Horror – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Esperienze estranee alla norma https://www.carmillaonline.com/2024/05/29/esperienze-estranee-alla-norma/ Wed, 29 May 2024 20:00:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=82613 di Sandro Moiso

William Sloane, Attraverso la notte, Introduzione di Stephen King, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 279, euro 19,00

«Non mi vengono in mente altri romanzi come questi, per stile e per sostanza. Il mio unico rimpianto è che William Sloane non abbia continuato a scriverne. Se l’avesse fatto, sarebbe forse diventato un maestro del genere o ne avrebbe creato uno completamente nuovo.» (Stephen King)

William Sloane potrebbe costituire una “scoperta” tardiva per gli appassionati di letteratura fantastica italiani e per questo non stupisce il fatto che, come già in altre occasioni passate, siano proprio le edizioni Adelphi a [...]]]> di Sandro Moiso

William Sloane, Attraverso la notte, Introduzione di Stephen King, Adelphi Edizioni, Milano 2024, pp. 279, euro 19,00

«Non mi vengono in mente altri romanzi come questi, per stile e per sostanza. Il mio unico rimpianto è che William Sloane non abbia continuato a scriverne. Se l’avesse fatto, sarebbe forse diventato un maestro del genere o ne avrebbe creato uno completamente nuovo.» (Stephen King)

William Sloane potrebbe costituire una “scoperta” tardiva per gli appassionati di letteratura fantastica italiani e per questo non stupisce il fatto che, come già in altre occasioni passate, siano proprio le edizioni Adelphi a proporre uno dei suoi unici due romanzi nella collana Fabula con il numero 403. Una casa editrice certo non dedita in maniera specialistica alla letteratura fantastica, fantascientifica o horror che spesso, però, ha contribuito a diffondere in cerchie di lettori non esclusivamente appassionati alla letteratura di genere.

Questa non esclusività delle scelte editoriali ha fatto sì che sulle pagine dei suoi volumi siano stati riscoperti e rivalutati autori come Theodore Sturgeon, Georges Simenon con i suoi romanzi basati sulla figura dell’ispettore Maigret oppure Mervyn Peake e Shirley Jackson, soltanto per citarne alcuni. Contribuendo, senza grandi formulazioni teoriche o di principio, ad un recupero degli stessi e della migliore letteratura di genere in un ambito letterario che, nell’Italia degli abominevoli e mortiferi “studi classici”, troppo spesso aveva bellamente ignorato la loro importanza.

William Milligan Sloane III (15 agosto 1906, Plymouth Massachusetts – 25 settembre 1974, New York) potrebbe essere un altro di questi. Con soli due romanzi alle spalle, lo scrittore americano sembra infatti meritare un riconoscimento sia per quanto riguarda la letteratura fantscientifica che horror e fantastica, anche se in quello appena tradotto da Gianni Pannofino coesistono anche elementi di thriller che lo avvicinano alla letteratura inglese del mistero.

Laureatosi all’Universtà di Princeton nel 1929, Sloane è conosciuto principalmente per il suo romanzo To Walk the Night ora tradotto come Attraverso la notte, pubblicato in origine nel 1937.
La sua maggiore attività, però, non fu quella di scrittore avendo lavorato per più di 25 anni per diversi editori. Nel 1946 aveva fondato una sua casa editrice, la William Sloane Associates, che nel 1952 sarebbestavvenduta ad un’altra società. Dal 1955 fino alla sua morte fu direttore della Rutgers University Press del New Jersey.

Le sue altre opere furono comunque quasi tutte dedite alla letteratura o al teatro di genere fantastico o fantascientifico. Tra queste si possono enumerare: Back Home (1931, un dramma di fantasmi in un atto); Runner in the Snow (1931, un’opera del soprannaturale in un atto); Crystal Clear (1932, un’opera teatrale fantasy); The Edge of Running Water (1939, romanzo di fantascienza con elementi horror; adattato come il film The Devil Commands) di prossima pubblicazione presso Adelphi; Space, Space, Space: Stories About the Time When Men Will Be Adventuring to the Stars (1953) e Stories for Tomorrow: An Anthology of Modern Science Fiction (1954), due raccolte di racconti, queste ultime, entrambe curate dallo stesso Sloane.

I due romanzi To Walk the Night e The Edge of Running Water dopo essere stati stati ripubblicati insieme come The Rim of Morning nel 1964, sono stati ristampati nel 2015 con un’introduzione di Stephen King, che è anche quella che accompagna e introduce l’attuale edizione italiana. In cui il maestro dell’orrore ci informa che «nel 1937, in occasione di un pranzo di gala, Sloane conobbe Carl Gustav Jung e scoprì con una certa sorpresa che il grande psicoanalista aveva letto Attraverso la notte (nella sua forma teatrale originaria) e riteneva che l’idea centrale del libro, quella di una « mente itinerante », rispecchiasse con esattezza la sua idea di anima quale archetipo astratto e quasi soprannaturale dell’inconscio.»1.

Infatti, l’opera in questione, pur iniziando nel più classico dei modi della letteratura americana di fantascienza o dell’orrore, ovvero con un resoconto di un dramma di cui la maggioranza della società rimarrà e, probabilmente, dovrà rimanere all’oscuro per il proprio bene, non può essere pienamente ascrivibile né alla fantascienza, né al mistery e all’horror. Pur contenendo elementi di tutti e tre i generi e, come ancora afferma King:

Ignorando le convenzioni dei generi, i romanzi di Sloane risultano opere letterarie a tutto tondo.
Non di grande letteratura, forse: non è l’argomento che voglio trattare qui. Se si è in cerca della grande letteratura americana degli anni Trenta bisognerà rivolgersi a Hemingway, a Faulkner e a Steinbeck. Se tuttavia si confrontano questi romanzi con ciò che allora veniva pubblicato su riviste di fantascienza quali « Thrilling Wonder Stories » o su riviste pulp come « Weird Tales », salta all’occhio la differenza nella lingua e nello stile, nei temi e nelle ambizioni!
Sloane costruisce i suoi racconti con paragrafi accuratamente cesellati, sempre limpidi e diretti. È un uomo vecchio stampo, con un’ottima preparazione scolastica […] e aveva doti narrative non indifferenti da unire alle capacità di scrittura essenziali. […] Malgrado qualche orpello fantascientifico (semplici automatismi dell’autore, in realtà) e alcune convenzioni del romanzo mystery […] In Attraverso la notte, scopriamo che nel corpo di Luella Jamison, una giovane ritardata, si è insediata una mente incorporea – forse una forma di vita aliena giunta dallo spazio, forse un’intelligenza umana appartenente a un altro flusso temporale o a un’altra dimensione –, trasformandone la stolidità in algida bellezza classica.
Nelle mani degli autori horror suoi contemporanei – H.P. Lovecraft, Clark Ashton Smith, August Derleth – concetti spaventosi di questo tipo sarebbero stati resi con una prosa altisonante e forbita [ma] Non è mia intenzione, qui, criticare Lovecraft – sono tante le ragioni per cui gli scrittori coevi lo imitavano –, ma Sloane è più modesto nel suo approccio, più razionale, e questo rende le sue opere più accessibili e, in fin dei conti, più perturbanti. Sloane, inoltre, era capace di scrivere dialoghi serrati, una dote che pochi autori horror del periodo sembrano possedere.
[Inoltre] Lovecraft non avrebbe mai considerato la possibilità di accentuare l’orrore per mezzo dell’umorismo. In primo luogo, questa soluzione non corrispondeva alla sua concezione classica del genere; e poi Lovecraft (come molti scrittori horror passati e presenti) sembra privo di senso dell’umorismo. In questi due romanzi, invece, l’umorismo funziona, e a meraviglia2.

