Il movimento del Settantasette – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 26 Dec 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani https://www.carmillaonline.com/2017/11/28/non-abbiamo-piu-niente-compagni-siamo-orfani/ Mon, 27 Nov 2017 23:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41829 di Fabio Ciabatti

Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, pp. 128, € 12,00.

E se il movimento del ’77 avesse lavorato per il re di Prussia? Se quella generazione di giovani militanti contrapponendosi frontalmente alla cultura, ai valori e alle pratiche della sinistra storica in nome di un altro tipo di comunismo non avesse fatto altro che aprire la strada ai modelli individualistici e consumistici che si sarebbero affermati definitivamente negli anni successivi? È questa una delle possibili chiavi interpretative del ’77 che, attraverso la rassegna di [...]]]> di Fabio Ciabatti

Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, pp. 128, € 12,00.

E se il movimento del ’77 avesse lavorato per il re di Prussia? Se quella generazione di giovani militanti contrapponendosi frontalmente alla cultura, ai valori e alle pratiche della sinistra storica in nome di un altro tipo di comunismo non avesse fatto altro che aprire la strada ai modelli individualistici e consumistici che si sarebbero affermati definitivamente negli anni successivi? È questa una delle possibili chiavi interpretative del ’77 che, attraverso la rassegna di testimonianze e studi storici, emerge dal breve ma denso volume di Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria. Nel libro affiorano molte altre tematiche. Tra le più significative c’è la negazione dell’idea che si possa tirare una netta linea di separazione tra la cosiddetta ala creativa del movimento e quella violenta. Però, dal mio punto di vista, la domanda iniziale pone forse la questione più inquietante. Rispondere affermativamente significherebbe dare ragione a uno dei mantra dei nostri tempi, formulato con esemplare chiarezza da Margaret Thatcher poco tempo dopo le vicende qui considerate: “there is no alternative”. Se anche chi voleva fare la rivoluzione ha finito per favorire l’affermazione dell’ideologia neoliberista, quale speranza può rimanere per pensare un cambiamento radicale?
“Non abbiamo né passato né futuro. La storia ci uccide”1 si leggeva su un muro dell’università di Roma. Uno slogan che sembra consegnarci a un eterno presente, in pieno mood postmoderno. Eppure la superficiale ilarità che contraddistingue il postmoderno non appartiene al ’77. “Siamo ironici, non siamo felici”2 dice un indiano metropolitano citato nel testo. Le metafore della festa e del carnevale, utilizzate per interpretare il movimento, ci ricorda Gagliardi, non indicano atteggiamenti di semplice gioia e spensieratezza, ma esprimono la partecipazione collettiva priva di gerarchie, la sospensione del tempo, il rovesciamento della serietà politica tradizionale.
È l’idea stessa di conflitto politico che assume connotati carnascialeschi dal momento che, sostiene l’autore, esso sembra conoscere solo il qui e ora e non la lineare e razionale evoluzione dei tempi e della storia. La fiducia nel futuro è completamente assente in una generazione che assiste all’esaurirsi del ciclo di crescita post-bellico. Viene meno l’idea di rivoluzione come città futura. Il conflitto è imperniato sull’affermazione del desiderio e sull’appropriazione immediata. Appropriazione di beni e servizi, attraverso autoriduzioni, occupazioni e espropri proletari, ma anche di rapporti umani e dei tempi della vita, come testimonia l’idea del personale che è politico. Non si tratta di conquistare lo stato, ma di attuare la rivoluzione nella società, costringendo semmai i poteri costituiti (stato e capitale) ad adeguarsi ai nuovi rapporti di forza, ad arretrare. Più microfisica del potere di Foucault che lotta di classe di Marx. Più liberazione che uguaglianza.

