illegalità – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Cronache marsigliesi / 5: un bilancio. https://www.carmillaonline.com/2023/06/08/cronache-marsigliesi-5-un-bilancio/ Thu, 08 Jun 2023 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77498 di Emilio Quadrelli

La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

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La critica va fatta a tempo; bisogna disfarsi del brutto vizio di criticare dopo. (Mao Tse Tung)

Abbiamo iniziato questo viaggio dentro Marsiglia con le quattro puntate di “Le problème n’est pas la chute mais l’atterrissage. Lotte e organizzazione dei dannati di Marsiglia” per proseguire con gli episodi delle “Cronache marsigliesi”. Con ciò possiamo considerare, almeno per il momento concluso questo lavoro a mezzo tra l’inchiesta e la cronaca. Un lavoro che ci auguriamo di riprendere nei prossimi mesi convinti che, a breve, molti dei nodi, qua evidenziati finiranno con il venire al pettine.

Al momento, sulla scia dei materiali raccolti, provare a tracciare un bilancio appare utile. Inevitabilmente il “viaggio marsigliese” si è intersecato con ciò che in questi mesi è andato in scena in Francia in relazione al movimento che ha provato a opporsi alla legge relativa al prolungamento dell’età lavorativa. A partire da ciò proveremo a delineare gli intenti e la “linea di condotta” del comando per, in un secondo momento, parlare degli effetti di questo sul tessuto sociale francese e della composizione di classe, rispetto alla quale abbiamo assunto Marsiglia come elemento paradigmatico, sulla quale abbiamo concentrato i nostri articoli-inchiesta. Infine, ma in un successivo articolo, si proverà a ragionare sulle prospettive, ma anche le contraddizioni, che il “nuovo soggetto operaio” si porta appresso. Delineato l’indice del testo entriamo direttamente nel merito delle questioni.

Cominciamo, quindi, con il parlare del movimento che si è opposto alla riforma delle pensioni. In piena solitudine abbiamo sostenuto che non fosse proprio “tutto oro ciò che brillava” e che gli abbagli presi in Italia a proposito di quel movimento fossero colossali. I più, catturati dall’imponenza delle manifestazioni e dalle non secondarie scaramucce imbastite da alcune frange di manifestanti con le forze dell’ordine, hanno intravisto in quelle manifestazioni qualcosa di non dissimile da un momento pre–insurrezionale. Certo, vista soprattutto la prevalente apatia che serpeggia in Italia, un numero di manifestanti così ampio e il prodursi di qualche battaglia di strada, comprensibilmente poteva far sorgere più di un entusiasmo tuttavia è sempre il caso di ricordare che le insurrezioni o i suoi tentativi presuppongono la presenza di strutture organizzate predisposte all’attacco. Di tutto ciò non si è avuta alcuna traccia per cui parlare di momento pre–insurrezionale appare, come minimo, una forzatura.

Identico ragionamento si può fare se dall’ipotesi dell’insurrezione passiamo a quella della “spallata”. In questo caso non necessariamente deve comparire, se non in forme minime, il conflitto armato ma, sicuramente, occorre l’esercizio di una “forza” in grado di arrecare danni considerevoli al nemico di classe. Perché si possa parlare di fase insurrezionale occorre che quanto emerge nelle piazze sia una lotta contro lo stato e per il potere mentre, nel caso della “spallata”, più modestamente, e forse anche più realisticamente, l’obiettivo è la caduta del governo. Nessuna delle due ipotesi, oggi lo possiamo dire sulla base di una prosaica constatazione empirica, è stata perseguita e questo, altro aspetto non proprio irrilevante, senza che il governo abbia dovuto intervenire in maniera eccezionale. In altre parole il governo, per far rientrare il tutto, non è stato obbligato a alcuna “forzatura emergenziale” non ha dovuto, cioè, promulgare alcun “stato d’eccezione”, affidare un qualche potere speciale alle forze di polizia, porre in stato dall’erta l’esercito, così come nessun restringimento delle “libertà democratiche” (individuali e collettive), nessuna parvenza di coprifuoco, limitazione della libertà di stampa ecc., sono state messe in campo e neppure ventilate. Il governo si è limitato a agire sicuramente con fermezza, ma dando anche l’impressione di mantenere entro perimetri piuttosto bassi i livelli repressivi. A sguardi minimamente attenti, oltre che consci degli abituali livelli repressivi posti in atto dalle forze di polizia nei confronti della racaille, è apparso subito chiaro come la polizia si sia mossa con il freno a mano tirato. Evidentemente, e non senza ragione, il governo aveva la netta sensazione di trovarsi di fronte al classico: tanto rumore per nulla. Quelle masse non sarebbero andate oltre. Tutto ciò, del resto, non poteva rientrare negli intenti dei settori di classe che sono scesi in piazza.

Come abbiamo, sin da subito evidenziato, la lotta ha interessato esclusivamente il settore pubblico mentre gli operai e i proletari del settore privato, i precari e i disoccupati ne sono rimasti sostanzialmente estranei. La stessa componente studentesca ha visto una spaccatura simile. A fronte della mobilitazione delle università e delle scuole superiori di élite, la componente studentesca maggiormente legata alla condizione operaia e proletaria, il cui orizzonte è esattamente finire tra le schiere dei non garantiti, ne è rimasta fuori. Il motivo di tutto ciò è abbastanza semplice. L’attacco governativo alle pensioni riguardava, principalmente, quei settori operai e proletari del settore pubblico che, per semplificare, possiamo catalogare come “garantiti” o, per usare un lessico un po’ datato ma non del tutto inattuale, come “aristocrazia operaia”. Un ambito che, in Francia, può vantare numeri considerevoli oltre che postazioni di forza e di potere non secondarie. Questo settore può vantare condizioni salariali, lavorative e previdenziali invidiabili e, se paragonate a quelle italiane, addirittura inimmaginabili. Ciò è il frutto di due cose, da un lato l’esercizio e di una forza sindacale costruita con le lotte; dall’altro la possibilità di usufruire di una parte dei profitti che il neocolonialismo francese è in grado di rastrellare, soprattutto in Africa, tramite il Franco CFA o i suoi surrogati. Non è certo una novità il fatto che settori di classe operaia usufruiscano di modeste ma significative parti dei profitti imperialisti e neocoloniali. In Francia, ciò, è quanto mai evidente.

Questi settori di classe hanno provato a difendere, per questo possiamo definirla come una lotta, per quanto corposa, di retroguardia, una condizione che appartiene, sotto il profilo storico, a un’epoca in fase di archiviazione anzi, per essere più precisi, a un’epoca già archiviata dal contemporaneo “piano del capitale” (di ciò l’Italia ne incarna con ogni probabilità il punto più avanzato). Una fase storica segnata in profondità da quel “patto socialdemocratico” il quale, con sfumature diverse, ha fatto da sfondo all’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Un patto sicuramente non esente da conflitti, spesso anche molto accesi, dove, però, l’idea della rottura non animava alcuna delle parti in gioco.

Se escludiamo il falò del Maggio e la “anomalia italiana” degli anni ’70, solo paese dell’Europa occidentale dove l’ipotesi della rottura si è concretamente dato tanto da delineare, pur se di breve intensità, lo spettro della “guerra civile”, nel resto dei paesi europei tutto ciò è rimasto sostanzialmente assente. Sovente, questo conflitto, non è andato molto oltre il “simbolico” dove, per “simbolico”, si intende la messa in scena di un conflitto, anche dai toni minacciosi, ma che non va mai oltre la rappresentazione.

L’epilogo di ciò, insieme alla sua infelice conferma, si è avuto proprio nel corso della battaglia per il ritiro della legge sulle pensioni a riprova di come, nella storia, la farsa segua sempre la tragedia. Il 16 marzo, l’opposizione parlamentare, ha interrotto la porta voce del governo alzandosi in piedi e intonando la Marsigliese. Peccato che, a tutto ciò, non abbia fatto seguito alcuna “marcia su Versailles”, alcuna “presa della Bastiglia” e, soprattutto alcuna “formazione di battaglioni”. Prigioniera di un mondo che non c’è più, l’opposizione parlamentare ha fatto ciò che, con ogni probabilità, nel passato sarebbe stato un atto dimostrativo sufficiente per obbligare il governo a una mediazione. Come tutti sanno, le cose sono andate in maniera decisamente diversa. Con ciò l’opposizione ha dimostrato più che la sua inadeguatezza il suo essere fuori contesto. Il canovaccio attuale predisposto dal comando non prevede che in scena vadano “battute” simili e farle non comporta altro che andare incontro a clamorose gaffe.

Con ogni probabilità, Mélenchon e soci, più che intestardirsi con un marxismo–leninismo d’antan trarrebbero maggiori vantaggi dalla lettura di Goffman!!! Una retorica alla quale, del resto, non si è sottratto neppure quella parte di movimento studentesco sceso in piazza. Chi ha seguito le manifestazioni avrà colto, cosa che probabilmente in un primo momento li avrà riempiti di entusiasmi, le non secondarie assonanze con il Maggio, i suoi slogan e le sue parole d’ordine ben velocemente, però, è diventato chiaro come, a conti fatti, la rievocazione del Maggio fosse del tutto in linea con il fare simbolico dell’opposizione in parlamento. Così come non vi è stata alcuna “marcia su Versailles” e il “Quartiere latino” ha dormito sonni tranquilli.

