il saggiatore – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 02 Apr 2025 20:00:24 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 L’ombra ed i suoi significati simbolici https://www.carmillaonline.com/2015/11/30/lombra-ed-i-suoi-significati-simbolici/ Mon, 30 Nov 2015 22:30:53 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24211 di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita [...]]]> di Gioacchino Toni

nosferatu murnau 00Victor I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art, Il Saggiatore, Milano, 2015, 256 pagine, € 16,00

Dal mito pliniano delle origini della pittura all’Incarnazione del Verbo nelle Annunciazioni, dalla demonizzazione secentesca all’iperbolizzazione espressionista, dall’ombranalisi alla vertigine della proliferazione dei simulacri, Victor Stoichita passa in rassegna la storia dell’ombra e dei significati che, strada facendo, ha assunto nella cultura occidentale. Il saggio, ristampato nel corso del 2015, (prima ed. inglese 1997, prima ed. italiana 2000), inizia, inevitabilmente, da Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, racconta di come la nascita della pittura sia dovuta ad un procedimento “in negativo”: l’atto di circoscrivere l’ombra di un essere umano. Secondo tale approccio la pittura compare sotto il segno di un’assenza (corpo) / presenza (sua proiezione). L’immagine pittorica è, dunque, frutto di un consolidamento della proiezione del corpo; si tratta di una rappresentazione di una rappresentazione, di una copia di una copia (immagine d’ombra). Soltanto quando la pittura finisce con il superare la proiezione piatta ricorrendo al modellato, l’ombra abbandona la funzione primitiva di matrice di immagini e diviene mezzo d’espressione. Il mito pliniano (origine dell’arte) ed il mito platonico della caverna (origine della conoscenza) hanno in comune il fatto di concentrarsi sulla proiezione, su una macchia in negativo, un’ombra: arte e conoscenza consisterebbero nel suo superamento.

L’autore sottolinea come Platone non parli mai direttamente del mito dell’ombra come origine della rappresentazione artistica; per lui è il riflesso nello specchio a spiegare lo statuto mimetico della pittura. Se in Plinio l’immagine è l’ “altro dello stesso”, in Platone l’immagine è il sé allo stadio di copia, lo stesso nello stato di doppio. Se in Plinio l’immagine capta il modello duplicandolo (funzione magica dell’ombra), in Platone l’immagine manifesta la propria rassomiglianza (funzione mimetica dello specchio) rappresentandolo. Sia il simulacro che la copia si rifanno alla magia; magia per sostituzione nel primo caso, magia di somiglianza nel secondo. È il pensiero di Platone a principiare l’idea occidentale che vede lo strumento della mimesis nello specchio e non nella proiezione di corpi frapposti.

stoichita storia ombraAnalizzati i miti fondativi dell’antichità, l’autore passa in rassegna l’età medievale, sottolineando che per diversi secoli, sin quasi a Giotto, l’immagine viene intesa come un’entità priva di corporeità e soltanto con l’introduzione della prospettiva, l’ombra portata inizia ad essere studiata dai pittori. Nella pittura del Trecento l’ombra integrata viene concepita come elemento fondamentale dell’esecuzione a “rilievo” delle figure ma, nel Rinascimento, si assiste ad un cambio di paradigma, tanto che le immagini iniziano ad essere concepite come riflesso nello specchio, prolungamenti della realtà. Con il Rinascimento si ha la prima teoria dell’arte fondata sul paradigma speculare, tanto che Leonardo arriva a cogliere un’analogia tra la tela e lo specchio: in entrambi i casi si tratta di superfici bidimensionali in grado di visualizzare la realtà tridimensionale. A partire dal XV secolo si sviluppa una vera e propria scienza dell’ombra e la rappresentazione delle ombre portate diviene segno di fedeltà mimetica. È con artisti come Masaccio, Leonardo e Dürer, argomenta l’autore, che l’ombra portata diviene un elemento strutturale della pittura prospettica e prova di mimesi.
Particolarmente interessante risulta essere l’uso dell’ombra nei dipinti delle Annunciazioni – nel saggio ne sono analizzate diverse – che deve essere interpretata a partire dal testo evangelico di Luca: “Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo”. Il farsi ombra del Verbo determina una proliferazione di interpretazioni legate all’Incarnazione non di rado ispirate alle riflessioni duecentesche di Jacopo da Varazze, l’autore della celebre Leggenda aurea.

Sappiamo come a partire dal Rinascimento prenda piede l’idea di segnalare la presenza dell’artista nell’opera, a tal proposito Stoichita evidenzia come in alcuni casi, ricorrendo all’espediente dell’immagine che mostra l’atto del dipingere, venga mostrata l’ombra della mano dell’artista che si proietta sulla tela. L’autore sottolinea, inoltre, la portata delle riflessioni di Boileau volte ad indicare, nel corso del XVII secolo, come sia la presenza dell’ombra nel quadro a conferirgli lustro: “Boileau rovescia il rapporto metaforico codificato dalla tradizione tra tenebre e luce, proiettando sull’ombra quanto più radicalmente si oppone (‘lo splendore’)”.
Altro importante rovesciamento di paradigma citato nel saggio riguarda la poetica della fase finale di Monet, ottimamente esplicitata da una fotografia da lui stesso realizzata nel 1905 ove, oltre alle, immancabili, ninfee all’interno dello stagno, compare l’ombra dell’artista. Il francese sembra rovesciare il mito delle origini: sulla superficie riflettente non vi è la sua immagine ma la sua ombra. Attraverso la foto, in linea con la sua poetica pittorica terminale, l’artista compie un gesto radicale: “In rapporto alla tradizione occidentale dell’automimesi, l’ombra di Monet proclama il primato (moderno) dello ‘sguardo’ sulla ‘mano’. Propone la sostituzione del paradigma narcisistico della mimesi occidentale con l’elogio orientale dall’evanescenza dell’ombra”.
Ad essere analizzati dal saggio sono anche diversi autori che, nel corso dei primi decenni del Novecento, in reazione al trionfante mimetismo fotografico, ricorrono all’inserimento del proprio profilo in ombra nelle tele. L’autore si sofferma su alcune opere di Picasso in cui l’artista inserisce spesso la propria ombra di profilo sulle tele, dando luogo, in tal modo, ad un “tentativo di ridefinizione dell’intera tradizione riguardante l’ombra della mano che, nell’ambito dell’estetica classica, designava il segno dell’autore sull’opera, mentre qui viene a concretizzare la definitiva scomparsa dei limiti tra produttore e prodotto. (…) Picasso segna così la fine dell’antica tradizione che vedeva nell’ombra il completamento essenziale dell’incarnato. Per lui più che un mezzo per ‘fare’ il volume l’ombra diventa lo strumento per (dis)farlo”.