La differenza culturale, comportamentale e antropologica con il tradizionale militante di sinistra è abissale, segnala l’autore. Il Pci e il sindacato sono considerati l’emblema dell’ascetismo rosso, cioè dell’abnegazione del militante a tempo pieno, dell’etica del lavoro, del primato della ragione sul corpo e sui desideri, del culto del collettivo a discapito dell’individualità, della subordinazione del presente al futuro. Lo scontro è frontale. Una simile distanza si riscontra anche nei confronti delle Brigate Rosse, la principale organizzazione clandestina. Ciò non toglie tuttavia che si siano registrate alcune esperienze diffuse, per quanto minoritarie, di cosiddetto “terrorismo movimentista”, di cui Prima Linea rappresenta l’esempio più importante.
Il ’77, sottolinea Gagliardi, pur professandosi interno a una prospettiva comunista si mostra sempre meno legato a una cultura e a un linguaggio di classe. Nonostante il persistere di una certa retorica, la centralità operaia e l’idea canonica della classe appaiono sempre meno centrali nelle rappresentazioni di una parte consistente della gioventù rivoluzionaria. Cambia rapidamente il rapporto tra giovani generazioni e lavoro, non solo tra i non garantiti e marginali, ma anche tra i giovani operai inseriti in un rapporto di lavoro “classico”. Dal lavoro come fonte di appagamento e di identità si passa al rifiuto del lavoro.
Tutto ciò sarebbe incomprensibile se, come sottolinea l’autore, non si collocasse il ’77 nel contesto della profonda trasformazione che attraversa l’Italia di quegli anni: esaurimento della parabola fordista e del ciclo di sviluppo postbellico, crisi delle politiche d’inclusione, crescita della disoccupazione, in particolare quella giovanile, nascita del fenomeno del lavoro precario, diminuzione dell’occupazione nelle grandi fabbriche, processi di ristrutturazione tecnologica e organizzativa, d’esternalizzazione e di terziarizzazione. Come recita una scritta apparsa sui muri delle università occupate: “Come il 68? No ora c’è la crisi”.3 A partire a questo contesto il ‘77 è un’esperienza con marcato carattere generazionale che portava in primo piano, accanto agli universitari, i giovani delle periferie urbane che si percepiscono come destinati a un futuro di marginalità.
Possiamo così capire le condizioni storiche che rendono possibile l’affermazione nel movimento di un universo simbolico e pratico che contribuisce a destrutturare i valori collettivi e comunitari tipici della tradizione comunista. Ma ciò non significa ridurre il ’77 a mero sintomo dei tempi che cambiano, perché se il movimento utilizza in certa misura le parole peculiari dello spirito del tempo, lo fa a modo suo, traducendole in termini politici antagonisti, ci ricorda Gagliardi. Se il movimento esprime una totale estraneità e contrapposizione verso la politica istituzionale, tutto ciò non si traduce in una rinuncia alla politica. C’è al tempo stesso un fenomeno di iperpoliticizzazione e di fuga dalla militanza, un tentativo di invadere l’arena politica e contemporaneamente di rifiutarne i linguaggi. Se nel rifiuto della logica dei sacrifici e dell’austerità si afferma l’irriducibilità dell’individuo e dei suoi desideri a qualsiasi logica macrosociale, per il ’77 la realizzazione dei bisogni rimanda ancora a una dimensione comunitaria.
Provando a resistere ai processi di depoliticizzazione e di privatizzazione, il ’77 rappresenta un tentativo estremo di pensare che felicità pubblica e privata possano arricchirsi reciprocamente al di fuori delle logiche di mercato, attraverso un allargamento della partecipazione orizzontale. Da questo punto di vista il ‘77 appare all’autore “più che prefigurazione del nostro presente, una storia del passato; più che un evento capace di anticipare quello che sarebbe venuto, l’emblema di una sconfitta”.4
Per tutti questi motivi il lascito del ‘77 non consiste nell’aver alimentato consumismo e individualismo, ma nell’aver “costituito di fatto un momento nel quale la crisi di vecchi paradigmi culturali e politici incontra l’emergere di nuove traiettorie culturali, sensibilità, linguaggi e forme d’azione”.5 Da lì nasce l’inedita politicizzazione di sfere come la famiglia, la salute, l’alimentazione, la sessualità e il corpo; da quell’esperienza collettiva emergono i nuovi movimenti antinucleari, per la pace e la difesa dell’ambiente.