Ironie a parte un dato, che racconta molto sulla realtà di questo movimento, è la totale assenza della questione guerra nelle manifestazioni. Tutto ciò che concerne la guerra, il conflitto interimperialista in corso e le ricadute di questo anche dentro la Francia non ha trovato alcun spazio e, del resto, neppure poteva trovarlo. Il mondo dei “garantiti” o “aristocrazia operaia” che dir si voglia è, e questo da sempre, legato al carrozzone del “proprio imperialismo”, pertanto il conflitto non può varcare una certa soglia a meno che quella stessa condizione non inizi a incrinarsi. Qualche avvisaglia di ciò si è iniziata a intravedere nel corso delle “giornate francesi”, ma di tutto questo ne parleremo meglio nella seconda parte dedicata alla “soggettività della classe”. Prima di passare a parlare del “piano del capitale”, anche perché così diventa più semplice comprendere il senso di quanto asserito, un passaggio sulla scena italiana appare utile.

Per quanto in maniera sicuramente minimale, ma di segno identico, anche in Italia abbiamo avuto il nostro clamoroso abbaglio. Ci riferiamo a quanto andato in scena attraverso il “Collettivo di fabbrica GKN” e alle retoriche consumatesi intorno a “Insorgiamo”. La lotta della GKN era ed è, tra l’altro, non uno ma cento passi indietro rispetto alla Francia. Se, in Francia, la lotta di retroguardia dei “garantiti” mirava a difendere una postazione di forza e di potere dove a primeggiare era il “diritto a vivere” e non a lavorare, la lotta della GKN era del tutto perimetrata intorno a quel “diritto al lavoro”, che in soldoni significava semplicemente cercare un nuovo padrone, proprio di quella “destra operaia” che, in epoche ormai remote, ambiva a “farsi stato”. Tutto interno alla CGIL, per quanto legato a quella ipotetica sinistra della quale non se ne sono mai capiti contorni, programmi e intenti, il “Collettivo di fabbrica GKN” di questa organizzazione ne assumeva per intero tutte le retoriche. Produttivismo, ideologia del lavoro, concertazione senza dimenticare il legalitarismo, la reiterata manifestazione di fiducia nelle istituzioni e così via. Palesemente, nonostante i non pochi ammiccamenti nei confronti del “movimento”, la sua interlocuzione principale rimaneva Nardella (sindaco di Firenze), piddino di formazione renziana, il quale se sicuramente non è Lenin non è neppure lontano parente di Pietro Nenni. Facendosi forte di una consolidata tradizione “consociativa”, propria della “destra operaia”, il “Collettivo di fabbrica” considerava la mediazione istituzionale un atto pressoché dovuto il che non è stato. Ciò che il “Collettivo di fabbrica” non ha compreso è che, per la forma attuale del comando il “patto” con la “destra operaia” ha perso qualunque valenza strategica e, con questo, anche tutto l’insieme di “rituali” che gli hanno fatto da sfondo. L’epoca degli “atti simbolici” è abbondantemente alle spalle e “insorgere” nel nulla, come ha fatto il “Collettivo di fabbrica GKN” trascinandosi dietro gran parte del cosiddetto movimento antagonista, può essere ben chiosato con Sartre L’essere e il nulla. Di tutto ciò la Francia ne ha dato qualcosa di più di una semplice esemplificazione.

Passiamo così a parlare degli obiettivi che il “governo Macron”, il quale ha ben poco di francese ma è parte di prim’ordine del comando internazionale del capitale, ha voluto perseguire con la sua riforma. Come in molti ricorderanno uno spettro, da tempo, aleggiava tra le classi subalterne francesi: “Non fare la fine degli italiani”. Con non poca ragione, queste masse, identificavano nell’Italia il paese che più di altri sintetizzava la macelleria sociale del nuovo ordine capitalista il che con non poche ragioni. Per quanto anche in Francia, negli ultimi anni, si sia assistito al proliferare di politiche neoliberiste che hanno modificato radicalmente la composizione di classe del paese e a un non secondario ridimensionamento delle politiche di welfare, agli occhi di un visitatore italiano la Francia appariva pur sempre come il paese dei balocchi.

Con la mossa sulle pensioni, che ne prevede già immediatamente un’altra sulla sanità, il “governo Macron” intende por fine a quella che, per molti versi, appare come la grande anomalia europea. Ciò che deve essere battuta, ridimensionata e tendenzialmente estinta è proprio quella notevole porzione di classe operaia e proletariato “garantito” che in Francia, e in parte in Germania, incarna al meglio la tipologia delle relazioni industriali provenienti dal ‘900 e non è certo un caso che proprio in Francia e Germania si siano prodotte, proprio a opera di questi settori operai, le lotte maggiori.

In Francia questo settore di classe è ancora troppo vasto e non può più essere tollerato, ma deve essere allineato a quella condizione nella quale, non da oggi, sono state ascritte quote considerevoli di forza lavoro. Precarietà, lavoro nero e disoccupazione devono diventare i “luoghi comuni” delle masse operaie e proletarie senza che alcuna significativa forma di welfare li attenui. Proprio considerando questo il “cuore” del progetto politico del “governo Macron” abbiamo assunto Marsiglia come possibile paradigma del presente. Come abbiamo ascoltato in molte delle interviste riportate negli articoli precedenti, Marsiglia sembra presentarsi come un vero e proprio laboratorio per il “piano del capitale”. A renderla tale, aspetto che negli articoli pregressi è stato posto poco in evidenza, è la sua composizione “etnica”. Marsiglia è una città sicuramente abitata da francesi ma non bianca in quanto la presenza di una popolazione “postcoloniale” sembra essere maggioritaria.

Perché questa condizione ne farebbe il luogo ideale per la messa a punto delle politiche che stanno a cuore del comando? Perché Marsiglia si presta, si potrebbe dire come autentico modello ideal – tipico”, a essere uno di quei “sud del mondo” sui quali si delineano le attuali politiche del comando e del dominio dove “razzializzazione” e “neocolonialismo” sono i presupposti per l’attuale ciclo di accumulazione. Questo è il passaggio fondamentale attraverso il quale diventa possibile comprendere il senso dell’attacco a tutto tondo portato dal “governo Macron” al mondo dei “garantiti”. Marsiglia, quindi, come vero e proprio specchio del presente. Si tratta di una asserzione probabilmente non semplice e persino in apparenza eccessiva che, pertanto, deve essere argomentata.

Per comprendere il senso di questo passaggio dobbiamo chiederci qual è il modello delle relazioni industriali che il comando sta perseguendo. Lo scarto tra il passato e il presente è colossale in quanto da una relazione simmetrica si è passati a una decisamente asimmetrica. Con ciò, non senza ironia, si può asserire che il comando è andato “oltre Marx” poiché ha esattamente posto in mora quel: “A pari diritti, vince la forza” attraverso cui Marx, se da un lato indicava la “forza” come elemento essenziale del rapporto tra le classi (da qua la funzione dello stato come apparato di classe), dall’altro ne presupponeva l’eguaglianza sotto il profilo giuridico–formale.

Figlio del suo tempo e forzatamente eurocentrico, Marx assumeva le relazioni sociali europee come modello universale ponendo, con ciò, tra parentesi tutta la storia coloniale e, con questo, sia il ruolo svolta da questa nella cosiddetta accumulazione originaria e, in contemporanea, i modelli relazionali sui quali si fondava l’esercizio del dominio nei confronti dei colonizzati. Nasce esattamente dentro questo processo la svalutazione, “antropologica” ancora prima che “politica”, di ciò che le retoriche di senso comune inizieranno a definire come “sud del mondo”. Con ciò il “sud del mondo” diventava l’altro e la relazione con questo, si potrebbe dire per “natura”, non poteva che essere di tipo asimmetrico, ovvero regolata esclusivamente sull’esercizio della forza. Con ciò la storia delle masse subalterne europee e quelle quelle extraeuropee non poteva che essere scritta attraverso due sintassi tanto diverse quanto incommensurabili.

Una storia che ha funzionato sino a quando, attraverso i processi di globalizzazione, i rigidi confini che separavano, a quel punto il mondo occidentale dal resto del pianeta, si sono di fatto azzerati. A quel punto, questa volta per davvero, la condizione subalterna ha iniziato a farsi universale e lo ha fatto assumendo nei nord del mondo le condizioni in uso nel sud. Ciò che dagli articoli d’inchiesta abbiamo appreso è la condizione di esclusione e marginalità sociale nella quale versano coloro che compongono i ranghi della nuova composizione di classe così come, al contempo, abbiamo appreso lo svuotamento della città metropolitana dalle attività industriali, confinate nelle vicine “città satelliti”, a fronte del proliferare delle attività turistiche al suo interno. In questo modo la città viene liberata dall’ingombrante presenza dell’industria e della sua classe operaia, il cui confinamento geografico contribuisce non poco a renderla invisibile, mentre frotte di turisti possono “vivere la città”. Un fenomeno, questo, ben conosciuto in Italia. La nuova classe operaia è stata, per lo più, espulsa dalle città diventate, non a caso, anche queste mete turistiche e dislocata in quegli immensi territori un tempo extraurbani ma oggi, a tutti gli effetti, sterminate periferie delle metropoli oppure confinate, in condizioni servili, negli invisibili comparti agro–alimentari. Ma torniamo a Marsiglia.

