Il giorno degli zombi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Nemico (e) immaginario. Armi e mura. Allegorie politiche post-apocalittiche ed etica della sopravvivenza in TWD https://www.carmillaonline.com/2017/11/14/41561/ Tue, 14 Nov 2017 22:15:57 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41561 di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di [...]]]> di Gioacchino Toni

George Romero non ha mai fatto sconti a The Walking Dead, tanto da rifiutarsi di dirigere qualche episodio della serie giungendo a definirla come «una soap opera con qualche zombie qua e là». In effetti, avendo Romero sempre utilizzato lo zombie come strumento di satira o di critica politica, risulta difficile pensarlo alle prese con buona parte delle produzioni più recenti. Resta comunque innegabile che in TWD vi siano riferimenti all’universo romeriano tanto che alla scomparsa del regista che ha saputo regalare sia al “decennio turbolento” che a quello successivo del “ritorno all’ordine” le più appropriate figure di zombie, lo stesso Robert Kirkman, il creatore dell’universo di comic alla base della fortunata serie televisiva, non si esime dal concedergli un tributo diretto inserendo su un numero del fumetto un esplicito riferimento all’incipit di Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985).

Richiami, citazioni e tributi, più o meno di maniera, a parte, nel corso della serie Nemico (e) immaginario abbiamo avuto modo di vedere come l’immaginario offerto da The Walking Dead differisca da quello romeriano; Antonio Lucci nel suo “Non pensare allo zombi! Strutture narrative e metamorfosi della non-morte” (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), senza mezzi termini, giunge ad accusare la serie di aver ribaltato il valore culturale critico del genere in una normalizzazione conservatrice.

Sull’immaginario politico-ideologico riscontrabile in TWD si soffermano anche Dom Holdaway e Massimo Scaglioni nel libro The Walking Dead. Contagio culturale e politica post-apocalittica (Mimesis, 2017). Il primo capitolo del volume analizza TWD, secondo le modalità dei Film and television studies, come prodotto televisivo, indagando l’ideazione e la produzione della serie, il suo dialogare con il genere horror e la mitologia degli zombie. Nel secondo capitolo TWD viene invece analizzato con gli occhi dei Cultural studies al fine di cogliere tanto «le strategie di rappresentazione adottate dal prodotto in relazione alle dinamiche politico-sociali contemporanee», quanto «l’ideologia stessa che la serie incarna e veicola, fondata su una visione neoliberista, tesa a valorizzare l’utopia dell’eguaglianza di fronte alla minaccia dei non-morti e a “oscurare” differenze che riemergono, comunque, in maniera inconscia e imprevista» (p. 11). Nel terzo capitolo, attraverso i Media studies e le ricerche sui fandom, viene studiata la dimensione transmediale della serie e viene messa in luce la sua capacità di dialogare con i desideri del pubblico. Nel quarto capitolo, infine, attraverso i Production studies, ad essere presi in esame sono gli aspetti distributivi e di consumo di questa serie. Da parte nostra ci soffermeremo sull’analisi proposta da Holdaway e Scaglioni nel secondo capitolo del volume intitolato “Nuovo ordine post-apocalittico. Allegorie politiche ed etica della sopravvivenza”.

Indipendentemente dal fatto che The Walking Dead sia «politicamente innocuo “come una soap opera”, per dirla con Romero, o piuttosto in grado di mettere sul piatto, spesso senza risolvere, alcune delle questioni più urgentemente avvertite nelle società occidentali (l’ossessione nei confronti delle fortificazioni, delle mura, del diritto di rinchiudersi in “comunità sicure” e di difenderne i confini anche con l’uso della violenza preventiva; oppure il tema delle malattie epidemiche…)» (p. 7), resta il fatto che il successo ottenuto dalla serie ha sicuramente contribuito al rilancio della figura dello zombie.

Il libro di Holdaway e Scaglioni concede parecchio spazio all’analisi delle «allegorie politico-ideologiche contenute, intenzionalmente o meno, nel prodotto televisivo e nelle sue varie estensioni» (p. 8). I due studiosi colgono anche alcune curiose analogie tra le narrazioni di Game of Thrones (Il trono di spade, HBO, dal 2011) e The Walking Dead. «A conferma che sotto la coltre dei generi e degli immaginari della cultura popolare ritroviamo motivi più profondi e persistenti, che consentono di inquadrare e comprendere meglio l’identità di una Nazione e la complessità dei racconti che, da qui, riescono a viaggiare nel mondo, e a raggiungere le sue diverse periferie, diventando altrettanto e diversamente significativi» (p. 9).

I due studiosi pongono particolare attenzione anche sulla capacità del fumetto e della serie televisiva di estendersi su media e piattaforme differenti al fine di coinvolgere i fan nello strutturare una forma di complessità che sembra presentare peculiarità tali da differenziarla da quella di altre serie contemporanee.

Sul piano contenutistico, innanzitutto, TWD catalizza una varietà di fenomeni legati alla mitologia “zombesca” sviluppata, negli anni, dal cinema e più recentemente dalla televisione americana. Dal punto di vista televisivo, poi, il telefilm prende il testimone da Lost e da altre serie “complesse” degli anni 2000 nello sviluppare una forma di narrazione improntata alla “popolarizzazione del culto” e all’apertura potenzialmente infinita del racconto. Sul versante della rappresentazione e dell’ideologia, inoltre, il focus della serie si sposta progressivamente dalla centralità degli zombie (o del virus che “li produce”) come origine dell’apocalisse, all’idea di una rifondazione della civiltà umana che dà per scontati il pericolo continuo e la necessità di convivenza con i non-morti: in questo modo TWD presenta un’ampia e ricca casistica di dilemmi etico-esistenziali, problematiche politiche, interrogativi legati all’organizzazione sociale, alle questioni razziali e di gender. Infine [TWD] intercetta e mette in forma in modo originale alcune dinamiche tipiche dell’industria televisiva contemporanea, quali il dialogo intertestuale fra fumetto, cinema e TV, le esigenze “transmediali” di un sistema comunicativo sempre più “convergente”, la necessità di intercettare il gusto di un fandom sempre più globale, le opportunità di sfruttare pienamente il prodotto e le sue “estensioni” nei differenti mercati di distribuzione (pp. 10-11).

In TWD è ravvisabile un’esplicita allegoria della Rivoluzione Americana, tanto che nelle comunità dei fan sono numerose le analisi che insistono sui riferimenti allegorici al mito fondativo degli Stati Uniti. «Il riferimento alla storia americana funziona, in termini più generali e “macro”, come leitmotiv per l’intera serie, che ritorna di continuo sul tema della gestione politica tanto delle comunità quanto del conflitto, e segnala altresì la permanenza e la rilevanza del mito nella società americana contemporanea. A livello più “micro”, nelle pieghe del testo, il nesso con la storia si attiva attraverso piccoli dettagli, immagini e parole […] che adornano specifiche puntate e sfuggono facilmente allo spettatore meno attento» (p. 48).

Holdaway e Scaglioni individuano in TWD una serie di elementi che riguardano «la rappresentazione del sistema politico-sociale contemporaneo, le tensioni in atto nella politica americana e, in particolare, il conflitto fra “libertarianismo” (libertarianism), da un lato, e ideologia neo-liberista, dall’altro lato» (p. 49). La serie, le sue rappresentazioni e la sua retorica, devono per forza essere lette alla luce delle dinamiche socio-culturali che l’hanno prodotta e le allegorie che si possono rintracciare in TWD non sono che rappresentazioni delle paure comuni che toccano la società; il successo della serie deriva anche dalla sua capacità di individuare e insistere sulle ansie collettive del momento.

