Iain Chambers – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora https://www.carmillaonline.com/2021/06/25/black-noise-tecnologie-della-diaspora-sonora/ Fri, 25 Jun 2021 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66875 di Francesco Festa

Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie, I feel like me heart gwine burs Jamaica people colonizin Englan in reverse.

What a islan! What a people! Man an woman, old an young Jus a pack dem bag an baggage An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00

What a joyful news, miss Mattie,
I feel like me heart gwine burs
Jamaica people colonizin
Englan in reverse.

What a islan! What a people!
Man an woman, old an young
Jus a pack dem bag an baggage
An tun history upside dung!

Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse 1. O precisamente, di una profezia avveratasi. Fra le righe, con sarcasmo, Bennett denuda l’ipocrisia della cultura borghese inglese, infarcita di identità cristallizzata e tradizioni inventate2. Chiediamoci con lei: colonizzazione inversa? Hic Rhodus, hic salta! Così è stato.

Il 22 giugno 1948, nella SS Empire Windrush, un tempo nave militare tedesca, stipati l’uno sull’altro, vi sono quattrocentonovantadue giamaicani. Attraccando al porto di Tilbury in Inghilterra, quella nave funge da punto d’innesto di un processo inarrestabile. Dopo pochi anni si stimano attorno ai centosessantamila i giamaicani i residenti in Gran Bretagna.

Londra diviene il primo approdo della diaspora umana, dalle terre del disfatto Impero coloniale. I giamaicani s’insediano a Brixton, Finsbury Park e Notting Hill, portandosi dietro i costumi dominanti della piccola isola caraibica, come la cultura dei Sound System, che ha fatto la sua apparizione nei primissimi anni Cinquanta nei ghetti di Kingston. Camion sui cui cassoni sono caricati un generatore di corrente, dei giradischi ed enormi altoparlanti, per organizzare degli street party. Il primo Sound System anglo-caraibico viene allestito nel 1955 da Duke Vin, il “Duke Vin the Tickler’s” attivo a Ladbroke Grove nell’area di Notting Hill. Negli stessi anni, “inna Kingston style”, si diffondono anche i blues party illegali, in cui si ascolta e balla musica diffusa dalle casse di un grammofono casalingo e si consumano alcol, cannabis e curry di capra. Dei numerosi Sound System, germogliati dall’esempio di Duke Vin, negli anni Sessanta, si diffonde un altro genere giamaicano, lo ska, poi il rocksteady, l’early reggae, e via via in una lunga eterogenesi di stili e generi.

Ormai Londra – e con essa il Vecchio continente, dell’ammuffita borghesia capitalista – diviene teatro di incontenibile trasformazione, a partire dalle culture della diaspora. È un processo di rinnovamento dello spazio metropolitano e di ridefinizione delle identità sociali, destinato a scardinare tanto la tradizione quanto i paradigmi della modernità capitalistica. Dopotutto, il capitalismo di per sé non inventa nulla, né tanto meno la sua cultura, che parassitariamente cattura talenti ed estorce valore dai rapporti sociali. Parimenti accade nello spazio metropolitano, che è vissuto, attraversato, striato e raccontato, secondo Homi Bhabha, da coloro che si muovono verso il centro dalla periferia. È la marginalità a essere centrale negli spazi e nei territori del capitalismo.

Il punto di vista della marginalità è il metodo di lavoro che in controluce si coglie fra le pagine di Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora di Brian D’Aquino. Corredato di un’ampia bibliografia anglofona, questo libro è un osservatorio straordinario della condizione moderna degli spazi metropolitani occidentali, cioè – per dirla con Iain Chambers – di quella composizione sociale “multiforme, eterotopica, diasporica”, che è materia umana di periferia, eppure è il cuore pulsante della modernità capitalistica.