Se questo è il consuntivo in sede storica, in una prospettiva più strettamente politica vorrei formulare alcuni interrogativi. Se la centralità operaia stava venendo meno, lo slancio rivoluzionario del ’77 sarebbe stato pensabile senza la recentissima memoria della forza antagonistica dell’operaio massa? Era stato proprio quel segmento di classe a mostrare con i fatti che ribellarsi non era solo giusto, ma anche fattibile. Ora che quella memoria si è affievolita, che non appartiene più all’immaginario collettivo, è possibile pensare una nuova insorgenza di massa senza che, in qualche forma, certamente non identica al passato, si affermi una nuova centralità di qualche segmento di classe? E se questa nuova centralità non può darsi certo per scontata, a fronte della locomotiva della storia che sembra viaggiare a tutta velocità verso il baratro, si può rimandare una sperimentazione organizzativa in grado di costituire una massa critica minima senza dare per scontata quella spontanea capacità aggregativa che affondava le sue radici in condizioni storiche, almeno a livello di immaginario collettivo, oramai tramontate? In questa prospettiva è possibile, oltre che auspicabile, riproporre vecchie modalità di impegno politico che non tengano conto delle acquisizioni del ‘77 quanto a rapporto tra collettivo e individuo? Si può far tesoro del rifiuto della politica istituzionale, nato nel ’77 e cresciuto sempre più negli anni successivi, sforzandosi di coniugarlo nel lessico marxiano della critica della politica piuttosto che limitarsi a riprodurre un astratto anti-isitituzionalismo che fossilizza comportamenti del passato?
“Non abbiamo più niente, compagni, siamo orfani” si legge nella prima pagina di Lotta continua del 31 dicembre 1977. Dopo aver letto il libro di Gagliardi questa affermazione non dovrebbe sorprendere. Il ’77 è il primo movimento che si confronta con le condizioni della politica contemporanea e in particolare con l’indebolimento delle identità collettive di classe; è forse l’ultimo movimento occidentale di ampia portata con un’esplicita vocazione rivoluzionaria. Per questi motivi quelle vicende, nel bene e nel male, hanno ancora rilevanza per il nostro presente. Il movimento del ’77 è stato sconfitto. Si tratta ora di riscattare il generoso impegno di una generazione che ha lottato in condizioni improbe, così come di tutte le generazioni passate che hanno lottato, partendo proprio dall’ineludibile assunzione di quella sconfitta.


  1. Alessio Gagliardi, Il 77 tra storia e memoria, manifestolibri, 2017, p. 26. 

  2. Ivi, p. 64. 

  3. Ivi, p. 31.  

  4. Ivi, p. 107. 

  5. Ivi, p. 108. 

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A/traverso (a suo modo) una pratica dell’obiettivo https://www.carmillaonline.com/2017/05/12/38008/ Thu, 11 May 2017 22:01:42 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38008 di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine. Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere [...]]]> di Gioacchino Toni

cover_Chiurchiù_La rivoluzione_è_finita_Luca Chiurchiù, La rivoluzione è finita abbiamo vinto. Storia della rivista “A/traverso”, Derive Approdi, Roma, 2017, pp. 208, € 18,00

«Le categorie vecchio-socialiste dei gruppi, come le categorie democratico-partecipative del revisionismo e della borghesia, cercano di dare un volto a questo soggetto indefinibile: i giovani, gli operai, gli studenti, le donne, soggetto di trasformazione, inafferrabile ieri per la sua ostilità e lotta aperta, oggi per il suo stare altrove, per l’estraneità, debbono essere catalogati, debbono avere un nome, stare dentro qualche ordine.
Ordine. Perché solo nell’ordine si può costringere la gente a lavorare»

