Hugo Pratt – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Come la Rivoluzione giunse in Oriente tra cavalieri, banditi, spie e baroni sanguinari https://www.carmillaonline.com/2021/03/31/come-la-rivoluzione-giunse-in-oriente-tra-cavalieri-banditi-spie-e-baroni-sanguinari/ Wed, 31 Mar 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=65560 di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente” (Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi [...]]]> di Sandro Moiso

Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme. Il sogno di Lenin di un impero in Asia, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021, pp. 320, 20,00 euro

“La nostra missione è incendiare l’Oriente”
(Iscrizione nel quartier generale della Prima Armata Bolscevica ad Ashgabat)

Basterebbero poche righe di questo libro per sfatare il mito della Rivoluzione come grigio e burocratico affare di partito. Infatti, anche se Peter Hopkirk non è certo definibile come un rivoluzionario o, almeno, simpatizzante della causa della trasformazione radicale del mondo, il testo appena pubblicato da Mimesis mette davanti agli occhi del lettore un susseguirsi di vicende degne dei migliori romanzi d’avventura, oltretutto ambientate in territori in cui a dominare erano, e spesso ancora rimangono, paesaggi sconfinati, deserti spietati, aspre montagne e una natura che definire selvaggia è ancora soltanto un blando eufemismo.

Scorrendone le pagine è inevitabile riandare con la memoria alle magnifiche tavole di Hugo Pratt, in particolare a quelle della sua storia, anche se sarebbe meglio definirla romanzo, migliore: Corte sconta detta arcana. Appartenente al ciclo di Corto Maltese, il testimone scomodo più che eroe di tante vicende narrate dal disegnatore italo-argentino di origini veneziane, la storia si dipanava proprio negli immensi spazi compresi tra Asia centrale, Russia e Cina negli anni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre e dava vita a personaggi ripresi dalla o appartenenti alla realtà di quel periodo. Non ultima la figura del barone Ungerer, di cui avremo ancora modo di parlare più avanti.

Il fatto che l’avanzare della rivoluzione bolscevica in Asia si accompagni, nel titolo, alla possibile realizzazione di un impero sovietico in quelle regioni, è dovuto al fatto che il testo chiude una serie di ricerche condotte dallo stesso Hopkirk sul tema del “Grande Gioco” svoltosi, tra la fine del Settecento e l’inizio del Novecento, in quegli stessi territori che andavano dal Caucaso alla Mongolia e dai confini della Cina imperiale all’Oceano Indiano e ai confini dell’impero coloniale inglese in India, che vide come protagonisti soprattutto gli agenti e i generali agli ordini di Sua Maestà Britannica da un lato e quelli al servizio dello Czar dall’altro.

Tali opere formano una quadrilogia di cui il testo sull’azione bolscevica in Asia costituisce l’ultimo volume. I precedenti sono, infatti, Il Grande Gioco (Adelphi, Milano 2004), Diavoli stranieri sulla Via della Seta (Adelphi, 2006) e Alla conquista di Lhasa (Adelphi, 2008). Ai quali, come corollario, andrebbe ancora aggiunto Sulle tracce di Kim (Settecolori 2021) dedicato al romanzo di Rudyard Kipling incentrato proprio sulle vicende della grande partita asiatica tra Impero Britannico e Impero Zarista.
Peter Hopkirk (1930 – 2014) è stato un giornalista britannico che ha lavorato come reporter e corrispondente per l’Indipendent Television News, il «Times» e il «Daily Express» e per molti anni ha viaggiato e vissuto nei paesi in cui si ambientano i suoi libri: Russia, Asia centrale, Turchia, Caucaso, Cina, India, Pakistan e Iran. Sulle tracce di vicende e personaggi che sono entrati tutti nelle sue ricostruzioni e ai quali, per qualche verso, ha finito col rassomigliare idealmente.

I militanti del bolscevismo giurarono di incendiare l’Oriente usando come innesco la nuova, inebriante dottrina del marxismo. Il loro intento era liberare l’Asia intera, partendo però dall’India britannica, il più ricco di tutti i possedimenti imperiali. Lenin, infatti, considerava l’Inghilterra, la maggiore potenza imperiale di allora, il principale ostacolo al suo sogno di una rivoluzione mondiale. “L’Inghilterra” dichiarò nel 1920 “è il nostro peggior nemico. È in India che la dobbiamo colpire con forza”.
Se l’insurrezione avesse strappato l’India dalla morsa della Gran Bretagna, quest’ultima non avrebbe più potuto tenere a bada i suoi cittadini – inconsapevoli azionisti dell’imperialismo – con la manodopera sottopagata e le materie grezze a buon mercato dall’Est. Ne sarebbe seguito il collasso economico e la rivoluzione in patria. Se si fosse riusciti a fomentare sommosse simili in tutto il mondo coloniale, l’agognata rivoluzione avrebbe segnato il suo percorso attraverso l’Europa. “L’Oriente” proclamava Lenin “ci aiuterà a conquistare l’Occidente”1.

Questo il prologo teorico e politico della vicenda narrata che, come in ogni libro di avventure ben congegnato, porterà ad esiti imprevisti dagli stessi protagonisti. Con svolte improvvise e rivolgimenti, per tutte le parti in lotta, dipendenti sia dalle personalità ed intenzioni che dalle contraddizioni sviluppatesi nel frattempo e dal comportamento, anche questo, non sempre prevedibile delle “masse” messe in movimento. Oltre che dal tradimento degli intenti iniziali messo in atto da Stalin e dai suoi accoliti già ben prima della morte di Lenin nel 19242.

In realtà la propaganda bolscevica in Oriente aveva preso forma in un’assemblea che si era riunita a Baku durante il settembre del 1920. Zinoviev e Radek, Presidente e Segretario del Comintern, e Bela Kun giunsero espressamente da Mosca a questo «Congresso dei Popoli dell’Oriente». Ma fu quella una strana adunata, un museo di costumi orientali, una Babele linguistica, una confusione di idee e di fini: Indù, Turchi, Uzbechi, Ingusci, Persiani, Ceceni, Turcomanni, Armeni, Baschkiri, Calmucchi, Ucraini, Russi, Tagiki, Georgiani, in tutto 1891 delegati, appartenenti a trentasette nazionalità erano presenti, mentre una schiera di interpreti urlava dal palco.

Lenin aveva preso in mano una matita e calcolato che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Francia ed il Giappone, con una popolazione di circa un quarto di miliardo, dominavano paesi e colonie con una popolazione di due miliardi e mezzo: questo fu il messaggio che gli inviati del paese dei Soviet portarono al Congresso di Baku.
La politica del Comintern venne esposta da Zinoviev la sera del 1° settembre: «L’Internazionale Comunista», egli annunciò, «si rivolge oggi ai popoli d’Oriente e dice loro: Fratelli, vi invitiamo ad una Guerra Santa innanzi tutto contro l’imperialismo britannico». «Jihad, Jihad » tuonarono, secondo un osservatore dell’epoca, i delegati. Ognuno saltò in piedi; pugnali tempestati di pietre preziose vennero branditi, spade damascate vennero sfoderate dalle loro guaine, pistole uscirono dalle loro custodie e vennero levate in alto, mentre i loro possessori urlavano: « Lo giuriamo, lo giuriamo ».

Quella riunione passò alla storia sotto il nome di «Primo Congresso dei Popoli d’Oriente ». Esso istituì un’organizzazione permanente nell’idea che sarebbero seguite adunate annuali o periodiche. Malgrado, però, il giuramento sulle armi, la Guerra Santa venne concepita come un’offensiva non militare diretta dal Consiglio di Propaganda ed Azione creato dal Congresso sul tipo del Consiglio d’Azione dei Sindacati Britannici. «La fanteria d’Oriente rinforzerà la cavalleria d’Occidente», come si affermò allora.

Le nazioni orientali, che interessavano il Congresso, erano soprattutto la Turchia, la Persia, 1’Afghanistan e l’India; in esse la parte che aveva l’Inghilterra era la più importante; l’Inghilterra era la più disprezzata; l’imperialismo britannico si offriva quindi in primo piano all’attenzione dell’assemblea. In ciò si manifestava la continuità con la politica zarista che dell’Impero britannico, almeno fino all’alleanza anti-tedesca nel corso del primo macello imperialista, aveva fatto la sua bestia nera in Asia, poiché ne bloccava ‘espansione sia verso l’Oceano Indiano che verso il Pacifico, oltre che averne bloccato l’espansione verso il Mediterraneo già all’epoca della guerra di Crimea (1853-1856)3. Anche se, per paradosso della Storia, a bloccare definitivamente la corsa imperiale zarista verso il Pacifico era stato, nel 1905, il piccolo ma agguerrito e tecnologicamente già più avanzato Giappone imperiale.

Ma i britannici, seppur sfiancati dalla guerra[…] Avevano ancora i più temibili servizi segreti del mondo, i cui tentacoli si estendevano ovunque. Ne seguì una lotta clandestina per il controllo dell’India e dell’Oriente, la cui storia è narrata in questo libro. Ambientato perlopiù in Asia centrale, nel punto di incontro di tre grandi imperi, britannico, russo e cinese, esso è un intreccio di macchinazione e tradimento, barbarie e terrore e, a volte, di vera e propria farsa.
Laddove possibile, lo racconterò attraverso le avventure e disavventure di coloro che, da tutti i fronti, presero parte a questa guerra mai dichiarata. Dalle più remote postazioni d’ascolto, ben oltre il confine dell’India, gli ufficiali dei servizi segreti anglo-indiani sorvegliavano ogni mossa dei bolscevichi contro l’India per riferirla ai superiori, a Delhi e Londra. I loro nomi sono ormai dimenticati da tempo, sepolti negli abissi degli archivi segreti dell’epoca, ma è proprio dai loro rapporti e dalle loro memorie che ho ricostruito gran parte di questa narrazione4.

I protagonisti, spesso dimenticati tra le pagine polverose del libro della Storia, sono un pugno di ufficiali inglesi5, l’indiano M.N. Roy (rivoluzionario di professione e teorico del marxismo, ai primi posti tra i ricercati dai servizi di intelligence britannica) e il russo Michail Borodin, che condivideva con Roy l’idea che la liberazione dei lavoratori oppressi d’Oriente potesse avvenire soltanto per mezzo di un’insurrezione violenta.

Accanto a questi ve ne sono almeno altri tre che val la pena di segnalare, il cui obiettivo era però ricollegabile ad una sete di potere e, almeno in un caso, ad una crudeltà che solo la lunga guerra combattuta senza regole su quei fronti avrebbe potuto soddisfare.

Quello di gran lunga più famoso fu un generale psicopatico dell’Armata Bianca, Ungern-Sternberg, “il barone pazzo”, le cui spaventose atrocità, in Mongolia, vengono ancora oggi ricordate con orrore6,
L’altro che tentò la fortuna fu Enver Pasha, esuberante generale turco, sconfitto in tempo di guerra e poi esiliato in Asia centrale. Dopo aver fatto il doppio gioco con il suo ospite Lenin, cercò di fomentare una guerra santa contro i bolscevichi senza Dio, facendo appello alle masse musulmane dell’Asia sovietica. Inferiore per numero e per armamenti rispetto all’Armata Rossa, l’affascinante turco andò incontro alla fine, con spregiudicato coraggio, ai piedi del Pamir. Si dice che ancora oggi alcuni suoi connazionali si rechino in pellegrinaggio segreto alla tomba solitaria del loro eroe.
L’ultimo ad ambire a un impero fu un giovane ma carismatico signore della guerra di nome Ma Zhongying, noto anche come “grande cavallo”. Un idealista musulmano cinese poco più che adolescente, che lasciò una scia di sangue attraverso il deserto del Gobi prima di fuggire a ovest lungo la Via della Seta su un autocarro rubato, inseguito dai bombardieri sovietici7.

Gli altri protagonisti anonimi di queste vicende furono i cavalleggeri dell’Armata rossa, i pastori guerrieri e guerriglieri delle montagne e dei deserti compresi tra il Caucaso, l’India e la Cina, oltre che mercanti, banditi, signorotti locali e signori della guerra, tutti travolti in un flusso di eventi che portarono, molto spesso, ad altri risultati rispetto a quelli previsti dalle parti in lotta.

Infatti il primo congresso dei popoli d’Oriente rimase anche il solo. Lo stabilimento di relazioni diplomatiche normali fra i Governi dei paesi orientali e quello russo incominciò ad aver la precedenza sulle relazioni fra i movimenti rivoluzionari dei paesi orientali ed il movimento rivoluzionario russo e le possibilità rivoluzionarie vennero sacrificate sempre di più al desiderio dei Sovietici di aver contatti, sulla base di trattati, con gli stati non rivoluzionari.