Numerosi studi nel corso dei decenni hanno proiettato sugli zombie paure comuni che vanno dalla perdita di controllo del corpo alla morte, declinandole in base al variare dei contesti. Kyle William Bishop (American Zombie Gothic: The Rise and Fall – and Rise – of the Walking Dead in Popular Culture, 2010) osserva, ad esempio, che il ricorso al genere zombie aumenta in concomitanza con i periodi di cambiamento e di disordine civile. Le produzioni incentrate sugli zombie sono infatti aumentate durante la guerra del Vietnam e quella in Iraq e non è difficile collegare, come propone Peppino Ortoleva (in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010), la storica pellicola White Zombie (L’isola degli zombies, 1932), in cui vengono messi inscena schiavi senza stipendio e identità, alla Grande Depressione e alla questione del razzismo.

La configurazione più riconoscibile dello zombie risale al primo film di George Romero, Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), in cui non solo lo zombie assume le sembianze del morto camminante e cannibalesco ma inaugura anche due temi ancora attuali: «l’uso simbolico dell’identità dei sopravvissuti, in particolare delle donne e delle persone di colore, che vengono rappresentati in modo positivo» e, a differenza dei film pre-romeriani, «una certa voluta vaghezza a proposito dell’origine dell’apocalisse zombie» (p. 54). Romero inaugura una tipologia di film sugli zombie che insiste sulla critica nei confronti delle autorità e in generale riesce ad incarnare problematiche e paure diffuse all’interno della società americana dell’epoca. Col tempo la figura dello zombie «diventa manifestazione o effetto di una malattia epidemica (per esempio in 28 giorni dopo o La città verrà distrutta all’alba), del fascismo (Le lac des morts vivants, 1981; Dead snow/Død snø, 2009), di subculture devianti o bande (I Was a Teenage Zombie, 1987; Survival of the Dead – L’isola dei sopravvissuti, 2009), del ritorno di un colonialismo rimosso (Zombi 2, 1979) o addirittura del terrorismo dopo l’11 settembre, come accade nelle scene post-apocalittiche del remake di Zombi, intitolata (come l’originale in inglese) L’alba dei morti viventi (2004)» (p. 56).

Lo studioso Peppino Ortoleva sottolinea come gli zombie abbiano portato nella mitologia dei non morti un aspetto prima non trattato: «la morte proletaria, la morte di massa […]. Lo zombie è un morto massificato e anonimo in morte come, si suppone, lo era stato anche in vita. Un morto operaio, anzi una catena di defunti seriali» (Ortoleva in: Diversamente vivi: zombi, vampiri, mummie, fantasmi, 2010, p. 70). Dunque, sottolineano Holdaway e Scaglioni, lo svuotamento che subisce l’individuo divenuto zombie e la paura evocata dal contagio originano il timore nello spettatore che tutto questo possa accadere a chiunque.

Secondo i due studiosi, nonostante TWD sia, rispetto all’opera romeriana, oggettivamente meno critico nei confronti della società, non di meno la sua funzione allegorica risulta evidente e non può che dirsi politica.

Nella serie troviamo innanzitutto scene ambientate in alcuni luoghi ricorrenti, come negozi […], case e uffici di periferie e piccoli paesi […], chiese […], caserme con soldati e polizia antisommossa zombificati […], cui si aggiunge la prigione della terza e quarta stagione. La presenza di zombie in questi luoghi si presta evidentemente a una critica implicita di alcuni degli istituti fondamentali della società americana, suggerendo che i loro abitanti, seguaci, impiegati, clienti… non sono che un gregge di corpi automatizzati e acritici. La paura condivisa di malattie epidemiche è simboleggiata invece, in particolar modo, attraverso la rappresentazione del CDC (Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie) alla fine della prima stagione […] Non si possono poi non ricordare le mura delle comunità di Alexandria e Woodbury, destinate nelle intenzioni a tener fuori gli zombie. Le loro immagini assumono una curiosa rilevanza storico-metaforica, poiché finiscono per dar corpo a quelle ansie xenofobe che hanno fornito carburante all’elezione di Donald Trump nel 2016. Negli stessi mesi della messa in onda di TWD, il candidato repubblicano faceva campagna elettorale puntando sulla promessa di costruire un muro lungo la frontiera che divide gli Stati Uniti e il Messico (pp. 57-58).

Rispetto al genere romeriano, TWD sposta lo zombie sullo sfondo al fine di concentrare l’attenzione sui sopravvissuti e ciò risulta funzionale alle lunghe narrazioni delle serie televisive, come ha spiegato Antonio Lucci (in: AA.VV., Critica Dei Morti Viventi, 2016), [su Carmilla]. Nel caso di TWD, sostengono Holdaway e Scaglioni, focalizzare il racconto «sui sopravvissuti permette, allo stesso tempo, di elaborare un’immagine molto più sfumata e complessa non solo di come si può reagire all’apocalisse zombie, ma anche di come ricostruire una società umana diversa da quella precedente. L’allegoria sviluppata dalla serie fa inoltre ampio ricorso all’idea della massa proletaria che Ortoleva riconduce al genere» (p. 59).

Serializzando e dilatando enormemente la narrazione, si è sviluppata una storia collettiva che mette in scena numerosi personaggi, comunità e luoghi, permettendo al fumetto, alla serie e alle varie estensioni da queste derivate, di divenire una sorta di laboratorio di reazioni all’apocalisse estremamente articolato e complesso. «Di conseguenza, è certamente possibile ricostruire le allegorie politiche presenti nella serie, sia che facciano parte dell’esplicita intenzione di Kirkman e degli altri autori, sia che esse siano, invece, implicite, attivate dal testo nel suo incontro con gli spettatori e nella sua circolazione culturale: è necessario però partire non soltanto dalle figure degli zombie, ma anche, e soprattutto, dalle vicende dei sopravvissuti» (p. 60).

In estrema sintesi, la prima stagione della serie segue l’itinerario di Rick Grimes che, risvegliatosi da un coma, parte alla ricerca della moglie e del figlio fino a giungere, al termine di un viaggio decisamente turbolento, ad Atlanta, ove il gruppo famigliare si riunisce in un campo di rifugiati presto distrutto da un attacco di zombie. A questo punto i superstiti tentano, invano, di rifugiarsi presso il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie. La seconda stagione è invece in buona parte ambientata nella fattoria di Hershel Greene ove trova riparo un gruppo di sopravvissuti alla ricerca di una bambina scomparsa. Un nuovo attacco di zombie costringe i protagonisti a fuggire e ad errare tra le abitazioni abbandonate della campagna circostante. La terza stagione e una parte della successiva sono ambientate in un riformatorio-prigione della West Georgia. Qua assistiamo allo scontro tra il gruppo di Rick e la comunità del Governatore della cittadina murata Woodbury. Nuovamente i protagonisti si trovano costretti a vagabondare per le campagne e sul finire della quinta stagione il gruppo di Rick troverà riparo nella fortificata Alexandria Safe Zone, nei pressi di Washington, che diviene una delle colonie che si aggregano per fronteggiare i Salvatori. Nel frattempo la serie (con alcune differenze tra comics e tv) presenta altre località-rifugio: Terminus, la chiesa di Padre Gabriel, l’ospedale Grady Memorial di Atlanta.