Sono esperienze incomprensibili, estranee alla vita di tutti i giorni, quasi aliene, “condannate per un certo tempo a errare nella notte” prima che la mente umana possa riconoscerle per ciò che sono o liquidarle come semplici fantasie, quelle al cuore del primo dei due romanzi scritti da William Sloane. In cui la vicenda ha inizio una notte del 1936, quando due giovani in visita alla loro ex università, trovano il professor LeNormand, luminare di astronomia, avvolto da un fuoco “mai visto”, simile a “un parassita che lo possedeva e lo consumava, apparentemente dotato di vita propria”. Fiamme che ne carbonizzano il corpo risparmiano tutto il resto, compresi i vestiti e le carte su cui stava lavorando. Costringendoli a chiedersi chi è davvero Selena, l’intelligentissima, enigmatica moglie di LeNormand, comparsa dal nulla tre mesi prima, in apparenza senza passato e senza età, e destinata a sconvolgere anche la loro vita dei due giovani. Per scoprirlo dovremo attraversare, insieme al superstite dei due, una notte che avrà i contorni di un incubo, ricostruire da capo una storia «tragicamente illogica e inspiegabile», e lasciare ogni certezza, perché forse la soluzione «sta in ciò che non sappiamo».

E’ l’ignoto il motivo di ogni autentico terrore, così come l’abisso e il vuoto che sembrano circondare la vita di ognuno, le speranze e il tentativo di dare una spiegazione razionale alla solitudine (almeno apparente) della specie umana nell’universo e alla morte che sembra costituire l’unico autentico destino della stessa. Non nascondiamocelo, Chambers nel suo Re in giallo (1895) avrebbe parlato di “stelle nere”, Lovecraft di un tempo che dopo innumerevoli eoni è destinato anch’esso a morire e di “dei ciechi e idioti che ballano nudi al centro del cosmo”, ma Sloane ci avvicina allo stesso orrore attraverso la figura affascinante e perturbante, allo stesso tempo, di una donna algida e sensuale. Cosa che il solitario di Providence non avrebbe mai saputo o potuto fare nel corso dell’intera sua opera. Motivo per cui, probabilmente, Robert Bloch avrebbe poi incluso Attraverso la notte tra i suoi romanzi horror preferiti.

Va segnalata, infine, nel contesto di una casa editrice che ha fatto dell’eleganza delle copertine un proprio tratto distintivo, l’illustrazione bellissima e inquietante di Nina Bunjevac scelta per la cover, destinata certamente a suscitare l’attenzione delle lettrici e dei lettori più curiosi.


  1. S. King, Introduzione a W. Sloane, Attraverso la notte, Adelphi Edizioni, Milano 2024, p. 12.  

  2. Ibidem, pp. 13-16.  

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Figlio di una mummia https://www.carmillaonline.com/2022/10/12/figlio-di-una-mummia-2/ Tue, 11 Oct 2022 22:01:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73162 di Valerio Evangelisti

[Questo testo è stato pubblicato per la prima volta su Letture del marzo 2003.]

Se non sbaglio, il primo romanzo horror che lessi fu nientemeno che Dracula di Bram Stoker, nell’edizione Pocket Longanesi. Mi piacque moltissimo, ma non ne fui spaventato più di tanto. Il cinema mi aveva già preparato a ben altri orrori; i sogni, anche. Circa l’horror cinematografico, l’impatto più forte fu non con un film intero, ma con un provino. Dovevo avere sei o sette anni quando, in un cinema parrocchiale di Bologna, dopo una [...]]]> di Valerio Evangelisti

[Questo testo è stato pubblicato per la prima volta su Letture del marzo 2003.]

Se non sbaglio, il primo romanzo horror che lessi fu nientemeno che Dracula di Bram Stoker, nell’edizione Pocket Longanesi. Mi piacque moltissimo, ma non ne fui spaventato più di tanto. Il cinema mi aveva già preparato a ben altri orrori; i sogni, anche.
Circa l’horror cinematografico, l’impatto più forte fu non con un film intero, ma con un provino. Dovevo avere sei o sette anni quando, in un cinema parrocchiale di Bologna, dopo una pellicola per bambini passarono il trailer de La mummia di Terence Fisher. Quella notte quasi non riuscii a dormire: nella mia cameretta, vedevo la mummia in ogni ombra più scura e apparentemente più mobile delle altre.

Il fatto è che i miei genitori erano rigidissimi nell’evitarmi qualsiasi spettacolo o lettura che potessero suscitare in me paura o sensazioni troppo forti. Se alla televisione passava un film da loro giudicato “impressionante” (era il termine che usavano), mi impedivano di vederlo e mi mandavano a letto. Con risultati contrari alle aspettative, perché dalla mia camera coglievo brani di dialogo, dal televisore di casa o da quelli altrui. Così mi abituai a dare corpo a quei dialoghi con le mie fantasie. E i risultati, è inutile dirlo, erano molto più impressionanti delle immagini del film proibito.
Mi scoprii a ricercare l’horror in tutte le sue forme per trarlo dalla sfera dei sussurri e per renderlo palese, in modo da poterlo esorcizzare. Dopo lo shock de La mummia, per esempio, disegnai una storia a fumetti, ispirata ai pochi fotogrammi del film che avevo colto. Raccontai ai compagni di scuola una versione immaginaria della pellicola, lunghissima e ricca di traversie. Mi trasformai in esperto di mummie. Insomma, quanto più i miei genitori si facevano rigidi (arrivarono a giudicare “impressionanti” i Gialli di Topolino e a proibirmene la lettura!), tanto più divenivo io stesso produttore di horror.

I sogni mi aiutavano. Ne ricordo due che mi spaventarono sul serio. In uno scivolavo nell’imbuto di una scala a chiocciola priva di gradini (chiaro riferimento al trauma della nascita), in un altro mi appoggiavo a una parete e quella cedeva. In pratica, ciò che mi impressionava era l’ignoto, sia come buio in attesa, sia come sovvertimento delle leggi consuete e confortanti.
Forse è per questo che, ormai adulto, non provo il minimo fremito davanti alle storie di Dario Argento e ai libri e ai film dedicati ai serial killers. Lame, scuri e coltelli (elementi tipici dei film di Argento) non rientrano nel mio arsenale di paure recondite. Lo splatter può destarmi raccapriccio, ma mai orrore vero. Ciò che mi turba (anche se adesso non mi terrorizza più) è l’irrazionale, l’inspiegabile; se possibile suggerito, più che mostrato.