Riprendiamo un tema ben affrontato in alcune interviste, affrontando il nesso indissolubile che lega militarizzazione, repressione e ciclo economico. Chiunque abbia visitato Marsiglia solo qualche anno addietro e lo rifaccia oggi noterà come militarizzazione del territorio insieme a repressione e confinamento della racaille abbiano conosciuto una crescita esponenziale soprattutto ultimamente quando, dopo anni di governo cittadino di destra, l’amministrazione è passata nelle mani di una giunta di sinistra. Potrebbe sembrare un non senso ma, in realtà, l’effetto di questa trasformazione ha ben poco a che fare con le possibili “visioni del mondo” delle donne e degli uomini politici che governano la città ma ha invece molto a che vedere con i processi economici che l’hanno investita. Come sempre non è guardando ai mondi celestiali delle idee e della politica ma andando a scavare tra gli inferi della produzione che diventa possibile comprendere i mondi reali.

Marsiglia, negli ultimi anni, ha conosciuto una veloce e repentina impennata in chiave turistica. Su ciò si sta rimodellando e lo sta facendo su più piani, al proposito apriamo un doveroso inciso. Il turismo di cui stiamo parlando è un turismo di massa cioè di quella robusta middle class che rappresenta l’ossatura dei vari nord del mondo ed è proprio la relazione e l’empatia con questa composizione di classe a fare da sfondo ai modelli di trasformazione urbana. Per prima cosa, infatti, la sta rendendo una città sempre più simile e omologata a tutte le città del mondo le quali, come da tempo è stato ben osservato dalla sociologia urbana, stanno assumendo sempre più aspetti omogenei. Ciò è estremamente rassicurante poiché, in ogni contesto, il turista può utilizzare la medesima mappa cognitiva.

Il turista non è alla ricerca del proprio “romanzo di formazione”, dove centrali diventano le diversità alle quali si va incontro, ma di un continuo non–luogo con il quale è abituato ormai da tempo a convivere e con il quale si immedesima. In seconda battuta il turista ha fame di “esotico”. I selfie che faranno da testimoni alla vacanza se da un lato dovranno fissare l’immagine delle cattedrali dei non–luoghi, dall’altro dovranno anche “raccontare” i “misteri del viaggio”. Nascono così i luoghi “caratteristici della città”, frutto di una nuova “invenzione della tradizione”, dove il turista può usufruire di una narrazione dove la storia della città, o meglio di una sua particolare zona (il quartiere del Le Panier tanto per fare un esempio particolarmente significativo), è totalmente reinventata e manipolata.

Tutto ciò, è evidente, per poter funzionare ha bisogno di due cose, la totale messa in sicurezza dei territori, per cui tutti coloro che disturbano, o potrebbero farlo, devono essere espulsi; una forza lavoro invisibile e priva di legittimazione sociale prona a assecondare le richieste del mercato. Una forza lavoro flessibile, precaria e continuamente sotto ricatto la cui condizione, per forza di cose, oscilla tra precarietà, disoccupazione e illegalità. Una forza lavoro che, nel momento in cui è inoccupata, deve essere confinata nei “Quartieri Nord” o nelle altre zone di Marsiglia off limits per i turisti. Questo, in sintesi, ciò che il comando, e a uno stadio piuttosto avanzato, sta realizzando.

Tutto ciò, come abbiamo provato a descrivere negli articoli pregressi, ha comportato il delinearsi di una “nuova composizione di classe” che non ha più nulla a che spartire con ciò che abbiamo definito “relazioni industriali novecentesche”. Se questo è il “piano del capitale” occorre pur sempre che, per essere realizzati, si facciano “i conti con l’oste”. Quanto l’oste sia accondiscendente è ancora tutto da dimostrare. Settori di “aristocrazia operaia”, operai industriali del privato, precari, disoccupati e illegali se, per un verso, non hanno ancora elaborato una loro compiuta sintassi mostrano, se non altro, di avere dalla loro una robusta grammatica. Se per il comando le masse subalterne devono essere relegate a forza nel mondo della voce non pochi indicatori sembrerebbero dire che queste masse si stanno appropriando del linguaggio, il loro linguaggio. Esattamente di ciò proveremo a parlare nel prossimo articolo.

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Esclusione sociale e capitalismo globale. Per una discussione su lotte e organizzazione nel presente / 2 https://www.carmillaonline.com/2022/09/08/esclusione-sociale-e-capitalismo-globale-per-una-discussione-su-lotte-e-organizzazione-nel-presente-2/ Thu, 08 Sep 2022 21:00:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73694 di Emilio Quadrelli

La grande trasformazione

Il comunismo, ovvero la teoria politica della nuova classe in grado di incarnare, e in maniera definitiva, l’universale poggia per intero sul punto d’approdo della filosofia classica borghese. Il ciclo storico progressivo della borghesia, sotto il profilo concettuale, si consuma in Hegel e Feuerbach lasciando irrisolta la questione della nuova classe che questo mondo ha partorito: il proletariato1. Engels [...]]]> di Emilio Quadrelli

La grande trasformazione

Il comunismo, ovvero la teoria politica della nuova classe in grado di incarnare, e in maniera definitiva, l’universale poggia per intero sul punto d’approdo della filosofia classica borghese. Il ciclo storico progressivo della borghesia, sotto il profilo concettuale, si consuma in Hegel e Feuerbach lasciando irrisolta la questione della nuova classe che questo mondo ha partorito: il proletariato1. Engels e Marx, facendo leva sui titani della borghesia, porranno a regime la teoria della parte “cattiva” della storia, della negazione del modo di produzione capitalista. In virtù di ciò la guerra tra proletariato e borghesia è un conflitto riconosciuto da entrambi i contendenti come legittimo. Palesemente, dentro tale cornice, non vi è spazio per l’esclusione. Non per caso, come avviene in ogni conflitto legittimo, la possibilità della mediazione, del ricorso all’arte della diplomazia e via dicendo è sempre possibile. Gli operai sanno che la borghesia è una forza storica che governa in virtù di una legittimità storica e politica così come, al contempo, la borghesia intravede nella classe operaia la forza storica in grado di seppellirla. Ridotta all’osso, e non è certo cosa da poco, tutta la storia del movimento operaio passato si riduce a ciò. Uno scenario che, nei nostri mondi, si è obiettivamente eclissato.

Oggi noi riscontriamo come la condizione di socialmente escluso sia ben distante dall’indicare le classiche e in gran parte endemiche sacche di marginalità, ma come tale condizione invece si sia estesa a corpose quote di forza lavoro salariata. Ma tutto ciò da che cosa trae origine? Attraverso quali passaggi ciò si è reso possibile? Che cosa ha reso così familiare la condizione dell’esclusione? La questione non è liquidabile in poche battute poiché la repentina caduta dentro l’ambito dell’esclusione sociale è il frutto di più fattori che, nel corso dell’analisi, vanno tenuti costantemente a mente. Non si tratta, infatti, del semplice e meccanico riflesso di una condizione oggettiva (le trasformazioni intervenute dentro il ciclo produttivo) ma, piuttosto, il risultato di un insieme di interventi oggettivi (economici), soggettivi (politici) e teorici che hanno contribuito alla messa in forma dello scenario attuale. Una nuova definizione del concetto di esclusione sociale deve, pertanto, tenere costantemente a mente l’intreccio di queste tre dimensioni.

L’irrompere dell’esclusione sociale come fenomeno interno alla condizione lavorativa di corpose quote di forza lavoro ha iniziato a delinearsi con l’era del cosiddetto capitalismo globale il quale ha coinciso, a grandi linee, con il crollo dell’URSS e la fine del bipolarismo2. Da quel momento in poi, limitando lo sguardo alla condizione della forza lavoro salariata occidentale, si è assistito a una sorta di globalizzazione in basso della condizione operaia e proletaria.

Tutto questo all’interno di un doppio movimento. Per un verso, attraverso i processi di delocalizzazione ed esternalizzazione dei processi produttivi3, il ciclo della merce ha iniziato a essere dislocato nelle più svariate aree del mondo mentre, al contempo, le condizioni di vita e di lavoro presenti nei Paesi non occidentali ha iniziato a plasmare le relazioni lavorative anche dell’ex Primo mondo.

Ricerca di sempre maggiore produttività e riduzione del costo del lavoro sono stati, accompagnati da cospicui provvedimenti di detassazione dei profitti, la linea di condotta del comando capitalistico internazionale. Nonostante le tensioni e gli squilibri che hanno attraversato e attraversano sempre più i diversi gruppi imperialisti4, smentendo con ciò i vari teorici di Empire5 che si sono ritrovati ben presto tra le mai un Impero persino più breve del III Reich, nei confronti della forza lavoro salariata questi blocchi si sono mossi in maniera assolutamente unitaria e compatta6. L’attacco alle condizioni di vita delle masse ha conosciuto picchi che, solo pochi anni addietro, neppure i più reazionari e destrorsi capitalisti avrebbero neppure ipotizzato. Un attacco che ha comportato non solo la “semplice” riduzione di salario, di garanzie, di diritti interni al luogo di lavoro e produzione, ma che si è dipanato su tutti gli ambiti sociali.