Il Seicento risulta essere un secolo particolarmente fecondo per il ragionamento sull’ombra, a tal proposito l’autore si sofferma sulle riflessioni prodotte in particolare da Joachim von Sandrart, Samuel von Hoogstraten ed Athanasius Kircher. L’autore del celebre scritto Accademia germanica di pittura (1675), Joachim von Sandrart, viene citato per aver ripreso il mito classico delle origini della pittura sia di Plinio che di Quintiliano nella convinzione che la “pittura/ombra” sia stata ingenerata sia dalla luce del sole (Quintiliano) sia dalla luce del fuoco (Plinio). Un paio di incisioni attestano tale doppia origine: in una viene mostrato un pastore che traccia con un bastoncino il contorno della propria ombra sul terreno, mentre, nell’altra, la figlia di Butodes circoscrive, attraverso una linea nera, il profilo dell’amante sulla parete servendosi della luce di una lanterna. Hoogstraten Shadow danceIl pittore secentesco Samuel von Hoogstraten pur nella convinzione che “la perfetta pittura è come uno specchio della natura”, non manca di interessarsi alla rappresentazione dell’ombra, come avviene nell’incisione La danza dell’ombra (1675) ove mostra come si deformino le ombre proiettate su parete di diversi personaggi in base alle differenti posizioni assunte rispetto alla fonte di luce: di pari passo all’aumentare dell’ingrandimento dell’ombra si determina un incremento della sua “demonizzazione”. Gli esseri umani proiettati si ingigantiscono e si deformano trasformandosi in creature mostruose con tanto di coda e corna. Il gesuita Athanasius Kircher, nel testo Ars Magna Lucis et Umbrae (1656), descrive un arnese in grado di creare immagini illusorie combinando il principio del quadrante solare e quello della lanterna magica: si tratta di uno strumento finalizzato alla “demonizzazione dell’ombra”.
Visto che nel mito fondatore della pittura, l’ombra non ha nulla di demoniaco, secondo Stoichita occorre capire come mai l’ombra nella pittura occidentale si trovi spesso investita di valenza negativa. Secondo l’autore la risposta ci è data dallo “stato di alterità della rappresentazione per mezzo dell’ombra portata. Era questo un concetto inerente al mito, nel quale (…) si faceva pure riferimento alla creazione di un doppio. L’abbandono di questo aspetto nel pensiero occidentale sull’immagine si traduce in un cambiamento radicale di paradigma, e questo emargina la rappresentazione/ombra nel tempo mitico delle origini, oppure nello spazio, mitico anch’esso, di paesi lontani. In tal modo, la pittura occidentale smette di essere una ‘pittura d’ombra’ per diventare una pittura che fa uso dell’ombra tra i molti altri sistemi di rappresentazione e di simbolizzazione”.
Tra il XVI ed il XVII secolo, l’ombra assume il ruolo di “nemico chimerico” e si assiste ad un’interiorizzazione dell’ombra in quanto proiezione della persona, come “zona oscura” dell’anima in cui la “negatività interiore si materializza”: l’ombra diviene l’emblema del raddoppiamento negativo. A tal proposito viene citata un’incisione di Johannes Sambucus (Cattiva coscienza, 1564), ove un uomo infierisce con la spada contro la propria ombra ritenuta testimone delle sue malefatte. È come se il personaggio infierisse contro se stesso.
Anche nella letteratura romantica non mancano esempi, fondati sul rovesciamento di una situazione narcisitica, in cui la lotta contro l’ombra di se stessi conduce al suicidio. Viene riportato anche un esempio Novecentesco tratto dai fumetti; si tratta del cowboy Lucky Luke, definito “l’uomo che spara più veloce della propria ombra”, che, alla fine di ogni puntata, ingaggia un duello con la propria ombra che risulta sempre in ritardo nel rispondere al fuoco. In sostanza l’eroe spara contro “il nemico chimerico”, che qui ha la forma della sua silhouette nera.

La trattazione concede spazio anche al caso di Johann Caspar Lavater, autore che, sul finire del Settecento, descrive un nuovo strumento per realizzare meccanicamente le silhouette. Lo studioso, riprendendo l’antica tradizione degli studi di fisiognomica, vede nel profilo circoscritto dell’ombra del viso i segni dell’anima ma, a differenza delle analisi tradizionali, non è tanto il volto ad essere il riflesso dell’anima, bensì l’ombra del volto. Il profilo circoscritto diviene un disegno da interpretare in una sorta di “ombranalisi”. Se si associa a tale pratica la vocazione religiosa di Lavater, ecco che, sostiene l’autore, tale metodo di analisi finisce col proporsi come “cura dell’anima”: nato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo avrebbe perso la rassomiglianza a causa del peccato ma ciò che Lavater cerca nell’ombra non è la divinità oscurata dalla carne, bensì il lato decaduto.

wiene dr caligariLa distorsione e l’amplificazione dell’ombra risultano essere tra gli strumenti principali utilizzati dalle arti figurative al fine di evidenziare la carica negativa di un personaggio. L’iperbolizzazione dell’ombra, nei tempi moderni, trionfa nel cinema espressionista. Nel trattare il ruolo dell’ombra nelle produzioni di autori come Friedrich Wilhelm Murnau e Robert Wiene, il saggio sottolinea come sia possibile analizzare la loro poetica filmica sin dall’analisi dei singoli fotogrammi; tali autori, infatti, “sviluppano una retorica dell’immagine filmica basata sulla sineddoche”, nel senso che ogni immagine, ogni inquadratura rimanda per analogia o per contrasto all’intero film. In tali opere le ombre ingigantite e deformate sono spesso un’esteriorizzazione dell’interiorità del personaggio.
Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di Wiene risulta essere l’incarnazione dei fantasmi del folle narratore del racconto che “appare come il doppio del regista e la proiezione delle ombre come un doppio del film in quanto tecnica figurativa”. Nel caso del celebre fotogramma proposto da Stoichita, “il messaggio metapoetico dell’ombra (…) è un’iperbole del mezzo chiave del cinema espressionista: il piano americano (…) L’ombra viene in tal modo a mettere in discussione la natura stessa della creazione filmica e dei suoi meccanismi di fascinazione”.
murnau nosferatuQuando osserviamo la silhouette del vampiro in Nosferatu (1922) di Murnau, siamo di fronte al vampiro stesso o alla sua ombra? Visto che i vampiri non hanno ombra, se ne deduce che si tratti di Nosferatu “in persona”, abitante di un universo sotterraneo labirintico quanto l’inconscio freudiano. L’autore ravvisa in Murnau la figura di colui che “mostra le ombre”, che visualizza la parte oscura della coscienza rendendola racconto attraverso un’estetica che mostra analogie tra “ombra” ed “immagine filmica”. “La prova che a questa lettura meta-estetica è data forma nell’ambito del racconto viene fornita allo spettatore solo alla fine del film, nell’attimo in cui il primo raggio di sole su Brema disintegra Nosferatu, e, soprattutto, nell’attimo in cui la luce elettrica inonda la sala di proiezione e lo schermo torna ad essere bianco”.

L’ultima parte del saggio tratta l’ombra e la sua riproducibilità nell’epoca della fotografia ed i meccanismi di moltiplicazione nell’età del trionfo dei simulacri. Passando in rassegna opere come il Quadrato nero (1915) di Malevič e le fotografie realizzate da Brancusi alle proprie sculture, oltre a prove fotografiche di Duchamp e Man Ray, l’autore analizza il ruolo dell’ombra nella rappresentazione artistica degli anni Venti del Novecento. Una breve ma interessante trattazione viene riservata alle “ombre incoerenti” di De Chirico che, paradossalmente, sembrano quasi un tentativo di conferire un senso a quelli che, altrimenti, rischiano di essere meri esercizi costruttivi da manuale; le ombre, in De Chirico, cessano di essere insignificanti per caricarsi di mistero. La “perturbante estraneità” delle opere dechirichiane sembra davvero irridere il codice della rappresentazione occidentale. La chiusura del saggio spetta a Wharol ed ai suoi autoritratti ove entrano in gioco l’immagine in negativo, la moltiplicazione e la polimerizzazione. A proposito della polimerizzazione dell’immagine, suggerisce Stoichita, a partire dagli anni ’60, Wharol, non solo ricorre alla stratificazione tecnica della rappresentazione/simulacro ma, da un punto di vista simbolico, attribuisce un’unità artificiale ed indistruttibile al multiplo della vita. “l’Autoritratto si trasforma, nel suo complesso, in allegoria dell’io nell’epoca della polimerizzazione dell’individuo”. Con un’opera come Doppio Mickey Mouse (1981) si arriva ad una situazione in cui i due personaggi sono sia l’artificiale che la copia, identici seppure diversi. Si apre così quella “vertigine senza fine” propria dell’età dell’ascesa e del trionfo dei simulacri.