L’horror capace di spaventarmi, sia nella letteratura che nel cinema, e che dunque mi appassiona di più (a parte l’ammirazione tutta estetica per il romanticismo delle grandi storie di vampiri e di mostri), è quello che sa raggiungere la mia sfera onirica. E che, di conseguenza, mi riporta alla condizione di bambino chiuso nella mia cameretta, pronto a individuare nelle sfumature più cupe del buio lo sguardo spento di una mummia a braccia tese.

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Immagini femminili nell’horror italiano https://www.carmillaonline.com/2022/10/02/immagini-femminili-nellhorror-italiano/ Sun, 02 Oct 2022 20:00:40 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73937 di Gioacchino Toni

Guido Colletti, La lama nel corpo. Immagini femminili nell’horror italiano, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 208, € 18,00

Nel cinema italiano sembra esistere uno stretto legame tra l’horror e la figura femminile nella sua tendenza ad assumere un ruolo sacrificale nell’immolarsi, come richiede il genere, per spaventare lo spettatore, ma, non di rado, anche per solleticarne il desiderio erotico.

Nei gender studies statunitensi degli anni Ottanta e Novanta, studiose come Linda Williams, Barbara Creed, Judith Halberstam e Isabel Cristina Pinedo hanno prodotto importanti analisi circa il ruolo della donna, sia come [...]]]> di Gioacchino Toni

Guido Colletti, La lama nel corpo. Immagini femminili nell’horror italiano, Mimesis, Milano-Udine, 2022, pp. 208, € 18,00

Nel cinema italiano sembra esistere uno stretto legame tra l’horror e la figura femminile nella sua tendenza ad assumere un ruolo sacrificale nell’immolarsi, come richiede il genere, per spaventare lo spettatore, ma, non di rado, anche per solleticarne il desiderio erotico.

Nei gender studies statunitensi degli anni Ottanta e Novanta, studiose come Linda Williams, Barbara Creed, Judith Halberstam e Isabel Cristina Pinedo hanno prodotto importanti analisi circa il ruolo della donna, sia come attrice che come spettatrice, nel genere horror.

In ambito italiano Roberto Curti, Stefano Della Casa e Deborah Toschi hanno mostrato come nel cinema gotico nazionale degli anni Sessanta la figura femminile sia costruita in modo tale da esercitare un ruolo perturbante sull’universo maschile attraverso una carica sessuale decisamente maggiore rispetto alle analoghe produzioni anglosassoni, utile a soggiogare gli antagonisti maschili rendendoli, in diversi casi, “strumenti malvagi per procura” del maligno che coincide, in ultima istanza, con la donna1.

Riprendendo tali studi il libro di Guido Colletti estende l’indagine ad un campione di film che arriva alla fine degli anni Ottanta ricercandovi «forme di ricorsività di “tipi” femminili invariati, che assumono via via “travestimenti” e caratterizzazioni diverse, nel corso dei vari decenni».

Convinto che il corpo e gli stereotipi femminili riassumano parte importante delle contraddizioni sociali italiane, basate su potere, conservatorismo e progresso, Colletti ricostruisce l’evoluzione storica del cinema horror italiano a partire dal ruolo che in esso ha il corpo femminile nella sua funzione di attrazione perturbante, nell’ambito dei rapporti tra generi, sia dal punto di vista spettatoriale che della narrazione diegetica e nel sistema dei personaggi.

Nell’ambito di una storicizzazione del “cinema di genere”, il “genere” […], è assunto come processo dinamico dipendente dalle fluttuazioni del mercato, dalla storia e dai gusti dello spettatore, anziché un’ entità strutturale fissa; può essere letto, perciò, da due prospettive differenti, talvolta non escludentesi tra loro.
Nella “funzione rituale”, il genere è creato dal pubblico, investito di significato, gli schemi narrativi dei testi si basano su pratiche sociali esistenti, superando eventuali contraddizioni delle pratiche stesse e offrendo soluzioni immaginative attraverso l’uso della metafora e la possibilità di nuove interpretazioni; nell’approccio ideologico, invece, il genere è un mezzo del potere per ipocritamente ingannare il pubblico con il mezzo d’intrattenimento e dare dei messaggi che rispondono agli interessi governativi.
È, tuttavia, l’approccio rituale quello che, nella trattazione di un genere, sembra essere più confacente allo spirito e agli obiettivi teorici di questo studio.
L’accostarsi alla funzione rituale permette quindi di non relegare la schematizzazione narrativa di genere soltanto a puro e semplice fenomeno commerciale di massa (core society), ma di renderla avvicinabile anche a un discorso d’autore. Questo secondo aspetto è decisamente importante per il cinema italiano, ove la permeabilità tra cinema d’autore e cinema di genere si fa più evidente a partire dagli anni Settanta, nel tentativo di occultare il dispositivo dell’enunciazione (p. 9).

Rispetto a studi esistenti incentrati sul gotico italiano, oltre ad ampliare, il periodo temporale esaminato, Colletti allarga, come detto, la sua analisi al thriller e allo splatter. L’aver assegnato centralità alla figura femminile nella sua disamina aggiunge alla ricostruzione storica dei film di genere aperture attinenti al ruolo della donna nel cinema del terrore. «La questione del corpo femminile è, quindi, in primis il traitd’union che lega segno filmico e teorie di gender, anche a livello comunicazionale: attività semantico-rappresentativa e cognitivo-ricettiva».

Il ricorso a una metodologia di analisi di tipo comparativo, inoltre, consente di evidenziare i legami tra narrazione cinematografica e aspetti culturali e semiotici. «L’enunciazione del dispositivo cinematografico consente di leggere, quindi, sì la corporeità come simulacro del desiderio, ma anche di problematizzarla in chiave socio-antropologica, con particolare riferimento all’uso mediatico della donna».

Degli oltre trecento film italiani censiti tra il 1957 e il 1989 è stata verificata la presenza femminile nelle singole opere ed è stata posta «l’attenzione sulla donna come corpo-attore, ovvero personaggio con più peso narrativo, ma anche persona qualitativamente delineata e definita secondo un caleidoscopico campionario di ricorrenti tratti somatici, modi di atteggiarsi, caratteri e principali stereotipi».

Nella sezione del volume dedicata ai corpi femminili sulla carta stampata – “Adult comics e cartellonistica” – , lo studioso allarga ulteriormente l’analisi toccando il «discorso sui film, le interrogazioni e le risposte della critica e dell’opinione pubblica sulla violenza e sull’erotismo al cinema».

Mentre nel film al corpo della donna è almeno concesso di essere “corpo di personaggio” senziente e parlante e, in taluni casi, complesso, a tutto tondo, la carta stampata ne propone una versione piatta, muta e, soprattutto, priva di sviluppo.