Il costo del lavoro, infatti, non si limita alla semplice questione salariale ma investe, o almeno ha investito specialmente nei Paesi dell’Europa occidentale, tutto quell’insieme di “diritti sociali” non direttamente collegati agli ambiti aziendali7. In questo senso il costo del lavoro associa alla voce salario propriamente detta una serie di aspetti complementari quali pensioni, sanità, scuola ecc. che costituiscono, o almeno hanno costituito, un insieme di capitoli di spesa legati a doppio filo al salario e alla forza operaia che questo incarnava. La lotta incessante, e tuttora in corso, contro la spesa sociale da parte di tutti i governi borghesi dell’ultimo trentennio raccontano esattamente il graduale e costante assedio a cui la forza–lavoro salariata dei Paesi occidentali è stata sottoposta e la sua sempre maggiore vicinanza a quella condizione lavorativa che, da tempo, l’imperialismo delle multinazionali aveva ampiamente sperimentato fuori dai confini del Primo mondo. È diventato persino banale tracciare le condizioni di vita oltre il paradossale e il grottesco a cui sono deputate quote di forza – lavoro non secondarie, con condizioni contrattuali che, in alcuni casi, si limitano alla singola giornata lavorativa, per non parlare di quella massa permanente di “occupati in nero” che solo dentro una condizione fuori legge trovano una qualche possibilità di sostentamento.

Infine, e non si tratta di un passaggio privo di ricadute, aumenta in maniera esponenziale il numero di coloro che vivono attraversando continuamente la soglia della legalità. Il dilatarsi dell’area penale, una costante che accomuna tutti i Paesi occidentali8, testimonia quanto, per corpose quote di popolazione subordinata il ricorso all’illegalità funziona esattamente come stato d’eccezione permanente. Il tutto, sia ben chiaro, senza alcun romanticismo o ribellismo di sorta. La massa di subalterni che attraversano le soglie della legalità hanno veramente ben poco del bandito e/o del masnadiero così come, nel loro agire, non vi è nulla di, almeno sotto il profilo “oggettivo”, antagonista o di poco convenzionale9, ma, ben più prosaicamente, vi è l’assunzione drammatica e realista al contempo di una condizione esistenziale che non lascia molte vie di fuga10.

Per cospicue quote di forza–lavoro subordinata, il ricorso all’illegalità, non è altro che la “ banale” articolazione di una complessa giornata lavorativa nella quale, volta per volta e in base alle richieste del mercato, si svolgono diverse funzioni11. Del resto, e non è un caso, la stragrande maggioranza delle attività illegali sono legate a quell’insieme di servizi “illeciti” ampiamente richiesti dalla società legittima. All’interno di questa sorta di “terziario illegale”12 si consumano quote di giornate lavorative di quel “lavoro (e lavoratore) senza fissa dimora”13 di cui le nostre società sembrano essere sempre più voraci. Uno scenario talmente diffuso da non fare neppure più notizia.

Questi dati strutturali e oggettivi hanno avuto bisogno di un involucro soggettivo, ossia politico, in grado di gestire al meglio tale passaggio. Questa forma è riconducibile a quel movimento cosiddetto neoliberista e/o ordoliberale che ha caratterizzato un intero ciclo storico della borghesia. Un ciclo politicamente organizzato a partire dai primi anni Settanta del secolo scorso la cui gestazione affonda le radici sin dentro il dibattito degli economisti e dei politologi tra le due guerre14.

A caratterizzare questa fase, in maniera apparentemente sorprendente, è la “rivolta” della borghesia, e soprattutto delle sue frazioni imperialiste, nei confronti dello stato. A partire dai primi anni Settanta abbiamo così assistito a una continua battaglia anti-statuale da parte di corpose quote di borghesia. Ma di quale battaglia si è trattato? A ben vedere a venire intaccate non sono state certo le funzioni propriamente politiche dello stato piuttosto a essere costantemente sotto tiro sono stati gli interventi statuali dentro la società e la funzione di mediatore dei conflitti assolta dallo stato per gran parte del Novecento a partire da quella grande cesura storica che è stata la Prima guerra mondiale15.

In poche parole ciò che è diventato oggetto di critica costante da parte della borghesia è stato il carattere anche sociale dello stato. L’obiettivo strategico di questo discorso ha mirato a separare lo stato, ossia la sua funzione squisitamente politica, da quella sociale. Quali sono le ricadute al contempo oggettive e soggettive di questo passaggio? Si tratta semplicemente, anche se questa è la ricaduta empirica più immediata ed evidente, di un impoverimento più o meno generalizzato delle masse subalterne? Si tratta di un semplice ridimensionamento di quell’insieme di “consumi”, dove per consumi non si intende semplicemente la quota di merci acquisibili tramite il salario bensì di quel “consumo sociale” che passa attraverso il diritto alla salute, allo studio, alla gestione di ampie quote di tempo libero e così via? In poche parole si tratta di una partita che si gioca per intero dentro la dimensione economica oppure, tutto ciò, si porta appresso una mutazione radicale e complessiva della relazione tra capitale e lavoro salariato rispetto a ciò che, pur con tutte le modifiche e le rotture storicamente intervenute, abbiamo sino ad ora conosciuto?

La condizione dell’esclusione sociale lascia, fatte le tare del caso, immutate le cornici del conflitto oppure, dentro la fase imperialista attuale, gli elementi di rottura rispetto alle epoche precedenti sono di tale portata e ricaduta da investire nel suo insieme la relazione tra comando capitalistico e masse lavoratrici subordinate? I dati obiettivi porterebbero a optare per quest’ultima ipotesi ed è esattamente dentro questo passaggio che la questione dell’esclusione sociale si emancipa dagli angusti e classici ambiti della marginalità per diventare tema centrale delle nostre società.

Ciò a cui assistiamo è al venir meno di quel rapporto di reciprocità tra borghesia e proletariato che aveva caratterizzato un intero ciclo storico. Di fronte a sé, la borghesia, non riconosce alcun hostis ma solo, sul fronte interno, “anormali”16 e canaglie sul piano internazionale17. A caratterizzare la fase attuale è l’assenza del nemico pubblico e della dimensione esistenziale propria del “politico”. Dentro tale scenario, per forza di cose, diventa impensabile ogni ipotesi di mediazione e/o di diplomazia poiché, perché tali pratiche possano venir messe a regime, occorre che il principio di reciprocità giri a pieno regime. In definitiva l’esclusione sociale non è altro che la forma “concreta” di un passaggio ancor più radicale: l’espulsione delle masse dalla scena pubblica, quindi dalla politica. Un’esclusione che investe per intero il sistema–mondo.

(fine seconda parte – continua)


  1. F. Engels, “Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca”, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969  

  2. Una disincantata analisi di questi processi la fornisce, in maniera apparentemente inaspettata, un neoliberista tra i più attivi e convinti, L. C. Thurow, Il futuro del capitalismo, Mondadori, Milano 1997. Di non poco interesse, sempre per un punto di vista interno al capitalismo globale, rimane, G. Soros, La crisi del capitalismo globale, Ponte alle Grazie, Milano 1999.  

  3. Una buona esemplificazione empirica di questo passaggio la fornisce il bel lavoro di D. Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente. Migranti, capitali e azioni umanitarie, Ombre Corte, Verona 2004. Un aspetto non secondario della ricerca di Sacchetto è il mostrare la precisa relazione tra delocalizzazione e azioni di polizia umanitarie. Un modo elegante per giustificare quelli che, a tutti gli effetti, si presentano come atti di vero e proprio colonialismo. Una conferma di questo intreccio la si può trovare attraverso la “storia di vita” di Anna raccolta da E. Quadrelli in Evasioni e rivolte. Migranti. CPT. Resistenze, Agenzia X, Milano 2007. In questa testimonianza diventa pressoché indiscutibile come tra le finalità delle cosiddette azioni umanitarie e/o di polizia internazionale vi sia anche la messa al lavoro integrale del corpo dell’indigeno. Una logica che trova non poche affinità con quanto praticato in Afghanistan dalle filiere dell’imperialismo a matrice fondamentalista nei confronti dei civili afgani. Lo stesso “diritto allo stupro” praticato dai combattenti anticomunisti e ultrà della shari’a mostra come, indipendentemente dalle diverse confessioni, le logiche imperialiste siano, nei confronti delle masse subalterne, improntate dalle medesime affinità. Non stupisce pertanto come proprio il corpo della donna, in piena assonanza con le più scontate logiche coloniali, sia quello maggiormente  

  4. Sotto tale profilo non poco indicativo è la diversità di interessi e intenti emersi nella guerra conto la Libia. Al proposito si veda, «Limes Rivista italiana di geopolitica», Il grande tsunami, Gruppo Editoriale L’Espresso N. 1, Milano 2011. Proprio la “Campagna di Libia”, nonostante la cornice Nato in cui è condotta dovrebbe mostrarne il carattere omogeneo e unitario mostra come la “grande coalizione”, a dominanza statunitense, venutasi a delineare nel corso della “guerra fredda” avesse una natura puramente tattica, fronteggiare il comune nemico, mentre, sul piano strategico, fosse del tutto inconsistente. Con la fine del “Patto di Varsavia” le consorterie imperialiste hanno ripreso, senza troppi pudori, a giocare ognuna per sé. Nel “caso Libia” ciò è quanto mai evidente. Sono stati proprio i Paesi con alle spalle un passato coloniale di primordine, Gran Bretagna e Francia, a spingere verso la guerra con la dichiarata tentazione di ritornare, da padroni, sui territori che le avevano viste a lungo protagoniste. Ovvio che, in tale contesto, una struttura come la Nato diventi oggetto di negoziazioni, e spartizioni, tra partner sempre più indirizzati verso una politica internazionale autonoma dove, per autonoma, si deve intendere autonomia politica, militare, economica e diplomatica dei diversi raggruppamenti imperialisti. Sulla “crisi” che attraversa, non da ieri, la struttura Nato si veda «Limes», Rivista italiana di geopolitica, L’America in panne, Gruppo Editoriale l’Espresso, n. 1, Milano 2007.  

