Hubert Selby jr. – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 17 Nov 2024 21:00:03 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Which side are you on? https://www.carmillaonline.com/2024/07/23/which-side-are-you-on/ Tue, 23 Jul 2024 20:00:14 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83563 di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County Che lì non ci sono neutrali O sei iscritto al sindacato Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo? Oh, ditemi come fate Sarete pidocchiosi crumiri O vi comporterete da uomini? Da che parte state? Da che parte state? (“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura [...]]]> di Sandro Moiso

Mario Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, pp.344, 23 euro

Dicono nella Harlan County
Che lì non ci sono neutrali
O sei iscritto al sindacato
Oppure sei uno scagnozzo di J. H.Blair
Oh, lavoratori, come fate a sopportarlo?
Oh, ditemi come fate
Sarete pidocchiosi crumiri
O vi comporterete da uomini?
Da che parte state?
Da che parte state?

(“Which Side Are You On?”, Florence Reece – 1931)

Mario Maffi può essere considerato tra gli studiosi italiani come uno di quelli con la più vasta conoscenza della letteratura e della cultura nordamericana. Conoscenza che, fin dagli anni Settanta, si è sempre accompagnata ad un impegno militante fortemente intriso di marxismo e al tentativo, quasi sempre riuscito, di ricollegare la lettura marxiana della realtà alla capacità di penetrare a fondo in quella che, per i seguaci più ortodossi del filosofo di Treviri, è sempre stata relegata a semplice sovrastruttura dell’attuale modo di produzione.

A dimostrarlo fu proprio l’opera prima, se così si può definire un saggio articolato nella sua prima edizione in due volumi, La cultura underground, pubblicata per la prima volta nel 1972 da Laterza e poi ripresa e rivista ancora successivamente dalla stessa casa editrice (1973 e 1980) e, nel 2009, da Odoya. Opera che, in Italia, fu forse la prima a politicizzare seriamente i differenti aspetti delle culture alternative sorte nell’ambito dei movimenti giovanili e di protesta statunitensi, a partire dalla musica fino al teatro e alla letteratura.

D’altra parte proprio la letteratura nordamericana ha costituito per Mario Maffi il vero e proprio campo di indagine di una vita professionale che si è svolta all’Università statale di Milano dove ha insegnato Cultura e letteratura anglo-americana dal 1975 al 2011. Motivo per cui, tra il gran numero di articoli, prefazioni e libri pubblicati dallo stesso, spesso anche all’estero, vanno certamente ricordati la Storia della letteratura americana pubblicata, insieme a Guido Fink, Franco Minganti e Bianca Tarozzi, da Sansoni editore nel 1991; Mississippi. Il grande fiume: un viaggio alle fonti dell’America (Rizzoli 2004 e il Saggiatore 2009); Americana. Storie e culture degli Stati Uniti dalla A alla Z, con Cinzia Scarpino, Cinzia Schiavini e Sostene Massimo Zangari (il Saggiatore 2021) oltre alle le varie indagini condotte sulla città di New York e i suoi quartieri differentemente caratterizzati sia dal punto di vista etnico che sociale.

Il motivo di questo interesse per gli Stati Uniti e le loro “culture”, spesso sovrapposte e conflittuali tra di loro alla faccia del tanto declamato melting pot, è stato ben spiegato dall’autore medesimo nell’introduzione ad Americana:

Per quasi quarant’anni, ho cercato di insegnare che cos’è l’«America», da quando nacque nell’immaginario europeo per trasformarsi in territorio di conquista, a quando divenne Stati Uniti d’America – fino a un oggi che la vede in declino. Non so se ci sono riuscito: proprio l’invadenza della sua cultura, riflesso della potenza d’un secolo e più, la rende a volte inafferrabile, indicibile, ostica al contatto che afferra – una sorta di grande Moby Dick in perpetua navigazione sulle rotte oceaniche, la cui cattura può voler dire, al contempo, un drammatico naufragio… Eppure, la frequente, rinnovata sorpresa, colta negli occhi degli studenti nell’arco di quei quasi quarant’anni, mi ha detto che, forse, sì, una percezione più articolata di questa storia, società, cultura, è passata attraversole parole pronunciate – come credo sia passata attraverso le parole scritte nei libri con cui ho cercato di sentire, afferrare e trasmettere ciò che andavo scoprendo dell’«America»1.