La donna diventa un passivo oggetto sul quale si condensa lo sguardo, trasformandolo in “spettacolo” epifanico; in opposizione alla dimensione teticolineare della narrazione, che si fa attiva e progredisce, sulla donna si blocca lo sguardo: la trama di un film non c’è più, c’è soltanto il suo simulacro al femminile, che, però, funge, al tempo stesso, anche da ostacolo al racconto.
Da questo punto di vista, la cartellonistica (flani, manifesti, locandine) e i suoi codici grafici e figurativi sono il medium privilegiato per questo tipo di immagine femminile, la quale segue consuetudini, regole e dettami della persuasione pubblicitaria. In altre parole la corporeità femminile, seguendo una longeva tradizione, anche nel caso del cinema, si offre a essere un tramite tra lo spettacolo e le sue aspettative.
Quindi anche supporti di carta stampata, come i manifesti sono il punto di incontro tra strategie persuasive di marketing e descrizione diegetica; la donna è il richiamo da fuori e insieme la sintesi del plot, testimonial del film (p. 143).

Alla luce della complessità insita nell’horror stesso, del suo oscillare tra infrazione al conformismo e facile ricorso a stereotipi maschilisti, tra pretese autoriali e mero intrattenimento, della questione dei pubblici a cui si rivolge e da cui è fruito, delle dinamiche tra personaggi nella loro caratterizzazione di genere, lo studio di Colletti contribuisce ad evidenziare la funzione e il ruolo sociale che viene a ricoprire il corpo femminile all’interno della cinematografia italiana – e di ciò che vi gravita attorno – nei tre decenni esaminati.


  1. Cfr.: R. Curti, Fantasmi d’amore. Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV, Lindau, Torino, 2001; S. Della Casa, L’horror, in G. De Vincenti, L. Micciché (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. X (1960-1964), Marsilio-Edizioni Bianco & Nero, Roma-Venezia, 2001; D. Toschi, Vittima o carnefice? La rappresentazione della donna nel gotico italiano, in L. Cardone, M. Fanchi, Genere e generi, figure femminili nell’immaginario cinematografico italiano, “Comunicazioni Sociali”, 2, maggio-agosto 2007. 

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Processi di ibridazione. L’orrore (è) nella carne https://www.carmillaonline.com/2022/05/17/processi-di-ibridazione-lorrore-e-nella-carne/ Tue, 17 May 2022 20:01:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71920 di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. [...]]]> di Gioacchino Toni

«Come la fiaba, ma senza la sua volontà educativa e la sua disciplina narratologica, l’horror è la prosecuzione della vita con altri mezzi, all’incrocio tra due tendenze contrapposte, che qui tendono a coincidere, quella che usa la finzione per accrescere l’illusione e quella che la vive per aumentare la percezione del reale. Una contradditorietà che spaventa molto più dei contenuti dell’horror stesso: chi non li guarda non teme infatti di essere spaventato dai mostri, ma di cominciare a vederli nella vita reale. O, che è davvero lo stesso, a riconoscerli. Anche nella realtà che si è. Perché il vero orrore è sempre la realtà. Soprattutto la realtà che si è e che, non diversamente dal contesto reale che ci circonda, sfugge alla nostra comprensione, al nostro controllo, alla nostra direzione, imponendosi dispoticamente, violentemente, atrocemente».

Così scrivono Selena Pastorino e Davide Navarria, Il male quotidiano. Considerazioni filosofiche sull’horror (Rogas 2022), introducendo il volume in cui, attraverso «incursioni sull’horror, nelle sue molteplici forme, a partire da un reale che gli è affine in un modo che è la stessa narrazione orrorifica a palesare» (p. 18), intendono evidenziare la capacità del genere «di istituire un legame esperienziale con lo spettatore partecipante, traendolo nella notte che già da sempre lo abita» (p. 19).

Il provare orrore ha a che fare non tanto con l’essere spaventati di fronte a una minaccia incombente, quanto piuttosto, sostengono gli autori, soprattutto con l’essere disgustati, nauseati e raccapricciati al manifestarsi del corporeo, non necessariamente umano, di qualcosa che rimandi alla

concretezza materiale di un che di vivente, pulsante, carnale. […] È la comparsa della corporeità nella sua visceralità organica, nella sua tridimensionalità carnale, a fare orrore, come il ritorno di un rimosso. Perché, anche qualora si sia potuto accettare di avere un’esistenza materiale, si tende comunque a ridurre la corporeità a una mera superficie: ciò che fa il nostro corpo è il suo aspetto esteriore, la pelle che lo confina, i tratti che ci identificano. Oltrepassare questo confine per comprendere qualcosa della nostra realtà è un gesto autorizzato in un’unica direzione, quella che pone una frattura tra la fisicità che siamo e ciò che davvero siamo: che la si chiami mente, anima, pensiero, spirito, quella componente meta-fisica della nostra identità è l’unica parte di noi che ci sentiamo legittimati a definire come nostra interiorità. Ci è invece precluso quel movimento che, nell’oltrepassare la pelle che ci contiene, vi apra una breccia, svelando come al nostro interno non si trovi una specie di spirito impalpabile a capo di un automa inorganico, bensì carne sanguinolenta, vasi, nervi, legamenti, tendini, organi, scarti, solo in ultimo ossa, altrettanto vive che tutto il resto. Un resto che trattiamo sempre come tale e che pure ci costituisce al punto da essere l’unico punto in cui siamo, in cui non possiamo fare a meno di essere (pp. 166-167).

“Entrare” in contatto con la cruda realtà del corpo provoca disgusto; “scoprirsi” organici significa in qualche modo fare i conti con la mortalità. L’epidermide si propone come limite inviolabile, come confine che, se oltrepassato, conduce alla perdita dell’integrità palesando la vulnerabilità e la caducità: l’essere mortali.

Da tempo e da più prospettive si riflette sul perché produca attrazione un genere come l’horror incentrato su quanto solitamente si è portati a rimuovere, ci si interroga sul da e verso cosa muova il desiderio che spinge a sottoporsi all’orrore, a un’esperienza emotiva e fisica insieme.

Del ruolo simbolico ed antropologico della pelle si è occupato Francesco Paolo Campione, Discorsi sulla superficie. Estetica, arte, linguaggio della pelle (Mucchi, 2015) [su Il Pickwick] e lo ha fatto passando in rassegna una serie di narrazioni che vanno dal mito di Marsia, al martirio di San Bartolomeo sino alla pratica del tatuaggio. In Marsia scuoiato è possibile vedere tanto un essere anatomico privo di vita e identità quanto una pelle viva che viene ad assumere un carattere perturbante, segno di un’identità mantenuta oltre l’annientamento del corpo. E se Marsia muore per aver sfidato un dio vendicativo, per certi versi, suggerisce Campione, rinasce sotto la pelle del San Bartolomeo cristiano. Resto mortale e firma figurata al contempo, il San Bartolomeo/Michelangelo ripropone il Socrate/Marsia del Simposio; la bellezza risiede entro il deforme dell’epidermide attraverso un gesto di apertura al contempo artistico e di fede.