  5. M. Hardt, A. Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2002  

  6. Cfr., E Quadrelli, Cogliere l’occasione! Genova 2001 – Genova 2011. Note per una lettura globale della fase imperialista, Associazione marxista Politica e Classe, Roma 2011  

  7. La cesura tra il passato e il presente può essere colta attraverso la rilettura di un testo, T. H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale, Editori Laterza, Roma – Bari 2002, che ha a lungo rappresentato la stella polare delle politiche statuali dei Paesi dell’Europa occidentale nei confronti delle masse subalterne. Sin dalle prime battute apparirà chiaro ed evidente come la cornice teorico – politica contemporanea si collochi su coordinate non solo diverse ma opposte.  

  8. La pubblicistica al riguardo è quanto mai vasta. Con ogni probabilità i testi che affrontano con maggiore incisività e chiarezza analitica questo passaggio sono L. Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, Editore Laterza, Roma – Bari 2006; L. Wacquant, Simbiosi mortale. Neoliberismo e politica penale, Ombre Corte, Verona 2002  

  9. Si tratta di una condizione ben diversa da quella che ha caratterizzato, negli anni Settanta del secolo scorso, una parte della storia dell’illegalità del nostro Paese . Le batterie di rapinatori che hanno caratterizzato quel periodo rappresentavano a tutti gli effetti una rottura con i cliché tradizionali della malavita. Ciò non è difficilmente spiegabile poiché le batterie erano figlie della fabbrica, prodotti spuri ma diretti di quella trasformazione seguita all’impiantarsi della fabbrica fordista nei principali comparti industriali italiani. Su questi aspetti si veda, E. Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori e guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, Derive Approdi, Roma 2004. Un’epoca che, nell’arco grosso modo di un decennio, volge drammaticamente al termine e della quale ne è stata praticamente azzerata la memoria. Non è infatti casuale che, oggi, l’icona illegale degli anni Settanta sia comunemente considerata la Banda della Magliana il cui legame a doppio filo con il potere, è arcinoto. Reiterando un aspetto, quello per così dire classico, del rapporto tra crimine e potere alla cui base vi è la relazione et – et. Su questo aspetto, cfr. M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1976.  

  10. In questo senso per lo meno discutibili appaiono quell’insieme di ipotesi politiche che individuano nell’esodo, cfr. P. Virno, Esercizi di esodo. Analisi linguistica e critica del presente, la possibile strategia antagonista del presente.  

  11. Empiricamente queste pratiche sono state ampiamente descritte in A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, Feltrinelli, Milano 2003.  

  12. Sull’aspetto di “servizio” di tali attività, A. dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre, cit.  

  13. Questa assenza di dimora stabile del lavoro sembra essere una delle peculiarità della condizione lavorativa contemporanea. Tutto ciò, ovviamente, ha ricadute sulla soggettività del lavoratore di non secondaria importanza. La differenza con l’epoca che ci siamo lasciati alle spalle dove, in linea di massima, il medesimo luogo di lavoro diventava una sorta di abitazione per il lavoratore dall’assunzione sino alla pensione è evidentemente abissale. Un aspetto fondamentale del nostro lavoro di inchiesta deve forzatamente cercare di decifrare il tipo di auto rappresentazione che questa tipologia di lavoratore ha di se stesso. Una ricerca sulla “soggettività” dell’attuale forza – lavoro è un passaggio irrinunciabile al fine di mettere in forma i passaggi organizzativi propri di tale condizione.  

  14. Il senso di questo dibattito è molto ben ricostruito in M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005  

  15. Su questo passaggio è particolarmente utile, S. Mezzadra, La costituzione del sociale. Il pensiero politico e giuridico di Hugo Preuss, Il Mulino, Bologna 1999.  

  16. Cfr. E. Quadrelli, Gabbie metropolitane. Modelli disciplinari e strategie di resistenza, Derive Approdi, Roma 2005  

  17. Ciò è ben argomentato in, A. Dal Lago, Polizia globale. Guerra e conflitti dopo l’11 settembre, Ombre Corte, Verona 2003.  

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Per una critica della società dell’Apocalisse permanente https://www.carmillaonline.com/2021/09/22/per-una-critica-della-societa-dellapocalisse-permanente/ Wed, 22 Sep 2021 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68263 di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel [...]]]> di Sandro Moiso

Francesco “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza. Considerazioni sul libro «Critica dell’utopia capitale» di Giorgio Cesarano e sull’esperienza della corrente comunista radicale in Italia (nuova edizione riveduta e accresciuta), Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 176, 15,00 euro

Costoro sono nati per una vita che resta da inventare; nella misura in cui hanno vissuto, è per questa speranza che hanno finito con l’uccidersi (Raoul Vaneigem, Banalità di base)

Tornato per un momento dall’esilio sull’isola di Patmos e costretto a posare i piedi nella realtà attuale, l’evangelista Giovanni si stupirebbe certamente nel constatare come l’umanità contemporanea si sia assuefatta a vivere, anche se sarebbe forse meglio dire sopravvivere, in una apocalisse continua: climatica, economica, politica, militare, sanitaria, sociale e ambientale.
Un autentico inferno che, colui che è ancora rappresentato nell’iconografia cristiana come l’aquila, per la sua lungimiranza e profonda capacità visionaria, non avrebbe saputo anticipare nemmeno nei suoi incubi più terribili.

Questa Apocalisse terrena, che non si è ancora sviluppata in alcuna lotta definitiva tra il Bene e il Male, anche se nel corso dei secoli milioni di persona sono morte a causa di crociate politico-militari e religiose che promettevano, da vari e contrastanti punti di vista, il trionfo del primo sul secondo, ha avuto, però e fin dai primi anni Settanta del ‘900, un suo anticipatore, seguito da un ristretto numero di seguaci, in Giorgio Cesarano.

Come afferma Francesco “Kukki” Santini nel riassumerne l’opera di Giorgio Cesarano (1928-1975) intitolata, appunto, Apocalisse e Rivoluzione (con Gianni Collu, come attestava il frontespizio del manoscritto, Dedalo, Bari 1973):

Secondo Cesarano, i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera, preparando esiti apocalittici.
Tutte le contraddizioni storiche si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone il capitale – giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi – alla specie umana. Stiamo vivendo le prime fasi della “rivoluzione biologica”, risposta della corporeità vivente contro il pericolo di annichilamento e superamento dei limiti di tutte le rivoluzioni “storiche”.
Nel suo movimento, il capitale realizza il processo di reificazione inaugurato, fin dalla remota origine della specie, dal combinarsi subalterno del corpo biologico – debole e indifeso di fronte alla natura terrifica e ostile – con l’utensile-protesi. Da questa primaria alienazione in poi, l’utensile-protesi ha continuato a svilupparsi a scapito della corporeità e della sensibilità della specie, divenendo l’UT che subordina a sé tutto lo sviluppo “storico”. L’antica alienazione del “senso” della vita, di cui tendono ad appropriarsi le caste dominanti religiose e militari, genera l’accumulazione di segni e simboli che formano la lingua, separata dal corpo della specie e dalle sue necessità di comunicazione. La lingua sequestrata produce a sua volta l’Ego separato dall’inconscio, dal rimosso, dal desiderio “istintuale”, come rappresentante del dover-essere e della normativa sociale, propri di un vissuto storico collettivo fondato sul lavoro e sulla sofferenza1.

Fermiamoci per un momento, soltanto per svolgere alcune osservazioni su quanto è stato qui appena citato.
Quello che sarebbe diventato uno dei manifesti della critica radicale italiana2, accompagnato dal successivo Manuale di sopravvivenza (Dedalo, Bari 1974 e Bollati Boringhieri, Torino 2000), raccoglieva già al suo interno vari stimoli provenienti dall’opera di Jacques Camatte sulla specie-gemenweisen e il capitale totale, dall’idea del linguaggio come virus tratta dall’opera di William Burroughs e dalle catastrofiche previsioni contenute nel rapporto commissionato dal Club di Roma al MIT e pubblicato nel 1972 con il titolo I limiti dello sviluppo.

Senza farsi imprigionare dal pensiero contenuto nell’opera dei due autori oppure dei ricercatori americani autori del Rapporto, Cesarano provocava e apriva la riflessione in direzione di vie ancora inesplorate dal pensiero rivoluzionario tradizionale. Così è possibile cogliere oggi, in quelle poche righe, le radici delle successive elaborazioni del primitivismo di John Zerzan oppure le elaborazioni che si sarebbero succedute in seguito sul passaggio di consegne dalla classe operaia alla specie umana nel suo complesso dei compiti della lotta contro il capitale e il suo pestifero e mortifero sviluppo.