L’attuale saggio pubblicato dalle edizioni Shake in realtà costituisce la riedizione di una delle sue opere più importanti, La giungla e il grattacielo (Laterza 1981 e Odoya 2013), che, oltre a una revisione completa del testo con lo spostamento di un capitolo e l’aggiornamento della bibliografia, contiene due ampi capitoli aggiuntivi e uno breve finale che non comparivano né nell’edizione del 1981 né in quella del 2013. E un nuovo titolo tratto da una canzone di lotta che Florence Reece (1900-1986), attivista e moglie di un minatore e organizzatore sindacale, compose nella primavera del 1931, nel corso di un lungo e aspro sciopero nelle miniere di carbone della Harlan County (Kentucky) passato alla storia come “The Harlan County War”, durante il quale lo Stato (nella persona dello sceriffo J. H. Blair) e il padronato ricorsero a ogni mezzo, legale e illegale, per piegare la lotta dei lavoratori: Which Side Are You On? Da che parte state, appunto.

Uno degli autentici inni del proletariato americano ripreso non soltanto durante le lotte, ma anche da interpreti quali Pete Seeger, Billy Bragg, Nathalie Merchant e Ani Di Franco, solo per citarne alcuni. Come spiega lo stesso autore per motivarne l’impiego come nuovo titolo della ricerca:

mi e sembrato infatti che l’ormai celebre verso di Florence Reece fosse ancora più appropriato a un libro che tratta del modo in cui, a fronte di un acuto e incessante conflitto sociale dispiegatosi negli Stati Uniti nei decenni tra la fine della Guerra civile (1865) e il 1920, un congruo numero di scrittori e scrittrici presero posizione da una parte o dall’altra: chi a favore delle lotte proletarie e chi contro, chi con titubanza e chi con decisione, e chi in difesa del sempre risorgente “Sogno Americano”; e lo fecero con un corpus sorprendente di opere, di importanza non secondaria per la scena letteraria statunitense, oltre che per l’evoluzione dei singoli autori e delle singole autrici2.

Oggi, mentre Trump è tornato a sventolare dalla convention repubblicana di Milwaukee, il “sogno americano”, diventa indispensabile ripercorrere il cammino culturale, letterario e soprattutto di lotte, spesso sanguinose e irriducibili, che hanno portato il proletariato americano, soprattutto “bianco”, a diventare parte integrante ma non ancora del tutto integrata di quel sogno. Servito spesso più ad escludere che ad integrare, lungo le linee implacabili del “colore” e della separazione etnica e razziale. E il bel libro di Maffi, riprendendo il discorso fin dalle origini, è un validissimo strumento per comprendere l’evoluzione della presenza del proletariato nella letteratura e nell’immaginario americano.

Ecco allora passare sotto i nostri occhi le opere di scrittori come Stephen Crane, con le sue ragzze di strada e di officina; di Jack London, con i suoi proletari irriducibili e spesso, troppo, un po’ razzisti; di Theodore Dreiser e le sue ricostruzioni della Grande Mela della finanza e dello sfruttamento; di Upton Sinclair con le sue storie della “giungla” dei macelli e delle officine di Chicago; di Sherwood Andersone e dei suoi proletari bianchi del Sud; di John Reed e del suo apprendistato rivoluzionario, poi coronato dall’esperienza della rivoluzione messicana e dai Dieci giorni che sconvolsero il mondo di quella bolscevica. Senza dimenticare sia i muckracker, ovvero i giornalisti e gli scrittori che scavavano nel fango e nella melma degli scandali dell’arricchimento e dello sfruttamento, due facce della stessa medaglia venduta con il sogno, antesignani del giornalismo di inchiesta moderno; sia le dime novel, ovvero i romanzetti popolari a puntate, precursori dell’editoria e della letteratura di massa con tutti i loro miti ed eroi, destinati allo svago ma spesso riflettenti le opinioni di coloro che ne erano i principali lettori e consumatori.