“Piccolo gruppo in moltiplicazione”, “A/traverso”, maggio 1975

La rivista nacque nel 1975, dall’eredità della controcultura e dell’operaismo degli anni Sessanta, ma al contempo si presentò come il simbolo di uno scarto nel mondo antagonista della sinistra extraparlamentare di allora. Una frattura sghemba, obliqua e anche ambigua, proprio come quella della barra che spaccava il titolo a metà e che si insinuava nel mezzo delle cose. La proposta era quella di mettere in moto la rivoluzione dal linguaggio, di rideterminare l’ordine del reale utilizzando la scrittura […]
“A/traverso” è un oggetto alieno, oltre che per le sue fattezze anticipatrici delle fanzine punk, anche e soprattutto per il modo in cui, nelle sue pagine forma e contenuti si influenzano a vicenda, andando a costituire un messaggio che riesce sempre a travalicare la semplice trasmissione dell’informazione. È come se fosse in atto un instancabile tentativo di evasione, una costante, ostinata (e inattuale) spinta centripeta volta alla dissoluzione delle norme imposte dal discorso dell’ordine (pp. 5-7).

Nelle intenzioni di Luca Chiurchiù, autore del lavoro recentemente edito da Derive Approdi, il libro non vuole “tradurre” e “spiegare” i testi apparsi sulla rivista bolognese, quanto piuttosto capire se e quanto

i progetti della rivista abbiano trovato un vero riscontro, o meglio, se e fin dove essi siano stati capaci di promuovere il cambiamento che si prefissavano di operare in ambito espressivo e, per suo tramite, in ambito politico. Sconvolgere e rifondare il linguaggio per sconvolgere e rifondare la vita, scoprendo le sue infinite possibilità di libertà e di liberazione dal destino impostoci dall’alto del potere. Questo è stato il principale, utopico e impossibile obiettivo di “A/traverso” (p. 7).

L’analisi della rivista bolognese proposta da Chiurchiù prende il via dai debiti che essa palesa nei confronti delle esperienze delle avanguardie artistiche di inizio Novecento tanto per l’importanza assegnata da esse alla pubblicazione di riviste quanto per il loro aver rivoluzionato il periodico

affrancandolo per la prima volta dal suo specifico fine comunicativo. La rivista si è così trasformata in un supporto dove poter portare fino alle estreme conseguenze la loro sperimentazione programmatica. Da semplice contenitore, neutro e impersonale, essa è stata elevata a oggetto d’arte da plasmare e colorare, smembrare e riassemblare in continuazione. […] Le avanguardie hanno stravolto il periodico dall’interno, spodestando l’informazione dal suo ruolo di fulcro, mettendo in secondo piano il significato. […] La sovversione della gerarchia segnica, il rovesciamento e la confusione tra significante e significato sono le cifre identitarie di questi fogli (pp. 10-11).

Se da un certo punto di vista queste sperimentazioni di rottura nei confronti del linguaggio della stampa borghese, hanno permesso alle avanguardie storiche di infrangere il confine tra arte e vita, dall’altro hanno comportato un allontanamento delle riviste dal lettore. É da questo stallo che alcune esperienze maturate in quella sorta di “lungo Sessantotto”, protrattosi dalla fine degli anni Sessanta al termine dei Settanta, sono ripartite ricorrendo a modalità produttive e distributive autonome rispetto al sistema dominante. Si parla a tal proposito di “esoeditoria” indicando con tale neologismo, introdotto ad inizio anni Settanta, quelle esperienze editoriali autoprodotte circolanti negli ambienti politici ed artistici di movimento.

Chiurchiù passa dunque in rassegna alcune riviste che ritiene, in qualche modo, si possano collocare a monte dell’esperienza di “A/traverso”. “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Contropiano”, “Quaderni Piacentini”, per fare alcuni esempi, vengono annoverate dallo studioso tra le esperienze editoriali espressione di “un luogo autonomo” di elaborazione politica al di fuori del circuito politico istituzionale.