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Immagini inserite nel testo (dall’alto al basso) :

– Particolare di fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau
– Copertina: V. I. Stoichita, Breve storia dell’ombra. Dalle origini della pittura alla Pop Art (2015)
– Samuel von Hoogstraten, La danza dell’ombra (1675)
– Fotogramma tratto da Il Gabinetto del dottor Caligari (1919-20) di R. Wiene
– Fotogramma tratto da Nosferatu (1922) di F.W. Murnau

 

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Fassbinder. Una vita spesa per “creare disagio nelle strutture della borghesia” https://www.carmillaonline.com/2015/10/02/fassbinder-una-vita-spesa-per-creare-disagio-nelle-strutture-della-borghesia/ Fri, 02 Oct 2015 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=24581 di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un [...]]]> di Gioacchino Toni

Un-giorno-un-anno-una-vitaJürgen Trimborn, Un giorno è un anno è una vita. Rainer Werner Fassbinder. La biografia, Il Saggiatore, Milano 2014, XXVIII-427 pagine, € 35,00

Quella scritta da Jürgen Trimborn è la puntuale biografia di una delle personalità più importanti della cultura tedesca tra gli anni ’60 e gli anni ’80 del Novecento: Rainer Werner Fassbinder. Nell’imponente testo edito, per l’Italia, da Il Saggiatore, si intrecciano la personalità complessa del celebre regista, il moto di rinnovamento del cinema tedesco e le vicende culturali e politiche che attraversano la Germania in un trentennio cruciale della sua storia, periodo in cui il paese si trova a fare i conti con tante contraddizioni interne, tra queste il suo doversi confrontare tanto con quel passato nazista difficile da metabolizzare, quanto con una nuova Germania che, restia a cambiare davvero nel profondo, viene attraversata da una cruenta stagione di conflittualità. L’intrecciarsi di tutti questi fattori rendono questa biografia di Fassbinder una storia che, pur nella sua parzialità, racconta un trentennio cruciale della vita della Repubblica federale tedesca prima che questa si indirizzi, nel decennio successivo, verso la riunificazione.

Il rapporto tra Fassbinder ed il cinema ha un inizio tormentato, visto che gli viene rifiutato l’accesso ai corsi cinematografici sia per le carenze tecniche dimostrate nell’uso della macchina da presa che, secondo l’autore della biografia, per la scarsa politicizzazione delle prove presentate, “premessa indispensabile per tutti i candidati e all’epoca, in un’istituzione come quella, l’orientamento doveva essere dichiaratamente di sinistra e ostile all’establishment della Repubblica Federale Tedesca”. La politica in senso stretto e diretto non è tra gli interessi del giovane regista, tanto che, a differenza di diversi coetanei, quando finisce nei guai con la giustizia non è a causa della militanza. Il testo riporta un aneddoto emblematico di come il cineasta tedesco e le vicende politiche di piazza si intreccino: nel 1968, in pieno Maggio francese, proprio a Parigi, il regista viene arrestato e rinchiuso in carcere per cinque settimane. In Germania il fatto desta scalpore e tende ad essere ricondotto ad una sua supposta presenza sulle barricate mentre, in realtà, l’arresto è dovuto ad una retata in una sauna gay irregolare. L’omosessualità di Fassbinder, come quella di tanti altri, è costretta a fare i conti con un clima culturale ed una legislazione che in Germania, come in altri paesi europei, appare estremamente retrograda. Soltanto nel 1969, in Germania, si danno alcune modifiche di legge che cancellano l’onta dell’illegalità per gli omosessuali consentendo così, in tutto il paese, la proliferazione di locali aperti alla comunità gay.
L’impressione di un artista egocentrico e disinteressato ad interagire con le vicende che gli stanno attorno, si sviluppa anche a causa di un atteggiamento che il regista, all’inizio della carriera, manifesta negli incontri con la stampa, quando ama mostrarsi del tutto indifferente all’opinione pubblica. Per certi versi il suo presentarsi come giovane ribelle anticonformista diviene una sorta di maschera indossata al fine di celare una certa timidezza. Soltanto negli anni in cui il successo gli conferisce maggior sicurezza, il regista inizia a mostrarsi più disponibile nei confronti dei media, evitando di mettere in scena sempre e comunque il ruolo del ribelle indifferente.

fassbinder 01Trimborn ricostruisce egregiamente come l’idea di Fassbinder di dar vita ad una sorta di comune creativa, un luogo in cui vivere e lavorare con persone di idee affini, si scontri con una personalità che appare sì smaniosa di vivere in maniera comunitaria ma, come sul lavoro, si dimostra poco propensa ad interagire realmente con gli altri. Per certi versi emerge il ritratto di un uomo che, sfruttando la sua forte personalità ed il fascino esercitato sugli altri, sembra più ambire a circondarsi di una corte adorante da plasmare a piacimento che non a confrontarsi realmente con gli altri. A tal proposito, nella biografia si trovano diversi aneddoti che narrano, ad esempio, del piacere provato dal regista nel dimostrare ad amici e collaboratori il potere incondizionato esercitato nei confronti di alcuni di essi, atteggiamenti che mal si confanno proprio a colui che ama sottolineare come il tema centrale dei suoi film abbia a che fare con lo “sfruttamento dei sentimenti all’interno del sistema in cui viviamo”. Nel corso della lettura del libro, appare evidente come non ci si trovi di fronte ad una biografia di santificazione dell’uomo Fassbinder; occorre rendere merito all’autore di aver ricostruito un personaggio a tutto tondo, decisamente contraddittorio, in cui convivono spinte estremamente libertarie ed anticonvenzionali e condotte a tratti ciniche, egocentriche ed autoritarie. Nel testo viene testimoniato anche uno spiccato interesse per il denaro ed il lusso ostentato del quale, dopo i primi successi cinematografici, pare non riuscire a fare a meno. Per certi versi si può dire che il “nemico numero uno” della mentalità borghese si rivela così spietato nell’attaccare il nemico perché, tutto sommato, lo conosce bene, proviene dalle sue fila e, di certi suoi aspetti, probabilmente, non è risuscito, non ha potuto, o non ha voluto, liberarsi del tutto.

Gli insuccessi nei corsi di cinema spingono Fassbinder verso il teatro anche se l’approccio con cui lo affronta è decisamente cinematografico; è lì che vuole arrivare ed il teatro rappresenta una sorta di prova generale. Il rapporto tra l’iniziale produzione teatrale e quella, successiva, cinematografica risulta fecondo, tanto che lo stesso regista, dopo aver operato in entrambi gli ambiti, ha modo di affermare di aver messo in scena il teatro come se si trattasse di cinema e di aver girato film come se si fosse trattato di teatro. Nel testo viene passata in rassegna, nel dettaglio, l’intera produzione teatrale di Fassbinder a partire dal 1967, anno in cui avviene l’importante incontro con il gruppo dell’Action-Theater di Monaco, collettivo fortemente influenzato dall’esperienza del Living Theatre americano. Ad interessare Fassbinder è più la modalità innovativa di fare teatro che non l’intervento politico esplicito dell’Action-Theater. Le tematiche affrontate dal regista, una volta ottenuta la direzione, si concentrano sulle questioni della diversità, sulla difficoltà di comunicare, di intrecciare rapporti sinceri e sulla mentalità retrograda piccolo borghese. Anche quando decide di attuare un teatro più politico, il regista opta per farlo attraverso la messa in discussione della cultura dominante.
Katzelmacher (tr. appros. Terrone), la sua prima opera teatrale, è la storia dell’ostilità di un gruppo di giovani di un villaggio bavarese nei confronti di un lavoratore straniero greco da poco arrivato. L’opera è contraddistinta da una narrazione asciutta, uno stile minimalista e dialoghi brevi e concisi.
Le vicende di Fassbinder narrate dalla biografia, si intrecciano con gli eventi che scuotono il paese alla fine degli anni ’60, quando si susseguono azioni di protesta da parte degli attivisti contro il gruppo editoriale Springer, i cui giornali sono visti come i principali responsabili del clima repressivo. Anche l’Action-Theater, con i suoi spettacoli, partecipa alla campagna contro la stampa di Springer. Fassbinder, però, tende a prestare poco credito alle possibilità del teatro di influire sulla vita politica del paese. In ogni modo, l’obiettivo da perseguire, secondo Fassbinder, diviene quello di “creare disagio nelle strutture della borghesia”. Questo è il modo con cui il regista intende far politica.
Le discrepanze con alcuni dei fondatori dell’Action-Theater, portano la compagnia a trasformarsi adottando il nome di “antiteater”, scritto con lettere minuscole e senza la “h”. Gli scandali iniziano ad accompagnare ad ogni passo l’attività del gruppo teatrale. Ad esempio, quando viene messa in scena, nel 1968, la pièce Orgia Ubu, in cui si narra di una festa in un ambiente piccolo borghese che termina con un’orgia di gruppo, nel momento in cui gli attori iniziano a denudarsi sul coro dei prigionieri del Nabucco di Verdi, il direttore del locale interrompe lo spettacolo.
Nel 1971, è la volta della messa in scena di Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto), ove un personaggio proveniente da qualche lontano pianeta, viene inviato sulla terra per indagare le modalità con cui gli esseri umani comunicano tra loro. Così Fassbinder presenta lo spettacolo: “La pièce ci mostra che in questo sistema, per come la vedo io, tutto porta all’oppressione. Questo meccanismo s’innesca subito, non appena le persone cercano di comunicare tra loro”. Durante il breve periodo, nei primi anni ’70, in cui ha la direzione del Theater am Turm di Francoforte, Fassbinder scrive una pièce intitolata Der Müll, die Stadt und der Tod (I rifiuti, la città e la morte) in cui vengono messi in scena degli antisemiti ed un imprenditore edile ebreo provvisto di tutti i classici cliché. Tale opera suscita una marea di proteste e la pesante accusa di antisemitismo.