Anticipando però, già allora, una critica al catastrofismo di stampo capitalistico che, eludendo il problema dello scontro di classe, ineliminabile dai rapporti di produzione e dalle scelte di utilizzo delle risorse, sarebbe poi giunto, ai nostri giorni, alla riproposizione del green capitalism e del recupero del nucleare come energia “pulita”.
In fin dei conti, proprio nel corso degli ultimi giorni, la denuncia del ministro alla Transizione Ecologica del possibile aumento del 40% dei costi dell’energia elettrica non ha fatto altro che prolungare l’allarmismo securitario cui si sono affidati da anni, in un autentico susseguirsi epidemico di emergenze continue, i governi per mantenere, con la paura, il proprio potere sui governati, senza mai dover mettere in discussione il modo di produzione che causa davvero disastri e sprechi insostenibili per la specie e il pianeta. Anzi, semmai colpevolizzando la specie nel suo complesso attraverso le formulazione della teoria dell’Antropocene, evitando invece di parlare, più correttamente, di Capitalocene3.

La rivoluzione, come tradizionalmente l’alta magia e la religione, affronta il nemico esterno per mezzo della vera guerra. Questa non può prescindere dallo scontro con tutte le immagini del Sé, che lo riproducono a somiglianza del capitale come quantità di valore in processo, simbolo, ruolo, funzione della vita assente, inserito nella società in cui circola e si realizza (o si devalorizza) come merce immateriale e veicolo della lingua.
Il capitale, invece, condivide con la religione i contenuti della penitenza e del millenarismo: da un lato minaccia l’apocalisse, dall’altro chiama a sé a specie come gregge della sopravvivenza, inquadrato dalle nuove ideologie neocristiane del dubbio, del problema, dell’autocritica.
La produzione di persone di nuovo tipo è parte integrante del progetto planetario della carestia: trasferimento del grosso della produzione di merci materiali alla periferia del mondo capitalista e sua sostituzione con la colonizzazione dell’interiorità e la creazione di nuove merci corrispondenti (ruoli sociali, farmaci, comunità terapeutiche, servizi)4.

Santini scriveva decenni or sono di un libro apparso nel 1973, ma basterebbe aggiungere all’elenco i social media, che oggi hanno letteralmente colonizzato la mente e l’immaginario della specie, per avere un quadro completo dell’Apocalisse in atto e della necessità di superare la mera sopravvivenza con una svolta rivoluzionaria. Anche se, per ora, lontana dal venire.

All’epoca, la stessa scelta “armata” sembrava proiettare ancora i militanti all’interno del mondo della Carestia5, poiché in tal modo la vera guerra veniva sostituita con l’autovalorizzazione per mezzo del sacrificio sanguinoso e dell’eroismo ritualistico, ma, sempre secondo Cesarano, la prospettiva del capitale di assoggettare definitivamente la specie, facendola parlare con la propria stessa voce, stava per fallire.

Il movimento della rivoluzione, pur col ritardo necessario ma non inevitabile degli infortuni della passione, pur con le perdite causate dalla disperazione e dalla solitudine dovute all’esigenza di inverarsi immediatisticamente e di non recede dai livelli di radicalità raggiunti, si appresta a disvelare la menzogna del mondo fittizio in cui ogni corpo è strappato all’essere e abolito, e, trapassando tutte le ideologie e i travestimenti dell’inorganico fattosi uomo, si avvicina allo scontro ultimativo e alla vittoria6.

Il dramma che sorge dalla lettura dell’antologia di testi di Francesco Santini, proposta dalle sempre stimolanti e attente Edizioni Colibrì, sorge però dal fatto che a fronte di tanta determinazione critica e politica i principali protagonisti di quella stagione (Eddy Ginosa nel 1971, Giorgio Cesarano nel 1975 e lo stesso Santini nel 1996) decisero tutti, in maniera decisamente ultimativa, di non piegarsi alla mediocrità del momento, esattamente come Guy Debord, uno dei loro principali ispiratori, avrebbe fatto nel 1994.

Il Je mange pas de ce pain-la di Benjamin Péret, diventava un imperativo assoluto, tale da far sì che la spasmodica attesa dell’evento rivoluzione finisse, a causa della sua prolungata assenza, col coincidere con la stoica decisione di rinunciare a una non-vita, il cui unico valore, per chi la viveva consciamente, poteva essere costituito soltanto dalla depressione e dal senso di impotenza. Non resa dunque, ma estrema affermazione di alterità nei confronti di un mondo ancora non pronto a recepire la radicalità di un messaggio che, in compenso, la borghesia dell’epoca aveva già percepito e represso attraverso arresti e accuse di coinvolgimento nelle sue trame più oscure, proprio nei confronti degli ambienti anarchici e proletari in cui la critica radicale, pur rivendicandosi comunista, aveva trovato maggior ascolto e accoglienza.

Tra i testi ripubblicati, oltre a quello già contenuto nella Cronologia della vita e delle opere che introduceva il terzo volume delle opere complete di Giorgio Cesarano, pubblicato con il titolo Critica dell’Utopia Capitale per conto dell’associazione culturale «Centro d’iniziativa Luca Rossi», sono compresi vari contributi di Santini apparsi sulla rivista «Insurrezione» e in altri contesti. Tra questi il più importante è proprio quello che dà il titolo al libro e in cui l’autore, prendendo le mosse dal suicidio di Cesarano, traccia una storia delle origini e degli sviluppi della critica radicale italiana, indicandone le radici nel movimento ’68, nell’Internazionale Situazionista e nelle correnti più lucide del pensiero comunista, consigliare e anarchico, anche se, a ben vedere, la critica radicale si differenziò da tutte queste.

Non soltanto storia, però, ma anche necessario bilancio critico di un’esperienza che perso in gran parte l’appuntamento decisivo con quello che avrebbe potuto costituire l’affermazione materiale delle sua anticipazioni, ovvero il movimento del ’77, finì, secondo Santini, troppo spesso col rinchiudersi su se stessa, inaridendosi. Come scrive ancora:

Verso la fine del’76, mentre i piccoli nuclei di «radicali» presenti in varie città d’Italia tendevano a prendere un atteggiamento di vuota superiorità che li avrebbe resi incapaci di realizzare qualsivoglia intervento efficace, esistevano occasioni di incontro con i Circoli del Proletariato Giovanile e l’incipiente Autonomia.
[…] A partire dalla fine del ’76, con l’esperienza dei Circoli del Proletariato Giovanile, preannunciata dagli scontri della primavera del ’75,la situazione italiana si riaprì rapidamente tornando a offrire ai rivoluzionari ricche occasioni di comunicazione col sociale.
La comparsa sul palcoscenico della politica dell’Autonomia Operaia non costituì in sé una novità. Infatti l’Autonomia può essere giustamente considerata nient’altro che una forma di militantismo di sinistra conseguente. La spiegazione del successo dell’Autonomia sta essenzialmente nella chiara scelta da parte sua della pratica dell’illegalità e della violenza. Lo scompiglio provocato nel quadro politico dai gruppi autonomi aprì un varco entro cui poterono irrompere i selvaggi delle metropoli.
[…] I grandi movimenti di Roma e Bologna nei primi mesi del ’77 realizzavano il sogno delle grandi rivolte armate fuori e contro i racket politico-sindacali covato dai radicali per tanti anni. Il ’77 non ebbe la portata, la profondità sociale e la durata del movimento precedente del ’67-’69; tuttavia determinò una situazione ancora più favorevole per il comunismo radicale.
Intanto, questa volta la politica militante dei gruppettari – che per tanti anni aveva costituito un freno e un blocco con cui, volenti o nolenti, i rivoluzionari avevano dovuto fare i conti – fu investita subito dalla critica feroce e irridente di un movimento che esprimeva come proprio presupposto l’esigenza di lottare per sé, per la vita di ciascuno, contro il sacrificio, la noia, il lavoro, per cambiare immediatamente se stessi, affrontando nel contempo a viso aperto l’assedio del mondo delle merci. Inoltre, stavolta, il blocco staliniano PCI-CGIL venne identificato come il nemico; si schierò subito apertamente contro il movimento e,per la prima volta, perse completamente il controllo della piazza7.

Per Francesco Santini, così come lo era stata per la critica radicale prima e per la rivista «Insurrezione» sul finire degli anni Settanta, l’ago magnetico della bussola politica rivoluzionaria doveva essere sempre rivolto in direzione degli episodi insurrezionali, di violenza e illegalità (come confermano ulteriormente gli scritti sul comontismo), che si caratterizzavano per il proprio essere di massa e spesso spontanei, quasi sempre con il proletariato giovanile metropolitano nei panni del principale attore protagonista.

Una concezione che vedeva nel rivoluzionario colui che sapeva cogliere e seguire con attenzione (se impossibilitato alla partecipazione diretta) tutte le possibili anticipazioni della Rivoluzione a venire, per momentanee e caduche che fossero, al fine di stilare un autentico atlante delle città insorte e del cammino verso la liberazione della specie dall’attuale modo di produzione dominante. Fatto che, come ci insegnano i nostri giorni, potrebbe rendersi ancora necessario nel nostro immediato futuro, in ogni angolo del mondo e in ogni frangente riconducibile allo scontro tra specie e capitale.