Artisticamente parlando, la figura di Marsia, si estende ben oltre le estetiche rinascimentali e barocche tanto da ricomparire, per certi versi, nella messa in scena davidiana dell’assassinio a tradimento di Marat intento a lenire in una vasca la malattia della pelle, opera che trasforma il rivoluzionario, oltre che in una sorta di Cristo laico, appunto in un novello Marsia, come del resto aveva già notato Baudelaire1.

Insomma, la pelle rappresenta la veste del vivente e si può dire che su di essa si è sviluppata, nel corso dei secoli, un’estetica che ha saputo dar conto di diversi aspetti relativi al presentarsi al mondo dell’essere umano. Se in numerose narrazioni la privazione dell’epidermide rappresenta la perdita dell’identità, la pelle può anche vivere un’esistenza autonoma rispetto al corpo che ricopriva o, in alcuni casi, può persino tornare a ricoprirlo conferendogli un nuovo aspetto. Spogliarsi della pelle può anche preannunciare simbolicamente una risurrezione che conduce ad una nuova vita.

Tornando al volume di Pastorino e Navarria, in particolare sulla sezione dedicata al rapporto tra orrore e corpi, in esso gli autori, riprendendo alcune riflessioni di Linda Williams2, evidenziano come l’horror abbia per certi versi in comune con il porno e il melodramma la peculiarità di agire in modo diretto sul corpo del fruitore: il melodramma deve commuove, il porno deve eccitare e l’horror deve spaventare. Se ciò non avviene allora si tratta di produzioni che non hanno mantenuto fede alle promesse dei rispettivi generi. Occorre che il fruitore senta, provi sensazioni direttamente sul suo corpo.

In Videodrome (1983) David Cronenberg, pur sperimentando diverse declinazioni dell’inorganico che si anima come carne, si concentra soprattutto sullo schermo televisivo che, più che farsi permeabile alla realtà, diviene realtà o, meglio, come suggerisce il personaggio Brian O’Blivion, qualcosa più di essa, tanto che il protagonista, Max, viene da esso sedotto al punto di indurlo a cercare una fusione con l’immagine di Nicky Brand, ossia con colei che «nella vita fuori dallo schermo lo provoca a considerare lo stretto legame tra dolore ed eccitazione, torture e sesso» (p. 169).

Il collassare della funzione schermante della televisione comporta con sé la distruzione di ogni paradigma di riferimento: la compenetrazione tra TV e corpo funziona come realizzazione di un più ampio progetto di controllo e sottomissione della mente, un vero e proprio piano di purificazione dell’umanità che si serve della fascinazione di una trasmissione snuff per intercettare gli individui da condurre all’autodistruzione. Videodrome è il nome di un disegno malato di selezione della specie, a partire dalla presunta indegnità a vivere di chi manifesta eccitazione nei confronti di ciò che devia dalla sessualità socialmente accettabile. L’implementazione di questo dominio passa per un controllo mentale che è insieme controllo carnale (pp. 169-170).

Il film mostra pertanto come anche l’inorganico tecnologico sia «animato dalle stesse forze pulsanti che ci fanno essere, anche se non lo vogliamo (sapere)» (p. 170).

In altre opere la fragile vulnerabilità carnale degli esseri umani emerge nel confronto con corpi non-umani. In Alien (1978) di Ridley Scott, così come in Aliens (1986) di James Cameron, l’alterità aliena manifesta caratteristiche carnali e viscerali capaci di prendere possesso del corpo umano devastandolo. «L’alieno di queste due pellicole è xenomorfo, come comunemente lo si chiama, solo nella misura in cui abbiamo deciso di chiudere fuori dalle mura della nostra identità civile, sociale, culturale, politica e personale ciò che ha la forma (morphé) del corpo, dichiarandolo così straniero (xéno), negandogli un diritto di cittadinanza che già da sempre ha, anzi che già da sempre ci concede» (p. 171)

In diverse opere horror la corporeità animale viene utilizzata per definire, per differenza, la corporeità umana, tanto che in molte narrazioni, per garantirsi la sopravvivenza, gli esseri umani si trovano costretti a individuare ed allontanare dalla loro comunità l’alterità non-umana.

«Nello specifico di queste narrazioni si potrebbe pensare che il rapporto tra l’umano e l’animale susciti disgusto e terrore rivelando la natura ferina, bestiale, che l’uomo avrebbe rimosso dalla propria definizione e che tuttavia lo caratterizzerebbe al punto da riemergere sempre, in maniera inesorabile» (p. 171). A suscitare orrore in tali opere non è però, secondo Pastorino e Navarria, l’emergere della bestialità umana rimossa, quanto piuttosto la

vulnerabilità intrinseca all’esser vivo dell’uomo, che l’animale, con il suo comportamento, rivela come da sempre definitoria dell’umano e come da sempre misconosciuta. […] La realtà della nostra corporeità è quella di una fragile vitalità, di una mortalità certa, di un dolore possibile e probabile. Ciò che ci tocca in modo orrendo è il timore che al nostro corpo possa accadere qualcosa di tanto disgustoso, come di essere lacerato, dilaniato, divorato, puntellato, sbrandellato. Come se più non fosse corpo umano, come se più non fosse corpo nostro. Anche perché a quel punto di noi, che ne sarebbe? Che cosa saremmo cioè noi, senza il nostro corpo? (p. 175)

Oltre che dal timore per la possibile profanazione del proprio corpo, l’orrore può derivare tal terrore per una sua trasformazione ed in entrambi i casi si può arrivare a desiderare la morte per porre fine al supplizio iniziato o imminente. Si pensi, ad esempio a quando Rick Grimes, il protagonista della serie The Walking Dead (dal 2010), trovatosi bloccato sotto a un carro armato circondato da zombi che intendono cibarsi di lui, vistosi senza scampo, per un attimo, prima di individuare una via di fuga, si punta la pistola alla tempia per suicidarsi, o, ancora, al finale del film La Mosca (The Fly, 1986) di David Cronenberg, quando lo scienziato Seth Brundle, ibridatosi con un insetto, ormai teriomorfo, in una residuale capacità di autodeterminazione, chiede alla ex compagna di porre fine alla sua esistenza.

Metamorfosi, mutazioni e modificazioni del corpo umano al centro dell’opera cronenberghiana sono elementi ricorrenti nelle narrazioni del cosiddetto body horror, sottogenere in cui la

realtà della corporeità viene così esposta, rivelata senza infingimenti, inverata in modo paradossale dal suo non essere più se stessa: non più integra, non più sana, non più vitale, in altre parole non più appropriata da quel meccanismo culturale ed esistenziale che lavora a minimizzare il corpo fino a farne un niente, un accessorio, un possesso. Disappropriata dall’individuo che crede di abitarla quando in realtà ne è parte, la carne si mostra nella sua potenza e nella sua vulnerabilità, nella sua magnificenza e nella sua repellenza, nella sua forza e nella sua disgregabilità. Proprio per aver portato la narrazione dentro il corpo, nel luogo del reale, i confini si intrecciano tra loro, scolorano, lasciandoci in balia del disorientamento che ci coglie ogni qual volta non possiamo rimandare oltre il confronto con la realtà: crollano i confini delle contrapposizioni che siamo soliti usare per muoverci nella quotidianità, ma vengono meno anche quelli delle categorie identitarie e quelli fisici che permettono un certo intuitivo livello di distinguibilità tra gli enti. Insomma, la mutevolezza è all’opera e non si può più fingere di non vederla (pp. 182-183).