Nelle pagine di Da che parte state è come se il lettore assistesse alla formazione della classe operaia americana all’interno della letteratura statunitense che, anche se inizialmente inesistente come avrebbero lamentato Eleanor Marx ed Edward Aveling nel 1891 in un loro studio sul movimento operaio nordamericano, avrebbe finito invece col costituire lo humus da cui, a partire dagli anni Trenta, si sarebbe poi sviluppata gran parte della migliore letteratura statunitense con autori come John Dos Passos, John Steinbeck, Erskine Caldwell e avrebbe allungato in qualche modo la sua ombra fino alle pagine sui poveri bianchi del Sud che avrebbero caratterizzato le opere di William Faulkner e altri. Magari fino a quella Hillbilly Elegy che è stata l’opera con cui molti americani hanno incontrato per la prima volta l’attuale candidato repubblicano alla vicepresidenza: J. D. Vance.

C’è una componente etnica sullo sfondo della mia storia. Nella nostra società, fondamentalmente ancora razzista, il vocabolario non va quasi mai al di là del colore della pelle: parliamo di «neri», di«asiatici» e di «bianchi privilegiati». A volte queste macro categorie sono utili, ma per comprendere la mia storia personale dovete entrare nei dettagli. Sì, sono bianco, ma non mi identifico di sicuro nei WASP, i bianchi anglosassoni e protestanti del Nordest. Mi identifico invece con i milioni di proletari bianchi di origine irlandese e scozzese che non sono andati all’università. Per questa gente, la pvertà è una tradizione di famiglia: i loro antenati erano braccianti nell’economia schiavista del Sud, poi mezzadri, minatori e, infine, in tempi più recenti meccanici e operai. Gli americani li chiamano hillbilly (buzzurri o montanari), redneck (collirossi o contadini) e white trash (spazzatura bianca). […] Come scriveva un osservatore, «viaggiando in lungo e in largo per gli Stati Uniti, mi sono convinto che gli americani di origine scozzese e irlandese rappresentano la sottocultura regionale più persistente e immodificabile del paese. Mentre in quasi tutte le altre zone la gente si distacca in massa dalla tradizione, le loro strutture famigliari, le loro convinzioni religiose e politiche e la loro vita sociale restano immutate. […] E’ stato lo spostamento dei Grandi Appalachi dal partito democratico al partito repubblicano a ridefinire gli assetti politici dell’America dopo Nixon. Ed è nei Grandi Appalachi che le fortune dei bianchi della classe operaia sembrano particolarmente in declino. Dalla bassa mobilità sociale alla povertà, dalla diffusione dei divorzi alla droga endemica, la mia patria è la terra dell’infelicità3.

Pagine ben lontane, per il loro intrinseco populismo, da quelle delle lotte affrontate a cavallo tra i due secoli e riportate nei testi utilizzati da Maffi; così come queste ultime sono lontane da quelle di Harvey Swados (On the Line, 1957 in Italia Alla catena, Feltrinelli) oppure di Hubert Selby Jr. (Last Exit Brooklyn, 1964, in Italia Ultima fermata Brooklyn, ancora per Feltrinelli) in cui alla sconfitta di classe si accompagna la dolorosa e definitiva presa di coscienza dell’irrealizzabilità del sogno americano.

Ma per non inseguire un discorso che ci porterebbe troppo lontano nella riflessione, torniamo al testo di Maffi e, in particolare, a una delle due nuove parti aggiunte all’edizione attuale: quella intitolata Donne al lavoro e in lotta. Estremamente attuale e ricca di spunti di riflessione, sia sui problemi legati alla classe che a quelli di genere. Soprattutto in un Occidente che sembra, soprattutto con il fenomeno Me Too, averli radicalmente e definitivamente separati.