L’Italia di Roma e Bologna del ’77 si aggiungeva, come nuovo laboratorio insurrezionale, a Detroit, Stettino, Danzica, Belfast, Oakland, la Torino di corso Traiano, Parigi del maggio e tante altre città in rivolta, così come oggi Minneapolis, Beirut, Santiago del Cile, Barcellona, Hong Kong, le città francesi invase dai gilets jaunes e dai giovani delle banlieues, e altrettante ancora segnano e segneranno puntualmente il cammino sull’atlante stradale della rivoluzione. Che non potrà essere, per forza di cose e sempre di più, che anonima e tremenda.

Anche soltanto per questo il testo qui proposto dovrebbe essere letto da chiunque si voglia porre sul lato giusto delle barricate di oggi e domani. Nella certezza che soltanto la promessa di sviluppo infinito del capitalismo costituisce in sé un’illusoria utopia, al contrario di quanto molti servitori della sua causa hanno sempre voluto far credere al fine di segare le gambe all’immaginario e alla materialità della concretezza rivoluzionaria.


  1. Francesco “Kukki” Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1 a F. “Kukki” Santini, Apocalisse e sopravvivenza, Edizioni Colibrì, Milano 2021, pp. 90-91  

  2. Della quale si è parlato già qui su Carmilla  

  3. Come suggerisce invece Jason W. Moore in Antropocene o Capitalocene? Scenari di ecologia-mondo nell’era della crisi planetaria, Ombre Corte, Verona 2017  

  4. F. “Kukki” Santini, op. cit. pp.91-92  

  5. Sulla critica radicale all’esperienza della lotta armata si veda ancora Parafulmini e controfigure, numero speciale della rivista «Insurrezione», maggio 1979 qui oppure l’intero opuscolo, contenente estratti da Terrorismo o rivoluzione di Raoul Vaneigem (1972) e da Apocalisse e Rivoluzione (1973), ripubblicato con lo stesso titolo dalle Edizioni Anarchismo nella collana «Opuscoli provvisori» con il n° 28 e giunto alla sua terza edizione nel novembre 2013  

  6. F. K. Santini, Esposizione sintetica degli scritti teorici e d’intervento di Giorgio Cesarano, Appendice 1, op.cit., p. 92  

  7. Francesco “Kukki” Santini, La grande occasione del’77, in Apocalisse e sopravvivenza, op.cit., pp. 73-74  

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L’autonomia operaia romana https://www.carmillaonline.com/2017/06/27/lautonomia-operaia-romana/ Mon, 26 Jun 2017 22:01:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39092 di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare [...]]]> di Giovanni Iozzoli

G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomiVolume IV. L’Autonomia operaia romana, DeriveApprodi, Roma, 2017, 224 p., € 18.00

Derive Approdi ha dato alle stampe il quarto volume della serie Gli autonomi. L’intento è quello di approfondire il racconto di una stagione politica, stringendo il focus in modo più serrato sui territori – a partire da quello romano. I curatori del volume sono Giorgio Ferrari e G.Marco D’Ubaldo, storici referenti di due realtà cruciali della piazza romana: i Comitati Autonomi Operai e il Comitato dell’Alberone.

La scelta di indagare la “territorialità” delle esperienze dell’autonomia, è senza dubbio adeguata. Non c’è ricostruzione o ragionamento politico sulle “autonomie”, che possa prescindere da questa dimensione – e questo, oltre che per l’oggettività delle vicende storiche, anche per una teorizzazione largamente condivisa in quegli anni: territorio voleva dire lettura della composizione di classe, costruzione degli elementi di programma, adeguamenti dei livelli di organizzazione e di nuovo ricaduta sui territori. “Territorio” voleva dire terreno di verifica costante delle ipotesi di partenza. E non si trattava dell’ideologica suggestione del “riprendiamoci la città”: era piuttosto faticosa e dirompente costruzione quotidiana di vertenze (territoriali, appunto) che dessero al discorso sull’autonomia, gambe sociali e radicamento.

Il tono del libro si sottrae a ogni amarcord compiaciuto: si sta leggendo la storia a partire dal presente e gli autori, al di là delle vicende biografiche personali, si sentono attivamente parte in causa di una vicenda politica non chiusa, quanto piuttosto traslata e rovesciata sui giorni nostri.

Roma capitale, Roma epicentro politico, nel bene e nel male. Giusto partire dalla sua area autonoma: perché nell’arena romana i ragionamenti sulla metropoli come declinazione della nuova composizione di classe, hanno trovato il loro terreno di pratica più avanzato. Per capirlo, basterebbe avere fra la mani qualcuno dei documenti di rinvio a giudizio relativi ai molti processi contro l’autonomia operaia romana: nelle carte giudiziarie – preziosi strumenti di memoria politica, a saperli leggere – erano puntigliosamente elencati dai magistrati decine e decine di organismi autonomi con le loro sigle, i loro insediamenti sociali, i loro presunti organigrammi, e già solo quelle mappe giudiziarie renderebbero conto di quanta e quale ricchezza rivoluzionaria si stesse parlando.

I curatori del volume ricostruiscono efficacemente il quadro storico dell’Italia – e della sua capitale – agli inizi del decennio 70. In quel contesto maturano alcune condizioni precise, che costituiranno l’humus di crescita dell’autonomia a Roma:
– sul piano soggettivo la decantazione della breve stagione dei gruppi, che libera energie di migliaia di militanti;
– la lotta per la casa, da sempre cruciale in un territorio che dal dopoguerra subisce una costante pressione demografica e un impetuoso sviluppo del ciclo dell’edilizia;
– la lotta nella sanità pubblica e nel comparto elettrico, con la preziosa saldatura tra mobilitazione operaia e diritti delle utenze;
– la presenza delle istanze centrali del PCI e della CGIL, al massimo della loro egemonia, eppure già avviate verso il logoramento della stagione dei sacrifici e della repressione dei movimenti;
– l’antifascismo, in una città in cui la memoria e la presenza fascista, trent’anni dopo la fine della guerra è ancora vivissima (basta rileggere l’autobiografia di Giulio Salierno, per cogliere il senso di quella persistenza tumorale nella capitale).

È attraversando questi terreni – dentro passaggi concreti, tutti giocati nella dimensione di massa –, che si sviluppa la formazione degli organismi autonomi romani: esperienze che fin dalla fondazione portano dentro di sé lo sforzo testardo di ricomposizione dell’agire politico e di quello sindacale, la cui separatezza, nella progressiva elaborazione soprattutto dei Volsci, è giudicata come ostacolo allo sviluppo di una moderna prospettiva rivoluzionaria.

Nel giro di pochissimi anni collettivi e comitati di quartiere – vedi l’emblematica vicenda dell’Alberone – compongono una rete cittadina vivissima e magmatica che attraversa tutte le dimensioni del conflitto metropolitano: l’organizzazione delle lotte incoraggia la spontaneità dell’invenzione proletaria, che a sua volta si organizza e rilancia il processo.

Di notte non era poi così difficile imbattersi in un piccolo gruppo di persone che trainava masserizie verso qualche palazzo disabitato, a volte neanche ultimato, cercando di non farsi beccare dalla polizia. Il fenomeno era talmente vasto e inusitato per una grande città, che finì addirittura in un servizio del settimanale Time (p.85)

E questo significava che, al di là delle campagne e delle grandi lotte organizzate dalla sinistra extraparlamentare, vigeva nei quartieri e nel corpo sociale proletario un’illegalità di massa diffusa, la cui domanda di organizzazione era propriamente la ragion d’essere dell’autonomia.

L’autonomia operaia romana nasce e cammina sulle due gambe della pratica sociale: lavoro e territorio. L’organizzazione politica dei Volsci, in particolare, è espressione diretta di realtà provenienti dal mondo del lavoro salariato:

Fatta eccezione per alcuni studenti di medicina che operavano all’interno del Collettivo Policlinico (e che ebbero una importanza fondamentale nello sviluppo delle lotte) quegli organismi erano composti esclusivamente da lavoratori: impiegati, tecnici amministrativi, operai. Proprio così: operai, che avessero il camice da infermieri, la divisa da portantino o la tuta dell’Enel erano forza lavoro sfruttata come gli altri che stavano in fabbrica, anche se non avevano le “stimmate” delle mani callose. Fu un tratto distintivo dei Volsci quello di imporre all’attenzione del movimento quelle figure snobbate dagli esegeti della classe operaia, quasi che fossero improduttive o parassite, comunque ritenute marginali rispetto all’interpretazione del conflitto capitale lavoro (p.59)

Quindi: naturale acquisizione del carattere socialmente dispiegato dello sfruttamento capitalistico, naturale considerazione del carattere “operaio” di questo lavoro sociale.

Lavoro e territorio, dicevamo: nel corso degli anni 70 romani, alcuni quartieri, vedi Centocelle o San Basilio, liberano il massimo del loro potenziale, in una specie di continuità carsica del conflitto, che persiste dal dopoguerra – occupazioni, autoriduzioni, rivendicazione di trasporti, servizi, socialità alternativa.