Sebbene TWD dimostri chiaramente che il crollo delle regole della nostra società può avvenire molto rapidamente, la rappresentazione della “radicalizzazione” degli esseri umani è mostrata come un processo più graduale e non sempre progressivo. Lo spostamento continuo del gruppo dei sopravvissuti tra i luoghi-rifugio or ora elencati ha una chiara funzione simbolica: marca l’inesorabile fallimento di un certo tipo di gestione sociale in seguito al progressivo, altrettanto inesorabile peggioramento etico dell’essere umano (p. 61).

Dalle prime stagioni, sottolineano gli studiosi, emerge chiaramente la difficoltà dei sopravvissuti di comprendere l’apocalisse.

L’enfasi è posta sui luoghi che simboleggiano e ricordano la vita quotidiana che precede il disastro […], oppure che, in qualche modo, sono legati alle istituzioni, alle autorità o alle forze dell’ordine […] E se il primo accampamento alla periferia di Atlanta è autogestito, è comunque il risultato di un gruppo di sopravvissuti uniti dalla ricerca condivisa di un campo profughi “ufficiale”, gestito dal Governo o dall’esercito. Il fatto che tutti quanti i rifugi si dimostrino alla fine fragili e poco sicuri segnala dunque con chiarezza, ai protagonisti come a noi spettatori, l’inefficacia delle istituzioni tradizionali dopo il crollo della società (p. 61).

Le tradizionali regole gerarchiche e comportamentali si rivelano presto inefficaci, come risulta evidente anche nella rappresentazione della prigione che, da luogo di rieducazione per chi aveva rifiutato le regole della società, diviene luogo di rifugio. Trasformatasi in una sorta di laboratorio sociale, la prigione diviene per il gruppo di Rick un luogo in cui sperimentare modalità di vita comunitaria. Dopo una fase di breve durata in cui viene tentata una sorta di democrazia sociale gestita da un consiglio di cinque individui, «la prigione crolla sotto il peso di un particolare tipo di corruzione e di un modello alternativo e minaccioso di governo, rappresentato dal Governatore e dal suo regime politico» (p. 63).

La comunità di Woodbury si presenta invece governata da una dittatura tirannica con un unico individuo al comando supportato da mercenari.

Oltre alla conferma della celebre osservazione di Walter Benjamin che “l’estetizzazione della politica converge sempre sulla guerra”, la comunità fascista del Governatore serve, sul piano simbolico, a dimostrare il cambiamento profondo dell’etica sociale. Infatti, la distruzione della democrazia quasi-utopica della prigione non a causa di forze contingenti – come la malattia – ma per via di una nemesi umana, rappresenta un evento capitale. I fatti insegnano ai protagonisti che nel nuovo ordine del mondo post-apocalittico la violenza deve necessariamente essere quotidiana (p. 63).

La comunità di Alexandria raffigura, per certi versi, nuovamente la situazione della prigione: «la sua leader, Deanna, era un membro del Congresso statunitense prima dell’apocalisse, e dunque rappresenta un capo democraticamente eletto. Pur di ripetere l’importanza della nuova etica sociale, la serie mette in contrasto il gruppo di Rick e quello di Alexandria, dimostrando che il secondo – protetto fortunosamente dalla realtà fuori le mura grazie a una grande cava che temporaneamente blocca migliaia di zombie – non ha ancora imparato la lezione: “uccidere o farsi uccidere”» (p. 64). Dunque, sostengono Holdaway e Scaglioni, la quinta e la sesta stagione hanno la funzione di far comprendere la nuova morale necessaria.

Ne caso della “trappola” Terminus, la serie insiste «sul fatto che un tempo il sogno di Terminus era autentico» ma poi coloro che reggevano la comunità sono stati corrotti e contaminati dalla violenza di stranieri giunti da fuori. Altre forme di governo riguardano la chiesa di Santa Sara e l’ospedale. In quest’ultimo caso viene prospettata una forma di autocrazia. «Qui si finge un ordine che rispecchia protocolli di comportamento pre-apocalittici, e a governare c’è una milizia armata: eppure, anche in questo caso, il risultato è la restrizione della libertà […] oppure la morte» (p. 65).

Se la critica della serie alle forme di autocrazia e dispotismo è chiara, non da meno mette in evidenza come siano fallimentari anche le forme utopiche di governo, destinate a corrompersi velocemente. «Se il modello della democrazia può ancora valere, deve necessariamente conservare un lato latente di sfiducia verso l’altro e l’estraneo, nonché di violenza pronta a essere esercitata: sembra questo il solo modo per garantire la sopravvivenza della comunità» (p. 65).

La base dell’etica post-apocalittica si sovrappone chiaramente all’ideologia del liberal-conservatorismo della destra americana, anche se nella serie essa viene portata alle estreme conseguenze. Se [è possibile identificare] nello storytelling progressista degli zombie movies di Romero una battaglia ideologica tra la fede nel governo e nelle istituzioni, da un lato, e il libertarianismo individualista, dall’altro lato, in TWD l’esito del conflitto sembra già deciso: il governo e le istituzioni politiche e sociali sono del tutto assenti. A trionfare è un certo tipo di libertarianismo: la protezione a ogni costo dei propri interessi (il rifugio, la famiglia), lo scetticismo e la diffidenza nei confronti dello straniero, dell’altro, dello sconosciuto (p. 65).

Dunque, secondo Holdaway e Scaglioni, la società dei sopravvissuti messa in scena da TWD può essere letta come un’allegoria della visione del liberal-conservatorismo americano e gli zombie come metafore delle paure nei confronti dell’immigrazione e del terrorismo propagandate da quell’immaginario di destra. «È senz’altro rilevante in questo senso l’ossessione della serie per le armi (oltre che per i muri), che rappresenta il fondamento di quell’esigenza, tutta americana, di doversi e potersi proteggere con una pistola» (p. 66).

Nello scenario post-apocalittico della serie la differenza tra i protagonisti e gli antagonisti pare essere di natura morale anche se decisamente fluida. «Da un lato, tra i personaggi che più precisamente aderiscono all’ideologia libertaria, infatti, ci sono degli esempi umani che la spingono verso le sue conseguenze estreme». In tali casi l’omicidio viene giustificato dalla necessità. «Dall’altro lato, troviamo tutti quei personaggi che fanno decisamente fatica a conformarsi al nuovo ordine, […] costretti a subire le conseguenze negative del proprio rifiuto di adattarsi» (p. 66).

Nella serie viene esplicitamente segnalato come chi incarna posizioni di pacifismo e umanesimo finisca per divenire vittima della violenza gratuita, «mentre il libertarianismo protettivo e la violenza ragionata non costituiscono degli argini nei confronti dell’aggressione arbitraria» (pp. 67-68). I limiti del pacifismo vengono esplicitamente manifestati nella figura di Carol che diviene nel corso del tempo sempre più contraddittoria.

Il punto più drammatico di esplicitazione del conflitto fra opzioni esistenziali diverse arriva nel confronto con un personaggio, Morgan, un altro pacifista, sebbene molto più combattuto. Alla fine della sesta stagione ritroviamo Morgan abbandonare Alexandria per paura di perdere la propria umanità a causa delle violenze necessarie alla sopravvivenza della comunità. Come Morgan – il cui irenismo per certi versi insostenibile esplode, infine, nella violenza gratuita e incontrollata ai danni di Richard, guardia del Regno – Carol non riesce allo stesso modo a sedare il suo lato intimamente violento, specie quando alla fine della settima stagione è chiamata a tornare, ancora una volta, a difendere Alexandria contro i Salvatori (pp. 71-72).

Insomma, secondo i due studiosi, dalla serie emerge chiaramente come il pacifismo risulti importante per la psicologia degli individui che si trovano a vivere situazioni estreme ma che la necessità di ricorrere alla violenza per difendere se stessi, la propria comunità e i propri beni, appartenga «a un “libertarianismo” che rimane ineluttabile» (p. 72).