Con il primo operaismo si sviluppa la pratica della “con-ricerca”, ossia dell’inchiesta nella quale le esperienze personali degli operai e le loro testimonianze dirette diventano parte integrante della comprensione “dal di dentro” dei processi di produzione e di sfruttamento. Seppur strutturate su un linguaggio ancora tutto intellettuale, e chiuse in un circuito distributivo ristretto, queste pratiche innovative di analisi in presa diretta […] trovarono seguito e sviluppo nelle riviste degli anni a venire, in favore di un sempre maggior interesse nei riguardi della soggettività operaia (p. 15).

Negli anni Settanta la soggettività del “qui ed ora” tende a sostituirsi in molti casi all’utopia di una società da trasformarsi in data a venire e le pubblicazioni periodiche provano a dare spazio in presa diretta a settori del proletariato giovanile. L’esperienza di “A/traverso” e di Radio Alice, secondo l’autore, rientrano in tale dinamica di riappropriazione della parola.

a_traverso___3446Non vengono tralasciate dallo studioso le riviste sorte attorno alla metà degli anni Sessanta nell’ambiente beat milanese come “Mondo Beat” e “Pianeta Fresco”, capaci di dar voce ad un immaginario altrimenti celato o distorto dalla stampa ufficiale. La rivista “Quindici” del Gruppo 63 viene invece indicata come esempio importante volto a rinnovare la scena letterario-culturale italiana altrimenti piegata – ed attardata – attorno ai canoni neorealisti cari al Pci.

Le pubblicazioni di Potere operaio e Lotta continua rappresentano una trasformazione importante all’interno dell’editoria della sinistra radicale. In particolare “Lotta Continua” viene indicata come esempio di sperimentazione e di rinnovamento linguistico teso tanto a rendere il linguaggio politico accessibile a larghi strati sociali, quanto ad assolvere ad una funzione di controinformazione in opposizione al monopolio informativo del potere. Nell’ambito delle esperienze editoriali alternative, il saggio affronta anche la parabola della rivista milanese “Re Nudo”, nata nel 1970, esempio di pubblicazione tesa al superamento della scissione tra politico e privato.

Da una parte, dunque, si fanno strada le voci delle nuove generazioni, sempre più insistenti riguardo i loro bisogni individuali e privati, in un processo simile a quello che si sarebbe concretizzato nella sezione epistolare di “Lotta Continua”. Dall’altra, in maniera opposta, trovano spazio nelle pagine di “Re Nudo” anche i primi comunicati delle Brigate rosse (p. 29).

Dopo aver ricostruito il panorama editoriale del periodo, Chiurchiù ripercorre la nascita e lo sviluppo nel corso degli anni Settanta di quell’autonomia operaia diffusa – entro la quale deve essere collocata l’esperienza del collettivo bolognese – ed il dilagare a livello sociale di fenomeni di “pratica dell’obiettivo”. Il bisogno di “autorappresentazione” di esperienze specifiche di lotta conduce non di rado alla creazione di pubblicazioni sostanzialmente autoreferenziali, volte non più a raggiungere il numero più alto possibile di lettori ma ad esprimere un’urgenza di comunicare con i “propri simili”.

“L’erba voglio”, “Rosso” e “A/traverso” rappresentano, secondo l’autore, alcune importanti novità nel panorama delle pubblicazioni degli anni Settanta. Della prima di queste pubblicazioni, che non appartiene all’area autonoma anche per motivi cronologici, viene messa in evidenza la capacità di dare spazio ad una pluralità di voci derivanti da ambiti decisamente differenziati. Del periodico milanese “Rosso” viene evidenziata la modalità comunicativa decisamente diretta e rude.

Chiurchiù giunge così, dopo una panoramica sull’editoria alternativa e sul mondo politico della sinistra radiale, ad affrontare la storia della pubblicazione bolognese “A/traverso” i cui animatori «si propongono di operare mediante il linguaggio, di trasformare il reale attraverso una pratica scrittoria liberata e liberante da qualsiasi schema preordinato. La prassi da testuale vuole farsi concreta, politica e quindi rivoluzionaria» (p. 39).