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del successivo

il conflitto sociale, gli scioperi, lo scontro di classe alimentato dalle ricorrenti crisi economiche di un capitalismo in travolgente e caotica ascesa, conoscono punte acutissime: addirittura di quasi guerra civile, come avviene a più riprese nelle regioni minerarie dell’Ovest. Queste lotte finiscono per coinvolgere intere comunità ruotanti intorno alle fabbriche, alle miniere, ai posti (e avamposti) di lavoro: toccano tutti e tutte, mobilitano interi gruppi familiari, uomini, donne, bambini, anziani, con l’immediata e istintiva solidarietà che si sprigiona da questi eventi. Gli esempi sono numerosissimi: dall’attività clandestina dei Molly Maguires nei pozzi di carbone della Pennsylvania allo sciopero generale e alla Comune di St. Louis del 1877, dalla mobilitazione per le otto ore di lavoro culminata nei “fatti di Haymarket” a Chicago nel 1886 alle autentiche battaglie che negli anni novanta videro protagonisti per l’appunto i minatori dell’Ovest, gli operai delle acciaierie di Homestead in Pennsylvania nel 1892 e quelli della fabbrica di carrozze ferroviarie Pullman di Chicago e poi dell’intera rete ferroviaria nel 1894, la mobilitazione delle camiciaie di New York nel 1909-1910, fino ai grandi scioperi nelle fabbriche tessili di Lawrence nel Massachusetts nel 1912 e nelle seterie di Paterson nel New Jersey nel 1913… gli episodi fra i più importanti, anche dal punto di vista del coinvolgimento in essi di intere comunità e di conseguenza del ruolo decisivo che vi svolsero le donne proletarie4.

Ma, nonostante tutto ciò:

L’ancora scarsa sindacalizzazione femminile, dovuta anche alle posizioni corporative e conservatrici assunte dal maggiore sindacato, l’American Federation of Labor, rese ben più drammatica la condizione proletaria in generale, e quella delle donne proletarie in primis: e sarà solo con la nascita degli Industrial Workers of the World nel 1905, con il loro programma di mobilitazione e organizzazione delle fasce più sfruttate e marginali della manodopera americana, che la situazione comincerà a mutare, aprendosi a una diffusa presenza femminile nella mobilitazione e negli organismi di lotta dei primi due decenni del nuovo secolo5.

Questo non impedirà, però, il formarsi di una letteratura, sospesa tra saggistica e narrativa, che, pur non abbandonando talvolta le strutture della mentalità piccolo borghese di chi contribuiva a crearla, iniziava a porre le donne, soprattutto quelle giovani e immigrate, spesso di origine ebraica, al centro di vicende drammatiche che le vedevano protagoniste dei grandi scontri di classe allora in atto.

L’intento di denuncia compreso in molte delle opere elencate e riassunte da Maffi rivela anche come il realismo dell’epoca, molto vicino al naturalismo di cui Émile Zola era all’epoca maestro in Francia, contribuisse a dar vita a trame in cui elementi romantici e descrizioni ad effetto delle condizioni di vita delle classi meno abbienti finivano col sopravanzare la portata politica del messaggio contenuto in quegli stessi romanzi e novelle, troppo spesso ancora intrisi di una certa moralità borghese.

Ma tale presenza nelle lotte insieme all’attivismo politico e sindacale femminile costituiva una delle grandi novità per il movimento operaio del nascente XX secolo così come, all’altro capo del mondo, le giovani operaie di San Pietroburgo avrebbero dimostrato dando inizio, con il loro sciopero spontaneo del febbraio 1917, a quella che sarebbe poi diventata la Rivoluzione russa.

Una storia oggi rimossa, spesso dallo stesso movimento femminista borghese, timoroso di scoprire come liberazione della donna e della sessualità e lotta di classe siano inscindibilmente legate, come anche gli anni Sessanta e Settante, sia in America che in Europa e nel corso delle lotte di liberazione nazionale, avrebbero ancor dimostrato.

Così la sollevazione delle 30.000 operaie nel Lower East Side di New York avrebbe superato nella realtà le premesse contenute fino ad allora nella letteratura femminile di stampo proletario.