Questo volume è l’esito di ricerche condotte fra i ghetti di Kingston e i quartieri popolari londinesi. Come una danza oscillante fra periferia e centro, esso si muove all’interno di un insieme di miti della società moderna; fra cui vi sono i rumori e/o i suoni. Apparentemente arcaici, essi fungono invece da matrice delle sonorità riprodotte nelle società occidentali. Metodologicamente, D’Aquino cammina con destrezza lungo il confine fra studi sociologici, antropologici e semiologici. Un confine, in realtà, già battuto dallo stesso Chambers, nella prima metà degli Ottanta, con Ritmi urbani. Pop musica e cultura di massa: un testo avanguardia degli studi culturali e musicali. Sia in questo che in Black Noise si coglie l’eco della critica di Barthes ai comportamenti e ai linguaggi di massa nella società moderna, in cui vengono decostruiti miti e significati, ricostruendo invece il senso del rapporto di forza che li sostiene.

Le ricerche di D’Aquino così dischiudono un ventaglio di osservazioni e di linguaggi, colti in presa diretta (come un “ricercatore scalzo” o un “osservatore partecipante”), tipico metodo di chi anziché osservare, ascoltare e annotare, preferisce sporcarsi le mani, indossare i panni, adoperare gli stessi strumenti. Difatti, egli è un attivista dei movimenti di resistenza sonora legati ai Sound System.

La ricerca si muove, dunque, nella diaspora fra le due sponde dell’“Atlantico nero”, focalizzandosi su un determinato registro musicale, mentre si situa in un luogo di predilezione, i ghetti giamaicani che, secondo l’autore, rappresentano “uno dei più influenti laboratori sonori della modernità”. Ecco l’ambivalenza della modernità disvelata attraverso il black noise ed è questo, uno fra i tanti pregi del suo lavoro, ossia l’aver tradotto il suono in parole.

A Kingston la musica non si spegne mai. Complici le alte temperature, le basse frequenze fuoriescono dalle finestre senza vetri di bar, case e barber shops; risuonano dai minibus che viaggiano a porte aperte, facendo sfoggio di impianti hi-fi autoassemblati e fuori misura. In questo costante rumore di fondo spazio e territorio, identità locale e globale, tecnologie del suono e corpi in movimento, economia formale e sotterranea trovano una sintesi dinamica. Tuttavia, il black noise della dancehall non produce necessariamente pace sociale. Al contrario, come rumore in lontananza, funge spesso da catalizzatore per le tensioni materiali che strutturano lo spazio sociale della città. Nonostante la risonanza globale, a Kingston quello della dancehall rimane ancora il suono della vita nel ghetto; il motore di un’economia costantemente in bilico tra legale e illegale; la colonna sonora per le dance moves ipersessualizzate e scandalose.

Davvero potente questo passo, e la sua scrittura. Le pagine di Black Noise hanno infatti una scrittura a tratti colloquiali e a tratti adoperante un linguaggio proprio delle dance hall (“equalizzazione, bilanciamento, preamplificazione”). La cifra di questa scrittura versatile è la capacità di trascinare il lettore nella materialità delle contraddizioni sociali, a suon di dub e reggae, mantenendo sullo sfondo una polifonia di spunti. Ad esempio: la storia del suono nella stagione futuristica della prima metà del Novecento; la nascita del reggae nei ghetti di Kingston, con i richiami alle radici diasporiche africane, incarnate nell’imperatore etiope Haile Selassie (noto come Jah); la moltiplicazione dei generi, a partire dal reggae alla mercificazione degli stessi, così come la lotta per un’ecologia acustica (eco al “progetto ecologico” teorizzato da Felix Guattari); la produzione, in una tensione costituente fra potere e sapere, di soggettività radicali che rivendichino la Diasporic citizenship; i conflitti urbani come processi di liberazione dai dispositivi di cattura e dalle politiche di sorveglianza, soprattutto nelle forme dei controlli del rumore e del suono.