Se la maggior parte degli studi sistematici sulla rivista si sono concentrati quasi esclusivamente sul versante artistico/letterario, il saggio di Chiurchiù intende invece, e qua sta la vera novità proposta dal volume, di

riservare un’attenzione particolare ai fatti che segnano anche la vita della rivista bolognese, la modificano, le fanno prendere una determinata direzione durante il corso dei suoi numeri. Questo giornale è uno dei testimoni alternativi di ciò che accade in Italia nella seconda metà degli anni Settanta, ed è necessario inserire la sua analisi in un contesto storico il più possibile ben definito. La ricostruzione storiografica procederà quindi di pari passo con lo studio degli aspetti più innovativi, quelli legati all’anima avanguardistica del progetto, alla sua inedita concezione della pratica scrittoria e dei mezzi comunicativi, alla sua lettura semiotica del mondo e del potere. A fare da filo conduttore saranno le diverse tematiche in campo estetico e politico affrontate dal giornale e il loro sviluppo nel succedersi degli anni di pubblicazione (p. 41).

Il “piccolo gruppo in moltiplicazione” da cui nasce la rivista si colloca, come detto, all’interno di quella magmatica area dell’autonomia diffusa che, in quel di Bologna, si trova a fare i conti direttamente con la gestione del potere da parte del Pci. Nata nel 1975, presentandosi come supplemento a “Rosso”, la testata ha un’uscita estremamente irregolare e, secondo l’analisi proposta dal saggio, è nel 1979, in seguito agli eventi repressivi del 7 aprile calogeriano, che l’attività della rivista va pian piano spegnendosi. Sebbene il “periodo eroico” resti quello compreso tra il 1975 ed il 1979, l’ultimo numero esce nell’estate del 1981, salvo poi riapparire qualche tempo dopo sotto diverso formato prolungando la pubblicazione fino al 1988 a cui si deve, inoltre, aggiungere un’appendice in forma di piccoli quaderni in concomitanza all’esplosione del movimento studentesco della Pantera nel 1990.

La veste grafica ed il linguaggio di “A/traverso” riprendono sperimentazioni delle avanguardie di inizio Novecento, la tecnica del cut up e le fanzine punk anglosassoni. La scritta “A/traverso”, composta da Claudio Cappi, che assembla lettere ritagliate da testate giornalistiche come “L’Unità”, “il manifesto”, “Lotta Continua” e “Rosso”, ha nella barra divisoria diagonale l’elemento di maggior interesse come ha ben evidenziato Claudia Salaris nel suo libro Il movimento del Settantasette (1997); con essa, attraverso essa, viene scardinato il discorso a senso unico, si sabota l’univocità del linguaggio ufficiale. Per certi versi si apre il discorso in direzione polisemica rifiutando la grigia e servile monosemia propria del linguaggio strettamente funzionale.

Nel solco del rifiuto del lavoro praticato in fabbrica e fuori da essa da parte di quel proletariato giovanile reso/resosi estraneo al ciclo produttivo, l’innovazione tecnologica portata nelle fabbriche al fine di piegare la ribellione operaia, secondo il gruppo bolognese, sull’onda di un certo operaismo che recupera il Marx dei Grundrisse, può essere rovesciata al fine di limitare il più possibile il tempo in cui si resta confinati in fabbrica trasformando il (falso) tempo libero in libertà reale. Lavorare tutti ma lavorare poco, anzi pochissimo e magari lentamente.