Nel rigido inverno del 1909-10, le operaie addette alla confezione di camicie (per lo più giovanissime immigrate di recente) bloccarono per quattordici settimane uno dei settori chiave nell’industria dell’abbigliamento che, in quegli anni, stava radicalmente trasformandosi per rispondere a un mercato di massa in espansione: il ready-made. Fu uno sciopero agguerrito, fatto di duri picchetti, di ripetuti scontri con la polizia, di raffiche di arresti (seicentocinquantatre) e di pesanti condanne da parte di una magistratura invariabilmente schierata dalla parte del padronato e dello Stato (nell’emettere una sentenza, il famigerato giudice Olmstead ebbe a dichiarare: “Siete scese in sciopero contro Dio e contro la Natura, la cui legge intoccabile è che l’essere umano si procaccia il cibo con il sudore della fronte. Siete scese in sciopero contro Dio”).
Le camiciaie di New York seppero dunque dare vita a un sindacato fino a quel momento osteggiato, e la loro lotta si accompagnò a una grande mobilitazione nel Lower East Side, da cui in massima parte provenivano – preludio ai conflitti degli anni seguenti che videro scendere in piazza piu di 100.000 lavoratori e lavoratrici dell’industria dell’abbigliamento. E la trasformazione dello sciopero di settore in sciopero generale è espressa in maniera appassionata dall’intervento in yiddish della ventitreenne Clara Lemlich all’assemblea del 22 novembre 1909. Dopo avere assistito a due ore di inutili discorsi da parte dei rappresentanti sindacali, la ragazza prese la parola e proclamò: “Sono un’operaia. Una di quelle che sono scese in sciopero contro condizioni intollerabili. Sono stanca di stare a sentire interventi che parlano in termini generali. Noi siamo qui per decidere se scioperare o meno. Propongo una mozione perché venga dichiarato lo sciopero generale – adesso!”.
La sala esplose in un uragano di applausi, seguito a gran voce dal giuramento modellato sul tradizionale giuramento ebraico di fedeltà alla causa: “Se dovessi mai tradire ciò per cui mi batto, che la mia mano possa avvizzire sul braccio che ora levo”. La quasi totalità delle 30.000 operaie scese in lotta nei giorni immediatamente successivi, appoggiata da altri settori del mondo del lavoro newyorkese6.

La vicenda sarebbe stata narrata in poco meno di cento pagine, in The Diary of a Shirtwaist Striker. A Story of the Shirtwaist Makers’ Strike in New York (pubblicato nel 1910 dalla Co-operative Press di New York) sotto forma di un “diario” (dedicato alle “eroine senza nome” di quella lotta clamorosa), che si immagina scritto tra il 23 novembre 1909 e il 23 gennaio 1910 da Mary, un’operaia americana. La vera autrice del “diario” fu, invece, Theresa Serber (1874-1949), nata nei dintorni di Kiev in una famiglia russo-ebrea che giunse negli Stati Uniti nel 1891, andando a vivere e lavorare nel Lower East Side. Dopo aver trovato impiego come mantellaia, Theresa da subito iniziò a occuparsi delle condizioni di vita e lavoro nel settore e per tutta la vita si occupò della condizione femminile e dell’educazione delle donne immigrate, schierandosi contro l’orientamento del femminismo piccolo-borghese; mentre nel 1917, prese apertamente posizione contro l’ingresso in guerra degli Stati Uniti.

Per sole ragioni di spazio occorre, purtroppo, chiudere qui la recensione di un testo che meriterebbe ancora ben altre riflessioni e annotazioni, con la speranza di essere comunque riuscito nell’intento di stimolare l’interesse delle lettrici e dei lettori nei suoi confronti e in quelli del suo autore e delle sue ricerche sulla lotta di classe e la cultura americana


  1. M. Maffi, Introduzione a M. Maffi, C. Scarpino, C. Schiavini e S.M. Zangari, Americana, il Saggiatore, Milano 2021, p. 14.  

  2. M. Maffi, Da che parte state. Narrazioni, conflitti sociali e “sogno americano” 1865-1920, Shake Edizioni, Milano 2024, p. 8.  