Intrecciandosi con le vicende di Fassbinder, nel testo viene anche ricostruito il rinnovamento del cinema tedesco a partire dai primi anni ’60, quando la produzione tradizionale viene messa sotto accusa da diversi giovani registi. Nel 1962, ventisei registi, capitanati da Alexander Kluge, firmano il Manifesto di Oberhausen: l’obiettivo è contrastare tanto il cinema tedesco del dopoguerra, giudicato superato e reazionario, quanto lo strapotere dell’industria cinematografica hollywoodiana che, dal 1945, opprime le cinematografie nazionali dei paesi europei. I riferimenti propositivi guardano al Free Cinema inglese ed alla Nouvelle Vague francese. Il nuovo cinema tedesco intendere nascere libero dai condizionamenti culturali del mercato e dai finanziamenti dei tradizionali studios tedeschi. L’ambizione è quella di evitare il film d’evasione in favore, piuttosto, di opere in grado di confrontarsi con la realtà e con il tragico passato nazionalsocialista. Nel testo è sottolineato come, con la fine della guerra, in Germania, così come in altri ambiti della vita del paese, anche a livello cinematografico, non si ha una vera e propria rottura con il periodo nazionalsocialista: persone, strutture e contenuti restano i medesimi e buona parte del mondo del cinema ha lavorato nella macchina propagandistica di Goebbels. Nemmeno dal punto di vista formale c’è una vera e propria rottura, “l’estetica di Goebbels”, ancora negli anni ’50, resta alla base del cinema tedesco occidentale, così come contenuti, personaggi, divi e filoni restano saldamente permeati dal retaggio nazionalsocialista. Nata nel 1965, la Commissione del giovane cinema tedesco, grazie al sostegno economico statale, finanzia diversi film di giovani autori della seconda generazione del movimento. Nonostante i riconoscimenti ottenuti nei festival internazionali, questi film non riescono a conseguire successo nelle sale tedesche, restano un fenomeno di nicchia, per una cerchia ristretta di intellettuali. Nel corso degli anni ’60 le sale cinematografiche tedesche sono in grave crisi anche a causa della televisione e, ben presto, le collaborazioni del cinema con le emittenti televisive, in grado di garantire finanziamenti, diventano indispensabili. La terza generazione del Nuovo cinema tedesco comprende autori come Fassbinder, Werner Herzog e Wim Wenders. La capacità di realizzare film low budget, mostrata da Fassbinder col suo primo lungometraggio, diviene una delle strade percorribili al fine di produrre film senza sottostare all’industria cinematografica ed alle imposizioni statali.

germania in autunnoNuovamente la politica torna ad intrecciarsi, prepotentemente, con la vita di Fassbinder. Nel 1977 il clima che si respira in Germania diviene sempre più pesante; mentre è in corso il processo alla prima generazione della Raf nel carcere di Stuttgart-Stammheim, il gruppo armato dispiega una serie di azioni volte alla liberazione dei propri compagni prigionieri che culmina con l’uccisione del direttore della Dresdner Bank ed il sequestro del presidente degli industriali. A tali episodi eclatanti segue il dirottamento di un aereo diretto a Francoforte, da parte di un commando palestinese, che si risolve con l’irruzione di un’unità antiterrorismo della polizia federale tedesca che libera gli ostaggi ed uccide i dirottatori. Lo stesso giorno Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe, rinchiusi nel carcere di Stammheim, vengono trovati morti. Poco dopo viene fatto rinvenire il cadavere di Hanns Martin Schleyer, ufficiale delle SS durante la guerra, membro dell’Unione Cristiano Democratica e presidente della confindustria tedesca. In seguito a questi fatti, alcuni registi del Nuovo cinema tedesco decidono di realizzare, autofinanziandolo, il film collettivo Deutschland im Herbst (Germania in autunno) al fine di riflettere sul clima che si vive nel paese lacerato dall’interminabile scia di sangue. Dopo le immagini d’apertura sui funerali di Schleyer, il film inizia con l’episodio di Fassbinder che lo vede confrontarsi direttamente sulle questioni di attualità politica in un colloquio con la madre ove si discute dello stato di diritto, del passato nazista e della svolta autoritaria. Il regista, con ragionamenti alquanto contraddittori, nel deplorare l’uso della violenza della Raf, auspica un non meglio precisato intervento energico da parte dello stato ed, al tempo stesso, si dice comprendere le ragioni profonde che hanno portato il gruppo armato ad attaccare il “fascismo latente” presente nella Germania occidentale.
L’anno successivo Fassbinder torna ad occuparsi direttamente della Raf con il film Die dritte Generation (La terza generazione). Relativamente alla terza generazione di militanti della formazione armata, il regista attacca il loro agire perché lo vede privo della benché minima prospettiva. L’intento profondo dell’opera è forse quello di contestualizzare l’uso sconsiderato della violenza da parte dei militanti evidenziando come, secondo il regista, ciò sia determinato dalla società tedesca dell’epoca. Il film viene accolto negativamente tanto dalle istituzioni statali quanto dai militanti di sinistra che, in diverse occasioni, contestano la proiezione dell’opera.