D’altra parte, nonostante la tendenza a considerare il corpo come «stabile ancoraggio identitario» (p. 183), l’esistenza non può sottrarsi alla mutazione e la visione di opere orrorifiche come queste, in fin dei conti, mette di fronte alla propria vulnerabilità. Ci parlano di ciò, sostengono Pastorino e Navarria, narrazioni incentrate sulla «metamorfosi dell’umano in ciò che umano non è, soprattutto quando questo processo non è irreversibile […] ma si intervalla a momenti di recupero […] di quei lacerti residuali di ciò che si era ora che si è stati qualcosa che non si è» (p. 183). Si tratta di opere che evidenziano «quanto la dimensione identitaria sia carnale, corporea, fisica» (p. 183).

Alla luce del fatto che, come detto, la metamorfosi del corpo è un processo inevitabile, diviene difficile individuare un confine certo tra ciò che si era e ciò che non si è più, soprattutto, «se questa frontiera risulta valicabile più volte, in entrambe le direzioni» (p. 185), come nell’esempio di licantropia di Un lupo mannaro americano a Londra (An American Werewolf in London, 1981) di John Landis. «Perdere a tal punto il proprio controllo su di sé da essere condizionati in modo vincolante, perfino necessitante, da ciò che il proprio corpo è diventato, da ciò che noi stessi paradossalmente siamo diventati, è l’abisso del terrore da cui trae linfa questa narrazione. Da cui origina l’orrore stesso, non tanto quello delle vittime o dei superstiti, bensì quello di chi realizza di essere incarnato: fare i conti con l’incontrollabilità proteiforme e metamorfica del nostro corpo significa fare conti con la sua indisponibilità, con la sua irriducibile realtà che resiste a ogni nostro tentativo di disciplinarla, di evaporarla, di annichilirla» (p. 186)

Oltre che nelle trasformazioni fisiologiche che la vita corporea comporta, l’esperienza della «corporeità come dimensione che può determinarci senza poter essere determinata» (p. 186) può essere vissuta anche nella condizione della malattia. Secondo Pastorino e Navarria, pur mostrando esplicitamente la degenerazione carnale, l’horror

finisce col riproporre una cesura netta tra la malattia e l’esistenza fisiologica, un confine che sì può essere attraversato con lentezza estenuante e consapevolezza acuta, ma che presto o tardi conduce a luoghi da cui non si ritorna, in cui più si è umani. Se in certa misura si può comprendere come le dinamiche narrative che riguardano tutto ciò che appare come minaccioso, perturbante, disgustoso, spaventoso, funzionino anche riguardo al corpo malato, sembra qui essere in opera nella stessa messa in opera un meccanismo culturale che fonda ogni possibilità creativa e la orienta, in gran parte determinandola, vincolandola. Ecco allora che la maggior parte delle narrazioni trattano il contagio di un morbo come se producesse sempre effetti analoghi a quelli di un’invasione zombi, quando non viene direttamente ricollegato a questa. L’umanità sana rifugge, talvolta mostrando tratti di devianza psichico-morale che la delegittimano di fronte all’innocente, perché inevitabile, aggressività cannibalica degli infetti, spesso riproponendo anche in questo frangente lo schema di una lotta contro il mostro, nella forma della malattia che si è impossessata dei corpi, spossessandoli delle loro identità vitali. Della loro stessa vita. È forse in questa curvatura che il punto cieco dello sguardo horror sul morbo tange uno spazio di veridicità: la malattia per il (presunto) sano ha sempre qualcosa ha che fare con la mortalità, perché la richiama, la esibisce, e così converte la rinnegabilità in cui vogliamo relegarla, rivelandola come segreto manifesto della vita carnale stessa. Che vive perché sta morendo, che smetterà di morire solo quando smetterà di vivere (pp. 186-187).

La malattia spaventa in quanto restituisce alla carne il suo potere sull’individuo a cui non resta che che provare a fuggire il contagio nascondendo i sintomi agli altri e forse persino a se stesso, magari minimizzando o addirittura ignorando la propria corporeità per annichilirne il destino di morte.

Nelle messe in opera horror, sottolineano gli autori, per poter vantare un ruolo da protagonista nella narrazione, le malattie devono apparire «irriconoscibili rispetto alle loro forme consuete, più incontrollabili […], più devastanti, più letali. A imporre loro un controllo è la stessa trama narrativa che le relega a macroscopica trasformazione del corpo facente sì parte del regno del possibile e del verosimile, ma anche di ciò da cui si deve e dunque […] si può sfuggire» (p. 188).

Quando invece la vulnerabilità corporea viene messa in scena sotto forma di «desiderio di disporre della carne come di un regno dei balocchi da parte di qualche sadico torturatore» (p. 188), ecco che il body horror diventa «nella contemporaneità soprattutto un genere di esorcismo del corpo, che funziona con la tecnica dell’esposizione prolungata a ciò che scatena orrore, come terrore e disgusto, nel fruitore. Ma contemporaneamente lo attrae, la affascina, in modo morboso, tale che non possa distogliere lo sguardo qualunque cosa accada, e in modo perverso, tale cioè che si allontani da ciò che costituisce la norma nella sua realtà quotidiana (si spera)» (p. 188). Un esempio di ciò è ravvisabile nel torture porn in cui

ciò che conta è assistere voyeuristicamente a ciò che è a mala pena tollerabile, quando non insopportabile, sia per chi si trova sullo schermo, sia per chi prova con questo a schermarsi, difendendosi da un’immedesimazione con le vittime che fa contorcere gli arti e le budella, nel totale comfort del proprio divano o della poltrona cinematografica […] Nei torture porn lo schermo mantiene la sua funzione di separatore, quasi un buco della serratura da cui osservare qualcosa che lo spettatore sembra ricercare non per vivere un’esperienza, […] ma per osservare (e quindi in certa misura tenere le distanze da) un’esperienza altrui. È una differenza sottile ma sostanziale, che permette forse di riarticolare, almeno a partire dalla presente prospettiva di analisi, una ridefinizione del genere cui queste narrazioni appartengono, che con l’horror flirta senza riuscire a incarnarne, letteralmente, le dinamiche (pp. 189-190).


Processi di ibridazione


  1. Baudelaire, commentando tale opera, da lui definita “poema inconsueto”, nel 1846 scriveva: «Marat può ormai sfidare Apollo, la Morte lo ha ora baciato con labbra amorose, e lui riposa nella quiete della sua metamorfosi». 