Là dove, invece, i bolscevichi riuscirono a prendere in mano la situazione, come ad esempio nel Caucaso e nei territori limitrofi, si ridiede vita ad un atteggiamento di governo “Grande Russo” che richiamava alla memoria la politica di dominio zarista. Alimentata dal georgiano Stalin e dai suoi fedelissimi, come ad esempio l’altro georgiano Grigorij Konstantinovič Ordzonikidze, fu al centro di una delle ultime, disperata battaglie di Lenin per impedire la degenerazione della Rivoluzione che aveva contribuito a realizzare.

Anche il progetto di mobilitare il proletariato occidentale a seguito della rivoluzione in Oriente era destinato a fallire anche se oggi si può affermare che l’unico vero risultato permanente della rivoluzione russa e dei suoi tentativi di esportarla fu conseguito con il risveglio dell’Asia, già immaginato da Lenin, e la conseguente liberazione della Cina dal dominio occidentale e il suo successivo sviluppo come grande potenza economica e commerciale (oltre che tecnologica e, probabilmente, militare).

Nel documentatissimo libro di Hopkirk non è soltanto contenuto in nuce tutto ciò, ma anche le radici politiche, sociali, religiose ed economiche delle altre e più recenti vicende cecene e afgane. Una lunga scia di sangue, di speranze infrante, di odi etnico-religiosi e tribali e, soprattutto, di giochi imperiali che ancora oggi non si è interrotta.


  1. Peter Hopkirk, Avanzando nell’Oriente in fiamme, Mimesis 2021, pp. 15-16  

  2. Si veda in proposito Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969  

  3. Sul problema storico della mancata espansione russa verso i mari e gli oceani si veda: Toti Celona, La Russia sul mare, Longanesi & C., Milano 1968  

  4. P. Hopkirk, op. cit., p. 16  

  5. Il colonnello Bailey, il colonnello Percy Etherton e Sir Wilfrid Malleson, personaggio tutt’altro che piacevole, precursore nella specialità del gioco sporco, che gestiva una vasta rete di spie e agenti segreti nel nord-est della Persia, la cui maggiore soddisfazione fu quella di far scannare fra loro bolscevichi e afghani, lasciando sapientemente trapelare presso l’uno il doppio gioco dell’altro (inventandolo, là dove era necessario).  

  6. Sulla sua fosca figura si veda: Vladimir Pozner, Il barone sanguinario, Adelphi, Milano 2012 e Renato Monteleone, Il Quarantesimo Orso. La saga di un “barone pazzo” tra le rovine dell’Impero Zarista, Gribaudo 1995  

  7. P. Hopkirk, op. cit., p. 20  

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Il graphic novel tra Maus, Jimmy Corrigan, Sandman e Zerocalcare https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/graphic-novel-maus-jimmy-corrigan-sandman-zerocalcare/ Tue, 17 Oct 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39863 di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre [...]]]> di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre a muoversi in ambiti creativi e forme estetiche assai differenti, esso può riutilizzare format discorsivi quali la biografia, l’autobiografia, l’indagine giornalistica e il reportage storico-cronachistico, il cosiddetto graphic-journalism» (p. 8).

Nel saggio di Calabrese e Zagaglia vengono passati in rassegna gli elementi semiotici che distinguono il graphic novel tanto dalle immagini fisse che dalle narrazioni verbali, visto che questo particolare linguaggio verbovisivo si presenta come un sistema semiotico caratterizzato dalla multimodalità (parole/immagini) e dalla simultaneità (con il tempo codificato secondo un “sistema spazio-topico”). Dal momento che su questa parte del volume ci siamo soffermati in un intervento pubblicato recentemente dalla rivista «Il Pickwick» [qua], dedichiamo questo scritto alla parte del saggio di Calabrese e Zagaglia che ripercorre, sin dalla nascita, alcune tappe importanti della storia della narrazione grafica con particolare attenzione ad alcuni rilevanti case study.

Il termine graphic novel viene introdotto sia per indicare una modalità testuale diversa rispetto a quella del fumetto che per presentare il prodotto come forma letteraria complessa indirizzata ad un lettore tendenzialmente adulto. I confini delineati da questa etichetta restano decisamente incerti: si tratta di un libro figurativo che racconta una storia lunga o diverse storie brevi, che ricorre ad una modalità seriale o autoconclusa, che generalmente rispetta le convenzioni tipiche del fumetto o veicola istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche ecc. Secondo alcuni studiosi il termine viene coniato da Richard Kyle attorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento per divenire d’uso alla fine del decennio successivo, ma è a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che il termine ha iniziato ad indicare una tipologia testuale precisa e non più esperimenti editoriali frammentati ed estemporanei.

Inevitabilmente occorre partire dal fumetto, che secondo diversi studiosi prende vita negli anni Trenta dell’Ottocento e si sviluppa con la pubblicazione delle vignette nelle edizioni domenicali dei quotidiani americani. È soltanto a partire dagli anni Trenta del Novecento che i comic books permettono ai fumetti di essere commercializzati e distribuiti al di fuori dei quotidiani, prima per pubblicizzare altri prodotti, poi in maniera del tutto autonoma con protagonisti eroi e supereroi. «Con i supereroi degli anni Trenta e Quaranta, in inquietante simultaneità con l’imporsi delle dittature in alcuni paesi occidentali, il fumetto conosce grande fortuna e si espande sia come numero di lettori, sia per elaborazione di sottogeneri narrativi, sino a divenire un simbolo della nascente potenza culturale degli Stati Uniti» (p. 13).

Con gli anni Cinquanta e l’inizio della Guerra Fredda i supereroi risultano inadatti a “risolvere” la mutata situazione ed il clima politico-culturale nordamericano tende ad indicare nel fumetto uno strumento di corruzione morale, oltre che di scarso rilievo culturale. Nel 1954 in America entra in vigore il Comix Code, un vero e proprio codice di censura che proibisce, tra le altre cose, la rappresentazione della violenza e del sesso, la presenza di alcolici e tabacco e, soprattutto, vieta di criticare o irridere le autorità. Ad essere preso di mira, sottolineano Calabrese e Zagaglia, è specialmente il codice iconico, per la sua immediatezza ed a fare le spese di questa regolamentazione sono soprattutto le narrazioni gialle o horror anche se, nonostante le censure, negli anni Cinquanta non mancano produzioni interessanti, come nel caso della rivista satirico-demenziale “Mad” creata nel 1952 dal fumettista Harvey Kurtzman o di Master Race di Bernie Krigstein che nel 1955 affronta il tema dei campi di sterminio.

Nei primi anni Sessanta rinascono i fumetti di supereroi uscendo dal mero ambito adolescenziale e venendo a contatto con il mondo della pop art. Con il 1968 nasce anche il fumetto underground ed autori come Robert Crumb, Eric Stanton e Gilbert Shelton non mancano di realizzare opere satiriche, sessualmente più audaci, con riferimenti autobiografici e con una smaccata presenza di critica politica. Tali trasformazioni contribuiscono all’avvicinano del fumetto alla narrativa romanzesca.

Anche in Europa si danno importanti novità: sul finire degli anni Sessanta escono in Italia opere come Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt e Poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, mentre in Francia e in Belgio si pubblicano riviste destinate a restare nella storia come “Pilote” (dal 1959) e “Á Suivre” (dal 1978). Se l’ondata innovativa degli anni Sessanta tende a perdere slancio verso l’inzio degli anni Ottanta, insieme all’assopirsi delle spinte controculturali nel clima genereale del rappel à l’ordre, occorre evidenziare che si aprono comunque nuove strade soprattutto grazie a pratiche di autoproduzione.

È in questo periodo che le nuove narrazioni visive iniziano ad essere indicate come illustrated novel, graphic album, comic novel e graphic novel. Tra i primi autori del nuovo genere debbono essere ricordati illustratori inglesi come Alan Moore, Neil Gaiman, Warren Ellis e Grant Morrison. I due studiosi sottolineano anche l’importanza della rivista “Raw”, fondata nel 1980 da Art Spiegelman e Françoise Mouly, che nel corso di un decennio lancia in ambito statunitense autori come Charles Burns, Robert Crumb e Chris Ware. Nel corso degli anni Novanta il graphic novel definisce meglio alcune sue caratteristiche che lo differenziano sempre più dal fumetto tradizionale, e conquista un suo spazio editoriale e distributivo.

Calabrese e Zagaglia sottolineano come tale tipo di grafica narrativa abbia uno sviluppo internazionale che tocca, oltre gli Stati Uniti, anche il Sudamerica, l’Europa e l’Estremo Oriente. In Giappone, ad esempio, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, Osamu Tezuka realizza un vero e proprio “cinema di carta” che conduce allo story manga, un racconto a fumetti autoconcluso rivolto ad un pubblico di bambini ed adolescenti.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Giappone, un gruppo di nuovi autori inizia a proporre akahon ispirati all’hard boiled e rivolti ad un pubblico adulto che aprono le porte al movimento gegicka, diffuso da riviste come «Kage» e «Machi», che abbandona le semplificazioni e le deformazioni dei manga in favore di uno stile molto più realistico. Se in un primo momento il gegika ha successo tra i giovani lavoratori delle grandi aree industriali scarsamente acculturati, successivamente, a partire dagli anni Sessanta, alcune produzioni gegika si prestano a dare voce alle proteste ed alla critica sociale di studenti, intellettuali ed attivisti politici.

Attorno alla metà degli anni Ottanta il mondo dei fumetti vede l’uscita di alcune opere che ne cambiano la fisionomia. Se per quanto riguarda l’universo dei supereroi la svolta può essere individuata nell’uscita di Watchman (1986-87) di Alan Moore e Dave Gibbson e Batman. Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, è con Maus (1986) di Art Spiegelman che si assiste alla canonizzazione del genere graphic novel ed alla sua ascesa nell’ambito della cultura letteraria, tanto che nel 1992 l’opera di Spiegelman riceve una menzione speciale da parte del Comitato del Premio Pulitzer.

Maus, comparso la prima volta nel 1972 come short story in un’antologia, poi pubblicato in maniera frammentata da «Raw», viene poi pubblicato in due volumi distribuiti da Pantheon. Il lavoro di Spiegelman è incentrato attorno alla questione della Shoah e presenta due storie che si intrecciano: in una Vladek Spiegelman racconta al figlio, Art Spiegelman stesso, la sua esperienza dell’Olocausto in Polonia, mentre nell’altra storia si narra del rapporto problematico tra i due.

Il primo volume, Mio padre sanguina storia (A Survivor’s Tale. My Father Bleeds History) narra le vicende dei genitori di Art fino alla loro deportazione ad Auschwitz ed introduce i problemi tra padre e figlio. Il secondo volume, intitolato E qui sono cominciati i miei guai (And Here My Troubles Began) narra invece la vita dei genitori di Art all’interno del campo di sterminio e i loro tentativi, una volta sopravvissuti, di ricostruirsi una vita prima in Svezia, poi in America, fino ad un brusco ritorno al presente narrativo.

Secondo Calabrese e Zagaglia la «prima ragione della notorietà di Maus è la complessità del suo impianto narratologico, in grado di mixare simultaneamente più livelli diegetici, moltiplicando il potenziale semantico ed espressivo di ciascuno di essi» (p. 19). In Maus la narrazione comprende due diversi piani temporali e ricorre a due narratori: «gli eventi della Seconda guerra mondiale in Polonia vissuti dal padre si dipanano fianco a fianco, a riquadri alternati, con quelli del 1980 vissuti dal figlio a New York, e la narrazione si sposta in avanti e indietro, con improvvise analessi e prolessi tra la storia intradiegetica della sopravvivenza di Vladek alla persecuzione nazista e i suoi racconti extradiegetici al figlio Art, metanarratore che sutura le due storie e crea Maus. Così il lettore entra in un labirinto degno di un racconto di Borges: Vladek è un narratore verbale intradiegetico, Art agisce sia come narratore extradiegetico del plot all’altezza cronologica del 1980, sia come narratore visivo che assume le narrazioni extra- e intradiegetiche in un blend di potente fascino» (pp. 30-31).