Nel libro viene, ovviamente, passata in rassegna puntualmente anche l’intera produzione audiovisiva del regista individuando nello “sfruttamento dei sentimenti” il filo conduttore di buona parte delle opere. Nella prima parte della produzione cinematografica i personaggi, pur avendo la possibilità di reagire alle situazioni umilianti in cui si trovano a vivere, tendono a non farlo, a restare inerti. Dal punto di vista della scelta poetica, Fassbinder dichiara la propria contrarietà ai film che imitano eccessivamente, soprattutto nei dialoghi, la realtà ed, a tal proposito, nel corso di un’intravista, afferma: “Trovo orribile ogni volta che in un film qualcuno parla come nella vita reale. Questo toglie forza al pensiero, elimina l’inquietudine diffusa (…) l’artificiosità, secondo me, è l’unico modo per consentire a un pubblico allargato di entrare nel cosmo tutto particolare costituito da un’opera letteraria”.
L’itinerario che porta Fassbinder a realizzare audiovisivi inizia, come per molti della sua generazione, dall’interesse per le opere della Nouvelle Vague francese e per le riviste cinematografiche più innovative come “Cahiers du Cinéma” e “Sight and Sound”. Ne 1966 il giovane regista passa finalmente all’azione e gira, a Monaco, il suo primo cortometraggio in Super 8 raccogliendo in maniera avventurosa i fondi necessari a coprire le spese. Preclusa la strada dell’imparare il mestiere facendo assistenza ad un regista esperto, visto che in Germania,  all’epoca, non vi sono grandi personalità, e scartata, per ragioni economiche, l’ipotesi di trasferirsi in Francia, paese di maggiori prospettive per un giovane cineasta, a Fassbinder non resta che visionare film a ripetizione. Nel 1966 il regista gira il cortometraggio, Der Stadtstreicher, (t.l. Il vagabondo) opera di una decina di minuti concepita come omaggio a Le signe du lion (Il segno del leone, 1959) di Éric Rohmer. Il secondo cortometraggio arriva poco dopo, nel 1967 gira Das Kleine Chaos (t.l. Il piccolo caos), opera in 35 mm, in cui rende omaggio a Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) di Godard. In questo caso inizia a palesarsi la passione per i gangster movies hollywoodiani di cui ama soprattutto White Heat (La furia umana, 1949) di Raoul Walsh. Proprio tale cinematografia americana è alla base della storia poliziesca su cui Fassbinder costruisce il suo primo lungometraggio del 1969, Liebe ist kälter als der Tod (t.l. L’amore è più freddo della morte). L’intenzione è quella di mettere in scena un poliziesco non convenzionale, in grado di mostrare il ruolo delle strutture sociali nella trasformazione delle persone in criminali. Sin da questo primo lungometraggio è presente il tema dell’attrazione omoerotica tra due personaggi. Dal punto di vista narrativo, la mancanza di mezzi tecnici e finanziari, costringe a lunghi piani sequenza, spesso privi di dialogo. Diverse scene, ad inquadratura fissa, si svolgono in ambienti minimali in modo da concentrare l’attenzione sulla mimica e la gestualità degli attori. Le inquadrature sovraesposte, quasi senza ombre, contribuiscono a creare un’atmosfera irreale e claustrofobica. Per la recitazione Fassbinder evita di dare istruzioni precise agli attori, non ama provare a lungo prima di girare e si mostra poco incline alla rielaborazione collegiale delle parti. Molto viene lasciato alla capacità istintiva dell’attore. Tale metodo ha il vantaggio di risultare economico e ben si accorda con le ristrettezze finanziare degli esordi. Le reazioni sia di pubblico che critica sono generalmente negative.

Il secondo film, Katzelmacher, (tr. appros. Terrone) del 1969, riprende l’omonima opera teatrale scritta per l’Action-Theater l’anno precedente. Se il testo teatrale si concentra sulla figura dell’immigrato greco, il film, invece, si sofferma sulle condizioni di vita dei bavaresi che gli sono ostili. La questione delle costrizioni sociali ed i principi morali insisti nella società, la noia e l’immobilità piccolo borghese, il perbenismo, insieme alla questione dell’incomunicabilità contemporanea, sono al centro dell’interesse del regista. Anche in questo caso i dialoghi risultano molto scarni e volutamente artefatti. L’opera ottiene un’ottima accoglienza da parte della critica e, da parte dalla prestigiosa rivista anglosassone “Sight and Sound”, viene celebrato il ricorso ad un linguaggio nuovo. Anche nel film Götter der Pest (t.l. Dei della peste) del 1969, ricompare un rapporto tra i due protagonisti improntato all’omoerotismo. Se i due primi film hanno un’evidente derivazione teatrale, qua l’impianto è, finalmente, cinematografico.
Warnung vor einer heiligen Nutte (Attenzione alla puttana santa), è un film del 1970 che affronta i problemi di una troupe cinematografica che deve iniziare le riprese di un film. I diversi personaggi sono ritratti in modo davvero poco lusinghiero, “Fassbinder lascia chiaramente intendere di considerare il cinema una forma di prostituzione nella quale sono tutti coinvolti, attori e registi, come pure tecnici del suono e truccatori: tutti in balia della ‘puttana santa’. Al tempo stesso il film è una riflessione sulle ragioni per cui nel loro caso la condivisione di vita e lavoro in una comunità non può funzionare”.
Der Händler der vier Jahreszeiten (t.l. Il mercante delle quattro stagioni) del 1971 è il primo film in cui decide di sperimentare le modalità narrative sirkiane che impongono che la storia sia raccontata in maniera semplice e sobria ma con empatia per le vicende umane messe in scena. Il film ottiene un buon successo di pubblico e critica.

fassbinder lacrime_amare_petra_von_kantNel 1972 Fassbinder riprende una sua precedente realizzazione teatrale, Die bitteren Tränen der Petra von Kant (Le lacrime amare di Petra von Kant), per trasformarla nell’omonimo film. La storia mostra la difficoltà di una donna, che pur si pensa emancipata, nel liberarsi dalle strutture culturali tradizionali. Il film viene accusato dagli ambienti femministi di essere una critica rivolta alle donne emancipate. Altre interpretazioni vedono nell’opera un tentativo di dimostrare come, anche nei rapporti omosessuali, la protagonista ha infatti una relazione con un’altra donna, tutto si riduca ad una questione di possesso e dipendenza. Nella lettura proposta dal Trimborn, Fassbinder, ancora una volta, intende affrontare piuttosto l’isolamento dell’individuo nella società contemporanea e la sua incapacità di apprendere a comunicare.
Dopo essere riuscito a ritagliarsi un ruolo di primo piano come regista d’avanguardia con i primi film influenzati dai gangster movies americani e dalla Nouvelle Vague francese, Fassbinder decide che è giunto il momento di provare a conquistare anche “il grande pubblico”. Il riferimento diviene a questo punto il cinema del maestro del melodramma: Douglas Sirk. Del grande autore hollywoodiano, di origini tedesche, ammira la perfezione artigianale con cui realizza i film e l’impianto narrativo. Nelle sue opere vede un’incredibile capacità di scandagliare la sfera privata e gli stati d’animo senza trascurare il ruolo del contesto sociale. “Tutti questi film mostrano come la gente si inganni da sola, e perché sia costretta a farlo”, afferma Fassbinder, riferendosi alle opere del vecchio maestro del melodramma.

Una parte della biografica è dedicata alla produzione televisiva del regista. Nella televisione Fassbinder vede le possibilità di realizzare produzioni veloci ed a basso costo, su questioni legate all’attualità, pensate appositamente per le specificità del mezzo e non derivate dal teatro, come invece è consuetudine nel cosiddetto “teledramma” tedesco degli anni ’50 e ’60. Le prime produzioni ottengono scarso entusiasmo e non mancano di suscitare scandalo a causa delle tematiche affrontate.

Con la serie Acht Stunden sind kein Tag (t.l. Otto ore non sono un giorno), del 1972, la classe operaia fa la sua comparsa sul piccolo schermo attraverso un melodramma socio-romantico. I tradizionali sceneggiati televisivi tedeschi a sfondo familiare, sempre di tono leggero, risultano ambientati in contesti borghesi o piccolo borghesi ma sull’onda del clima post ’68, anche la televisione inizia a dare spazio alle questioni sociali che attraversano la società. Per rendere la serie più realistica, l’equipe di Fassbinder realizza, per quasi un anno, ricerche tra i lavoratori delle fabbriche e le sceneggiature vengono fatte leggere ad operai della Ford di Colonia. La realizzazione fassbinderiana, oltre a rappresentare la realtà sociale di una famiglia operaia in maniera autentica, dando spazio, ad esempio, a questioni come l’emergenza abitativa e la mancanza di posti negli asili, intende suggerire chiaramente allo spettatore che ribellandosi le cose si possono cambiare. Nonostante il buon successo di pubblico, ma non di critica, la serie non prosegue a lungo anche a causa di una feroce polemica scatenata dal regista nei confronti dei sindacati accusati, nella serie televisiva, di non avere più nulla da dire alle persone e  di dover piuttosto tornare ad ascoltare la base operaia. A tale produzione televisiva segue, nel 1973, Welt am Draht (Il mondo sul filo), un visionario film di fantascienza diviso in due parti basato su Simulacron 3, un romanzo utopico dell’americano Daniel F. Galouye. L’opera, oltre a riflettere sul ruolo del progresso tecnologico, approfondisce soprattutto le possibilità di autodeterminazione dell’uomo in un contesto in cui viene costantemente controllato e manipolato dal potere.

