piacere. Non ha mai i tratti dell’ambivalenza e dell’illusorietà, e non entra nel circuito di ciò che può, a vario titolo, essere considerato artistico”. Nel secolo dei Lumi, sostiene la curatrice del saggio, il disgusto non deve essere confuso col brutto, non è il contrario del bello, “se l’irrappresentabile è al limite di una rappresentazione, l’orrore è ancora al di qua del confine, il disgusto è già al di là”. Mentre il sublime “respingendo attrae”, all’opposto il disgusto risulta repellente, allontana dalla fonte disgustosa. Il saggio si sofferma sulla svolta kantiana che esplicita il legame tra estetica e moralità e, successivamente, analizza la filosofia postkantiana ove il disgusto inizia ad essere inteso come “parte di una generale inclusione del brutto, del grottesco e del nauseante nell’estetica”.

the brood 022 cronembergIl contributo di Michele Bertolini si occupa invece dello spazio conquistato dal disgusto nel panorama artistico e cinematografico a partire dalla frattura fra arte e bellezza sancita dalle avanguardie del primo Novecento. L’autore decide di affrontare l’ambito artistico riprendendo la proposta marxiana di intendere il consumo come modalità di produzione: “L’idea dell’arte come merce da consumare e del consumo come forma di produzione, come trasformazione produttiva della realtà e non semplice digestione passiva, che progressivamente s’impone a partire dal ready-made di Duchamp, può costituire un efficace punto di partenza per un approccio generale all’arte del Novecento”. A partire da tale premessa Bertolini sostiene che il ready-made duchampiano può essere interpretato come una modalità di consumo produttivo che apre nuove strade all’arte contemporanea. Facendo riferimento soprattutto agli happening che strutturano banchetti a cui il pubblico è invitato a partecipare, Bertolini sostiene che “l’artista contemporaneo sembra rivolgersi al dispositivo formale della distribuzione, del consumo e della lavorazione del cibo come a un generatore di processi sociali e di scambi interpersonali locali che possono opporsi al sistema dell’economia ‘globale’ e al dominio invisibile e smaterializzato del mercato”. Mentre la produzione artistica relazionale negli anni ’60 e ’70 mirava ad un ampliamento dei limiti, ai giorni nostri, secondo l’autore, si tende maggiormente alla costruzione di modelli di socialità provvisori; è come se fosse caduta ogni possibilità di ambire a trasformazioni durature e via via sempre più allargate. Il contemporaneo sembra non riuscire ad andare oltre la creazione di forme di convivialità e socialità temporanee, accontentandosi di sperimentare e vivere momenti relazionali significativi ma effimeri.

Dalla preparazione e dal consumo conviviale dei cibi al loro utilizzo invasivo ed avariato, il passo è breve e, per tale via, si giunge facilmente all’introduzione del disgusto in ambito artistico. Secondo l’autore, nell’età contemporanea, il disgusto non deve essere considerato il contrario del buon gusto, ma come una consapevole e volontaria reazione nei suoi confronti. I tanti casi in cui l’arte ed il cinema costringono lo spettatore a confrontarsi con reazioni fisiologiche estreme possono essere interpretati come rigetto dell’estetica del buon gusto. Nell’ipotesi di Bertolini, il disgusto, così come l’informe, nel suo far saltare la distinzione tra interno ed esterno di corpi, tra uomo ed animale, si presenta come movimento di degradazione che può tradursi in espressione artistica quando sovverte “le possibilità interpretative di un’estetica giudicatrice, di un’estetica della forma e del buon gusto”. Il disgusto sovverte la distinzione tra interno ed esterno di corpi attraverso due processi opposti: dall’interno all’esterno e dall’esterno all’interno. Il primo caso evoca “forme di apertura del corpo”, il secondo replica in una forma nauseante il consumo del cibo. Il corpo viene smembrato e dato a vedere anche nei suoi anfratti più nascosti. L’estroflessione dell’interno del corpo e la violazione della sua integrità comportano un movimento in direzione dell’informe “che può essere interpretato come una paradossale apertura alle metamorfosi, alle infinite possibilità della forma”, come avviene nel film The Brood (Brood – La covata malefica) del 1979 di David Cronemberg, ove una donna dall’utero estroflesso genera esseri mostruosi. L’autore sottolinea come il cinema cronemberghiano della “bellezza interiore” e dalla “nuova carne” (derivata da ibridazioni fra specie ed organismi e fra corpo biologico e protesi tecnologiche) rimandi all’idea di disgusto proposta da Aurel Kolnai ad inizio Novecento, così riassunta da Bertolini: “un eccesso distruttivo e perverso di vita, irriducibile a qualsiasi forma stabile, che invade e attraversa perfino la morte sotto l’aspetto di una vita putrida, senza riuscire a morire”.

the brood 005 cronembergIn ambito artistico la categoria del disgusto ha avuto negli ultimi decenni grande diffusione soprattutto tra i cosiddetti “giovani artisti britannici” che hanno esposto più volte cadaveri, deformità, elementi in decomposizione, ibridazioni tra organico ed inorganico ecc. Tali proposte artistiche non hanno a che fare con una “poetica del realismo estremo”, occorre piuttosto, sostiene l’autore, “scorgere nel cuore dello spettacolo estetico (la mostra, il mercato e il sistema dell’arte) l’imposizione violenta ai sensi di un disgusto che richiede la nostra adesione e che tuttavia non può essere contemplato o guardato come uno spettacolo”.

Dopo aver analizzato le differenze tanto a livello teorico, quanto a livello di pratiche artistiche, dei concetti di informe, abiezione ed osceno, determinanti diverse diramazioni del disgusto, Bertolini si interroga circa la possibilità di un’estetica del disgusto. “Il disgusto è un processo, un movimento funzionale al suo superamento, alla liberazione dal nauseante (come nel caso del vomito), a una riconquista della purezza perduta, o viceversa al riconoscimento del basso materiale, della dimensione naturale che ci appartiene?”. La produzione artistica novecentesca che ha proposto rappresentazioni del disgusto e del nauseante più estreme, sposta, senza cancellarlo, il limite nella raffigurazione del disgusto obbligando l’estetica contemporanea ad interrogarsi circa la variabilità e la mobilità della frontiera tra presentabile ed irrappresentabile.
“Il disgusto ‘artistico’ è quindi inserito all’interno di un processo di fruizione che non deve necessariamente addomesticarlo, neutralizzarlo o riscattarlo: esso può (…) fermarsi all’informe, senza cedere alla tentazione di un’arte dell’abiezione che finisce per feticizzare i proprio oggetti, le sostanze escrementizie (…) o i temi (…), e quindi per irrigidirsi in significati fissi, pietrificati, in una cornice semantica a priori, oppure giocare tra diverse categorie (…) spostando l’attenzione dall’oggetto, da ciò che genera disgusto, al rapporto totalizzante che l’opera impone al nostro corpo, ai nostri sensi, al di là o al di qua della rappresentazione”. Di fronte ad operazioni artistiche giocate sul disgusto si impone un deciso cambiamento alle modalità di fruizione, non può più trattarsi di un rapporto di tipo contemplativo, ma di un vero e proprio coinvolgimento totale che comporta “un abbandono al dolore e allo choc come unica possibilità di ricezione richiesta dall’opera d’arte, nella rinuncia a qualsiasi, pur minima, distanza di sicurezza”.

]]>