Seguendo per certi versi modalità tipiche dei disaster movie, in cui ci si chiede continuamente chi sopravviverà alla fine, anche TWD presenta numerose morti di personaggi rilevanti. Nel caso della serie presa in esame occorre anche tener presente che i meccanismi di suspense e imprevedibilità si relazionano con meccanismi di coinvolgimento e con le aspettative dei fan.

Si può cogliere il portato simbolico della morte nell’esempio […] di Tyreese, il cui decesso […] indebolisce inevitabilmente la convinzione che “le persone come me possono sopravvivere”. Il fatto che questa affermazione si riveli, alla prova dei fatti, falsa finisce per legare indissolubilmente l’atto di sopravvivenza con l’ideologia politica del libertarianismo. La morte, dunque, riflette in un certo senso l’incapacità di un personaggio di sopravvivere in una società dove le regole sono ormai cambiate radicalmente; la sopravvivenza, viceversa, segnala l’adattamento e l’“incorporazione” del “nuovo ordine del mondo” e le sue conseguenze etico-politiche (p. 73).

Certo, non sempre tutto è così meccanico e la morte di un personaggio può dipendere anche dall’intreccio che si viene a creare con altri comprimari o da esigenze più generali legate allo sviluppo della serie. Secondo i due studiosi è possibile identificare tanto un gruppo di uscite di scena eroiche (Beth, T-Dog, Lori, Oscar, Sasha…) quanto una serie di morti anti-eroiche (Dawn, il Governatore, i cacciatori-cannibali, i claimers di Joe…).

«In ognuno di questi casi, la morte del personaggio avviene perché esso rappresenta una minaccia per Rick e il suo gruppo, un ostacolo che va rimosso per far avanzare la storia nel suo complesso» (p. 74). Vi sono poi personaggi collocabili a metà fra gli eroi e gli antagonisti e personaggi perfidi che si redimono morendo o figure di eroi che nel corso del tempo si lasciano corrompere.

Sul fronte, invece, delle morti simbolico-politiche si possono individuare due tendenze generali, che servono al racconto per illustrare il nuovo ordine della società. In TWD troviamo moltissimi esempi di personaggi (soprattutto minori) scomparsi sostanzialmente per illustrare la gravità della situazione in cui i sopravvissuti si ritrovano. È, questo, un aspetto caratterizzante della serie [che indica] l’altissimo pericolo che si corre nella nuova società […] È chiaro come i bambini rappresentino l’innocenza e la naiveté: la distruzione di questo simbolo serve a sottolineare ripetutamente la totale mancanza di speranza in un mondo dominato da walking dead e assassini totalitari (p. 75).

Una seconda tendenza simbolica nella morte dei personaggi ha a che fare con gli omicidi che mettono in risalto il livello di corruzione morale di qualche individuo.

Insomma, le tante morti di TWD servono chiaramente a delineare il nuovo ordine del mondo e a definire le conseguenze etiche del suo avvento; sono senza dubbio, sul piano narrativo, l’esito delle azioni dei personaggi, ma rappresentano anche i tasselli che fissano lo schema morale del libertarianismo che la serie vuole rappresentare e, in un certo senso, problematizzare. La disponibilità a uccidere caratterizza la dinamica del potere, e funziona quasi come una forma di valuta di nuovo conio; al contrario, chi muore rappresenta sia i difetti di chi non è in grado di reggere i colpi della nuova società, sia un efficace strumento narrativo per illustrare tanto la difficoltà di sopravvivenza quanto la necessità di rivedere le proprie convinzioni, di adattarsi meglio alla dura realtà […] Gli omicidi e, in generale, la morte servono per evidenziare la corruzione morale di coloro che li perpetrano o ne sono la causa [inoltre] servono anche ad accentuare la sofferenza di personaggi buoni […] e un loro specifico percorso di cambiamento (pp. 76-77).

Secondo Holdaway e Scaglioni, se risulta abbastanza semplice individuare allegorie politico-sociali, per quanto mutevoli, nelle figure degli zombie, occorre dare la giusta importanza anche ai sopravvissuti intesi come «autentiche metafore viventi». Se i sopravvissuti di Romero possono essere letti come allegorie progressiste capaci di far riferimento a tematiche e timori propri dei momenti storici in cui i film sono stati girati, di certo non mancano critiche nei confronti della società americana contemporanea nemmeno in TWD. Se sulla questione razziale sia il fumetto che la serie televisiva sono stati accusati «di razzismo inconscio per la rappresentazione da “buon selvaggio” del personaggio di Michonne, e soprattutto per il tasso incredibile di decessi di uomini di colore, specie nelle prime stagioni» (p. 81), non mancano riflessioni sulle dinamiche di potere coinvolgenti uomini, donne, individui di colore e omosessuali. Secondo i due studiosi «in questo senso TWD riprende e aggiorna l’eredità dei film di Romero, rappresentando esplicitamente una supposta ideologia “post-razziale” e “post-gender”» (p. 81).

La questione viene affrontata sin dalle prime puntate della stagione iniziale, in particolare quando Merle, maschio e bianco, reagisce nei confronti di chi tenta di fermarlo dal suo sparare ai vaganti con frasi misogine e razziste contro ispanici, asiatici e neri. «È questo un momento fondamentale della serie, che introduce una serie di tematiche che saranno ricorrenti: Merle si proclama leader del gruppo, annunciando ironicamente l’inizio dell’“ora della democrazia”. Costringe tutti gli altri a votarlo come leader, minacciandoli con la pistola» (p. 81). La violenza di questo viene arginata dalla violenza di Rick in abito da sceriffo

anche se, a ben vedere, rappresentano più il “nuovo ordine” di quello vecchio. Quando infatti l’eroe minaccia di sparare, Merle lo prende in giro: “non lo faresti, sei uno sbirro”. Ma Rick è pronto a rispondere: “ormai non sono altro che un uomo che cerca sua moglie e suo figlio. Chiunque si metta in mezzo non potrà che perdere”. Come si nota da questo scambio, la famiglia rappresenta la base fondamentale della sua spinta alla sopravvivenza. Il discorso di Rick è particolarmente curioso, soprattutto per come declina l’idea di differenza: “allora Merle, le cose sono diverse ora. Non ci sono più negri, e non ci sono più nemmeno gli stupidi pezzi di merda bianchi dediti all’incesto. Rimane solo carne scura e carne chiara. Ci siamo noi e i morti. Sopravviviamo solo stando uniti, non separati!”. Nel discorso di Rick si definisce il codice morale che caratterizza l’intera serie. Le premesse le abbiamo già viste: l’idea del nuovo ordine, la necessità della violenza finalizzata alla protezione di sé e della propria famiglia, in linea con l’ideologia del libertarianism. Si aggiunge, qui, però, un surplus di politica identitaria: l’idea che non contino più le categorie o le vecchie etichette; la sola differenza che conta e che è fondamentale è quella tra morti e vivi. Poco dopo, il punto è reso ancora più esplicito: Rick e Glenn si coprono letteralmente delle viscere di uno zombie, nascondendo le differenze fisiche, per fuggire dalla massa di morti. L’ideologia alla base delle affermazioni e delle azioni di Rick in questa scena, e in particolare la nozione di uguaglianza, diventa qui concretamente utopica e ci riporta, oltre l’allegoria, alla società contemporanea: è la realizzazione della nozione neoliberista del soggetto, secondo cui le differenze sociali hanno perso di rilevanza (o dovrebbero farlo) (p. 82).