fassbinder berlin alexanderplatzNel 1979 è la volta della serie per la tv Berlin Alexanderplatz, la produzione probabilmente più impegnativa realizzata dal regista. Si tratta di una trasposizione televisiva del romanzo omonimo di Alfred Döblin, seppure riletto in maniera del tutto personale da Fassbinder che, anche in questo caso, si sofferma nuovamente sul tema dell’amore impossibile tra due uomini a causa delle convenzioni sociali. Il progetto Berlin Alexanderplatz, all’epoca la produzione televisiva tedesca più costosa mai realizzata, prevede tredici episodi ed un epilogo trasmessi con cadenza settimanale in prima serata. Nonostante il successo di critica ottenuto alla proiezione in prima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia del 1980, in Germania le polemiche non tardano ad arrivare soprattutto a causa del, solito, gruppo editoriale Springer che parla, a proposito dell’opera, di “orgia di violenza, perversione e blasfemia”, “atmosfera da orinatoio”, “sesso sporcaccione”, “sottofondo sadomaso” ecc. Trasmessa, dopo tante pressioni, ad orario più tardo, la serie risulta essere troppo complessa per il pubblico televisivo .

Tornando alla produzione cinematografica, l’opera Angst essen seele auf (La paura mangia l’anima), ottiene un grande successo internazionale ed una vera e propria acclamazione al Festival di Cannes del 1974. La tematica, come in Katzelmacher, riguarda i rancori della società nei confronti dei lavoratori stranieri. Nel film, ispirato ad All That Heaven Allows (Secondo amore) di Douglas Sirk, ad essere trattato da Fassbinder è il tema dei pregiudizi a cui si espone una donna di modeste condizioni sociali nel legarsi ad un uomo, per di più straniero, molto più giovane di lei. In tale opera la crisi tra i due inizia a manifestarsi proprio quando a livello sociale cresce la tolleranza nei confronti della loro unione; in quel momento iniziano a palesarsi i veri conflitti tra i due. Ancora una volta un’opera che manifesta l’impossibilità di una relazione amorosa felice.
Nel testo viene evidenziato come, nei opere di Fassbinder, le donne siano spesso innamorate senza speranza, figure che che crollano al cospetto del loro amore non corrisposto. Nel film Martha si insiste sul fatto che le donne sono condizionate tanto quanto gli uomini dalla società patriarcale in cui si trovano a vivere. Anche in Effi Briest, tratto dal romanzo di Fontane, si affrontano i rapporti di dipendenza all’interno di una coppia: contro la sua volontà una ragazza viene data in moglie ad un barone di vent’anni più vecchio di lei in passato innamorato di sua madre. L’infelicità matrimoniale porta la giovane a legarsi clandestinamente con un giovane amico del marito. Scoperto casualmente il tradimento della moglie, quando ormai da parecchi anni i due si sono trasferiti in un’altra città, il barone decide di seguire le convenzioni sociali e, sfidandolo a duello, uccide il giovane rivale e ripudia la moglie che, respinta anche dai genitori, muore di tubercolosi. Girato in bianco e nero, il film nelle intenzioni del regista deve presentare la realtà della vita alla fine del diciannovesimo secolo così come la ritrae il romanzo di Fontane.
Faustrecht der Freiheit (Il diritto del più forte) del 1974, è invece il primo film ambientato esclusivamente nel mondo omosessuale ove si racconta di un giovane che vive mestamente lavorando in un parco divertimenti e prostituendosi, grazie ad una vincita alla lotteria, il ragazzo diviene improvvisamente ricco e, finalmente, accolto da quell’ambiente omosessuale piccolo borghese che fino a questo momento lo ha sostanzialmente escluso per la sua provenienza proletaria. Nasce così una relazione tra il giovane ed il figlio di un imprenditore che poi finisce per derubarlo di tutta la sua vincita. La disillusione porta il ragazzo a suicidarsi, solo come un cane, in una stazione della metropolitana non soccorso dai vecchi amici che preferiscono far finta di nulla e, persino, derubato, ormai cadavere, da due ragazzini che gli svuotano tasche. Nuovamente Fassbinder sceglie una storia utile a ribadire l’impossibilità di un amore corrisposto e di un rapporto paritario tra due individui. Diverse associazioni omosessuali contestano il film che, nelle intenzioni dell’autore, denuncia come anche in ambito omosessuale, esattamente come avviene nella società eterosessuale, i sentimenti sono oggetto di sfruttamento.
Mutter Küsters’ Fahrt zum Himmel, (t.l. Il viaggio in cielo di mamma Küsters) del 1975, è un atto di accusa nei confronti della sinistra tedesca sia istituzionale che radicale. La storia narra di un operaio che, temendo di essere licenziato, dopo aver sparato al capo del personale, si toglie la vita. La vedova viene emarginata dai famigliari, dai conoscenti ed anche dai comunisti del Dkp che preferiscono non avere a che fare con la vicenda del marito. La donna, che intende riabilitare la figura del marito, finisce col dare credito ad un giovane estremista che la coinvolge in un’azione armata sconsiderata dal tragico epilogo. In occasione della proiezione del film alla Berlinale scoppiano disordini.
Nell’opera del 1975 Angst vor der Angst (t.l. Paura della paura), si narra di come, in una donna, nel corso della gravidanza, si generi un’inspiegabile inquietudine che le provoca un’inguaribile stato di depressione. Pian piano emarginata dal marito e dai conoscenti, la donna finisce sempre più isolata senza che il film suggerisca alcuna ipotesi come causa dell’improvvisa deriva emotiva della donna.

Le accuse di antisemitismo ricevute in occasione della sua attività teatrale francofortese, si ripetono anche nei confronti della sceneggiatura tratta dal romanzo Die Erde ist unbewohnbar wie der Mond di Gerhard Zwerenz scritta per un nuovo film. Il sostegno economico promesso dalla Filmförderungsanstalt salta in quanto la commissione giudicatrice inizia a temere che il film possa confermare i “pregiudizi antisemiti o addirittura di suscitarne altri della stessa natura”, tanto da esprimersi in questo modo nella lettera di rifiuto: “Il protagonista del film, l’ebreo Abraham, corrisponde esattamente in tutte le sue caratteristiche a quel cliché del nemico che Hitler ha descritto nell’undicesimo capitolo del Mein Kampf”. A tali accuse il regista reagisce scompostamente, tanto che, seppure da ubriaco, arriva, in alcune circostanze, a vaneggiare di congiura ebraica, ad intonare canzoni naziste od a dichiarare, provocatoriamente, di essere la reincarnazione di Hitler.
Successivamente, nel 1976, Fassbinder gira Satansbraten (Nessuna festa per la morte del cane di Satana), opera incentrata nuovamente sulla denuncia di come tutti i rapporti umani siano segnati dallo sfruttamento reciproco. Nel film è presente anche una riflessione sull’industria culturale ed una satira sulla sensibilità culturale dei tedeschi. Dopo il grande successo di pubblico di Effi Briest, i film successivi segnano, da questo punto di vista, una crisi profonda tanto di botteghino che di critica. La stampa inizia a vedere nei suoi nuovi film, sempre più autobiografici, un eccesso di autocommiserazione. Nel film del 1976 Ich will doch nur, dass ihr micht liebt (In fondo voglio soltanto che mi amiate), Fassbinder riflette, seppure indirettamente, sulla propria infanzia infelice priva di affetto.