Gli studiosi sottolineano come la narrazione in Maus risulti decisamente complessa ed aperta ad interpretazioni differenti, sulla falsariga dei romanzi modernisti e postmodernisti. «Il metanarratore Art opera su diversi livelli […] e questo raffinato cocktail dei suggerimenti di un narratore onnisciente con le conoscenze del tutto limitate e anguste del personaggio (controfigura del lettore reale) influisce sulla nostra capacità di orientamento […] Questa multimodalità permette ancora una volta la giustapposizione della rappresentazione oggettiva e soggettiva, dell’eterodiegesi e dell’omodiegesi, del passato e del presente, del discorso tra i personaggi e del discorso “interiore” di un personaggio» (p. 31). Inoltre, il confine tra il livello narrativo di Vladek che riguarda la storia della Shoah ed il livello narrativo post-testimoniale di Art, riferito al problema della memoria storica, è offuscato da metalessi visive in cui si miscelano passato e presente.

Visto che il padre di Art racconta un frammento reale della storia della Shoah, Maus potrebbe essere pensato come visual life-narrative, storia orale-grafica; non a caso il primo volume è stato premiato come “biografia”. «In realtà, Maus è domiciliato in uno spazio intergenerico e intersemiotico e la sua stessa ricchezza espressiva dipende radicalmente da questa ontologica, immanente interstizialità: la voce di Vladek domina il testo e, come in ogni storia orale del folklore, solo attraverso la storia personale di Vladek il lettore può comprendere gli eventi storici descritti. L’universale è nel particolare, tanto quanto l’autobiografia si dissolve in una biografia» (p. 32).

Circa il ricorso semiotico agli animali presente in Maus, gli studiosi sottolineano come questo non abbia soltanto lo scopo di teriomorfizzare una società cinica e corrotta ma anche, in modo opposto, di «antropomorfizzare una violenza senza volto e senza ragionevolezza» (p. 34). Se la presenza di uomini teriomorfizzati palesa che ogni rappresentazione visiva è una finzione, ciò, suggeriscono Calabrese e Zagaglia, frantuma «il dogma formale del realismo operando, con gli strumenti semplici di un graphic novel, la complessiva “desantificazione dell’Olocausto” […] Le metafore animali funzionano proprio in virtù delle loro profonde incongruenze, dove i conti semantici sembrano non tornare mai: il lettore tende a dare un’interpretazione generalista di topi come persone, piuttosto che degli ebrei come topi, e ciò accade in quanto uno dei segni distintivi della tradizione animale nei fumetti sembra essere la “curiosa indifferenza verso la natura animale dei personaggi”» (p. 35). Nei fumetti meno dettagliata è la raffigurazione di un personaggio, più ci si apre all’universalità ed all’identificazione empatica dei lettori; la semplicità dei disegni in Maus contribuisce dunque alla “universalizzazione” dei topi.

Con la pubblicazione di Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra (Jimmy Corrigan, the Smatest Kid on Earth), uscito prima come serial fiction (1993-2000), poi nella versione one-shot (2000), Franklin Christenson Ware, più noto come Chris Ware, si rivolge direttamente ad un pubblico che egli stesso definisce nell’introduzione al volume del 2000, dotato di sufficienti «mezzi per intrattenere un dialogo semantico soddisfacente con il teatro pittografico ivi offerto» (Ware, p. 3, trad. it.).

Il racconto grafico di Ware si presenta indubbiamente di lettura complessa, con un tipo di impaginazione degerarchizzata e labirintica, strutturato secondo un «double plot a sviluppo elicoidale ove si rincorrono due storie ambientate in epoche diverse» (p. 60). La prima storia, ambientata negli anni Ottanta del Novecento, racconta del solitario trentaseienne Jimmi Corrigan che si trova inaspettatamente a dover incontrare il padre mai conosciuto prima, la seconda, ambientata a fine Ottocento, narra invece del rapporto tra il nonno ed il bisnonno di Jimmi. In entrambi i casi si tratta di storie che affrontano il difficile rapporto padre-figlio, «con i padri [che] giocano sempre un ruolo negativo [mentre] i figli incassano passivamente i colpi inferti dal contesto sociale e al tempo stesso vi si mostrano resilienti» (p. 62).

L’impaginazione proposta da Ware risulta decisamente innovativa; la forte regolarità geometrica, infranta dall’introduzione di microvarianti, conferisce alla pagina un aspetto che Calabrese e Zagaglia definiscono «quasi carcerario, claustrale almeno quanto la vita del protagonista […] La direzione abituale di lettura […] è smentita, o almeno sottoposta a forti turbolenze, poiché ciascuna planche si presenta come una combinazione di blocchi quadrangolari, dove l’immagine di grandi dimensioni costituisce un blocco unitario, mentre un mosaico di quattro, sei, otto, dodici piccoli panels ne costituisce un altro» (p. 63). Altra caratteristica importante segnalata dagli studiosi è l’uso della simmetria che viene utilizzata da Ware per enfatizzare le «opposizioni binarie che strutturano l’evoluzione spazio-temporale della storia, come ad esempio interno/esterno, passato/presente, giorno/notte» (p. 63).

Particolarmente interessante risulta l’approfondimento che Calabrese e Zagaglia dedicano al rapporto di Ware con i supereroi della sua infanzia. Secondo i due autori è possibile cogliere un parallelismo parodico tra la figura del supereroe e quella del padre assente; per certi versi Ware ha bisogno di eliminare una volte per tutte la figura del supereroe, propria dei fumetti, per poter dar vita al graphic novel. Si tratterebbe di una rottura necessaria con il mondo dell’infanzia (con i fumetti e con la figura del padre, pur se padre-assente) al fine di poter divenire adulti (dunque, artisticamente, poter entrare nel mondo del graphic novel). Ware, nella sua narrazione grafica, mette in scena il suicidio di un supereroe nell’indifferenza generale con tanto di titolone sul giornale. «Periodizzando i supereroi, il graphic novel diventa […] lo specchio critico del contesto storico-sociale» (p. 66). A questo punto gli studiosi individuano nel kidult il particolare tipo di lettore capace di specchiarsi in tale «labirintica parodia” del fumetto più mainstream» (p. 66).

In effetti, stando alle indagini effettuate in diversi paesi europei, mente il lettore-tipo di romanzi è soprattutto di genere femminile e di età compresa tra i trenta ed i cinquantaquattro anni, quello di graphic novel è invece in maggioranza di genere maschile e di età compresa tra i quattordici ed i ventiquattro anni. Si tratta dunque un soggetto «in fase di formazione permanente, che alimenta la propria Bildung attraverso porzioni massicce di visual storytelling. Proprio come la ricezione del romanzo settecentesco rifletteva le ansie del ceto medio, i graphic novel rivelano oggi i bisogni dei kidults e le loro ansie predittive circa un futuro sempre più impredicabile, irretito solamente da progetti a tempo determinato: narrazioni adatte ai tempi labili e a spazi empatici, fatte per rappresentare individualità uniche, ciò che spiega l’ambientazione realistica degli intrecci, l’attualità dei temi e la loro rilevanza storica […] Le peripezie vissute dai protagonisti diventano agli occhi dei kidults una parabola, un momento di passaggio da cui si esce trasformati, dove il fatto eccezionale di cui l’intreccio parla diventerà il momento in cui prende corpo una nuova identità” (p. 93). Non è un caso, fanno notare i due studiosi, che l’eroe del graphic novel non si trovi mai alla fine della storia nella medesima condizione esistenziale del punto di partenza.

Eliminati dalle storie i supereroi tradizionali, i protagonisti di graphic novel come Jimmy Corrigan errano alla ricerca di una collocazione all’interno di un mondo instabile e precario «in cui lo stato di crisi sembra essere il centro propulsivo dell’esistenza» (p. 67). È dunque con tale retorica del fallimento che il graphic novel, secondo Calabrese e Zagaglia, ha surclassato, almeno dal punto di vista qualitativo, il fumetto e, soprattutto, pare essersi conquistato un futuro tutto da scrivere e disegnare.

The Sandman (1988-96) di Neil Gaiman è da molti considerato una pietra miliare nella costituzione del graphic novel; si tratta di una delle pubblicazioni degli anni Novanta del Novecento che maggiormente ha contribuito a trasformare il formato della pubblicazione e l’estetica della narrazione grafica allontanandola dal fumetto tradizionale.

Ad essere ripreso in questo caso è proprio un supereroe, seppur minore, degli anni Quaranta del Novecento, dotato della facoltà di entrare nei sogni degli individui per poi proteggere i bambini dagli incubi. Gaiman trasforma il personaggio totalmente; il suo «Sandman viola le regole relativamente a ciò che rende un personaggio popolare nel settore dei fumetti dominato dai supereroi. Invece di criminali da combattere e vite da salvare, la preoccupazione del protagonista è quella di mantenere “The Dreaming”, ossia l’infinito orizzonte psichico in costante cambiamento che visitiamo ogni notte durante il sonno […] Tutto ruota intorno alla lenta trasformazione psicologica del protagonista: Sandman è la personificazione dei sogni e delle storie, un essere metafisico che ha pieno governo sulla vita dell’umanità. Egli è originariamente presente come un essere immortale: lui e i suoi fratelli creature divine immortali che si chiamano Destino, Morte, Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio – sono i sette Eterni che incarnano e regolano l’esistenza umana» (p. 85).

In Sandman si rintracciano due livelli narrativi: uno è riconducibile alle diverse storie indipendenti derivate dalle pubblicazioni mensili, e l’altro sembra ricombinare le diverse storie in un unico grande affresco del personaggio. Si tratta comunque di una narrazione non lineare che salta avanti e indietro nel tempo a velocità diverse. «Tematicamente, Sandman si focalizza sull’idea di cambiamento e dell’inevitabile necessità di adattarsi alle trasformazioni dai contesti storico-ambientali, tanto che le arcature narrative della prima serie muovono da un Sandman riluttante alla metamorfosi e bisognoso di apprendere l’arte dell’adattamento; passo dopo passo si trova di fronte a esperienze che sconvolgono le sue certezze e lo conducono a rompere le sue abitudini, sino a mettere in discussione le proprie decisioni passate e le proprie credenze» (pp. 86-87).

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi tempi nell’ambito della narrazione grafica è sicuramente quello di Zerocalcare (Michele Rech), autore che, formatosi nell’ambito dell’autoproduzione grafica, nell’ambiente dei centri sociali romani, nel 2012 pubblica prima l’albo La profezia dell’armadillo, poi il graphic novel Un polpo alla gola, ottenendo, in entrambi i casi, un notevole successo.

«Zerocalcare può essere definito il primo fenomeno di una cultura giovanile italiana degli anni Dieci del nuovo millennio, capace di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo ricorrendo ad un linguaggio inventato, uno slang giovanile romanesco postdialettale, che ricorda la lingua meticcia anglo-polacca di Vladek in Maus. Manifesto di una cultura pop che sa rappresentare un’ampia fascia di lettori e lettrici, l’abilità di Zerocalcare è quella di fotografare la condizione giovanile in cui i lettori si immedesimano totalmente: nelle storie di Zerocalcare è rappresentata la quotidianità di un trentenne contemporaneo, disoccupato, nevrotico e cinico, che viene messo alla prova e fallisce regolarmente affidandosi però a una coscienza ironica» (p. 132). Il protagonista di questi graphic novel è lo stesso Zerocalcare che si presenta, sostengono i due studiosi, come una sorta di hikikimori nostrano ed il punto di forza dell’autore sarebbe da ricercarsi soprattutto nel forte rapporto con i lettori.

Kobane Calling si proietta al vertice delle classifiche dei libri di fiction più venduti «anche se paradossalmente ciò avviene con un testo di graphic journalism declinato in prima persona e a focalizzazione interna, per cui la realtà di Kobane è restituita attraverso gli occhi, le nevrosi, i dubbi e le difficoltà oggettive del protagonista-autore. Per questo, il graphic reportage alterna vignette dal realismo quasi documentario a passaggi “cartoonati” per rendere al meglio l’iperrealismo della situazione» (pp. 132-133).

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Sulle rotte del disincanto prattiano (e dintorni) https://www.carmillaonline.com/2017/06/09/sulle-rotte-del-disincanto-prattiano-e-dintorni/ Thu, 08 Jun 2017 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38449 di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento [...]]]> di Gioacchino Toni

corto-maltese-0100Boris Battaglia, Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano, Armillaria edizioni, 2017, pp. 200, € 12,00

“Adesso”, “disincanto” e “ambiguità” sono le tre parole chiave con cui Boris Battaglia ci trascina in un affascinante viaggio critico attorno/insieme al personaggio di Corto Maltese creato da Hugo Pratt.