Lavorare con lentezza / Senza fare alcuno sforzo / Chi è veloce si fa male / E finisce in ospedale / in ospedale non c’è posto / e si può morire presto / Lavorare con lentezza / senza fare alcuno sforzo / la salute non ha prezzo, / quindi rallentare il ritmo / pausa pausa ritmo lento, / pausa pausa ritmo lento (Lavorare con lentezza, 1974, Enzo Del Re)

Secondo Chiurchiù il linguaggio di “A/traverso” insiste sulla necessità di «rilevare il meccanismo di espropriazione che il sistema compie nei confronti della produzione testuale e sovvertirlo, rimpossessarsi di ciò che ci viene tolto ogni volta in cui crediamo di comunicare […] Il mondo in cui viviamo è costruito su segni e simulacri, e il modo linguistico e logico con cui pensiamo è il solo modo con cui possiamo (ci è dato di) leggere (ma non scrivere) la realtà» (p. 87). É alla ricerca di un’alternativa a ciò che si impegna la rivista.

Nel 1976 il sottotitolo della testata si trasforma; da «giornale dell’autonomia» a «giornale PER l’autonomia» e ciò potrebbe essere letto, a parere di chi scrive, come l’intenzione di praticare l’obiettivo della liberazione del linguaggio, l’intenzione della rivista di farsi agente di autonomia e non portavoce di un’esigenza. «Distruggere il linguaggio codificato è dunque un modo per restituire parola al rimosso e a quei bisogni materiali che le istituzioni della politica stanno contraffacendo e mettendo da parte affinché non destabilizzino l’ordine delle cose» (p. 91). Un editoriale del 1976 è intitolato “Leggere nella merda”, riprendendo l’invito di Antonin Artuad di “leggere nella merda”, in tutto ciò che il sistema nasconde nell’emarginazione attraverso strutture come i manicomi, la scuola e la famiglia. La scrittura trasversale che intende praticare la rivista pare voler indagare ciò che la ragione capitalistica rifiuta in quanto contraddittorio; «è il nonsenso, è la gratuità, una sostanza che pulsa e non può né vuole essere resa valore, il corpo sottratto alla prestazione e al ricatto salariale, il desiderio che produce soltanto se stesso. Tuttavia, è solo là dove si odora la merda che si sente l’essere» (p. 91).

Chiurchiù si sofferma anche sul ruolo esercitato dell’Antiedipo di Gilles Deleuze e Félix Guattari (uscito in Francia nel 1972) sul ragionamento portato avanti dal gruppo bolognese a proposito dell’occultamento

compiuto dalla psicanalisi e dal sistema in generale della macchina desiderante che è proprio un occultamento di di tipo codificante, significante, formalizzante. […] Il desiderio è schizofrenico, senza direzione né freni, il sistema capitalistico è paranoico, in quanto per esso tutto deve essere necessariamente ridotto a segno, a valore, a simbolo da poter ipostatizzare, immobilizzare nelle sue reti. Il desiderio è molecolare, scomposto e scontornato, le macchine paranoiche del capitale sono invece molari, compatte e strutturate (p. 93).

Occorre pertanto, secondo il “Piccolo gruppo in moltiplicazione” ridare voce al desiderio, rifiutando di uniformarsi alle macchine paranoiche, occorre delirare fino in fondo.

a_traverso___3456Se da un lato risultano evidenti i debiti nei confronti delle avanguardie storiche, secondo Chiurchiù il gruppo bolognese ne individua lucidamente anche i limiti; certo queste hanno operato per abolire la distanza tra pratica artistica e vita ma il loro sabotaggio nei confronti della società e della sua cultura ufficiale è ancora, tutto sommato, di matrice romantica in quanto gli esponenti delle avanguardie di inizio Novecento ritengono la loro attività ancora «indipendente rispetto ai processi di valorizzazione e, soprattutto, rispetto alla progressiva sussunzione di qualsiasi lavoro o produzione intellettuale da parte del capitale» (p. 96).