A metà anni ’70, di pari passo alle critiche piovute in patria sulle ultime opere ed a un consumo di alcol, medicinali e droghe sempre più smodato, Fassbinder inizia ad essere celebrato in America come la figura più importante del nuovo cinema tedesco e come il maggior talento europeo dopo il mostro sacro Godard. Nel 1977 il regista gira per il mercato internazionale, direttamente in lingua inglese, il film Despair – Eine Reise ins Licht (Despair), presentato a Cannes si rivela un insuccesso mentre in patria ottiene miglior accoglienza.
fassbinder marriage-of-maria-braunDie Ehe der Maria Braun (Il matrimonio di Maria Braun), uscito nel 1978, realizzato col fine di ottenere un “film tedesco in stile hollywoodiano”, ottiene un successo internazionale sia di critica che di pubblico. Il film è ambientato negli anni immediatamente successivi al crollo del regime nazionalsocialista, “quando tra le macerie delle città prendeva forma l’edificio dei valori morali e sociali su cui si basava la Repubblica Federale nata nel 1949”. La storia racconta delle vicissitudini di Maria Braun, interpretata da Hanna Schygulla, donna che, dopo un periodo di miseria nera, credendo il marito morto in guerra, se lo vede ricomparire quando ormai ha tentato di ricostruirsi una vita insieme ad un militare americano di colore. Ucciso il nuovo amante per dimostrare il perdurare dell’amore nei confronti del marito, la donna si trova nuovamente sola quando, quest’ultimo, autoaccusandosi dell’accaduto, viene incarcerato. Si viene successivamente a creare un complesso triangolo di rapporti tra la donna, il suo nuovo e facoltoso amante ed il marito. La vicenda, in cui si intrecciano patti segreti tra i vari protagonisti, ha un epilogo tragico che, stavolta definitivamente, impedisce ai due sposi di vivere assieme. Attraverso la figura della protagonista, Fassbinder mette in scena la forza e la caparbietà di tante donne tedesche che, nel corso della guerra e negli anni immediatamente successivi, sono riuscite ad abbandonare quel ruolo passivo imposto loro dalla tradizione e sopravvivere con autodeterminazione. Il film termina con l’eco della vittoria tedesca dei mondiali di calcio del 1954, quando nella società tedesca non solo si conclude la prima fase del dopoguerra, ma, sottolinea Trimborn, si tornano a relegare le donne alla storica sudditanza nei confronti dei mariti. Il ruolo attivo femminile, sviluppatosi tra le macerie, vine soffocato dalla ricostruzione che sembra, per certi versi, voler riportare tutto entro i ruoli tradizionali.

Concepito non certo per essere un film di cassetta, nel film del 1978, In einem jahr mit 13 monden (Un anno con 13 lune), di cui Fassbinder firma soggetto, sceneggiatura, produzione, scenografia, montaggio, fotografia e regia, si raccontano gli ultimi giorni di vita della transessuale Elvira, suicida a causa della solitudine e dell’indifferenza da cui è attorniata.
Lili Marleen è un film, ad alto budget, realizzato nel 1980, sulla vita dell’attrice e cantante tedesca Lale Andersen, diva del Terzo Reich. Fassbinder trasforma la vita della cantante tedesca, interpretata, ancora una volta, da Hanna Schygulla, nella storia di un amore contrastato negli anni della guerra. Una volta uscito il film ottiene giudizi contrastanti, perlopiù negativi. L’opera viene accusata di essere superficiale, piena di cliché, e troppo comprensiva nei confronti di chi ha fatto carriera negli anni nazionalsocialisti. Fassbinder viene accusato di aver reso omaggio all’estetica nazista mentre egli afferma di voler “far capire il Terzo Reich attraverso i dettagli affascinanti del suo modo di rappresentarsi”.
Lola, del 1981, racconta la storia di come un funzionario all’edilizia, giunto a fine anni ’50 in una cittadina del nord della Baviera, finisca per tradire i suoi propositi di contrastare il malaffare e la corruzione a causa di Lola, una cantante e prostituta che lavora nel bordello di uno squallido personaggio che controlla buona parte della cittadina. L’amore per questa ragazza finisce col renderlo parte di quel sistema corruttivo che inizialmente intende combattere. “Anche in questo film Fassbinder rappresenta l’amore come il più efficace strumento di repressione sociale”, scrive Trimborn. Lola, nelle intenzioni di Fassbinder, sottolinea anche come nella Germania del miracolo economico, lo sfruttamento della donna non sia affatto cambiato rispetto al passato.

veronika vossLa protagonista di Die Sehnsucht der Veronika Voss (Veronika Voss), film in bianco e nero girato nel 1981, cerca di cavarsela nella Germania del miracolo economico ma è destinata al fallimento. La protagonista, un’attrice divenuta morfinomane per continuare a sognare l’epoca del Terzo Reich in cui è stata una stella, è totalmente succube di una dottoressa che approfitta del suo stato di dipendenza. Temendo che le indagini di un giornalista, che nel frattempo ha conosciuto l’attrice, possano crearle problemi, la dottoressa decide di eliminarla. Presentato alla Berlinale del 1982 il film è un successo, viene visto come una sorta di risposta tedesca a Sunset Boulevard (Viale del tramonto), capolavoro di Billy Wilder.
Nell’ultimo film di Fassbinder, uscito nel 1982, Querelle, tratto dal romanzo Querelle de Brest di Jean Genet, tornano le tematiche a lui più care: amore, tradimento, dipendenza, violenza, solitudine, ricerca di una propria identità e di condivisione con un altro essere umano. Il film viene realizzato da un autore ormai fortemente condizionato dall’uso di droghe che, per non smentire il gusto della provocazione, per quanto concerne le foto di scena, contatta addirittura Leni Riefenstahl, che, ammalata, non è in grado di accettare l’offerta. Lo stato di alterazione con cui gira il film è pari soltanto al ritmo forsennato che decide di dare alle riprese, quasi una gara con la morte che sembra avvicinarsi sempre più velocemente.

Nel giugno del 1982, dopo aver assunto una dose eccessiva di cocaina pura, insieme a medicinali vari in grande quantità, nel corso della notte, il cuore di Fassbinder cessa di battere. Con lui se ne va un uomo contrastato, inquieto, contraddittorio ma capace, con il suo lavoro, di sferzare le coscienze di quel mondo piccolo borghese tedesco che forse non è riuscito, o non ha voluto, debellare fino in fondo quelle strutture sociali e culturali non sparite per incanto con la fine della guerra. In Germania e nel resto dei paesi in cui sono stati proiettati i suoi film, certamente Fassbinder è riuscito nel suo scopo: “creare disagio nelle strutture della borghesia” e le sue riflessioni sull’incomunicabilità e sull’esercizio del potere sui, ed attraverso i, sentimenti restano del tutto attuali.

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Voi non siete qui di Guglielmo Pispisa https://www.carmillaonline.com/2014/09/23/non-guglielmo-pispisa/ Tue, 23 Sep 2014 01:46:37 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=17445 di Marilù Oliva

pis2Messina è ambientazione principale, nonché premessa, di questo romanzo da poco uscito per il Saggiatore, nella collana La Cultura. Perché, come l’autore stesso ha dichiarato: «Il titolo di Voi non siete qui nasce prima del libro, quando mi è stato chiesto di scrivere un testo su Messina. Lo intitolai così, pensando alle mappe turistiche. Poi è nata l’ispirazione per il romanzo, che parte da Messina e arriva a Mosca». Consapevole che sia un luogo antinarrativo per eccellenza, Guglielmo Pispisa (nella foto sotto) sceglie questa città per presentarci il protagonista, un giovane azzeccagarbugli [...]]]> di Marilù Oliva

pis2Messina è ambientazione principale, nonché premessa, di questo romanzo da poco uscito per il Saggiatore, nella collana La Cultura. Perché, come l’autore stesso ha dichiarato: «Il titolo di Voi non siete qui nasce prima del libro, quando mi è stato chiesto di scrivere un testo su Messina. Lo intitolai così, pensando alle mappe turistiche. Poi è nata l’ispirazione per il romanzo, che parte da Messina e arriva a Mosca». Consapevole che sia un luogo antinarrativo per eccellenza, Guglielmo Pispisa (nella foto sotto) sceglie questa città per presentarci il protagonista, un giovane azzeccagarbugli vanesio, superficiale, colmo di pregiudizi, sposato e con prole, anche se sembra spesso dimenticarsene, certo frutto dei suoi tempi – la funesta generazione che ascoltava Tainted Love dei Soft Cell – e incapace di essere l’uomo che vorrebbe. Un inadeguato del nuovo millennio che però dei suoi anni subisce precipizi e seduzioni. Si chiama Walter Chiari e chissà che l’omonimia con quel Walter – quello celebre – non sia uno sberleffo del destino nei confronti di un avvocato pieno di velleità, ma presto deluso e scaricato dal suo capo, che lo liquida dallo studio legale in cui lavora. Il brano che segue sotto è a pagina 20, proprio nel momento più delicato del suddetto colloquio. Momento chiave del romanzo, perché innesca lo sviluppo successivo di una trama portata avanti con maestria, coinvolgendo legge segrete e faccendieri, nonché una figlia di papà che si offre tutta, generosamente, senza svelare quanto in realtà stia tirando i fili.