  2. Cfr. Linda Williams, Film Bodies: Gender, Genre, and Excess, in “Film Quarterly”, Vol. 44, No. 4, Summer, 1991. 

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Black Flag, speranza e distopia. Ricordando la meraviglia del primo incontro con Valerio Evangelisti https://www.carmillaonline.com/2022/05/07/black-flag-speranza-e-distopia-ricordando-la-meraviglia-del-primo-incontro-con-valerio-evangelisti/ Sat, 07 May 2022 06:52:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=71775 di Fabio Ciabatti

Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ [...]]]> di Fabio Ciabatti

Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ al narratore di cui ci parla Walter Benjamin.
Sono ben consapevole che questo paragone ha dei limiti. A cominciare dal fatto che raramente i suoi romanzi hanno per protagonista l’uomo giusto e semplice di cui ci parla il filosofo berlinese. È più frequente che il motore della narrazione proceda dal “lato cattivo della storia”. Basti pensare al suo personaggio più famoso, l’inquisitore Nicolas Eymerich. I suoi racconti, in questo modo, sono in grado di dissezionare i fondamenti antropologici, ideologici, psicologici del potere, mettendosi dalla parte del potere stesso. È poi ovvio che il suo mezzo espressivo principale era il racconto scritto e non quello orale, per quanto sia anche vero che, sentendolo parlare con il suo tono di voce basso e leggermente cantilenante, non si poteva non rimanere affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dalla sua sottile ironia.  

Rimane il fatto che Valerio non si accontentava di cristallizzare in forma letteraria l’insanabile scissione tra significato e vita, come accade al romanziere tipo benjaminiano. I suoi racconti, come quelli del narratore descritto dal filosofo berlinese, hanno un orientamento pratico anche se di natura peculiare. Hanno una finalità eminentemente politica, fanno cioè parte della sua battaglia per contendere palmo a palmo territori dell’immaginario alle potenze mitiche al soldo delle classi dominanti. Pur non avendo assolutamente nulla di didascalico, le sue storie hanno una morale. Si prenda come esempio la conclusione, tragica e al tempo stesso priva di rassegnazione, di Black Flag.

– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.

Devo confessare che a questo romanzo sono particolarmente legato, non perché lo consideri una delle opere più significative di Evangelisti, ma semplicemente per il fatto che è stato il suo primo libro che ho letto. Per me, oramai vent’anni fa, fu una vera folgorazione scoprire la sua eccezionale capacità di mescolare diversi tipi di narrativa di genere (western, horror, fantascienza, racconto di guerra) e di intrecciare nello stesso testo epoche passate, presenti e future tra loro distantissime costruendo un insieme incredibilmente compatto, appassionante, popolare, profondo. Per quanto sia poi diventato un avido lettore della sua opera, la meraviglia di quella scoperta letteraria è rimasta per me indelebile. Tanto da farmi venire la voglia di rileggere questo romanzo quando ho saputo della scomparsa di Valerio.
Ci sarà tempo per considerazioni di più ampio respiro rispetto a quelle che sto proponendo in questo scritto. I compagni della redazione di Carmilla e tutti coloro che conoscono più di me la vita personale, la produzione letteraria e l’attività politica di Valerio potranno dare il loro contributo. Nel frattempo, penso valga la pena di condividere la rilettura di un testo che per me ha avuto un grande significato. 

Si potrebbe individuare anche un motivo meno personale per parlare di Black flag, legato in qualche modo all’attualità. In questo romanzo, infatti, in primo piano c’è la guerra, intesa come fondamento nascosto del mondo contemporaneo che tende a farsi inerzialmente esito ultimo e totalizzante della sua storia, guerra civile globale potremmo anche dire.  Il romanzo è pubblicato nel 2002 quando è ancora fresco il ricordo dell’abbattimento delle Torri Gemelle a New York e da non molto è iniziata l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti. Ma la storia inizia e finisce con un’altra vicenda bellica, l’invasione statunitense nel 1989 di Panama dove Sheryl e Carl, medici psichiatrici americani, sono impiegati per curare nove marines affetti da una misteriosa malattia. I due scopriranno di essere stati inconsapevole strumento di un esperimento dell’esercito statunitense finalizzato alla creazione di un gruppo di soldati-mostro: il commando Gray Wolves. La parte più ampia della narrazione è però ambientata al tempo della guerra civile americana e segue le vicende di uno spietato gruppo di irregolari sudisti, i bushwhackers, cui si unisce per caso il Pantera, stregone e killer a pagamento messicano.
Un altro filone della storia è ambientato all’alba dell’anno 3000, in un futuro distopico caratterizzato da una sorta di anomia ferocemente carnevalesca. Un mondo in cui vige il più classico homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti. Un mondo in cui l’unica cosa che distingue le persone è la diversa psicosi da cui sono affette: esistono solo i Fobici, gli Isterici, gli Ossesso, gli Autistici, gli Schizo. Tra questi ultimi c’è anche Lilith, una giovane donna astuta e forte come nessun altro, una belva piena di rabbia anche se incapace di comprenderne il motivo.

Qui vediamo all’opera l’estrema conseguenza della logica bellica. 

Al riparo dalla violenza! Lilith si sentì fremere dall’indignazione. Senza violenza non c’era contatto umano. Che razza di società poteva mai essere, quella che ignorava la comunicazione attraverso la morte e il dolore?

Tutta Paradice stava vivendo l’unica forma di empatia tra gli uomini rimasta sulla terra. L’antitesi del gelo che si viveva normalmente. Uccidere per uscire dal proprio isolamento ed entrare in rapporto col prossimo. La festa. Finì per sgozzare il giovane inebriandosi dei suoi sussulti. Lo amò per un istante.

Come si è potuti arrivare a questo punto? Bisogna tornare indietro nel tempo, al periodo della guerra civile americana. Qui l’intero territorio dell’immaginario sembra esaurirsi nella dialettica tra un delirante utopismo anarco-individualista e un realismo conservatore meno visionario ma altrettanto spietato. Tra un massacro e un altro di civili perpetrato dai bushwhackers, Pantera assiste a ripetuti dialoghi tra Hamp Wyatt, uno degli uomini della milizia sudista, e Anselme Bellegarrigue, medico parigino dedito a cinici esperimenti sul malcapitato Koger, uomo lupo al seguito della banda, per renderlo suo malgrado una spietata macchina da guerra. Le argomentazioni del francese non vanno tanto per il sottile. Per lui non è la “sciocchezza” della schiavitù a tener insieme ciò che resta della Confederazione, ma è il suo “stile di vita”.

Noi ci battiamo per un’America in cui nessun governo ostacoli la proprietà individuale e le scelte del singolo. Non c’è governo che non sia nemico naturale della proprietà.

Proprietà equivale a libertà. Quando ogni americano bianco, maschio e adulto avrà la propria particella di terreno, grande o piccola che sia, non serviranno più leggi.