Nell’ambito del neoliberismo ad essere portato avanti è un vero e proprio processo di mercatizzazione della società che trasforma l’attività di governo da gestione politica a conduzione amministrativa con tanto di privatizzazione di tutti gli enti pubblici. In sostanza le regole del mercato finiscono con l’eclissare ogni altra possibile struttura sociale comportando l’assimilazione delle diverse identità alla categoria del capitale umano. Le diverse identità vengono così sostituite dalla “cittadinanza”, che, come scrive Wendy Brown (Undoing the Demos. Neoliberalism’s Stealth Revolution, 2015), viene ad essere considerata «solo in termini di appartenenza a una comunità in quanto “cittadini”, e nulla di più» (p. 83). È chiaro allora che «i soggetti che esistono “oltre la cittadinanza” (come i migranti) non rientrano nella definizione [e] tutti coloro che rientrano nel concetto di cittadinanza vengono assimilati» (p. 83).

La trasformazione che porta verso l’universalità dell’homo oeconomicus viene riprodotta in TWD attraverso la messa in scena dell’apocalisse.

Il confronto fra “mercatizzazione della società” e apocalisse non è, però, letterale, poiché le modalità di gestione della società neoliberista e di quella post-apocalittica sono molto diverse, e poi perché il capitalismo come forza propulsiva è un tema poco esplicitato nella serie. Il capitale in TWD è costituito dalla capacità di sopravvivere. Per questo vediamo emergere alcune ruoli-chiave nella nuova società: il cacciatore, il poliziotto, il costruttore/architetto, il leader, il medico. […] L’importanza dell’ultimo ruolo – quello del dottore – nell’economia della sopravvivenza è evidenziata almeno due volte nella serie. In primo luogo negli atti compiuti all’ospedale Grady Memorial da Steven Edwards, che uccide un altro medico per preservare la propria posizione. C’è poi Carson, ucciso brutalmente e ingiustamente da Negan, ma solamente perché sostituibile con il medico di Hilltop. È infatti chiaro che TWD insiste sia sulla presenza di rapporti intersoggettivi molto significativi e del tutto colour-blind, sia nel contrapporre continuamente agli eroi antagonisti razzisti, misogini o omofobi. Fra questi ultimi possiamo di nuovo citare il razzista Merle Dixon, nonché il marito di Carol, altro maschio apertamente misogino, che picchia sua moglie e minaccia le altre donne del gruppo. Si potrebbe citare anche il Governatore, specie per le tensioni di natura misogina e razzista che caratterizzano il suo rapporto con Michonne, e senz’altro Negan, per via della struttura gerarchica che impone alla comunità dei Salvatori, dove le donne sono re-inquadrate in ruoli e contesti tradizionali. È utile leggere queste diverse rappresentazioni attraverso la chiave interpretativa dell’ideologia neoliberista: la rappresentazione di un codice morale “sbagliato” si sovrappone all’emergere di differenze sociali (e della violenza che ne è l’esito) entro un quadro generale che avrebbe, al contrario, dovuto rendere insignificanti quelle stesse differenze, come asserito da Rick nel discorso sulla “carne bianca e la carne nera (p. 84).

I due studiosi evidenziano come in TWD i personaggi positivi capaci però anche di sopravvivere siano soprattutto donne, uomini di colore (o comunque non wasp) e omosessuali.

Tutti sono rappresentati come abili a sopravvivere, mentre le loro “differenze” vengono esplicitate solamente per indicare la liberalità delle varie comunità (come nel caso di Alexandria), oppure per marcarne l’utilità al gruppo […] Le diverse stratificazioni della metafora neoliberista si evidenziano in modo particolarmente interessante nel personaggio di Victor Strand, […] un tipo particolarmente furbo, capace di controllare gli altri, allo scopo di perseguire i propri obiettivi. Quando nel campo profughi conosce Nick, subito riconosce nel giovane tossicodipendente – altro soggetto scomodo nella società neoliberale, le cui capacità individuali lo rendono però “efficiente” dopo l’apocalisse – uno strumento utile per fuggire. In seguito, attraverso alcuni flashback narrativi, veniamo a sapere che l’amico e socio di Strand è anche il suo compagno. La sessualità di Strand, come la sua appartenenza etnica, non vengono mai esplicitamente dichiarate, ma soltanto inserite in una storia che “giustifica” il suo sfruttamento di altri esseri umani con l’obiettivo della propria sopravvivenza […] La sovrapposizione, tramite flashback, degli atti “amorali” di Strand nella società neoliberista (è, in fondo, un soggetto economico di successo!) e in quella post-apocalittica (qui è in grado di sfuggire agli zombie) è resa esplicita e giustificata dalla narrazione stessa. Nella scena in cui scappa di prigione, Nick si interroga sull’opportunità di liberare altre persone bloccate nella quarantena, ma Strand risponde: “non li aiuteremo, perché aiutarli potrebbe ferirci. Non c’è alcun valore aggiunto”. È inoltre molto interessante, allo stesso tempo, che gli uomini di colore di TWD sono quasi tutti molto diversi da Strand, e si collocano nella categoria dei personaggi più filantropici e pacifisti, ovvero quelli che sono meno disposti alla violenza […] In ossequio al dogma della serie, che detta l’incapacità dei personaggi più pacifisti e filantropi di sopravvivere, tutti quanti, tranne Morgan e Gabriel (che, comunque, devono dolorosamente “imparare la lezione”) fanno una brutta fine. La presenza e le morti dei personaggi di colore in TWD perciò rivela, alla fine, le tensioni che permangono sotto l’etichetta neoliberista del “post-razziale”. Da un lato, la serie presenta tutti quanti i personaggi come uguali di fronte agli zombie. Dall’altro, però, questa nozione convive con una caratteristica comune alle persone di colore, che è stata giustamente interpretata come una forma di razzismo implicito. Inoltre, in questa etica e politica della sopravvivenza è difficile non scorgere un’allegoria della società americana attuale, dove il movimento Black Lives Matter è nato proprio a partire dai numerosi casi di omicidi di persone di colore inermi. (p. 86).

Infine, la famiglia costituisce uno dei fondamenti principali dell’allegoria politica della serie e questo lo si evince, ad esempio, dall’insistenza con cui Rick evidenzia l’importanza della famiglia come elemento motivante il “libertarianismo” di una condotta che raggiunge vette di estrema violenza. Analogamente la perdita dei figli spinge Morgan e Carol ad alternare condotte decisamente violente a momenti di ripudio delle stesse, fino a ricorrervi nuovamente nella battaglia contro i Salvatori.

Tuttavia, come nel caso del razzismo inconscio della serie, anche l’enfasi sulla famiglia all’interno della politica di TWD può essere variamente sfumata. In fondo la definizione di famiglia che la serie propone è piuttosto flessibile: bambini di genitori morti diventano figli adottati da altre persone […] e spesso una comunità di persone necessariamente diverse si unisce per il sostegno e la difesa di tutti. Se l’ombra di un libertarianismo violento e quella di un’ideologia neoliberista che pretende di cancellare le differenze in nome di un’utopia livellatrice sono onnipresenti nella serie, l’idea di una comunità aperta non viene del tutto meno (p. 87).

La complessità politica del mondo di TWD suggerisce in controluce la complessità della società che fruisce della serie. «Nella finzione, così come nella realtà, ideologie contrapposte e tensioni insanabili ci interrogano su tematiche cruciali e sulle possibili soluzioni dei problemi che ci circondano e ci affliggono» (p. 87).