C’è poi un concetto assai prensile della modernità nella gestione dello spazio e del territorio, vale a dire il concetto della tecnologia. Come scrive Tiziana Terranova, sulla scorta di alcune riflessioni di Paul Gilroy, “il black noise è il prodotto o emanazione di un’arte nera del suono, ingegneria della frequenza e della vibrazione, laboratorio tecnologico e performativo, archivio sonoro sotterraneo, strategia di fuga dal ghetto-prigione, resistenza elettropolitica che si propaga dalla Giamaica al resto del mondo.” D’altronde, cadrebbe in un grosso inganno chi pensa che il black noise e la musica caraibica siano un retaggio passato, una tradizione primitivistica, prodotto di una cultura bassa e popolare delle rotte afro-americane. Invece questi suoni sono i “rumori del futuro”, ci avverte l’autore. Effettivamente, nell’ascoltare le musiche delle società occidentali, se ne percepisce propriamente la radice in quelle rotte atlantiche; così come la finanza della city londinese ha le proprie radici nell’estrazione di risorse, manodopera e terre nel Sud del mondo. “È il capitalismo, bellezza”, com’ebbe a dire Michael Moore.

D’Aquino opera un intreccio fra il concetto di tecnologia (“futuristica visione”) e quello di tradizione. Detto altrimenti, compie un’analisi della differenza culturale come scarto tra cultura alta e cultura bassa o popolare. Qui, si sente il debito verso Stuart Hall e, indirettamente, verso Gramsci. Entrambi autori che hanno indagato il campo dell’ideologia e della cultura, abbandonando le semplificazioni tanto del marxismo classico quanto del riduzionismo e dell’economicismo, andando oltre cioè quel preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante, e leggendo invece gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata. Hall rileggendo Althusser si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato “la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” e “anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle tradizioni”; seccamente risponde: “ne conosco uno solo: Gramsci”. Dunque, è l’approccio gramsciano che consente di inquadrare i movimenti diasporici e la cultura che portano dietro, in grado di plasmare gli spazi metropolitani quanto le condotte collettive delle società capitalistiche. In altre parole, di dar vita a quella colonizzazione inversa.

Black Noise è un lavoro prezioso all’interno dell’archivio dei cultural studies e dei postcolonial studies. Prezioso perché è un’eccellente sintesi dei lavori decennali curati dal “Centro Studi Postcoloniali e di Genere” e dal “Technoculture Research Unit” dell’Orientale di Napoli, cui siamo ampiamente debitori per gli studi sull’intersezione fra razza, genere, sesso. E D’Aquino, lungo quest’intersezione, innesta lo studio del legame fra “suono, tecnologia, razza e potere”.
È un volume da ascoltare, Black Noise. Il che potrebbe sembrare un ossimoro. Ma, leggendo le pagine più evocative, sembra di ascoltarne i suoni e i rumori neri che riecheggiano interpellando la nostra identità e minando le nostre certezze.

Non in ultimo, Black Noise appare come un bellissimo ricordo di Lidia Curti (fondatrice del “Centro Studi Postcoloniali e di Genere”), del suo sguardo molteplice, eretico, appassionato verso le differenze, nel ricercarne i chiaroscuri e le ricchezze. Un’opera che, per dirla con Deleuze, ha agito da “effetto ottico” per illuminare il “gioco più profondo di differenza e ripetizione alla base delle identità”, per scegliere su quale due termini puntare e per scegliere da che parte stare.


  1. Che notizia gioiosa, signorina Mattie / Sento che il mio cuore sta per scoppiare / Il popolo giamaicano colonizza / l’Inghilterra al contrario. / Che isola! Che popolo! / Uomini e donne, vecchi e giovani / Basta fare le valigie e i bagagli / e mettete la storia a testa in giù! 

  2. Che diavoleria l’Inghilterra! /Affrontano la guerra e affrontano il peggio, /ma mi chiedo come faranno a resistere / Colonizzazione al contrario. 

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Una modernità migrante https://www.carmillaonline.com/2018/11/28/una-modernita-migrante/ Wed, 28 Nov 2018 21:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=49599 di Sandro Moiso

Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca post-coloniale, Meltemi, Milano 2018, pp. 180, euro 15,00

Il testo appena ripubblicato da Meltemi è comparso per la prima volta in lingua inglese nel 1994, mentre la sua prima edizione italiana risale al 1996 per l’editore Costa & Nolan. E proprio lo stesso editore aveva già avuto il merito di far conoscere al pubblico italiano un altro testo di Iain Chambers, Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa, comparso originariamente in lingua inglese nel 1985. Anch’esso ripubblicato oggi da Meltemi.