In un contesto dove chi non diventa massone fa quasi scandalo, in una società di autoassoluzioni spicciole, dove la giustificazione al proprio operato ha sbaragliato l’esame di coscienza, si muove chi decide e chi china la testa.

Pispisa è uno dei fondatori dell’ensemble narrativo Kai Zen, autore della Strategia dell’ariete (Mondadori, 2007). A proprio nome ha pubblicato Città perfetta (Einaudi, 2005), La terza metà (Marsilio, 2008) e Il Cristo ricaricabile (Meridiano Zero, 2012).

Pispisa 1«La sua bocca si aggriccia in una smorfia di dolore, come avesse una botta
secca di gastrite, e sibila il gran finale sulla perdita di qualità La qualità nel nostro lavoro non esiste più perché non importa a nessuno. Per i clienti veri, quelli seriali, quelli che fanno gli studi legali – le banche, le assicurazioni, gli enti pubblici – rappresentiamo solo una voce di bilancio da far quadrare con le altre: spese legali. Vincere o perdere le cause non frega niente. Le banche, i crediti problematici li cedono, non li mandano più a contenzioso, preferiscono realizzare subito un decimo del valore che aspettare dieci anni di causa, per cui non hanno bisogno di avvocati bravi, gli bastano scribacchini a buon mercato. È uno schifo. “Tutto uno schifo” faccio eco ancora. E lui mi brucia: “Ma veniamo a noi”. Stringe gli occhi, mi scruta l’anima, che deve avere individuato in un punto preciso all’altezza del mio sterno. Si alza, fa il giro della scrivania e si siede sulla poltrona vicino alla mia. “Dio solo sa quanto mi costa dirti queste parole.” Mente, sta mentendo, maledetto bugiardo, lo capisco quando mente. “Ma non posso più rimandare, ho aspettato settembre per non rovinarti l’estate ma ora devo dirtelo per forza.” Il vuoto mi si apre sotto la sedia, come una botola sul palcoscenico di un prestigiatore di provincia. Mi inghiotte. Ci tiene a precisare che la stima è invariata. Il mio lavoro è ottimo, anzi il problema è proprio questo: sono troppo bravo e non può pagarmi di meno, solo che la bravura non serve più. Quello che serve adesso può farlo anche un praticante a 300 euro al mese. A me bastano 300 euro? No che non mi bastano, e dunque il finale della recita si scrive da sé. Credo mi stringa il braccio con forza, ma a questo punto ogni mia percezione sensoriale è alterata e non ne sono sicuro. È come se fossi entrato nel corpo di un altro e lo vestissi come uno scafandro. Anche la mia mente sembra appartenere a un altro, non la controllo più o meglio la controllo con una sfasatura di qualche decimo, come con il telecomando della tv satellitare. Vittorio mi elargisce un’ultima perla esperienziale. “Nella nostra professione” dice “ci sono tre fasi. La prima in cui lavori per gli altri, la mediana in cui lavori per te stesso e l’ultima quando sono gli altri a lavorare per te.” Mi invita a considerare questo come un momento di crescita, il passaggio alla maturità. Adesso devo lavorare per me, contare su di me e godere interamente dei frutti del mio lavoro: sono io il mio capo. Ma io chi? Mentre esco il mio ormai ex boss si premura di precisare che non c’è nessuna fretta, mica gli serve la scrivania, posso prendermi tutto il tempo, organizzarmi il lavoro da qua, tanto almeno fino a gennaio non prende nessuno. Chi, del resto, potrebbe sostituire la mia costanza e la mia qualità. Non sarà una vera sostituzione – anche questo ci tiene a dire quando ormai gli volto le spalle –, ma un rimpiazzo. E si fotta chi non coglie la differenza. Non so nemmeno come sono arrivato nella mia stanza, non ricordo di avere percorso corridoi o visto segretarie, non ricordo il tragitto o le scale. So che un secondo fa ero davanti a Vittorio e avevo un lavoro e dunque una dignità un’esistenza, mentre ora, solo un secondo dopo, sono seduto a una scrivania che già esito a definire mia (per quanto ancora, una settimana, un mese?), guardo nel vuoto dello schermo del computer e misuro ciò che rimane di me, come chi si tocca il corpo dopo essere stato investito per sincerarsi di cosa è rotto e cosa no, dov’è contuso e dove escoriato. Passo una mano sul volto. È uguale a prima, eppure diverso, è la faccia di un altro. Respiro e chiudo gli occhi cercando di ritrovare il battito del cuore. Non lo sento. Li riapro nel rosso lacca dei fascicoli in attesa sulla scrivania. Li spingo oltre il bordo con un gesto lento della mano, il tonfo è meno drammatico di quanto vorrei, l’elastico regge e nemmeno un documento si sparpaglia sul pavimento. Il gesto ha influito solo sul mouse del computer che ha interrotto il loop del salvaschermo. L’orologio in basso a destra dice 10.41. Sono seduto qui da un’ora e mi sembravano pochi minuti. Devo reagire e razionalizzare. Posso farlo. Devo farlo per forza. Allora. C’è il mutuo della casa, innanzitutto, 1143 euro al mese. Poi la rata della Golf che ancora non ho finito di pagare, e sono altri 350, contratto del telefonino 50 euro, televisione via cavo 36 euro, metti una media di bollette bimestrali acqua luce gas telefono fisso di 400-500 euro, che fanno altri 200-250 al mese. Siamo a settembre, c’è il contributo minimo trimestrale della cassa previdenza avvocati: 850 euro. Siamo a 2679 euro. Più l’asilo di Emanuele 300 e il cibo e le spese impreviste e le scemenze come ristoranti e cinema. Ce ne vogliono almeno altri 1000. Fanno 3700, e solo per non affogare. I miei clienti personali sono pochi e tutti piccoli, non ho flussi, solo incassi saltuari. Metti che riesco a fare anche 500, 600 al mese (e non ci riesco), dove devo andare? Soprattutto ora che avrò nuove spese per pagare l’affitto di uno studio mio. Anche a dividerlo con altri, meno di 500 non pagherò quindi quello che forse posso guadagnare se ne va dritto in spese vive. Letizia contribuisce, chiaro, ma la supplenza quest’anno, con la contrazione delle classi e dei posti per il sostegno, tarda ad arrivare, sempre ammesso che la prenda, e perciò siamo daccapo a dodici. In banca ho meno di 6000 euro e ancora deve arrivare l’addebito della Visa che con le vacanze e tutto sarà una botta. Il mio limite di scoperto su conto è 10 000. Diciamo che ho quattro mesi di tempo prima di finire a gambe all’aria. E così come sto, senza la collaborazione con Vittorio, a gambe all’aria ci finisco sicuro. Non ho mai fatto politica, non sono massone, non ho parenti vescovi e nemmeno preti. Metà dei miei amici fa il mio stesso lavoro e pure due miei cugini. Dove li trovo i clienti? Non fra i parenti, non fra gli amici, non con lo scambio di favori perché non ho nulla da scambiare. Ho quasi quarant’anni e nessuno che mi debba un favore. Cosa ho sbagliato? Dove ho buttato gli anni migliori della mia vita, quelli in cui, come diceva mia nonna, dovevo farmi avanti?».

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