Serie completa diNemico (e) immaginario

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Nemico (e) immaginario. Incapacità di sognare alternative e volontà di autodistruzione https://www.carmillaonline.com/2016/08/03/zombie-scenari-apocalittici-incapacita-sognare-un-altro-mondo-volonta-assistere-allautodistruzione/ Wed, 03 Aug 2016 21:30:40 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=31153 di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti [...]]]> di Gioacchino Toni

twd-865La realtà quotidiana mostra come l’essere umano contemporaneo sia in balia di un diffuso senso di impotenza e di fronte all’incapacità di sognare un mondo realmente diverso, sembra a volte ripiegare sul desiderio nichilista della distruzione dell’umanità stessa pur di avere la momentanea sensazione di incidere su un mondo che gli viene quotidianamente imposto e di cui è semplice comparsa senza diritto di partecipazione attiva.

A lungo andare sembrano perdere di efficacia anche quei surrogati di interattività e partecipazione messi in scena dalla politica (imposta da istituzioni del tutto indipendenti tanto dalla delega elettorale, quanto dal giovanilistico pulviscolo dei messaggini gravitanti attorno ai “nuovi politici”) e dai mass media (che dispensano illusioni di partecipazione attraverso la presenza del pubblico in studio, telefonate in diretta, messaggini autoreferenziali via social media ecc).

Per comprendere qualcosa in più sulla realtà contemporanea può essere d’aiuto indagare la finzione. Nel saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Mimesis, 2014), la figura dello zombie e gli scenari apocalittici, frequentemente ad essa associati nelle produzioni audiovisive contemporanee, vengono indagati come manifestazioni delle angosce e delle paure occidentali.

«Se il reale non è dato bensì è da interpretare, la finzione può rivelarsi di grande aiuto per due ragioni complementari e contraddittorie. Innanzitutto […] perché, come ogni cosa, la finzione è segnata e porta su di sé l’impronta della mano che l’ha creata, essa ci dà informazioni – per seguire la metafora – su questa mano. Proprio come possiamo interpretare la psiche di un artista osservando le sue tele, così possiamo interpretare una cultura, e in seguito a poco a poco anche una società, osservando l’immaginario che essa ha prodotto. Allo stesso tempo l’oggetto della finzione – l’immaginario, a maggior ragione –, attraverso la sua natura metaforica può aiutarci a pensare alla nostra epoca poiché distante da essa. Lo zombie lo illustra perfettamente: se è figlio della nostra cultura esso è anche una figura estrema e fuori dal contesto, e sotto questo aspetto divertente, buffa, spassosa. L’estremo, essendo così distante dal nostro quotidiano, scioccando il nostro immaginario e perfino la nostra società, si offre dunque come una svolta per guardarla» (p. 109).

Nel ricostruire per sommi capi lo sviluppo della figura dello zombie l’autore parte, inevitabilmente, dalle culture africana ed haitiana, ove, attingendo dall’immaginario della schiavitù, lo zombie rimanda tanto ad un soggetto depersonalizzato, incapace di ribellarsi, quanto all’idea di resurrezione cristiana. Nel corso dell’Ottocento la figura dello zombie entra a far parte del folklore statunitense ed europeo fino a far capolino nella letteratura e nel cinema grazie ad opere come il romanzo The Magic Island (1929) di William Seabrook ed il film White Zombie (L’isola degli zombies, 1932) di Victor Halperin, con Bela Lugosi.

Successivamente Coulombe si sofferma sul mutamento della figura dello zombie operata dalla trilogia di Geoge A. Romero composta da Night of the Living Dead (La notte dei morti viventi, 1968), Dawn of the Dead (Zombi, 1978) e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985). In questi film, che delineano una nuova figura di zombie, poi ripresa da vari registi, non siamo di fronte ad un vivente scambiato per morto ma ad un morto che pare un vivente, un “quasi-vivente”. Prende così piede l’immagine dello zombie in avanzato stato di decomposizione e «non è più l’effetto di un maleficio eseguito da uno stregone, egli è ora senza padrone e se serve come strumento di un piano, questo è segreto e oscuro» (p. 25).

Particolarmente importante nell’evoluzione romeriana dello zombie è il romanzo I Am Legend (Io sono leggenda) di Richard Matheson, pubblicato nel 1954, in cui si narra di Robert Neville, ultimo uomo sopravvissuto ad una misteriosa epidemia che ha trasformato il resto dell’umanità in vampiri. «Qui ritroviamo l’idea, ripresa da Romero, di una seconda specie che si nutre degli uomini, che nasce dall’umanità stessa e che tuttavia dimostra una natura così differente da quella umana da desiderare una propria autonomia» (p. 26). Romero struttura così film che riflettono sulle condizioni di esistenza in un mondo ormai alla deriva, ove i rapporti sociali appaiono fortemente compromessi.

Le produzioni audiovisive più recenti, pur mantenendo l’idea di castigo divino come giudizio morale sulla civiltà occidentale «metteranno in scena una modalità di trasmissione più in linea con i timori che animavano gli anni ’70 e soprattutto ’80: ormai si diventerà zombie solo dopo essere stati morsi da un individuo infetto o semplicemente attraverso il sangue. Così lo zombie, questo morto tornato alla vita, costituirà un’inquietante metafora dell’affetto da AIDS, considerato un vivo che tuttavia è condannato alla morte e al contagio del suo prossimo» (p. 29). La figura dello zombie perde così la sua connotazione fantastica per incarnare «la metafora di un’inquietudine rispetto a una nuova immagine di morte – l’AIDS – e il timore legato alle ricerche sulla biotecnologia» (p. 30) dando immagine, inoltre, al turbamento contemporaneo rispetto al senso della morte.

Il cinema zombie «incarna la sconfitta dell’Occidente fino alla sua autodistruzione. Un male prodotto dall’Occidente che dà vita a creature subumane si rivela in grado di decimare la popolazione del pianeta» (p. 30) e gli esseri umani che si trovano a fronteggiare il pericolo zombie dimostrano il peggio di sé mostrandosi del tutto incapaci di andare al di là del loro cinico individualismo.

La prossimità tra uomo e zombie impone interrogativi circa i limiti della condizione umana e la possibilità dello statuto umano di decadere. Siamo al tempo stesso attratti ed inquietati dallo zombie perché non sappiamo cosa sta dietro al silenzio della sua coscienza. Quando lo zombie non è attivo nell’aggredire l’uomo, si mostra a quest’ultimo in uno stato di apatia che richiama facilmente l’immagine di un individuo gravemente traumatizzato, la figura del sopravvissuto ad un disastro che “si fa zombie”, “assente da se stesso”, come se l’enormità del trauma avesse «fatto vacillare ciò che ci rende umani: la nostra capacità di pensare» (p. 48). Dunque, lo zombie ci inquieta nel suo stato apatico in quanto evoca una condizione dell’uomo possibile, seppur rara.

A partire da tali ragionamenti Coulombe si chiede: «Siamo sicuri che lo zombie rappresenti la figura dell’eccezione? Questa perdita della nostra capacità di pensare è necessariamente il frutto di un incidente? Si tratta sempre di qualcosa di raro e irrimediabile? Osservando la nostra società un po’ più attentamente si nota che il “traumatizzato” sembra incarnare non soltanto un incidentato ma molti soggetti che sono vittime della modernità e della sua crudele logica della performance. Bisogna dunque pensare al dramma non come a un evento singolare e contingente, bensì come alla corrosione progressiva del carattere prodotta dal ritmo dell’Occidente stesso. Lo zombie non è la figura dell’eccezione ma incarna più ampiamente un frammento della nostra condizione contemporanea nella quale la maggior parte di noi potrebbe, in un momento o nell’altro, identificarsi» (pp. 49-50).