L’attuale riedizione di “Paesaggi migratori”, già preceduta da [...]]]> di Sandro Moiso

Iain Chambers, Paesaggi migratori. Cultura e identità nell’epoca post-coloniale, Meltemi, Milano 2018, pp. 180, euro 15,00

Il testo appena ripubblicato da Meltemi è comparso per la prima volta in lingua inglese nel 1994, mentre la sua prima edizione italiana risale al 1996 per l’editore Costa & Nolan. E proprio lo stesso editore aveva già avuto il merito di far conoscere al pubblico italiano un altro testo di Iain Chambers, Ritmi urbani. Pop music e cultura di massa, comparso originariamente in lingua inglese nel 1985. Anch’esso ripubblicato oggi da Meltemi.

L’attuale riedizione di “Paesaggi migratori”, già preceduta da un’altra, sempre per Meltemi, del 2003, costituisce ancora una scelta valida proprio per la persistenza degli argomenti e delle riflessioni che ne costituiscono il centro gravitazionale d’attenzione. Tali argomenti sono costituiti dalla realtà storica attuale delle migrazioni e delle immigrazioni dei popoli ex-coloniali verso quelle che un tempo costituivano allo stesso tempo il cuore delle metropoli coloniali (Europa e America del Nord) e dell’Occidente, inteso qui non soltanto come luogo geografico, ma, soprattutto, come luogo dell’immaginario culturale, filosofico e politico che dello stesso ha fatto il simbolo della modernità e dei suoi valori.

In realtà, come sottolinea ripetutamente l’autore, le attuali migrazioni rappresentano un fenomeno storico destinato non solo a cambiare i volti e i confini delle nazioni che ne sono toccate, ma anche un radicale sovvertimento dell’ordine disciplinare e delle gerarchie culturali che proprio sui “progressi dell’Occidente” hanno fondato le proprie ricerche, ipotesi e conclusioni. Sia nel campo del diritto che della storia e della sociologia.

Iain Chambers è ascrivibile al novero degli studiosi esponenti dei postcolonial studies. Insegna Studi culturali e media e Studi culturali e post-coloniali del Mediterraneo presso “L’Orientale” dell’Università di Napoli e ha sempre dedicato un’estrema attenzione alla frammistione tra le culture metropolitane e le culture importate dalle realtà a queste esterne, un tempo colonizzate ed oggi postcoloniali.

Lo ha fatto inizialmente attraverso la musica giovanile o pop e le sue contaminazioni derivate dall’incrociarsi della musica ‘bianca’ con quella ‘nera’ proveniente dall’Africa e/o dai Caraibi.
Oggi, come in parte in questo testo e in particolare in Mediterraneo blues. Musiche, malinconie postcoloniali, pensieri marittimi (pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2012), continua ad occuparsi di musiche meticce e dei loro sviluppi in ambito mediterraneo, ma la sua ricerca non si sofferma soltanto sugli aspetti sociologici e musicologici dell’incrocio tra musiche e culture diverse e lontane per radici e tecniche.

Piuttosto Chambers intende partecipare al sovvertimento radicale dei presupposti culturali che fondano la cosiddetta “modernità occidentale” dimostrando come tale sovvertimento epistemologico non derivi da un parto cerebrale ma, piuttosto, dal fatto concreto del presentarsi sulla scena della Storia di un fatto che è allo stesso tempo nuovo e vecchio di almeno cinquecento anni. Quello del contatto diretto con uomini, donne, culture che si rifiutano di essere oggetti, come gli studi accademici vorrebbero per comodità di ricerca, pretendendo materialmente di essere soggetti attivi della trasformazione delle società e degli immaginari che le sottendono.