  3. J. D Vance, Elegia americana, Garzanti 2020  

  4. M. Maffi, op.cit., p. 230.  

  5. Ibidem, p. 231.  

  6. Ivi, pp. 243-244.  

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La luminosa oscurità del signore della Grande Mela https://www.carmillaonline.com/2023/12/13/loscurita-luminosa-del-signore-della-grande-mela/ Wed, 13 Dec 2023 21:00:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=80314 di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena [...]]]> di Sandro Moiso

Will Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma ottobre 2023, pp. 775, 28 euro

La musa per eccellenza di Lou Reed era New York con la sua bellezza selvaggia e cacofonica, le seduzioni, i pericoli e i milioni di storie. Al concerto che organizzò per i suoi cinquant’anni al Madison Square Garden nel 1997, David Bowie presentò Lou Reed – l’ospite più importante della serata – come il « re di New York». (Will Hermes – Lou Reed)

Occorre iniziare da questo rapido appunto dell’autore della monumentale biografia di Lou Reed, appena pubblicata da Minimum Fax, per entrare nel mondo vasto, complesso e ramificato che ha dato vita e ispirazione ad una delle più importanti leggende del rock.

A differenza di altre biografie dello stesso musicista, che hanno dato più spazio alle testimonianze di chi aveva conosciuto Lewis Allan Reed (1942- 2013) come quella di Victor Bockris pubblicata per la prima volta nel 1994 e in Italia nel 1999, quella di Will Hermes cerca di ricostruire con estrema accuratezza l’humus non soltanto sociale, ma anche, e forse soprattutto, culturale e letterario da cui è sorta la figura di uno dei protagonisti della scena musicale della seconda metà del ‘900.

Figura che soltanto una metropoli come New York e nessuna altra al mondo avrebbe potuto creare. Una figura che nelle innumerevoli contraddizioni che l’hanno caratterizzata ha saputo spesso, e probabilmente in maniera involontaria, riassumere quelle di una città mondo in cui l’arte moderna si è incontrata con gli slum degli immigrati più poveri, la violenza con la gioia di vivere, le culture ebraiche della diaspora con quella degli afro-americani di Harlem, l’oscurità dei vicoli dello spaccio e delle innominabili prestazioni sessuali con la luce del Central Park (dove comunque, in prossimità di uno degli ingressi, fu ucciso John Lennon proprio da un ammiratore), la Statua della Libertà con le osservazioni caustiche e feroci di Le Roi Jones sul razzismo americano, l’innovazione jazzistica e letteraria con le ambientazioni di tanti film noir e i concerti alla Carnegie Hall durante i quali furono presentate per la prima volta al pubblico opere di Antonin Dvořák, Richard Strauss, George Gershwin, Sergej Rachmaninov, Arnold Schönberg, Duke Ellington, Igor’ Fëdorovič Stravinskij, Olivier Messiaen, Edgard Varèse e Philip Glass, solo per citare alcuni compositori e tralasciandone molti altri altrettanto famosi.

Una sala da concerto che da sola già potrebbe riassumere tanta dell’esperienza musicale poi rimaneggiata da Lou Reed e che portava in sé sia le stimmate del grande capitalismo industriale, essendo stata costruita nel 1890 per volontà di Andrew Carnegie uno dei magnati più importanti dell’acciaio americano e delle sue guerre, che della cultura di massa, oltre che colta, legata alla musica di largo consumo, avendo ospitato sulla sua scena, tra i tanti, i Beatles, David Bowie, Shirley Bassey, i Jethro Tull, i Rolling Stones, Frank Sinatra, Neil Young, Ike e Tina Turner e infiniti altri protagonisti della musica pop, rock e soul.

Elenchi qui riportati soltanto per far comprendere il composito quadro culturale di una città che, probabilmente, dagli anni Quaranta fino all’inizio del XXI secolo ha costituito una specie di capitale mondiale della cultura moderna; in cui ha mosso i primi passi da gallerista Peggy Guggenheim e straziato le corde delle chitarre elettriche il primo punk dei gruppi che si esibivano al CBGB, situato al 315 della Bowery nel Lower East Side di Manhattan.

Gruppi che, e qui è possibile ricollegarsi al protagonista della biografia di Hermes, tutti dovevano o traevano qualche ispirazione dal gruppo di cui Lou Reed, con la spinta di Andy Warhol e l’aiuto di John Cale e degli altri componenti della band, Maureen Tucker, Sterling Morrison e la cantante e modella di origine tedesca Nico, dalla bellezza algida e statuaria, era stato la mente e il motore principale fin quasi alla fine di quella esperienza: i Velvet Underground.