In sostanza le avanguardie storiche non comprendono che la loro azione resta comunque coinvolta nel generale processo di alienazione. Le stesse pur meritorie neoavanguardie degli anni Sessanta vengono accusate di non aver saputo uscire dal “laboratorio artistico” e “stilistico formale”. Nelle loro pratiche il mondo risulta comunque essere messo tra parentesi. É dal fallimento di quelle esperienze che occorre ripartire secondo “A/traverso”, dall’abbandono dell’illusorio laboratorio artistico e della pretesa indipendenza rispetto alla sussunzione della produzione creativa ed intellettuale da parte del capitale.

È su questa strada si arriva al mao-dadaismo ed a Vladímir Vladímirovič Majakovskij. Nel manifesto del mao-dadaismo, letto polemicamente nell’estate del 1976 in occasione del convegno di Orvieto della Cooperativa scrittori, all’ottavo punto è scritto: «Ripartiamo dalla lezione del dadaismo; ma quella separazione fra arte e vita che il dadaismo vuole abolire nel regno (illusorio) dell’arte, il trasversalismo la abolisce sul terreno pratico dell’esistenza, del rifiuto del lavoro, dell’appropriazione. Trasformazione del tempo, del corpo, del linguaggio» (p. 101).

Majakovskij è preso come punto di riferimento dal gruppo bolognese, sostiene l’autore, per il suo farsi promotore di una poesia capace di divenire pratica di massa, per il suo non essersi integrato al potere, per il fatto che è proprio nella sua partecipazione al processo rivoluzionario che

ha trovato il punto in cui la separazione veniva praticamente superata: tutta la forza-intelligenza che il capitale sottrae agli operai e cristallizza in forma di lavoro, tutta una creatività che il capitale riduce a spettacolo di fronte alla miseria del quotidiano delle masse, in quel movimento di massa che era l’ottobre Rosso esplodeva e travolgeva in cinto dentro cui la letteratura voleva stare rinchiusa. Produrre testi in piazza, dipingere di rosso la trasformazione della vita. Trasformare il colore della metropoli e il linguaggio di tutti rapporti, per rendere insopportabile la schiavitù capitalistica. Questa è l’indicazione di Majakovskij. La pratica testuale è così, in quei momenti, pratica creativa. Pratica creativa significa superamento reale (e non mera predicazione su questo superamento, o lamento della separatezza) della spettacolarità del testo e della miseria del quotidiano. Nel processo rivoluzionario, di liberazione della vita operaia dal lavoro salariato, diventa centrale la trasformazione collettiva del tempo liberato, dello spazio in cui si vive, del linguaggio (p. 103).

Nel volume si riportano anche le celebri letture proposte da Umberto Eco e Maurizio Calvesi del linguaggio del movimento della seconda metà degli anni Settanta e degli evidenti debiti di Bifo e compagni nei confronti di Guy Debord e di Jean Baudrillard. Nel saggio viene, inoltre, ricostruita la collaborazione romano-bolognese tra “Zut” e “A/traverso” che porta alla pubblicazione nel 1977 di “La rivoluzione. Finalmente il cielo è caduto sulla terra”. Nell’analizzare l’esperienza di Radio Alice Chiurchiù mette in risalto il suo aprirsi al flusso sociale, il suo lasciarsi attraversare da esso, il suo esserne parte.

Poi si arriva alla Bologna del marzo 1977, ai “fatti nostri”, come recita il titolo di un noto libro bolognese (“autori molti compagni”), ai blindati all’università, alla morte di Francesco Lorusso, alle barricate, ai botti ed alle botte, all’irruzione a Radio Alice. Poi è epoca di fughe precipitose verso il confine o verso la baiaffa, verso la solitudine e verso l’eroina. Poi è anche storia di oblio e di memorie selettive, di nostalgie reduciste e di silenzi assordanti calati su chi non ha finito di pagare il conto, di portavoce sempre in servizio e di riciclati facenti capolino negli anniversari comandati, di chi si è spento sul lavoro e di chi si è spento avendolo perso senza avere in cambio libertà, di chi è tornato a  chinare il capo ma anche di chi ha continuato a non farlo. La rivoluzione (è) in/finita (?)

 

 

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