Il saggio parte, apparentemente, da lontano, tanto che si apre con alcune riflessioni sulla geometria euclidea utili allo studioso per sottolineare come i «personaggi dei fumetti non sono che figure geometriche le cui ‘relazioni spaziali’ con altre figure geometriche sono rappresentate nel sistema di riferimento cartesiano costituito dalla tavola» (p. 8). Visto che un sistema cartesiano è composto da un certo numero di rette ortogonali capaci di rappresentare il modello di realtà preso a riferimento e che al fumetto è concesso di rifarsi anche a realtà inesistenti, quando lo leggiamo «facciamo un esercizio di interpretazione di tutte queste n misure impossibili. In una storia a fumetti non ha particolare rilevanza chi fa cosa e dove la fa, ma quando la fa» (p. 9). Il fumetto, allora, sottolinea Battaglia, non è arte sequenziale ma potenzialità isometrica.

Riprendendo Umberto Eco (I limiti dell’interpretazione, 1990) che distingue tra mondi possibili, impossibili, concepibili ed inconcepibili, Battaglia trattiene per il suo studio la categoria dei mondi inconcepibili mirabilmente concretizzati a livello visivo dalle opere dell’olandese Maurits Cornelis Escher. Ebbene, nel fumetto «l’inconcepibile costruisce continuamente le coordinate della propria possibilità» (p. 10).

A differenza dei linguaggi verbali che non prescindono dalla linearità temporale, nel fumetto una vignetta si offre allo sguardo mostrando i segni tanto a livello spaziale che temporale nello stesso momento; nel fumetto «la mappa è il territorio» (p. 10). Nel fumetto, caratterizzato com’è dal “disordine probabilistico”, dalla mancanza di rigore sequenziale, non è per forza di cose il passato a determinare il futuro. A tal proposito Battaglia riprende le riflessioni di Ludwig Boltzmann (Fisica e probabilità) che vedono nel tempo una linea priva di direzione. «La direzione del tempo è dettata dal racconto che ne facciamo. Il fumetto potrebbe quindi essere un complesso sistema cartesiano di n ‘adesso’ organizzati arbitrariamente dall’autore/lettore» (p. 10).

Dunque, «anche quando una storia a fumetti è raccontata concatenando i suoi eventi in progressione lineare, non c’è nessun vincolo ineluttabile tra quegli eventi […] i segni e i fatti che la raccontano sono irreversibili, ma non c’è nulla di inevitabile nelle storie, né di temporalmente determinato» (pp. 14-15). E in Pratt, come mostra lo studioso, a volte, è il futuro a determinare il passato. «Parafrasando Godard: ogni storia a fumetti non ha un inizio, non ha un centro e non ha una fine, non necessariamente in quest’ordine. Ogni fumetto è un periplo» (p. 15).

Un periplo, dunque una circumnavigazione, ma anche una modalità scientifica di descrizione nautica e geografica che nulla ha a che vedere con la magia, il misticismo ed il romanticismo. È per questo motivo che Battaglia rifiuta l’idea di collocare Corto all’interno di categorie che hanno a che fare con il fantastico ed il romantico. «C’è tanto di immaginario, di ideale e di irrazionale, nell’opera di Pratt, ma non c’è nulla di romantico. Basterebbe leggerli, per rendersi conto che non è l’incantamento la ragione d’essere dei suoi fumetti» (p. 16). I fumetti di Pratt hanno a che fare, piuttosto, sottolinea Battaglia, con l’azione.

A questo punto lo studioso riprende le riflessioni del biologo libertario Henri Laborit in L’elogio della fuga (1976), ove si sostiene che l’unica ragion d’essere di una struttura vivente è essere, vivere. L’essere umano, a differenza di altri esseri viventi, quando si trova impedito all’azione, può rifugiarsi nell’immaginazione e ciò gli «permette, attraverso il moto di deriva della narrazione, di giungere ai limiti estremi di rottura della realtà senza muoversi dal proprio divano» (p. 17). Ed è questo che traspare, secondo Battaglia, dai fumetti di Pratt «persino quando i suoi protagonisti […] sembrano sospesi nei tempi morti delle attese e delle convalescenze, la retorica narrativa prattiana non ci permette mai di dimenticare che quel momento di pausa è possibile solo grazie alla sua causa prima: l’avventura. Accanto al pensiero c’è sempre l’azione» (p. 17).

Anche Corto, come Odisseo, fugge da una Calipso, così come ha la sua Penelope ma non vi è alcuna nostalgia che lo guida nelle diverse avventure; secondo Battaglia è lo stesso sistema narrativo del fumetto ad impedire cedimenti nostalgici. «La nostalgia è legata al senso di mancanza per qualcosa che se n’è andato o da cui si è andati via, collocato in un tempo precedente in cui si desidera tornare. Nel fumetto non esiste un tempo precedente e uno futuro, ma solo una più o meno lunga catena di adesso. Una storia è in continua evoluzione a seconda di come lo sguardo interpreta l’asse temporale» (pp. 115-116).

Viaggiatore, dunque straniero, estraneo, migrante, nemico, diverso, Corto non appartiene, per scelta, a nessuna comunità ed anche quando prova nostalgia non desidera alcun ritorno. «Fin dal suo primo apparire Corto Maltese si colloca in questa linea di ambiguità nomadica, caricata però di un’eccezionalità prometeica a sua volta così assolutamente ambigua da sconfinare in una normalità epimeteica. E sul mito di Prometeo e di Epimeteo ci torniamo per forza, appena cominciamo a parlare della Ballata del mare salato. La messa in crisi del discorso mitologico in Pratt è fondativa di tutta la sua opera» (pp. 21-22).

È da tali riflessioni che Battaglia giunge alle tre parole chiave indicate in apertura: “Adesso”, “disincanto” e “ambiguità”, ed è da queste che inizia il suo viaggio critico all’interno del mondo prattiano.

Il 1967 segna l’uscita di Una ballata del mare salato, si tratta di un momento importante per la storia del fumetto. Nata inizialmente come storia a sé, senza aver previsto una serie, il personaggio di Corto Maltese appare soltanto alla sesta tavola, quando sono già comparsi tutti gli altri personaggi principali, senza che il lettore conosca granché di lui, così come, a dire il vero, degli altri personaggi. Al momento in cui compare Corto questo ha la medesima rilevanza degli altri personaggi ma, sottolinea Battaglia, nelle cinque tavole precedenti si sono poste le basi per gli accadimenti futuri. «La storia si apre con una tavola intera in cui è riportata la lettera di un certo Raul Obregon Carrenza […], sedicente nipote di Cain Groovesnore, che sostiene di avere affidato all’autore i diari di suo zio affinché Pratt ne raccontasse la storia. Un espediente narrativo abusato, da Cervantes passando per Scott fino a Manzoni; solo che Pratt lo usa in modo assolutamente originale rispetto ai suoi modelli» (p. 52).

Qua il manoscritto serve all’autore per neutralizzarsi, per impedirsi commenti di carattere morale. Ciò che c’è da sapere è scritto in quella lettera; non vi sarà una voce narrante giudicante nelle tavole successive. Nel momento in cui la storia prende il via la voce narrante è quella dell’oceano, una voce indifferente.

La prima vignetta, quella in cui l’Oceano Pacifico comincia il suo racconto in prima persona, è costruita in modo da far coincidere il nostro sguardo con quello della voce narrante: guardiamo da lontano con la stessa indifferenza con cui il mare, prima in tempesta, ha spazzato isole e navi, e con cui ora accarezza in tranquillità la carena del catamarano che a quella tempesta è scampato. Guardiamo da lontano e ci sentiamo al sicuro, sia dalla tempesta, sia da qualsiasi responsabilità per ciò che accadrà. E ciò che accade è già nella seconda vignetta. Lo sguardo del mare, sulla cui direttrice ancora ci appoggiamo, ci mostra i marinai del catamarano che avvistano e recuperano un relitto con due naufraghi. Due giovani, maschio e femmina. Ancora vivi.
A questo punto scatta la trappola.
Neanche ce ne accorgiamo, quasi, ma nel giro delle ultime due vignette il nostro sguardo viene ribaltato nella semi-soggettiva del capitano Rasputin. Accompagnati dal movimento dei flutti ci ritroviamo alle sue spalle a guardare ciò che vede lui.
Quando, girata la pagina (nel fumetto è importantissimo il ritmo del girare le pagine), guardiamo la tavola successiva, è come se anche noi ci fossimo girati. Adesso siamo di fronte al capitano Rasputin. Diventiamo oggetto del suo sguardo, e della sua rabbia. La nave si è fermata per raccogliere i naufraghi senza un suo ordine, e questo lo ha fatto infuriare: per lui è una perdita di tempo. Invece, per noi lettori è l’inizio della storia, il motivo per cui non smetteremo di leggere (pp. 54-55).

Così, in poche tavole, lo sguardo del lettore da indifferente diviene implicato. «L’incontro tra il catamarano di Rasputin e la scialuppa dei naufraghi è necessario alla storia che l’Oceano ci sta raccontando. È il nostro sguardo, quindi, in buona sostanza, la causa di quanto accade» (p. 55).
Dunque, sottolinea lo studioso, Pratt in primo luogo ci presenta Rasputin definendo il suo carattere, la sua visione amorale in cui non vi è nulla di giusto ed ingiusto, è l’istinto a suggerire come agire in base all’utilità immediata. In secondo luogo Pratt conduce lo sguardo del lettore in una direzione desiderante; scopriamo ciò che lo sguardo di Rasputin desidera: Pandora Groovesnore.

armillaria_corto_boris_battaglia_cover_Circa i riferimenti al mito di cui è costellata la narrazione prattiana, sostiene lo studioso, occorre dire che esso «non interessa a Pratt in quanto forma definita e particolare di pensiero […] quanto piuttosto quale struttura articolata di organizzazione della casualità. In altre parole, quello che interessa a Pratt dei miti è la loro necessità narrativa, che si manifesta nel continuo tentativo di sottomettere l’hybris all’ethos al fine di dare ordine alla casualità delle vicende umane. Tutta la Ballata non è che la cronaca di questo tentativo reiterato» (p. 59).

Corto compare sulle tavole legato ad una struttura ad X, i rimandi al Cristo in croce ed al Prometo incatenato risultano palesi. «Cristologica vittima sacrificale, salva Pandora e viene salvato da Rasputin. L’eroe non salva la fanciulla in pericolo con un’azione mirabolante ma facendo mostra della propria impotenza» (p. 61). Se il fumetto d’avventura fino a questo momento ci presenta eroi che salvano il mondo, Corto non solo non salva il mondo ma non è nemmeno in grado di salvare se stesso, tanto che, nelle diverse storie, verrà salvato da altri in varie circostanze.

Interessante anche la scelta del nome che Pratt assegna al personaggio. Il nome Corto, secondo Battaglia, ha la medesima ambiguità del Nessuno omerico.

Corto è nessuno, quindi è tutti […] è contemporaneamente Abele, Prometeo e Cristo. Eppure, e qui sta l’ambiguità del personaggio, nonostante la costruzione iconica e l’uso di nomi pronti a farcelo pensare, Corto non è nessuno dei tre. Non può deciderlo. Pratt non glielo concede. Corto è continuamente in balia della narrazione, non la controlla mai; al limite può cercare di mettersi in disparte, ma spesso neppure questo gli è concesso. Non fa ma simboleggia delle possibilità, e in quanto vittima sacrificale e innocente – per quattro volte in qualche modo muore e risorge – non le esercita, le subisce.
Chi invece esercita continuamente opzioni sulla simmetria della narrazione (come causa scatenante, come tentatrice, come assassina, poi come innamorata e alla fine con la rinuncia) è Pandora. Potremmo dire che Pandora viene prometeizzata.
Il suo personaggio è il perno su cui Pratt fa ruotare il più radicale ribaltamento ideologico che mai sia stato realizzato nell’ordinata struttura del fumetto e della narrativa d’avventura (p. 62).

Dunque, secondo lo studioso, è attraverso Pandora che Pratt esplicita la volontà di sottrarre la narrazione alla funzione eroico-simbolica, tipica invece del fumetto italiano.

Pandora è il vettore di senso che permette l’articolazione del testo della Ballata. È attorno al suo corpo, e in particolare attorno al suo volto, che Pratt costruisce il campo figurativo che determina il racconto e l’esistenza degli altri personaggi. Il racconto è la trasformazione di Pandora, il suo personaggio è il luogo della coerenza logica della narrazione. La sua trasformazione grafica è continua, è il personaggio più instabile da questo punto di vista, perché questa instabilità […] è dosata da Pratt per mantenere l’analogia tra la rappresentazione grafica di Pandora e il suo carattere morale. La novità non sta nella trasformazione etica del personaggio, da rampolla viziata di una ricca famiglia a personaggio consapevole del proprio statuto narrativo, ma nel fatto che Pratt di questa consapevolezza ce ne dia certezza grafica usando proprio quella trasformazione grafica come motore delle trasformazioni narrative (p. 66).