Per gli standard dell’epoca, i Velvet Underground non furono mai un gruppo di successo: non ebbero mai un singolo in classifica, negli Stati Uniti suonarono sempre in piccoli club, almeno fino alla reunion degli anni Novanta e per un certo periodo i loro dischi andarono persino fuori catalogo. Erano un segreto condiviso da pochi e illuminati seguaci, oppure da altri artisti: interpretare una canzone di Lou Reed indica ancora oggi l’appartenenza a una corporazione di arti oscure all’avanguardia estetica1.

Il percorso musicale di Lou, però, era iniziato prima, come dimostrano anche i nastri recentemente pubblicati o ripubblicati grazie alla New York Public Library for Perfoming Arts, che ha acquisito nel 2017 l’intero lascito artistico del cantautore statunitense che ripercorre il suo tragitto artistico dai primi passi dello stesso nelle band di cui aveva fatto parte ancora ai tempi delle high school fino agli ultimi concerti del 2013; con particolare attenzione rivolta ai materiali della Sister Ray Enterprises, la società che aveva fondato per supervisionare il catalogo di tutto ciò che aveva prodotto sia in tour che in sala di registrazione.

Reed cominciò la sua carriera scrivendo canzoni d’amore, di solitudine e di persone imperfette, argomenti comuni del rock’n’roll rivolto a un pubblico di adolescenti, l’unico concepibile per quel tipo di musica negli anni Cinquanta e primi Sessanta. Ma le sue prime canzoni parlano anche di droga, violenza domestica, psicologia di genere, dipendenza, rapporti BDSM. Tutti argomenti radicali e rivoluzionari nel 1966, l’anno in cui il gruppo registrò il disco di debutto, The Velvet Underground & Nico. Quando oggi canzoni con argomenti analoghi entrano in classifica è difficile immaginare quanto fosse inaudito all’epoca «il manifesto programmatico» di Reed: «prendere il rock’n’roll, il formato pop e farlo diventare un genere per adulti. Con argomenti da adulti, scritto in modo che potesero ascoltarlo persone come me»2.

Le dichiarazioni tra virgolette sono state rilasciate da Lou Reed al giornalista Bill Flanagan per un libro di quest’ultimo tratto da varie conversazioni avute con cantautori rock3. Ma ci ricordano ancora una volta, semmai ce ne fosse bisogno, la complessità del lavoro di Reed, quasi fin dagli esordi e l’assoluta mancanza di quell’improbabile innocenza che fu invece troppe volte e talvolta esageratamente sbandierata dalle parti della California e dei musicisti di San Francisco in quegli stessi anni.

Va qui sottolineato che Hubert Selby jr., è stato per Reed sicuramente un autore di riferimento con il suo Ultima fermata a Brooklyn (1964 – prima edizione italiana Feltrinelli 1966), ambientato a New York nel 1952, durante la guerra di Corea. Un romanzo corale in cui, per la prima volta, alle tematiche di lotta sindacale si intrecciano quelle riguardanti sessualità irrisolte e confuse, consumo di droghe pesanti e dipendenze varie, tali da proporre per la prima volta in assoluto un’immagine del proletariato americano e del suo sempre più prossimo sottoproletariato assolutamente realistica, lontana mille miglia dal realismo ottocentesco e del primo Novecento e tale da far apparire i protagonisti delle storie ambientate nelle periferie romane da Pasolini come innocui personaggi di una storiella per bambini (immaturi).

E’ in quest’ansa della letteratura statunitense che si colloca la scrittura di Reed che, come ricorda Hermes, scriveva sicuramente per esorcizzare i suoi demoni, anche se ciò non toglie che la sua scrittura fosse militante.

Di regola, non era un autore esplicitamente politico, ma fin dai primissimi nastri e demo – la cover di Blowin’ in the Wind di Bob Dylan, uno dei musicisti che più lo hanno influenzato e in un certo senso un suo rivale; oppure l’evocazione della battaglia per i diritti civili in Put Your Money on the Table – ha messo in discussione lo status quo. Persino Heroin, se la si ascolta con attenzione, è una canzone politica, quanto mai rilevante in un’epoca di interminabile crisi degli oppioidi. E naturalmente c’è New York, il suo disco più coerente e appagante, in cui attacca l’avidità, l’ipocrisia e la corruzione del sistema politico ed economico americano, e il suo influsso sulla vita dei ricchi e dei poveri per le strade della sua città4.