Chambers chiede al lettore, come altri autori recentemente presi in esame dal sottoscritto proprio sulle pagine di Carmilla (Daniel Lord Smail, Frantz Fanon, Sandro Luce, Houria Bouteldja), di allontanarsi da quell’Io occidentalizzato che sta alla base di una ormai superata ma allo stesso tempo ostinata rappresentazione del mondo e del suo divenire, per prendere coscienza di come tale formulazione in chiave ‘progressista’ del dominio occidentale e dell’uomo bianco sulle culture altre non costituisca altro che la giustificazione di quel razzismo e di quel nazionalismo che certo presunto progressismo finge di combattere.

Dopotutto, i migranti sono letteralmente prodotti dall’ordine del nostro legiferare sul mondo. Si produce il soggetto legale in contrapposizione a quello che non viene riconosciuto. In altre parole, la rappresentazione legale e politica richiede la rimozione e la repressione di altri corpi umani, facendo di loro degli oggetti esclusi.1

Semplificando, se l’essere umano proviene da un paese in cui il diritto occidentale non si è ancora del tutto affermato, dovrà essere educato al nostro sistema di diritto oppure escluso. Cosa, la seconda, che avviene quasi sempre. Ma, come afferma lo stesso autore, «nessuno nasce illegalmente o migrante» ed è proprio su questo fulcro che le idee astratte di giustizia, identità e appartenenza acquisiscono il loro volto concreto e troppo spesso nefando mentre, proprio in grazia dell’essere corpi reali e in carne ed ossa, i migranti che attraversano i confini sovvertono l’ordine stabilito poiché non possono essere registrati o assorbiti senza sovvertire quell’ordine. Anche epistemologico, come si è affermato prima.
Afferma dunque l’autore che si rende oggi necessario pensare con la migrazione:

Così che da oggetto di indagine sociologica o culturale – e dunque ridotta a un fattore esclusivamente economico o a una crisi politica – la migrazione venga interrogata come presenza complessivamente ben più profonda e ben più ampia nella comprensione della modernità. […] E questo implica, in ultima analisi, che la questione non può essere semplicemente concentrata sul corpo del migrante reso spettacolo – che vive, annega e muore ogni giorno nei notiziari – ma ci trascina nel cuore dell’attuale economia politica, nei suoi modi di dirigere e disciplinare l’ordine del mondo.2

Le vite precarie dei migranti contemporanei, affermando il diritto di muoversi, migrare, fuggire, non solo scardinano il modo in cui dovrebbero rispettare il posto assegnato loro dalla storia; ma segnalano anche la modalità precaria contemporanea della vita planetaria (sia umana che non).3

La migrazione non soltanto sfida l’ordine neo-liberale del mondo e la sua convinzione che tutto possa sempre essere riportato sotto controllo, ma ci sfida anche ad uscire da quella che consideriamo la “nostra cultura”.

Essere ‘italiano’, ‘inglese’ o ‘americano’ non è il risultato di una decisone autonoma. Ci viene insegnato come esserci e rispondere a questa posizione. E’ una pedagogia, sia nel senso ovvio della scuola e dell’istruzione, ma anche nelle pratiche politiche, pubblicamente amplificate, dell’immaginare e celebrare la nazione. Fa parte di chi pensiamo di essere, come rispondiamo, e perciò profondamente sedimentata nelle metodologie più ristrette delle discipline – storiografia, geografia, letteratura, scienze politiche, antropologia, sociologia…- che applichiamo nel fare senso del mondo.4

La migrazione, inoltre, non sfida solo la divisione territoriale, culturale e politica del pianeta, ma ci impone di uscire da quel ‘noi’ identitario, sotteso e latente, su cui alla fine fanno leva i peggiori aspetti del nazionalismo e del razzismo, troppo spesso travestiti di progressismo e dozzinale classismo, per « rinegoziare la propria eredità e radicalmente riorientare i propri linguaggi di appartenenza e di comprensione».


  1. I.Chambers, Paesaggi migratori, Meltemi 2018, pag. 9  

  2. I. Chambers, op. cit., pag. 8  

  3. Ibidem, pag. 11  

  4. Ibid., pag. 12  

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