In Una ballata del mare salato a compiere realmente il “viaggio dell’eroe” è lo sguardo del lettore.

Se nell’inverno del 1969 la rivista “Sgt. Kirk” pubblica l’ultima puntata della Ballata, storia nata non per aprire una serie, la svolta si ha nella primavera del 1970, quando sulla rivista francese “Pif Gadget” appare Il segreto di Tristan Bantam: con questo racconto Corto Maltese diviene un personaggio seriale. Secondo Battaglia se nella Ballata, la hybris di Corto riprende quella di Prometeo e Odisseo, in questo nuovo racconto viene fatto riferimento ad un personaggio storico. Mentre la Ballata si sviluppa in un tempo sospeso, mitico, ora le vicende vengono inserite all’interno di un tempo storico, che però Corto ha la facoltà di sospendere.

Con le storie brevi di Corto Maltese realizzate tra il 1970 e il 1973, Pratt esegue un’operazione sulla narrazione a fumetti che rivoluziona l’idea di avventura per come la si intendeva prima (e in Italia ancora oggi, purtroppo) nell’editoria a fumetti seriale, e – fatto molto più importante – quasi risolve il problema che toglieva il sonno a Sant’Agostino: la differenza fra il testo visto nella mente e il testo pronunciato dalla voce. In …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, dove la storia viene scandita dalle frasi scritte sulle carte dei quattro assi, Pratt dice una cosa che, come tutte le cose evidenti, è rivoluzionaria: il fumetto è guardare le figure e le parole (pp. 79-80).

È certamente l’ambiguità a farla da padrona in …E riparleremo dei gentiluomini di fortuna, visto che, evidenzia lo studioso, Pratt, oltre a giocare con l’ambiguità tra testo e parole, mantiene l’avventura in bilico tra storia e mito. Non a caso uno dei personaggi del racconto si chiama proprio Ambiguità. Nell’opera successiva, Per colpa di un gabbiano, nonostante il tempo mitico prenda decisamente il sopravvento sul tempo storico, l’ambiguità non accenna ad affievolirsi: la perdita di memoria di Corto lo rende «al contempo il personaggio Corto, per noi che leggiamo […] storicamente collocato, sia il prigioniero di Soledad Lokaarth […], novello Odisseo prigioniero di Calipso» (pp. 81-82).

[Ne La laguna dei bei sogni] il paradosso del ricordo giunge a compiutezza: ricordare qui significa morire. Però, non potendo far morire Corto Maltese, Pratt lo relega a meno che spettatore. Non è nemmeno presente mentre si svolgono i fatti. Toccherà al tenente Stuart affrontare la pazzia per recuperare il proprio passato e cambiare le conseguenze degli errori commessi, della propria vigliaccheria e della propria delusione d’amore. Se Corto aveva usato i funghi allucinogeni per ritrovare la memoria, patendo poi la delusione d’amore causata dalla fuga di Soledad, come nella Ballata l’addio di Pandora, il tenente Stuart entra nel delirio della febbre malarica per recuperare l’amore di Evelyn. Riuscendoci, perderà la memoria del presente e troverà conseguentemente la morte; perché, come afferma l’indio che l’ha assistito per tutto il tempo, “noi non abbiamo il diritto di cambiare l’ordine delle cose” (pp. 84-85).

Il tempo lineare ed irreversibile degli avvenimenti è fatto saltare e Pratt, grazie al fumetto, si permette di ripercorrere la linea temporale nella direzione che preferisce a piacimento.

Conquistato il successo in terra francese grazie alla pubblicazione di storie brevi, Pratt viene “arruolato” nel 1972 da “Linus” che inizialmente replica le storie pubblicate da “Pif”. Terminato il sodalizio con la rivista francese, Pratt accetta di realizzare per “Linus”, a partire dal 1974, il racconto Corte Sconta detta Arcana che si protrae, a cadenza variabile, addirittura fino all’estate del 1977.

Battaglia, nel soffermarsi sulla rivoluzione espressiva degli anni Settanta, si focalizza sull’uscita, nel 1975, della rivista francese “Metal Hurlant”, pubblicazione che, sovvertendo il fumetto classico, finisce con l’influenzare la generazione di giovani artisti italiani protagonisti della rivista “Cannibale” pubblicata a partire dall’estate del 1977. «Anche il fumetto popolare non sfugge a questa sovversione. La rivoluzione linguistica del decennio, unita alla rivoluzione tematica (e ideologica) di Pratt, che ha messo la disillusione al centro della sua poetica, reagiscono creando il terreno fertile per la nascita di due personaggi che non possiamo assolutamente trascurare per capire lo sviluppo stesso di Corto Maltese nel decennio successivo: Mister No e Lo Sconosciuto» (p. 121).

Mister No arriva in edicola nel 1975 ed il suo successo è dovuto al fatto che è il fumetto adatto all’epoca; il personaggio «coglie una richiesta del pubblico, soprattutto giovane, ancora inespressa ma che già era nell’aria. La necessità di uno spiraglio narrativo nella compressione ideologica e culturale di quegli anni. Prova ne sia che proprio l’anno dopo uno dei più grandi successi editoriali sarà Porci con le ali, in cui Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera mettevano in forma narrativa le istanze più diffuse della vita reale dei giovani del decennio. Invece, il maggior successo del 1979 sarà Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino, in cui la formula narrativa prende addirittura il sopravvento sulla realtà» (p. 126).

Secondo Battaglia Mister No riesce ad inserire tematiche libertarie degli anni Settanta, liberate da un certo conformismo ideologico, innestandole su modalità narrative più classiche.

Dal 1975 al 1982 la narrazione di Mister No […] costruisce – incastrando in storie avventurosissime con una struttura tradizionale temi contestatari come l’antimilitarismo, l’antiautoritarismo, l’egualitarismo – una visione del mondo disincantata come quella prattiana, è vero, ma a differenza di questa molto più consolatoria […]
La grande riuscita poetica, e politica, del Mister No di quegli anni è questa precisa commistione tra piacere e dovere, mentre Corto il dovere lo rifugge. Nella lotta per l’utopia, godersela non è un peccato. E nonostante fosse solo un fumetto a raccontarci questa cosa, lo compravamo e lo leggevamo avidamente proprio per questo (p. 127).

Gli anni Ottanta si aprono con Altri libertini (1980) di Pier Vittorio Tondelli, un esempio di ricerca di una via alternativa ad una stagione, quella degli anni Settanta, ormai esaurita ma, sottolinea lo studioso, senza alcuna pretesa di tracciare una mappa. Se il libro di Tondelli testimonia la fine dello scontro frontale con cui prende il via il nuovo decennio, Mister No è ancora profondamente immerso nella realtà sociale del suo mondo; gli Altri libertini, invece, fuggono da quella realtà.

Sono arrivati gli anni Ottanta e con essi, inevitabilmente, anche Mister No inizia ad essere inattuale. Con il nuovo decennio il linguaggio inizia a ripiegare su se stesso tanto da giungere presto a diventare il luogo totalizzante dell’esperienza della verità ed è così che si arriva, nel 1986, a Dylan Dog «in cui è solo il linguaggio a raccontare sé. Nei fumetti di Sclavi il mondo diventa logos. Esclusivamente linguaggio. Ogni possibilità di verifica razionale della realtà come qualcosa che esiste al di là del linguaggio è abolita. L’unica esperienza possibile della verità per Sclavi è quella dell’appartenenza a un linguaggio, ma non del linguaggio che parliamo, bensì di quello che ci parla» (p. 131).

Con l’uscita nel 1982 della rivista “Orient Express” si giunge, secondo Battaglia, ad un punto nodale per comprendere quanto Pratt abbia influenzato il fumetto italiano. È sulle pagine di questa pubblicazione che compare Lo Sconosciuto: L’uomo che uccise Ernesto Che Guevara di Magnus.
In questo fumetto Magnus tende a concedere molto spazio al testo rispetto alle immagini;

Il primo passo verso l’abbandono del classico modo di realizzare fumetti è segnalato da Magnus mettendo da parte Lo Sconosciuto. Egli, pur con tutta la sua peculiarità, può ben simboleggiare l’eroe tipico del fumetto seriale e in questa avventura la sua presenza è poco più che marginale. Però, pur comunicandoci la sua intenzione di cambiare registro, Magnus non vuole rinnegare niente del proprio passato di fumettaro ed è la partecipazione alla storia – in un ruolo non principale, ma comunque chiave – di quella ragazza che Lo Sconosciuto aveva conosciuto a Marrakech, a testimoniarlo. L’esperienza precedente è servita a Magnus per arrivare a questo punto, che è solo la base per costruire una nuova opera (pp. 134-135).

Lo studioso si sofferma sul personaggio detto El Lugubre evidenziando come questo sia un uomo che vive di ricordi ed illusioni artificiali, ossia fuggendo nelle immagini ed il suo riscatto lo si ha nel momento in cui diviene consapevole della vacuità di queste. «Esse cominciano a vacillargli davanti agli occhi, a sfocarsi, finché El Lugubre le rifiuta completamente attraverso un gesto simbolico e liberatorio: strappa il manifestino (Bolivia no serà otra Cuba) dal muro. Da questo momento diviene un altro personaggio, non è più El Lugubre ma diventa il comandante Inti. Rifiutando le immagini comincia ad agire» (p. 135).

Se Mister No e Lo Sconosciuto riportano «l’ambigua forza dell’immagine, e dell’immaginazione, dalla confusione libertaria delle ‘storie a forma di farfalla’ nel canone della narrazione a fumetti classica. In questo canone ciò che ha la supremazia è la parola» (p.136), Pratt prende invece la strada opposta, quella che concede tutto lo spazio del senso alle immagini.

corto-maltese-001Nel 1980 Pratt pubblica la seconda parte di Fort Wheeling su “Metal Hurlant” e l’anno successivo prende il via la pubblicazione sul quotidiano francese “Le Matin” di La Giovinezza, storia incentrata sulla fuga. «Corto, Rasputin, Jack London sono personaggi liberati dalla necessità, propria di quasi tutti gli altri personaggi seriali, di avere illusioni. Per questo fuggono, ognuno a suo modo. Rasputin cambiando continuamente divisa; Corto lasciando continuamente Venezia, la sua Itaca; Jack London navigando sullo Snark e raggiungendo, in altri fumetti realizzati da altri, luoghi in cui in realtà non è mai stato. Cosa che nel fumetto si può» (p. 163).

Ne Le Elvetiche, avventura pubblicata nel 1987 sulla rivista “Corto Maltese”, secondo Battaglia non si tratta di «un’esoterica affermazione dell’immortalità del personaggio Corto, quanto una divertita […] demistificazione del concetto di ‘letteratura disegnata’. In fondo, quando esce questa storia, sono esattamente vent’anni che Pratt non fa altro che affermare, attraverso Corto, la superiorità narrativa dell’immagine rispetto alla parola» (pp. 173-174).

Siamo così giunti, con qualche inevitabile salto rispetto alla puntuale analisi proposta dal libro di Battaglia, a Mu la città perduta, ultima avventura di Corto realizzata tra il 1988 ed il 1991 e pubblicata a puntate sempre su “Corto Maltese”. «Mu è un esperimento complesso in cui Pratt tenta, riprendendo il discorso cominciato con Le Elvetiche, di realizzare con i suoi fumetti un testo filosofico e teorico in cui rimettere in discussione, attraverso la storia del proprio personaggio (col serrato sovrapporsi di tanti personaggi passati e di situazioni topiche dell’intera saga di Corto Maltese), quella di tutta l’ermeneutica occidentale a partire dalle idee di Platone. Ma come lo farebbe ogni rispettabile flâneur, divagando» (p. 180).

Concludendo il volume lo studioso auspica di essere riuscito nell’intento di dimostrare come in Corto non vi siano né desideri di ritorno, né nostalgie per luoghi o tempi perduti. «Corto non è un eroe romantico, non è una rilettura prometeica, perché l’eroe rifiuta di rassegnarsi a circostanze a cui è impossibile rimediare nonostante il coraggio e l’intelligenza; Corto è piuttosto un eroe rassegnato, il cui continuo desiderio di andare è frustrato dal fatto che, nel fumetto, non c’è alcun luogo dove andare perché il fumetto è una struttura fatta di attimi continuamente presenti» (p. 184).

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Il “non-essere-mai-parte”. La poetica dello straniero in Hugo Pratt https://www.carmillaonline.com/2016/05/19/30314/ Thu, 19 May 2016 21:30:34 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30314 di Gioacchino Toni

corto maltese poetica stranieroStefano Cristante, Corto Maltese e la poetica dello straniero. L’atelier carismatico di Hugo Pratt, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 152 pagine, € 14,00.