Walter Benjamin (Sur quelques thèmes baudelairiens), riprendendo le analisi freudiane relative al trauma, analizza lo shock causato non tanto dalla brutalità dell’attentato terroristico o della guerra, ma dalla successione di molteplici shock quotidiani che finiscono col turbare la soggettività dell’individuo rendendolo sempre più insensibile al mondo e refrattario a nuove esperienze. «Lo shock della modernità non produce gli zombie da un giorno all’altro. Nel cuore della modernità risiede tuttavia qualcosa di simile al divenire-zombie, per riprendere il linguaggio deleuziano. L’appiattimento della soggettività e la difficoltà di vivere nuove esperienze segnano l’orizzonte della nostra condizione (post)moderna» (p. 51).

L’aggressività e la violenza dello zombie tradiscono invece un’altra inquietudine contemporanea, cioè che «sotto la facciata della nostra civiltà batte il cuore di una bestia sanguinaria. Noi saremmo fondamentalmente dei mostri» (p. 53). Nei film sugli zombie si narra infatti la storia di un’epidemia che porta a galla la brutalità celata sotto alla facciata della nostra civiltà. «Questi film mostrano una concezione cinica e oscura della psiche, una concezione che comunque non hanno inventato: lo zombie evoca un certo tipo di ritorno allo stato di natura» (p. 54). Chiaramente lo “stato di natura” è un espediente filosofico utilizzato al fine di immaginare il comportamento umano in caso di abolizione delle regole e delle convenzioni sociali ma, fa notare lo studioso, «se in Hobbes, come negli altri teorici dello stato di natura, una tale condizione non corrispondeva a uno stato storico ma a un’ipotesi teorica, i media contemporanei non hanno colto questa sfumatura. Questi ultimi pensano allo stato di natura come alla chiave di lettura e al punto di fuga della violenza contemporanea» (p. 55).

piccola-filosofia-dello-zombieCoulombe, riprendendo alcune riflessioni di Giorgio Agamben (Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita), sottolinea come lo zombie, perdendo la coscienza, si trovi a perdere ogni forma di bios, dunque di statuto umano, avvicinandosi alla figura dell’homo sacer greco, dunque per molti protagonisti umani dei film può non essere un problema uccidere lo zombie in quanto la sua esistenza è ritenuta indegna. «Se lo zombie è una figura immaginaria, il comportamento dei protagonisti nei suoi confronti fornisce indicazioni sulla nostra cultura. Qui la reazione dei protagonisti davanti allo zombie è molto simile alle reazioni che noi abbiamo di fronte a individui che si trovano in uno stato vegetativo irrimediabile» (p. 58). Dunque, secondo lo studioso, «La gioia e l’inquietudine dei film di zombie sono basate proprio sul fatto che essi replicano l’equivoco di questo statuto tanto quanto le sue conseguenze. Recandoci nei cinema assistiamo alla storia di persone che uccidono coloro la cui vita è ormai indegna di essere vissuta; giocando ai videogiochi ci carichiamo perfino del “lavoro sporco”. In qualche modo il nostro è uno sfogo ultimo poiché le nostre pulsioni aggressive e omicide hanno trovato la loro liberazione su una creatura passiva ma pericolosa, la cui morte e tortura non costituiscono più un crimine» (pp. 58-59).

«Se lo zombie è una figura grottesca, buffa e divertente, esso è anche sintomatico dei dubbi nei confronti dei limiti di ciò che è proprio dell’uomo: il pensiero. Un tale dubbio sulla coscienza […] comporta più profondamente un dubbio sociale rispetto al ruolo di questa coscienza, anche un dubbio che porta a chiedersi che cosa voglia dire essere cittadino. Non abbiamo il mostro che meritiamo ma quello che temiamo. La coscienza ha così espulso il suo incubo: lo zombie. Avendo ormai ribaltato il cogito cartesiano, il fatto di riflettere non sembra più stabilire nulla di determinante né utile. L’ordine del mondo – quello del liberalismo economico, quello dell’urgenza – è ormai senza guida, le sue necessità sono cieche. Questo nuovo ordine non accorda più alcun ruolo alla coscienza intesa come momento di introspezione che permette un’etica singolare e personale, un distacco dal mondo per pensarne la coerenza. Il mondo sembra ora più che mai una macchina ben oliata in cui le modifiche e le riflessioni sul suo senso – direzione e significato combinati – non sembrano più necessarie. Lo zombie è la figura di un’assenza e il fatto che noi possiamo riconoscerci in lui dice molto sulla contingenza del pensiero e in senso lato sul suo ruolo nella nostra società» (pp. 60-61).

Nelle società occidentali contemporanee la morte è celata, nascosta, e lo zombie incarna la morte di cui non si è più in grado di parlare. «La finzione si sostituisce a ciò che la nostra cultura non sa più mostrarci» (p. 72). Nella cultura occidentale ormai da tempo votata al “controllo del corpo”, si sostiene nel saggio, «il morto-vivente costituisce, nella sua stessa carne, un ritorno del represso: rappresenta un corpo abietto, squarciato, impuro. Lo zombie mostra la lenta degradazione dei corpi e delle cose mettendola in scena, una degradazione che la nostra cultura cerca di nascondere fuori dal campo del visibile. Lo zombie è la vendetta dell’informe. Se la morte è l’ultimo tabù della società occidentale, esso insiste per mostrarlo e per sottolineare metaforicamente la rivincita della morte sul vivente» (p. 19). È come se la parte nascosta dell’uomo, attraverso gli zombie, fosse resa improvvisamente visibile a spettatori desiderosi di assistere a rappresentazioni ripugnanti.

Nel mondo contemporaneo tendente al controllo del corpo, lo zombie rappresenta allora «un ritorno a un’animalità primitiva, ma anche al godimento che questo ritorno del rimosso procura. L’abiezione rimanda dunque a una dialettica in cui affetti, disgusto e godimento si uniscono: il godimento dello zombie e il disgusto negli spettatori; il disgusto del godimento dello zombie per lo spettatore e il godimento attraverso il disgusto nel morto-vivente» (pp. 75-76). Ed il ritorno del rimosso sotto forma di finzione grottesca, secondo lo studioso, induce lo spettatore alla risata di alleggerimento.

Lo zombie, con il suo corpo squarciato, “aperto”, privo di individualità ed in perenne trasformazione, è una figura che ribalta i valori della cultura occidentale contemporanea. «La risata, l’ordine capovolto del mondo, la morte temporanea: l’universo dello zombie sembra portare a compimento il progetto carnevalesco. È quindi facile interpretare questo genere cinematografico come rivoluzionario e sovversivo, come del resto molti hanno già fatto. Tuttavia a questo cinema manca ancora una parte essenziale dell’organizzazione carnevalesca: la sua capacità di offrire un “futuro migliore” e un mondo basato sulla negazione dell’ordine stabilito. Il rovesciamento dei valori dello zombie non propone luoghi di emancipazione per la classe popolare […] ma la vittoria di una nuova specie debole e alienata; il carnevale non è sognato per l’uomo ma per una creatura che ha avuto la meglio su di lui. Non si tratta di qualcosa di innocente. Il grottesco dello zombie diventa ancora il sintomo non solo del rifiuto della morte e della carne nella nostra cultura, ma anche della nostra incapacità di sognare un futuro alternativo per l’uomo» (p. 80).