Lì la Statue of Liberty diventa la Statue of Bigotry, probabilmente anche per effetto dell’influenza che Laurie Anderson, compositrice d’avanguardia e raffinata performer che fu sua complice, compagna e moglie per più di due decenni, esercitò sulla sua vena creativa. Così come, dal punto di vista musicale, aveva fatto invece John Cale negli anni iniziali dei Velvet Underground.

Il secondo, nato nel Galles del sud, in una zona fortemente industrializzata e che non parlò inglese fino a quando non iniziò ad andare a scuola all’età di sette anni, dopo aver imparato a suonare la viola (poi elettrica nei Velvet), finita l’accademia, aveva viaggiato attraverso gli Stati Uniti, grazie ad una borsa di studio, per continuare i suoi studi musicali e arricchire il suo bagaglio di esperienza, grazie all’aiuto e all’influenza di Aaron Copland e, si dice, di Leonard Bernstein.

Una volta arrivato a New York, aveva avuto modo di incontrare vari influenti compositori ed entrò in contatto con la “controcultura” della metropoli. Nel settembre 1963, insieme a John Cage e a molti altri, Cale partecipò a una maratona pianistica lunga diciotto ore che fu la prima rappresentazione integrale dell’opera, di Erik Satie, Vexations. Dopo la performance entrò a far parte dell’ensemble musicale diretto da La Monte Young e in seguito, nel 1965, conobbe Lou Reed.

Così mentre Cale portò nei Velvet e in Reed l’influenza dell’avanguardia musicale europea, legata al movimento Fluxus, e americana, Lou Reed avrebbe portato l’influenza del rock’n’roll, di Dylan, della musica nera (jazz e blues) e della vita delle strade di New York. Il gioco era fatto e niente sarebbe più andato per il verso “giusto”.

In effetti Lewis Allan Reed era l’incarnazione della scena artistica della New York del secondo dopoguerra. Si innamorò del rock’n’roll e del doo wop newyorkese e regisrò il primo singolo alla fin degli anni Cinquanta […] Al college studiò scrittura con il poeta modernista Delmore Schwartz, che divenne il suo mentore artistico e di cui non smise mai di tessere le lodi […] Reed vide il quartetto di Ornette Coleman durante i leggendari concerti al Five Spot café nel 1959 e ne fu profondamente colpito […] e fondò una rivista letteraria che prendeva il nome da Lonely Woman di Coleman, da lui spesso citato come il suo pezzo preferito in assoluto5.

Questo, e molto altro ancora, rivela la biografia di Reed scritta da Will Hermes: dei suoi infernali scatti d’ira, della sua dolcezza, della serenità in attesa della morte mentre si cullava in una vasca d’acqua calda, ma soprattutto di un percorso intellettuale, letterario e musicale che si rivela ben più interessante delle vicende legate agli elettroshock cui fu sottoposto in giovane età oppure alla sua bisessualità e alle dipendenze. Anche se tutto ciò fu sicuramente presente nella su opera complessiva.

Il testo di Hermes rappresenta, forse, per tutti questi motivi il più interessante scritto fino ad ora su un musicista e intellettuale che, anche se spesso ombroso e difficile, ha sparso intorno a sé una luce estremamente originale, contribuendo a illuminare l’universo-mondo che più intensamente ha vissuto e contribuito a ricreare nell’immaginario contemporaneo: The Big Apple, New York.


  1. W. Hermes, Lou Reed, il re di New York, Edizioni minimum fax, Roma 2023, p. 10.  

  2. W. Hermes, op. cit., pp. 9-10.  

  3. B. Flanagan, Written in My Soul. Conversations with Rock’s Great Songwriters, Contemporary Books 1987. In Italia pubblicato come B. Flanagan, Scritto nell’anima. 29 interviste ai grandi del rock, Arcana 2001.  

  4. W. Hermes, op. cit., p. 23.  

  5. Ivi, p. 12.  

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