Il “non-essere-mai-parte” è una caratteristica che accomuna un po’ tutti i personaggi di Hugo Pratt esaminati dal saggio di Stefano Cristante. Si tratta di personaggi che esprimono caratteri complessi e contraddittori, irrequieti e sradicati, che si discostano dal cliché dell’eroe senza macchia difensore dei deboli e nemico dei criminali. Sono tali personaggi prattiani a comporre quella che nel testo viene definita “la [...]]]> di Gioacchino Toni

corto maltese poetica stranieroStefano Cristante, Corto Maltese e la poetica dello straniero. L’atelier carismatico di Hugo Pratt, Mimesis, Milano – Udine, 2016, 152 pagine, € 14,00.

Il “non-essere-mai-parte” è una caratteristica che accomuna un po’ tutti i personaggi di Hugo Pratt esaminati dal saggio di Stefano Cristante. Si tratta di personaggi che esprimono caratteri complessi e contraddittori, irrequieti e sradicati, che si discostano dal cliché dell’eroe senza macchia difensore dei deboli e nemico dei criminali. Sono tali personaggi prattiani a comporre quella che nel testo viene definita “la poetica dello straniero”.

Nell’opera Junglemen, che vede la collaborazione tra Hugo Pratt ed Alberto Ongaro, il personaggio su cui concentra l’attenzione il saggio è quello di El Muerto, leader di una banda criminale che si scontra con i soldati che, in Nuova Guinea, fronteggiano le tribù native. Le storie raccontate si focalizzano sull’antagonismo tra l’ufficiale David Foran ed El Muerto, personaggio, quest’ultimo, decisamente misterioso. Si tratta di un individuo che ha assunto varie identità nel corso del tempo, non di rado incline ad atteggiamenti dispotici ma che, a sua volta, è stato vittima di soprusi che hanno accresciuto il suo rancore sociale. El Muerto è un disadattato che, avendo conosciuto il mondo, è in grado di mimetizzarsi all’interno dei diversi ambienti in cui viene a trovarsi, non è un vero e proprio disertore, è piuttosto un simulatore, «un tipo di criminale che popola zone estreme del mondo, dove il comportamento umano deviante assume le forme di un’estrema distanza dalle convenzioni sociali, sganciando il criminale da ogni vincolo affettivo e sentimentale. […] La legittimazione all’azione fornita dal rancore indiscriminato verso la società moderna e occidentale è dunque più forte persino dell’appartenenza etnocentrica» (p. 89). Secondo Cristante sono già ravvisabili in questo personaggio alcune tematiche, come lo sradicamento esistenziale e l’incomprensione dello straniero, che ricompariranno nella produzione prattiana successiva.

Dalla collaborazione tra Hugo Pratt e Hector Oesterheld, dal 1953, nascono invece le storie del sergente Kirk. In questo caso la poetica dello straniero muta: «anche Kirk è un personaggio tormentato, ma il suo orizzonte è disegnato su aspirazioni e valori positivi. Kirk è un “soldato blu” che non accetta l’idea che il suo servizio nell’esercito sia di sostegno a un genocidio» (p. 91). Siamo di fronte ad un disertore che abbandona il suo esercito per non prendere parte ai massacri perpetrati nei confronti del “popolo rosso”. Kirk, vivendo a contatto con i nativi, impara a conoscerli per quel che sono, prendendo coscienza delle menzogne della propaganda militare. «Il disertore Kirk entra all’interno di una cultura che non è quella della propria gente. Si avvicina ad essa e la trova ancorata a valori cui lui stesso tende, e che vanno in direzione opposta alla frenetica corsa alla conquista territoriale e alla rapida edificazione di una monocultura colonizzatrice» (p. 91). Kirk rinnega la propria provenienza/appartenenza etnica e sceglie un altro punto di vista, accettando di contaminarsi con le culture indigene che, a loro volta, si rivelano tante e differenziate, irriducibili alla stereotipo unificante ed appiattente caro al “mondo bianco” da cui proviene. Kirk da una parte viene stigmatizzato della sua gente d’origine e dall’altra fatica ad essere pienamente accettato dalla popolazione indigena. «Con Kirk la “poetica dello straniero” […] ha una svolta radicale rispetto all’inquietante devianza di El Muerto […], collocandosi in una zona creativa ai confini di una nuova pedagogia, i cui effetti saranno ancora presenti nei personaggi della saga americana di fine XVIII secolo Ticonderoga, altro prodotto della collaborazione tra Pratt e Oesterheld» (p. 93).

Nei quattro episodi che compongono la serie Anna nella jungla (dal 1959), prima produzione in cui Patt è autore unico, gravitante attorno alla protagonista Anna Livingston, compare un personaggio, il veneziano Luca Zane, su cui si sofferma l’analisi di Cristante. Si tratta di un “tipo fatto a modo suo”, comandante di un battello navale nell’Africa sud-orientale alla vigilia dello scoppio della Prima guerra mondiale. Zana è straniero rispetto all’ambiente in cui si trova a vivere (nella prima edizione argentina si chiama Tipperary O’Hara ed è irlandese, nella successiva edizione diviene il veneziano Luca Zane), inoltre non è stanziale. Si tratta di una figura di avventuriero, sottolinea lo studioso, non particolarmente definito, nel suo far da spalla alla protagonista e, nel suo essere un personaggio sostanzialmente positivo, si rivela adatto ad una serie per lettori adolescenti. Zane, pur non particolarmente ricercato nell’abbigliamento, anticipa nei pantaloni bianchi e nel cappello da capitano il look che sarà proprio di Corto Maltese. Pur essendo le tribù con cui viene a contatto spesso pericolose, Zane non sembra averne paura facendo affidamento al suo pragmatismo di combattente; come altre figure di “straniero prattiano” «sa ciò che occorre sapere per evitare di soccombere in un ambiente ostile in mezzo ad antropologie tribali» (p. 95).

In Wheeling (dal 1962) si incontra Simon Girty, personaggio liberamente ispirato ad un protagonista della Guerra d’indipendenza americana. Si tratta di un individuo ambiguo, figlio di genitori appartenenti ad etnie diverse. «La figura del mezzosangue che ci è stata consegnata dalle letterature occidentali nel XIX e dal XX secolo è destituita di ogni pienezza esistenziale e racconta individui insoddisfatti e macerati dagli svantaggi della duplice appartenenza: inaffidabili per la cultura bianca dei coloni e per quella del popolo rosso. Potenziali traditori. E tuttavia fondamentali per gli uni e per gli altri, perché in grado di comunicare linguisticamente e culturalmente con le due parti e perché in grado di spiegare e di anticipare le mosse di entrambe» (p. 97). Girty, nelle storie di Pratt, odia gli indipendentisti americani perché lo hanno relegato in un ruolo subalterno all’interno dell’esercito, inoltre vede positivamente l’intenzione degli inglesi di bloccare la colonizzazione del West. «Simon Girty, che si sentiva più a proprio agio con gli indiani che con i bianchi, dovette ritenere prioritario tutelare il popolo rosso da nuove invasioni» (p. 99).

Nel 1967 viene pubblicato il primo episodio di Una ballata del mare salato ed ha inizio l’avventura di Corto Maltese ma, sottolinea Cristante, tale personaggio non nasce dal nulla, rappresenta per certi versi il punto di arrivo di una poetica che abbiamo visto partorire personaggi complessi ed intriganti. «Corto è inizialmente un pirata, seppure differente dallo stereotipo classico del criminale dei mari. Rispetta la vita umana e non si lascia andare all’ira e alla rabbia. Parla con parsimonia, con un lessico appropriato e dimostrando di prediligere battute ironiche e a volte taglienti» (p. 102). Si tratta, anche in questo caso, di uno straniero, seppure diverso dalle altre figure di straniero presentate da Pratt nei lavori precedenti, uno straniero che subisce nel corso della narrazione, già all’interno della prima avventura, una complessa evoluzione: «la figura del pirata presto si ridimensiona a favore di un’irregolarità non criminale. Più che un mal-vivente, Corto Maltese è un diversamente-vivente: le sue coordinate non sono determinate dal malaffare, ma da una ricerca d’intensità che si incarna nell’avventura […] Corto Maltese, pur obbligato all’azione, è un personaggio che pensa e riflette, quasi stesse metabolizzando i propri cambiamenti necessari. È straniero anche in questo: rifiuta le assolutizzazioni del suo ruolo, rigetta l’appartenenza sia verso l’associazione criminale cui ha in precedenza aderito (l’organizzazione del Monaco) sia verso le autorità militari e burocratiche» (p. 102). Quando Corto Maltese ha a che fare con “non stranieri” «non li usa opportunisticamente come fanno i pirati né li disprezza come i militari. Al contrario, Corto stabilisce duraturi legami con essi, meritandosi il trattamento che si riserva ai migliori amici, in particolare a quelli diventati tali nonostante siano diverse l’etnia e la cultura» (p. 102). Corto è un personaggio che palesa la sua caratteristica di essere votato alla contaminazione e ciò risulta evidente anche quando si trova a doversi battere; conosce, infatti, il pugilato, la capoeria brasiliana ed alcune arti marziali.

«La patria di Corto Maltese, salvo il riferimento contenuto nel suo nome, non è mai citata, né si parla esplicitamente delle sue esperienze biografiche, eccetto per talune allusioni […] Il tipo di straniero incarnato da Corto sembra quindi l’apolide, il senza-patria, nello stesso tempo lontano e vicino a ogni cultura, capace di tradurre i propri pensieri in qualsiasi lingua utile senza mai appartenere a nessuna lingua, a nessuna comunità. Nell’evoluzione interna al personaggio […] Corto dimostra una certa dose di cinismo, accompagnata però da una progressiva ribellione verso il modo di comportarsi delle autorità e da un’evidente disposizione positiva verso i ribelli, gli incompresi e i maltrattati» (pp. 103-104). Ma, soprattutto, Corto Maltese rappresenta, secondo Cristante, «lo straniero che si è liberato dagli stereotipi dello straniero: non ispira diffidenza negli altri ma mistero, non esprime pregiudizi ma curiosità antropologica» (p. 104).

La trasformazione di Corto Maltese da pirata a “gentiluomo di fortuna” che «insegue il suo percorso esistenziale nel fiume della storia collettiva» (p. 106), lo porta a mostrare una sorta di pseudo-indifferenza che nasconde però, di avventura in avventura, un accumulo di esperienze che, sul finire delle puntate, tende a concentrarsi in quello sguardo posato verso l’orizzonte in cui si specchia l’Io irrisolto del personaggio. Soprattutto a partire da Favola di Venezia (1977) il personaggio tende a trasformarsi in viaggiatore erudito, tanto che lo troviamo intento a maneggiare l’Utopia di Tommaso Moro (che però non riesce mai a terminare perché gli procura sonno), a recitare a memoria qualche verso di Kubla-Kahn di Coleridge o ad interessarsi di letteratura esoterica.

Pur aderendo fino in fondo all’ambiente in cui si trova, Corto Maltese non riesce a restarvi a lungo, ha bisogno di allontanarsi, di battere altre strade, altri mari, altri libri ed altri sogni. «Lo straniero apolide ha una sola patria possibile, e questa è Venezia. Una città dove nessuno, nemmeno i nativi, può avere radici, perché la terra dove piantarle è in realtà acqua. Seguendo un’ovvia metafora, Venezia è in realtà “sogno”. La dimensione onirica di Corto Maltese, così presente nelle sue avventure, parte da qui, dall’origine veneziana del suo autore. Il sogno è un elemento importante della costruzione della poetica dello straniero: Corto Maltese sogna spesso, sia negli interstizi creati dal delirio febbricitante indotto da un grave ferimento, sia nel regno del sonno magico […] Il sogno è parte organica della morfologia prattiana, e contesto in cui la poetica dello straniero – in questi casi straniero anche a se stesso – tende all’astrazione. Corto diventa una forma in perenne precisazione, il cui significante è uno stato di oscillazione tra realtà e irrealtà, che il sogno ben interpreta» (pp. 109-110).