Dunque, secondo Coulombe, quel che si manifesta nella figura dello zombie è una volontà di rovesciamento delle costrizioni sociali del tutto priva di progettualità. «Nel momento in cui la trama lo renderebbe possibile, l’orrore non riesce a trasformarsi in utopia» (p. 81). Da tale incapacità di sognare un altro mondo, si ripiega, dando sfogo ad una certa pulsione di morte, sulla volontà di assistere, almeno, alla distruzione del mondo occidentale.

In diversi film apocalittici o di zombie, la macchina da presa indugia su strade ed edifici da cui è improvvisamente scomparso l’essere umano. A partire da tali immagini di città abbandonata, Coulombe struttura un interessante confronto con il senso di sublime delle rovine romantiche. Se, in questo ultimo caso, il sublime risulta malinconico in quanto fondato «sull’incolmabile distanza che separa il viaggiatore dalle civiltà che costruirono questi monumenti, di cui restano ormai solo le rovine» (p. 91), dunque si tratta di un sentimento del sublime determinato dalla forza del tempo, nel caso delle città post apocalittiche abbandonate il sublime pare piuttosto fondarsi sulla contraddizione tra una realtà urbana generalmente caotica e frenetica e la città improvvisamente priva di esseri umani, silenziosa e statica. «Assistiamo allora a un fallimento dell’immaginazione, incapace di figurarsi che cosa abbia potuto fermare una tale dinamica. L’effetto di questa distruzione è sublime perché è invisibile, e per questo impossibile da collocare, da limitare, da inquadrare» (pp. 92-93).

Se le rovine romantiche lasciano intravedere la scomparsa di una civiltà, di cui, appunto, restano solo le rovine, le “rovine” post-apocalittiche cinematografiche, in questo caso, “mostrano” la sparizione dell’essere umano. «L’assenza è un concetto di grande portata poetica poiché non richiama il nulla o un vuoto, ma una mancanza. Una persona in lutto ce lo saprebbe dire, il defunto è ancora presente ovunque […] In questo caso è necessario pensare all’assenza come a una presenza negativa […] Queste città abbandonate sono malinconiche perché piene di tutti gli individui assenti che indicano, in negativo, il movimento abituale della città» (p. 91).

Buona parte dei film di zombie, pur mantenendo un alone di mistero circa le cause di questa improvvisa assenza umana nelle città e del dilagare dell’epidemia, tendono ad insinuare l’idea che le responsabilità della scomparsa degli uomini siano del tutto umane e non per forza di cosa generate da qualche maldestro esperimento scientifico. La scomparsa dell’essere umano è genericamente una “punizione meritata” dall’uomo e non per questo o quello sconfinamento particolare; è un’intera civiltà chiamata in causa.

Lo studioso sottolinea come, da qualche tempo, la cultura occidentale risulti attraversata, anche grazie ai mass media, da pensieri apocalittici. Tali pensieri attingono «tanto dai grandi drammi del ventesimo secolo quanto dalla sensazione, provata dal soggetto, di essere ormai impotente di fronte alle logiche capitalistiche che lo dominano e che distruggono progressivamente l’ambiente» (p. 94).

Coulombe sottolinea come sebbene la sensazione di vivere in un’epoca di declino non sia certo una novità, la contemporaneità sembra però aggiunge nuovi aspetti a questo sentimento di degradazione morale. Tra questi l’autore sottolinea «la nostra recente capacità di distruggere il pianeta e la crescita interrotta dalle disuguaglianze sociali nell’occidente come nell’economia mondiale» (p. 95).

Pur consapevole della distruzione del pianeta in atto, l’individuo contemporaneo non sembra disposto ad intervenire. «Perché, se il mondo è al limite della distruzione, tentare di costruire qualcosa, di investirci? Il relativismo che ha conquistato l’occidente rende difficile qualunque azione fondata sui valori che superano il puro interesse personale o la frustrazione […] il pessimismo contemporaneo sembra ancora più sinistro poiché può contare su un sentimento generale di malessere nel nostro rapporto con gli altri […] Questa inquietudine e questo pessimismo finiscono per annebbiare le temporalità e ci lasciano l’impressione che non solo sarebbe troppo tardi per rimediare ma che siamo già in uno scenario post apocalittico: […] Da qui il sentimento, che progressivamente conquista le coscienze e i media, di un ritorno allo stato di natura che renda necessario l’egoismo, un incentrarsi su di sé e sulla semplice sopravvivenza» (p. 97).

Dunque, come sanno bene soprattutto i migranti che tentano di mettere piede nelle città occidentali sempre più fortificate, «ogni sconosciuto è un potenziale nemico, ogni amico è in potenza morto vivente, non restano che i membri della propria famiglia ai quali aggrapparsi» (p. 98).

Gli audiovisivi che ci raccontano di zombie ci mostrano come nel momento in cui si è costretti a lottare per la sopravvivenza, ciascuno finisce col decidere quel che è giusto per se stesso sentendosi in diritto di farsi giudice unico. «La civiltà distrutta sullo schermo, anche se distrutta da un’orda di morti viventi, ci ricorda questo pianeta morente evocato da numerosi discorsi ambientalisti, o questo pianeta sovrappopolato che non riesce a nutrire tutti gli abitanti. I film di zombie mettono in scena la fine del mondo di cui ci minacciano i media, mostrano il precipizio al bordo del quale ci troviamo. E anche la caduta. È stupefacente quanto questa caduta figurata ci tranquillizzi. Da una parte essa evoca una punizione percepita come meritata – i media ci rimproverano. Eppure, allo stesso tempo, desiderando la punizione di cui è minacciato, l’uomo rientra in possesso di un certo controllo sul proprio destino, anche solo per assistere alla perdita di quest’ultimo. Questa logica ha un nome: pessimismo» (p. 100).

TWD_987Coulombe indica come di fronte all’opprimente senso di impotenza, l’uomo tenti di sfuggire ad essa prendendo una posizione simbolica capace di restituire un qualsiasi ascendente, anche solo in maniera sacrificale; la pulsione di morte sarebbe allora causata dalla volontà di ritrovare un briciolo di controllo sulle cose che ci stanno attorno; «una parte di noi desidera la distruzione dell’umanità come modo – metaforico – di riprendere il controllo di un fenomeno che ci è generalmente imposto. Il sogno dell’apocalisse funziona come una pulsione di morte non semplicemente, comportando una distruzione dell’umanità, ma permettendo di liberarsi da una passività – sociale, politica ecc… – imposta. La fine dell’umanità sarebbe il nostro riscatto, non ne saremmo più vittime poiché l’avremmo, almeno immaginariamente, sognato, sperato» (p. 103).

I film di zombie «ci divertono perché dipingono una civiltà distrutta da nemici grotteschi. Di fronte all’ambiguità del mondo, di fronte all’incertezza del nostro futuro, di fronte a un’ondata di sentimento di colpevolezza mentre pensiamo alle sorti del pianeta, il cinema zombie ci intrattiene e ci rassicura. Non c’è più quel senso di colpa, non c’è più quella paura: per due ore lo spettatore osserva queste rappresentazioni con un sorriso appena accennato, vedere l’annientamento del mondo causa una piccola vertigine e un senso di conforto» (p. 106).

Secondo Coulombe «Abbiamo bisogno dell’aiuto della finzione per sopportare la nostra condizione di uomini» (pp. 107-108) e, verrebbe da aggiungere alla luce dell’attualità, quando la finzione non basta a lenire la disperazione, in assenza di capacità di sognare un mondo diverso, possono generarsi mostri reali. Insomma, se il sonno della ragione genera mostri, l’incapacità di sognare alternative non è da meno.

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