Mettere in rete questa proliferazione, non è semplice: si inventano strumenti nuovi – come l’Assemblea cittadina dei comitati operai e di quartiere -, tutti esperimenti faticosi, che vivono di unità, rotture, ricomposizioni, tessuti quotidianamente col filo delle lotte e delle vertenze.
Il metodo dell’autonomia romana, davanti a questa ricchezza sociale, è sempre il medesimo: dalla masse alle masse, perché autonomia vuole dire anzitutto rottura della cattiva dialettica tra presunte “avanguardie esterne” e classe.

Accadeva infatti in quegli anni che un avanguardia colta ed edonista andava sovrapponendo la sua Weltanschauung alla storia reale di un paese mancato… Le concezioni negatrici in origine di un processo di emancipazione proletario indipendente e della capacità della masse di darsi una propria organizzazione autonoma, erano largamente diffuse tra le avanguardie di allora (p.47)

L’Autonomia nasceva come rovesciamento di queste concezioni, che erano eredità non solo dal revisionismo, ma anche del ceto politico del 68.

Giorgio Ferrari descrive i Volsci come un laboratorio dell’ortoprassi sociale, in cui però regnava il gusto dell’eterodossia teorica:

Nell’epoca del post-comunismo mi sento ancora marxista e autonomo: per questo, quando nei primi anni 70 incontrai i compagni del Policlinico e dell’Enel che erano usciti dal Manifesto, per me fu un sollievo. Finalmente potevo esprimere i miei dubbi sull’esperienza comunista senza essere guardato con sospetto; finalmente facevo assieme ad altri quelle riflessioni politiche a cui i rivoluzionari non dovrebbero mai sottrarsi (p.20)

La crisi del paradigma comunista, nella maturità dello sviluppo e della crisi capitalistica degli anni 70, è già palese, per chi voglia vederla, nonostante le piazze piene e i pugni chiusi: l’autonomia operaia era anche il terreno su cui tale dibattito poteva liberarsi con più franchezza.
L’esatto opposto di quelle componenti gruppettare in cui regnava l’ortodossia più conformista, le quali, negli anni della sconfitta, passarono dalla sera alla mattina dall’altra parte della barricata, lasciando dietro di sé le loro sicurezze dogmatiche come una vecchia pelle di serpente – e continuando magari a predicare con la medesima sicumera, le magnifiche e progressive sorti del riformismo anni 80…

La prima metà degli anni 70, vedono l’autonomia romana in prima fila nel tentativo di stabilizzare ipotesi di lavoro politico nazionale. Non è facile, proprio perché alcune esperienze sono a forte caratterizzazione politico-ideologica, mentre altre vivono una dimensione essenzialmente sociale – e non è scontata la condivisione di linguaggi e campagne.

Il rapporto che i Comitati Autonomi Operai provano a consolidare è sull’asse milanese con Rosso, che per un periodo diventa anche rivista nazionale (con via dei Volsci redazione romana). Ma la stagione dell’autonomia milanese è una fiammata che nasce più tardi e si consuma prima, rispetto alla solidità dell’esperienza romana. Differenze radicali di lavoro politico, diventano ostacoli alla costruzione di un punto di vista nazionale: Rosso, sotto la guida di Negri, spinge molto sulla retorica dell’operaio sociale e su una progressiva centralizzazione di struttura, funzioni e direzione politica. Per i Volsci, l’acquisizione del carattere sociale dello sfruttamento capitalistico è una consapevolezza quotidiana che non ha bisogno di conferme o forzature – né teoriche né in termini di costruzione del partito. A Roma, anche nei momenti più alti del conflitto, si preferisce organizzare la vertenzialità diffusa del lavoro sociale sul territorio, non ritenendo matura alcuna credibile “dualistica dei poteri”. Nella rievocazione dei curatori riecheggia ancora la polemica di parte romana verso una torsione intellettualistica, ideologica e soggettivista, che segnerà pesantemente il laboratorio milanese e il suo tracollo.
Il dibattito tra le diverse anime nazionali diventerà rottura. Ma ormai siamo già alle soglie dei tre passaggi chiave che determineranno il senso di quella stagione e il suo declino: la fiammata del 77, il rapimento Moro e la grande ondata repressiva che comincia il 7 Aprile 79 e proseguirà ben oltre la metà degli anni 80.

Dentro questa potente storia di emancipazione e rivolta, scorrono le vicende umane di una generazione di militanti: gli arresti ripetuti di Pifano, Miliucci e decine di altri quadri dirigenti, la chiusura di Onda Rossa e dei Volsci ad opera di Cossiga, le lotte dei disoccupati organizzati della legge 285, migliaia di appartamenti occupati, l’intervento nell’Irpinia terremotata, i cicli di autoriduzione, le lotte per i servizi e una pressione costante sulla spesa pubblica, colta efficacemente nella sua dimensione di salario sociale.

La stagione della gestione dei processi politici e della dissociazione, dividerà ulteriormente i destini delle diverse componenti organizzate: davanti allo tsunami repressivo i Comitati Autonomi Operai esprimeranno una capacità di tenuta, che altri non riuscirono a marcare. Rosso e tutte le esperienze dell’autonomia milanese scompariranno sul finire degli anni 70 stritolati dalla repressione e dalla deriva clandestina. Il ceto politico-intellettuale autonomo si frammenterà in scelte e opzioni non sempre dignitose, tra dissociazioni, conversioni istituzionali e pelosi innocentismi (curiosamente il libro non ricorda la contestazione furiosa della piazza romana al comizio “radicale” di Toni Negri: un episodio minore, che dà però la misura di quanto fossero cambiati i termini del dibattito politico, dentro la sinistra rivoluzionaria, nel breve volgere di pochi anni…).

Di fatto, all’inizio degli anni 80, le uniche soggettività autonome sopravvissute alla bufera del 7 aprile e alla sconfitta di classe, sono l’area romana e il polo veneto: due realtà che conviveranno per un decennio nel Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista, in una testarda dialettica (di unità e competizione…), che segnerà positivamente anche le grandi campagne di quegli anni contro le carceri speciali e la tortura, il contrasto al Piano Energetico Nazionale, le battaglie internazionaliste, dall’America Latina alla Palestina.

I Comitati Autonomi Operai, per tutto il decennio 80, saranno il punto di riferimento nella faticosa opera di ricostruzione di un tessuto nazionale, soprattutto per i giovani gruppi del centro sud.

non avremmo potuto reggere l’impatto della repressione di quegli anni bui senza la convinzione di migliaia di militanti e la solidarietà dei quartieri proletari… e questa non scaturiva da un cenacolo di teste pensanti, ma da un radicamento sul territorio che non aveva precedenti e dove le lotte costituirono la migliore scuola quadri che avremmo potuto immaginare (p.125)

Troppe cose, però, stavano rapidamente cambiando: riprodurre se stessi e le proprie forme non è nel DNA autonomo; l’autonomia non sa e non può darsi come cristallizzazione, come preservazione della memoria – è un processo in movimento che impone di stare un passo avanti, inventare nuovi paradigmi, bruciare sempre i ponti alle proprie spalle. Anche su Via dei Volsci e la piazza romana, incombono gli anni 90: la Seconda repubblica incalza, il sistema dei partiti crolla, i blocchi sociali tradizionali vanno sfaldandosi, il capitalismo italiano diventa terreno di scorribanda multinazionale, sempre più marginalizzato nella divisione internazionale del lavoro e dei capitali. Ma questa è già storia di oggi.

Nella mutata situazione politica e sociale, i comitati autonomi operai vanno senza drammi e clamori verso l’autoscioglimento: nel 1992, nel corso di una discussione pubblica e collettiva, la maggior parte degli autonomi romani sceglie di considerare esaurita la funzione dell’organizzazione dei Comitati autonomi («vent’anni erano davvero troppi», dice Ferrari).
L’orizzonte è una nuova immersione nelle due ipotesi di lavoro che si erano sedimentate nel corso degli anni 80: la costruzione dei Cobas e le occupazioni autogestite, come elemento di ri-radicamento nel mondo del lavoro e nel territorio.

Storia aperta, quella dell’autonomia.
Storia sospesa, forse – per quello che non si riuscì a fare e per quello che non si è ancora riusciti a dire.

che fare delle nostre vite non ci sembra affatto scontato. Non pensiamo che a risolvere il problema basti la stesura di un programma comune – che già a redigerlo significherebbe aver messo a confronto analisi e prospettive – se non si rende almeno manifesta l’intolleranza a questo presente, senza nasconderci le difficoltà e senza remore nel dirci come la pensiamo. Ed è questo il tratto distintivo che tanti anni fa, ci ha fatto riconoscere l’uno nell’altro prima ancora di incontrarci. L’intolleranza al presente ci ha fatto incontrare, la volontà di cambiarlo ci ha fatto riconoscere compagni nella vita e nella lotta. Senza questo legami umano e politico, senza questa complicità nel vivere insieme un’avventura estrema fino a mettere la propria vita nella mani dell’altro, saremmo stati un’altra cosa (p. 194)

Che fare delle nostre vite, non ci sembra affatto scontato. Un’affermazione che suona tutt’altro che esistenziale e individualista, una domanda di senso che rimbalza di generazione in generazione, si rovescia sul presente, interroga il futuro. Una propensione molto “autonoma” nel cercare le vie nuove della prospettiva rivoluzionaria.

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