I personaggi proposti da Hugo Pratt oscillano tra l’essere stati sradicati dalle loro origini forzatamente o volontariamente e, nel caso di Corto Maltese, suggerisce Cristante, si tratta di una situazione intermedia; ha un passaporto ma si comporta da apolide. «Quanto più la condizione sradicata del personaggio è percepita come una violenza, tanto più l’atteggiamento dello straniero sarà connotato da aggressività (Jesuit Joe, El Muerto). Kirk e Luca Zane sembrano invece aver messo in gioco un certo equilibrio caratteriale dovuto al relativismo cui li ha condotti la pratica di culture diverse. Corto Maltese perfeziona questo atteggiamento, sapendo entrare in intimità con esponenti di culture situate a latitudini opposte perché in grado di coglierne tratti comuni, e perché vaccinato contro i pregiudizi. Non dà per scontato che l’erudizione sia prerogativa occidentale, e che un dancalo seminudo non possa recitare a memoria versi bellissimi e offrire un tè. Non ha nemmeno lo stupore di Koinsky per questi accadimenti, indicatore di un – pur blando – paternalismo etnocentrista. La figura di Corto Maltese è il modo di Pratt di assecondare la propria natura di eterno straniero e insieme di intervenire sulla storia delle idee della modernità. Fornendo un punto di vista eccentrico, spostando la storia in scenari desueti e talvolta nascosti e marginali, facendo emergere rabbie e inquietudini, perseguendo una maggior comprensione delle nature umane, usando la scorciatoia dell’avventura per mettere in risalto riferimenti letterari e culturali, Pratt delinea una poetica dello straniero che si fonda su una filosofia critica della modernità» (p. 115).

«Anche i folli hanno la loro parte in commedia. Tanti personaggi vivono una condizione di estraneazione, e si rifugiano in un proprio linguaggio e in una propria grammatica avventurosa, talvolta quasi commovente […] sono tutti stranieri, anche a se stessi. Hanno rotto la connessione con il loro spazio-tempo, e sono capitati in una terra di mezzo dove ogni mossa li avvicina alla fine. Corto Maltese intercetta questa forma estrema dello straniero: percepisce l’estraneazione come possibile esito del malessere connaturato alla condizione del nomade e dello sradicato, tenta di stabilire dei ponti comunicativi, di trasmettere empatia» (p. 116). Dunque, continua Cristante, l’estraniato rappresenta lo straniero estremo e Corto Maltese guarda all’estraniato con un misto di commiserazione e di curiosità, consapevole che «la frontiera della razionalità adattativa che lui pratica è aperta al magico e all’irrazionale» (p. 116). Corto Maltese, secondo lo studioso, può essere visto come l’incarnazione di un confine culturale: «se l’immigrato è […] “uno che vive in due mondi”, anche il personaggio di Pratt lo è: egli però non oscilla tra la vecchia e la nuova patria, ma tra l’assenza di patria (apolidia) e la realtà aumentata di cui sono fatte le sue avventure. L’apolidia confina con il cosmopolitismo: pezzi di identità sono cuciti sull’abito e sull’estetica di Corto Maltese, ma non impediscono un contatto con il nativo, né con i viaggiatori, né con gli espatriati. La realtà avventurosa consente di piegare la condizione apolide alle istanze dell’avventura, per il cui buon fine è necessaria una spiccata capacità di adattamento» (p. 127).

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Divine Divane Visioni (Cinema di papà 06/07) – 60 https://www.carmillaonline.com/2014/06/13/divine-divane-visioni-cinema-papa-0506-60/ Thu, 12 Jun 2014 22:01:41 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=15193 di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani! (Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005 Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto [...]]]> di Dziga Cacace

Se non sei ancora estinto, batti le mani!
(Syd in L’era glaciale 2)

ddv6001 Deep Throat598 – La pornografia di Inside Deep Throat, di due noiosi, USA 2005
Come movimentare il week end? Come agitare il bacino con coerente giustificazione intellettuale? Ma con un bel documentario che allenti i sensi e disinibisca la mia prorompente sensualità! Con astuta mossa cinefila produco questo Inside Deep Throat dal buon viatico critico: ci sbattiamo sul divano e… ogni desiderio è castrato con un secco colpo di machete. Se qualcosa dimostra questo documentario è come il sesso – seppure con un brutto film come Gola profonda, diventato “importante” per una botta di culo, o di altre parti anatomiche – fosse nei primissimi anni Settanta vissuto con leggerezza e avventura, cercando veramente una liberazione (interessata, nel caso della pornografia, nessuno lo nega), combattendo contro una morale corrente ipocrita e bacchettona. Che ha stravinto. E quella che all’epoca era una scommessa per fare qualche soldo oggi è diventata un’industria globale che macina soldi e macella carne a getto continuo e non ha liberato un bel cazzo, se non quello di qualche superdotato. Inside Deep Throat è la dimostrazione del clima odierno: un documentario freddo firmato da tali Fenton Bailey e Randy Barbato, con una ricostruzione storica da cinegiornale Luce, senza entusiasmo e con – e qui non ci si poteva far nulla – l’attore Harry Reems, l’attrice Linda Lovelace (in immagini di repertorio) e il regista Gerard Damiano appassiti, con problemi di ogni tipo ma soprattutto senza una storia da raccontare attivamente perché tutti vittime e mai veri consapevoli protagonisti: non scatta affezione o partecipazione, semmai pena. La Lovelace è morta nel 2002, avendo più volte denunciato la sua condizione di sfruttata, cosa che getta un’ulteriore luce ambigua sulla celebrazione del film. Ragazzi: Gola profonda (in Italia La vera gola profonda) era una fetecchia senza grandi pretese, in linea con certa produzione coeva, e che per le imperscrutabili coincidenze della storia è diventato un cult. Ma non c’era un pensiero dietro e non possiamo pretendere adesso che ci fosse, anche se puoi attribuire al film tutti i significati che vuoi (vedi le testimonianze di Gore Vidal, Erika Jong, pure John Waters). L’operazione del documentario mi risulta falsa e fragile, viziata oltretutto da un linguaggio paratelevisivo. Zero invenzioni, nessun rischio, nessun guizzo, e alla fine altro che eccitazione, ti viene il membro interno. E guai a vedere un porno, adesso, senza complessi di colpa. Film inerte sponsorizzato da critici che sbagliano. (Dvd; 23/9/06)

ddv6002Capturing599 – Che botta, Capturing the Friedmans di Andrew Jarecki, USA 2003
Fastidio, fastidio, fastidio. Perché questo è un gran bel documentario, tremendo e spietato, dove si parla di abusi su minori. Giusto per chiarire: vera famiglia americana (agghiacciante), i Friedman appunto, con padre accusato di pedofilia e uno dei figli presto coinvolto (l’altro fa l’intrattenitore e il clown a feste di compleanno di bambini…). Lo scandalo travolge tutto e tutti, in un clima delirante da caccia alle streghe, con giudici e avvocati che mettono genitori e figli l’uno contro l’altro. Ammissioni e denunce sono chiaramente finalizzate a guadagnare sconti processuali o evitare altre condanne, non per appurare la verità che rimane infatti vaga, lasciandoci un’insopportabile senso di ingiustizia e disagio. E noi sappiamo tutto ciò perché in famiglia c’è pure il vizietto di filmare morbosamente ogni cosa, discussioni comprese. Per cui Jarecki s’è trovato tra le mani una vicenda incredibile da non dover ricostruire, ma da raccontare col conforto delle immagini autentiche. Devastante. Se uno sceneggiatore concepisse una storia così tutti gli direbbero: ma non ci crederà mai nessuno, ‘a scemmu! Ah: e se qualcuno pensa che la giustizia americana abbia un senso, questo è il suo film. (Dvd; 23/9/06)

ddv6003Three Burials600 – Le tre sepolture di Tommy Lee Jones, USA 2005
Chissà perché, ma mi ricorda Peckinpah. La sofferenza che nasce lungo il border, la fatica della vita, la stessa voglia di farla finita alla grande. Tommy Lee Jones dirige in modo classico, elegiaco, senza tempo, una vicenda per nulla glamour: Melquiades Estrada è un immigrato messicano illegale e una guardia di frontiera lo secca per errore. Un ranchero texano amico di Estrada (lo stesso attore e regista) lo scopre e vuole dargli la promessa degna sepoltura in Messico. Non vi dico come va a finire, ma il percorso alla ricerca di un po’ di giustizia e di redenzione è imprevedibile e commovente. Film coraggioso, premiato a Cannes e per niente attuale per cui doveroso e attualissimo. Bravi gli attori e pure i paesaggi. (Dvd; 24/9/06)

DDV6004 Grand Illusion601 – La grande illusione di Jean Renoir, Francia 1937
Buttare via una vhs è doloroso. Se contiene un Renoir, un abominio. Ma lo spazio latita anche in questa nuova casa che pagherò fino al 2730. E allora mi costringo a rivedere questo classico, come se fosse una terapia per disincrostare lo sguardo dalle troppe brutture che subisco in tivù. Ed è un film così bello che non riesco neanche a esprimerlo. Comodo, eh? Capolavoro di poesia, eroismo, fratellanza, libertà e voglia di futuro e pace: può bastare? (Vhs da RaiTre; 29/9/06)

ddv6005 Joey TempestJoey Tempest, per dire
Era il momento della festa del liceo che aspettavamo tutti: quando sulla consolle passava il vinile degli Europe, il gruppo svedese che aveva conquistato il mondo con un’aberrazione musicale, il pop metal. Prima arrivava The Final Countdown, pezzo zarro come pochi che però si cantava tutti assieme con consapevolezza autoironica, e poi Carrie, il lentazzo smielato per far capire che in fondo avevamo un cuore d’oro anche noi. Il risultato era che comunque le ragazze non ci filavano, ma nella nostra beata innocenza aspettare quei momenti era già qualcosa. Ecco, tra le tante cose che avrebbero potuto capitarmi nella vita a venire, mai avrei pensato di incontrare vent’anni dopo, in carne e boccoli, Joey Tempest. Quello che allora, all’epoca della festa del liceo, si agitava sui palchi di tutto il mondo immerso in una nube di lacca. Con jeans strappati ad arte e foulard, esibiva su un faccino da Barbie un testone di capelli degno del Cugino di campagna afro. Al punto che, confesso, la prima volta che vidi un videoclip degli Europe rimasi col conturbante dubbio se il cantante fosse una donna. Vabbeh, ho già detto che di ragazze (per mancanza di interscambio microbiotico) si capiva poco. Ad ogni modo oggi il gruppo s’è riformato e l’ultimo album Secret Agent non è malaccio, anche se l’ho ascoltato per meri motivi professionali e mai più mi capiterà. L’intervista allo svedese è nella suite imperiale dello Scandinavia Hotel (ovvio, no?) e Tempest, con la faccia da ragazzino e il capello mosso ma di media lunghezza, è un bell’ometto di quarant’anni che ne dimostra meno, felice, realizzato e ansioso di sapere, lui, un sacco di cose. Per esempio che colazione ho fatto. Caffè, dico. E come lo fate qui? E allora gli spiego la differenza tra moka, espresso e all’americana, giocandomi il termine “percolazione”, cosa che mi deve avere accreditato professionalmente. Nero vestito, asciutto, risponde felice sull’ultima fatica della band: finito il suo periodo solista country rock, ha solo voglia di musica potente che, per risultare ottimale, presenti anche qualche bel chorus cantabile dal pubblico. Ovviamente Secret Agent, il settimo disco come Europe, è il migliore della loro carriera (mai trovato un artista che dicesse una cosa diversa), ma il buon Joey auspica ulteriori novità, magari svolte inaspettate: del resto gli piacerebbe collaborare con David Bowie. Oggi nel suo iPod ci sono Audioslave, Hellacopters, Hives e (giacché è il migliore etc. etc.) l’ultimo Europe, ma nel cuore porta Rainbow, Deep Purple e Whitesnake e quando faccio il ganassa dichiarando che ho intervistato Blackmore comincia il controinterrogatorio. Vuole sapere tutto e allora racconto io. Poi contrattacco e gli chiedo degli italiani che conosce. Ammira la Nannini e gli è rimasto impresso un pezzo di Ramazzotti: Se bastasse una canzone. Son passati quasi vent’anni e canta perfettamente la frase melodica. Poi però chiarisce che non ama il pop: guai a deludere i fan che potranno vederlo in concerto in Italia a fine gennaio. Magari viene anche Eros, chissà. (Live, 5/10/06)

Ddv6006 Alice602 – Ha i suoi annetti Alice’s Restaurant di Arthur Penn, USA 1969
Film epocale, per la musica e i significati, ma che visto oggi fa simpatia perché è un brutto anatroccolo che mai diverrà cigno. Esaltante come vedere crescere un rampicante, dialogato (e tradotto) in maniera ingenua, sconclusionato negli avvenimenti e con poco mordente, è un’opera di alcun cinismo che nel bene e nel male rappresenta le speranze di un’epoca e l’impossibilità a buttare via (metaforicamente e non solo) tutta la spazzatura fisica e morale che produciamo. Barbara si è inesorabilmente addormentata, io ho resistito fino in fondo perché sono un romantico cazzone facile all’intenerimento, ma l’ho visto più per dovere che per piacere. (Vhs da Tele+, 12/10/06)

ddv6007 Kinski603 – Lo splendido Mein liebster Feind – Kinski di Werner Herzog, Germania/Gran Bretagna 1999
Klaus Kinski, da paura. Folle, spiritato, dolcissimo, violento: questo singolare atto d’amore in pellicola ci mostra come si possa amare una persona nonostante la persona stessa sia insopportabile e ripugnante. Si parte con l’attore tedesco a teatro che litiga ferocemente col pubblico, facendo passare Carmelo Bene per un lord. E poi lo vediamo sui diversi set di Werner, talmente nella parte da sfasciare con un colpo di spada l’elmo di metallo di una comparsa india durante Aguirre. Tutti fuori controllo, come sempre nel cinema di Herzog, tutto che alla fine ha una sua sbalestrata coerenza. E per questo Kinski era l’attore perfetto. Per-fet-to. Negli extra del dvd prestato da Roberto (visto perché nella mia vhs mancavano gli ultimi 5 minuti) c’è anche un grandioso corto di Les Blank in cui Herzog si mangia (realmente, giuro) una scarpa per aver perso una scommessa col regista Errol Morris, quello del futuro Fog of War. E ditemi voi se non poteva essere uno come Werner Herzog ad eleggere il demoniaco Klaus a suo feticcio. (Vhs da RaiTre; 18/10/06)

ddv6008 Springtime604 – Buddhistico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera di Kim Ki-Duk, Corea del Sud, 2003
Immoto (il film e io), ma i sentimenti girano a mille. La semplicità ha del miracoloso, la messa in scena è di una purezza abbacinante. Kim Ki-Duk asserisce di non avere mai visto film prima di farne lui. Forse è vero, sicuramente questa narrazione compassionevole e fuori dal tempo è veramente fuori dal tempo e commuove. Moooolto bello. (Dvd; 22/10/06)

ddv6009 Ice Age 2605 – Freddino con Ice Age 2 di Carlos Saldanha, USA 2006
Mi mancavano Syd & company, al punto che vedo il nuovo episodio senza neanche avere obblighi paterni, ma proprio per infantile piacere mio. E il film è caruccio ma meno riuscito del primo episodio, molto meno. Stavolta alla ghenga formata da mammut, tigre dai denti a sciabola e bradipo si unisce una mammutona, ma la storia d’amore tra i due pachidermi non è ‘sta gran cosa, con lei un po’ sciacchella e che si crede sorella di due opossum odiosi. Intanto Scrat continua imperterrito a inseguire la sua ghianda, mentre Syd affronta lo scioglimento dei ghiacci con stolida saggezza e speranza. Però, però… Sufficienza abbondante, dài, ma non il capolavoro che avrei voluto e di cui parlano i critici che si erano evidentemente persi il primo L’era glaciale e ora fanno i gggiovani, perché tra nuovi Pixar, Miyazaki e il resto bisogna far finta di conoscere anche il mondo dei cartoni. Di cui vi rullerei. (Dvd; 29/10/06)

ddv6010 DevilsRejects606 – Sbaglierò, ma per me The Devil’s Rejects di Rob Zombie è un capolavoro, USA 2005
Premessa: La casa del diavolo è semplicemente grandioso e questo pezzullo contiene più spoiler, vi ho avvertito. Dunque, questo è un horror (dissimulato, ma costruito citando a più non posso per esegeti e cultori) che parla del presente, delle follie dell’America, del culto delle armi, delle ossessioni pop (musicali e non solo), della divisione capitalistica in classi, coi gendarmi delle forze dell’ordine a tenere tutti al loro posto. Non dite a Zombie che è marxista (non ci crederebbe) ma qui – meglio che in tanti altri film perbene, sanificati e moralmente accettabili – abbiamo i buoni veramente cattivi e i cattivi in fin dei conti umanamente comprensibili (perdonabili no, ma nessuno lo è). E alla fine, piuttosto che schiavi, meglio morti, come Peckinpah ci ha insegnato tanto tempo fa. Colonna sonora southern da orgasmo, fotografia seventies abbacinante, facce perfette, regia abilissima capace di qualche momento di autentico genio (l’esecuzione del poliziotto col colpo alla testa, col silenzio dilatato e quella detonazione che ti fa fare il classico salto sulla sedia). E quando nella sequenza finale parte la Freebird dei Lynyrd Skynyrd, ho pensato: come in Forrest Gump adesso ci sarà un atroce taglio e amen. Invece il pezzo c’è tutto, nella gloria dei suoi 9 minuti, allungando epicamente all’inverosimile questa magnifica scena, con le chitarre che si inseguono in uno stampede solistico. E un’idea così, da sola, farebbe già del film un’opera unica. Capolavoro. (Dvd; 1/11/06)

ddv6011 V for Vendetta607 – L’equivoco di V for Vendetta di James McTeigue, UK/USA 2005
Cercavo il coreano Vendetta e basta ma sono totalmente rincoglionito che affitto per errore un film forse più adatto ancora a svoltare la serata da divano, copertona di flanella e rutto libero. Trovo qualche scompenso narrativo, ma come opera ludica V fa il suo sporco mestiere e diverte, alimentando tensioni anti Sistema nel momento adatto, con rimandi neanche troppo occulti al G8 e a Seattle. Ideologicamente, non provo neanche ad affrontare la vicenda, però: non ne sarei stato capace anni fa, figuriamoci adesso che ho ancora l’ormone sballato per la paternità. Il fumetto di Alan Moore da cui è tratto il film, invece, m’ha fatto schifo ma è colpa mia che vorrei di nuovo leggere Manara sceneggiato da Pratt, non so voi. (Dvd; 2/11/06)

ddv6012 the-departed-608 – The Departed – Il bene e il male di Martin Scorsese, USA 2006
Ci concediamo un cinema e becchiamo un Martin cattivello, che ci trascina in una storia di malavita irlandese dove bene e male si confondono fino a un finale che non ti aspetti. Ma è anche l’unica cosa che mi piace veramente del film. Gli attori sono azzeccati (Mark Wahlberg, Peppino DiCaprio, un Baldwin ciccio, pure il bambolo Matt Damon) e il cast funziona nonostante un Jack Nicholson gigione da farsa e una comprimaria donna (tale Vera Farmiga, vera cagna) che mi pare un inno funebre alla chirurgia plastica e che immagino non rivedrete mai più sul grande schermo da quanto è scarsa. Musica discreta, montaggio anonimo e fotografia lattiginosa orrenda. Alla fine, che dire di ‘sto Departed? Mah, sono un po’ deluso, ma non posso prendere a pugni un uomo solo perché stato un po’ Scorsese, eh. (Cinema Orfeo, Milano; 3/11/06)

ddv6013 Heimat 2609 – Uno dei film della (mia) vita: Heimat 2 di Edgar Reitz, Germania 1993
Servirebbe una recensione vera, coi controcazzi, per manifestare la mia commozione e felicità nell’aver rivisto, dodici anni dopo, una delle opere cinematografiche più belle e complete mai realizzate. Qui dentro ci sono la giovinezza, la speranza, la musica, l’arte, la scoperta, l’amore, il tradimento, l’illusione… c’è la vita, come poche volte può capitare di esperire al cinema (l’angelo custode mi suggerisce: “Capirai: dura anche 26 ore, eh…”). Più riuscito del già splendido Heimat 1 (questo è più fluviale, meno ostico linguisticamente, più vicino come argomenti), Heimat 2 è un capolavoro – credo – inarrivabile. Dopo il primo episodio ho passato i giorni seguenti a tre metri da terra, raggiante: è un film che parla di studenti universitari che scoprono il loro ruolo nel mondo e io ho avuto la fortuna di vederlo mentre credevo di essere uno studente universitario che scopriva il suo ruolo nel mondo. Ambientato lungo tutti gli anni Sessanta fino all’alba dei Settanta, c’è tutto quello che ti aspetteresti, ma con una prospettiva intima e personale che riesce a essere universale senza mai scadere nella ricostruzione nostalgica: Kennedy, i Beatles, la rivoluzione sessuale, la lotta armata, la musica sperimentale, l’assunzione di responsabilità, Venezia come non l’avete vista mai, i campi di sterminio, il passato nazista e la sua riemersione sotto altre forme, il velleitarismo politico, la chiacchiere artistoidi, l’aria fritta e la vita concreta… Sono un cialtrone, è evidente, ma su questo film ho ragione da vendere: è unico e imprescindibile e comunica con straordinaria semplicità il senso della vita: imparare ad aspettare (dalle mie parti, più volgarmente: ghe voe tanta pasiensa). E poi, perdonatemi lo spoilerino, ma anche adesso – come dodici anni fa – continuo a pensare che alla fine Ansgar non sia veramente morto: accadrà come nei telefilm americani e si scoprirà che invece è vivo ma nascosto da qualche parte… Ridatemi Ansgar, per piacere! (Dvd; da novembre 2006 ad aprile 2007)

ddv6014 devil-wears-prada610 – L’immondo Il diavolo veste Prada di un delinquente, USA 2006
Una solenne cazzata: siamo andati al cinema di sabato e ben ci sta. I film decenti hanno le sale piccole strapiene per cui – una volta usciti, parcheggiato, preso pure la pioggia – si è costretti a vedere una schifezza come questa che ha un pubblico fittizio, costretto da martellamento pubblicitario e critici comprati con un cocktail blandamente alcolico al buffet dell’anteprima. L’immondo film è un Eva contro Eva dei giorni nostri, dove la cattiveria è tramutata in farsa e tutto sommato le porcate lavorative sono accettate con una strizzatina d’occhi perché così va il mondo. Salvo giusto Meryl Streep per antica fedeltà e  gli occhioni da cerbiatto della pettoruta Anne Hathaway – a tanto son ridotto – e rilevo che il finale orrendo è l’adeguato coronamento di questa gigantesca stronzata commessa da tale David Frankel, una di quelle che ti arrecano dolore al momento dell’espulsione, scusate il francesismo. (Cinema Ducale, Milano; 11/11/06)

ddv6016 lost625 – Lost – Seconda serie di J.J. AbramsDamon Lindelof e Jeffrey Lieber, USA 2005
Barbara mi ha fatto questo esatto sintetico suntino: “C’è della gente su un’isola”. Ah beh, come Selvaggi, dei Vanzina, quindi. “No: io non so e loro non sanno che cosa stia succedendo”. Punto. Per quanto la traduzione italica sia fastidiosa lo vedo godendomelo abbastanza fino a che (cfr. il parere #630, nella prossima puntata di questo sciagurato cinediario) non mi guardo la prima serie al confronto della quale questa seconda risulta decisamente inferiore, specialmente verso il finale quando l’apparizione di un enorme piede litico a sei dita mi getta nella più totale costernazione: gli sceneggiatori ci stanno mica a coglionare? Comunque, dài, anche Lost 2 è un bel prodottino che esalta la potenza del flashback, dà dipendenza e fa lavorare gli emisferi per capire cosa stia accadendo su ‘sta cazzo di isoletta. (Vhs da RaiDue; da febbraio a maggio ‘07)

ddv6017 Freddie Mercury628 – Queen Live at Wembley Stadium di Gavin Taylor, GB 1986
Visto (innumerevoli volte) non solo per ottusa passione musicale ma anche perché la piccola Sofia è rimasta folgorata dalla performance di Freddie Mercury, subito ribattezzato “omo nudo” a causa delle sue esibizioni a torace scoperto. La hit preferita è Bohemien Rhapsody che contiene il memorabile verso “oh mama mia”. Grande cornice di pubblico, cori a go-go, assolazzi come si deve, fumi e Freddie incontenibile: si straccia la maglietta, si fa incoronare con tanto di mantello d’ermellino e non risparmia una stilla di sudore per un pubblico che tiene in pugno (da cui anche l’accusa un po’ confusa di fascismo di Dave Marsh, su Rolling Stone…). Certo, i Queen sono stata l’ultima grande band edonistica degli anni Settanta, uber-cafona, sicuramente kitsch, senza menate e falsi moralismi (erano a Live Aid per gli etiopi? Ma va’!), ma capaci di scrivere grandissimi canzoni, spaziando dall’hard più terremotante al funk, al pop, al gospel e al vaudeville. È una mia debolezza e ho l’incubo dei Take That: Sofia non ha neanche due anni e va tirata su come si deve, eh. (Dvd; febbraio e marzo ‘07)

(Continua – 60)

Qui le altre puntate di Divine divane visioni

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