Caricare di energia il metallo che è in noi, renderci di nuovo belve e predatori. Questo è l’obiettivo. Uomini liberi capaci di vivere fuori di ogni costrizione sociale, così come vivono i lupi che hanno abbandonato il branco. Ognuno potente come una pila galvanica. In pratica tanti magneti che si respingono. 

L’uomo servile, che vive in gregge, costruisce. L’individualista, che disprezza il branco, distrugge. È quest’ultimo che fa la storia. 

Hamp Wyatt, replica con simpatia ma ritiene il suo interlocutore un po’ folle. 

D’accordo, ma la schiavitù è un principio, che poi si riassume in autorità e disciplina. Servono gerarchie, ruoli ben definiti. È questa l’anima del Sud, e lo schiavismo ne è la sintesi.

Racconti storie. Non c’è terra per tutti, e non tutta la terra è coltivabile senza braccia. La schiavitù è una necessità economica prima che morale.

Wyatt, in ultima istanza, considera pericoloso l’utopismo del francese perché 

Nel Nord gente come lui, ha persuaso gli operai a scioperare in piena guerra … Comincio a credere che la schiavitù andrebbe estesa a tutti i salariati. 

Il mondo però non si esaurisce nella dialettica tra i Bellegarrigue e i Wyatt. Perché tra di loro si aggira anche Pantera, eroe riluttante, infastidito catalizzatore della fiducia e della speranza dei più strambi emarginati nel gruppo dei bushwhackers. Attorno a lui si aggira un mondo di spiriti maligni ma giusti. La sua magia rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. Chiamato in causa in una delle tante discussioni tra Bellegarrigue e Wyatt si limita a commentare Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”. Alla fine, però, sotto l’apparenza riuscirà a percepire un’altra realtà. Che si tratti dei suoi poteri di stregone o di una mera allucinazione poco importa. Quello che riesce a vedere con chiarezza è la vera natura dei suoi nemici. 

Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità … pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque. 

Dopo il combattimento finale Pantera decide di seguire nuovamente il suo vecchio comandante Juan Nepomuceno Cortina per andare in Messico e unirsi alla causa di Benito Juarez. Ha accettato finalmente  la sua natura di lupo di branco e ha compreso che la battaglia appena affrontata è solo un episodio di una lunga guerra.

La lotta, in questo Paese, continuerà anche senza di noi. Lupi di branco contro lupi solitari. Se avranno la meglio i secondi, l’America sarà l’inferno, e prima o poi il mondo intero. La loro frontiera si sposta -. Ghigno tra sé – Bellegarrigue lo avrebbe però chiamato paradiso. Anzi paradice -. Imitò l’accento del francese.

E in effetti quella frontiera nel 1989 si è spostata fino a Panama, bombardata dagli Stati Uniti. E, nell’anno 3000, ha inglobato l’intero mondo, piagato da una sovrappopolazione di 300 miliardi di persone. In questo lontano futuro sorge un’unica megalopoli che unisce le vecchie città di New York, Los Angeles, Washington. Un mostruoso agglomerato urbano chiamato, appunto, Paradice. Un mondo votato all’autodistruzione, alla stregua di Lilith che in un estremo tentativo di ribellione, uccide l’uomo che la controlla e la vuole violentare. Ma i due si trovano in una navetta spaziale che li sta portando sulla Luna, ultimo avamposto “civilizzato” della Organizzazione mondiale per la sanità mentale in grado di tenere sotto controllo gli abitanti della terra attraverso i lampi, una sorta di scariche planetarie di elettroshock. Lei, rimasta sola e incapace di guidare la navetta, è destinata alla morte. Ma l’uccisione del suo carnefice era l’ultimo disperato tentativo di cercare un contatto umano, l’ultima esperienza voluttuosa che “valeva bene la morte”. 

Questa versione fantascientifica della vecchia favola dello scorpione e della rana non vuole rappresentare un futuro ritenuto ineluttabile sulla base di un’antropologia pessimistica. È piuttosto un monito. “Quando un sistema di vita abolisce la comprensione del prossimo, l’aggressività diventa la norma. Dopo non ci sono che nemici, e se non ci sono li si inventa”, sostiene Sheryl poco prima del suo estremo atto di resistenza.  Un atto che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente ma è chiaro che è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti!
C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. Ma quale speranza ci potrà mai essere di fronte a un nemico così potente? Nell’universo narrativo di Evangelisti non c’è spazio per un ingenuo ottimismo, né per alcuna indulgenza verso il mito del buon oppresso. In fin dei conti anche gli sfruttati possono essere dei lupi feroci. Ed è bene che lo siano al momento giusto. E anche se appaiono più deboli dei loro oppressori, non tutto è perduto. La storia di Pantera e dei suoi strambi compagni di viaggio ci mostra che c’è sempre una chance:

Il messicano contemplò, all’ultimo raggio della luna che stava per tornare a sparire, i miseri campioni di umanità che aveva davanti. Trascinare con sé quelle creature fiacche e inservibili poteva costargli la vita. Tuttavia valutò che forse la somma delle loro debolezze poteva dare un risultato superiore alle parti. La magia zoppicante di Vecchia Pipa, la vigoria in declino di Koger, la modesta sensualità di Molly, se prese insieme, formavano quasi una sgangherata forma di potenza. Aggiunta alla sua, poteva dare qualcosa di buono. 

La morale di Black flag, insomma, ci offre un monito e una speranza. Attraverso una narrativa di genere tutto suo, Valerio ci ha regalato una storia fantastica per ricordarci, insieme a Marx, che la lotta di classe dovrà finire “con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”; ci ha fatto dono di un meraviglioso racconto per dirci ancora una volta, riprendendo lo slogan degli Industrial Workers of the World, che “noi saremo tutto” soltanto se saremo capaci, per prima cosa, di essere un “noi”.

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Nottetempo, chiesa per chiesa https://www.carmillaonline.com/2021/09/11/nottetempo-chiesa-per-chiesa/ Sat, 11 Sep 2021 20:34:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68164 di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Spirdu, Italo Svevo, pp. 171, euro 16, Trieste-Roma 2021.

Per chi ami le storie di possessioni demoniache e conseguenti esorcismi – sottogenere horror che sarebbe banalizzante ridurre al caposaldo fondamentale di Blatty & Friedkin, come tandem di libro (1971) e film (1973), e che pure per impatto mitopoietico e fascino artistico resta un unicum – è davvero molto difficile trovare sviluppi con caratteri di novità. In generale, fatta salva la saga The Exorcist che ha i suoi punti di forza, gli sviluppi si sono [...]]]> di Franco Pezzini

Orazio Labbate, Spirdu, Italo Svevo, pp. 171, euro 16, Trieste-Roma 2021.

Per chi ami le storie di possessioni demoniache e conseguenti esorcismi – sottogenere horror che sarebbe banalizzante ridurre al caposaldo fondamentale di Blatty & Friedkin, come tandem di libro (1971) e film (1973), e che pure per impatto mitopoietico e fascino artistico resta un unicum – è davvero molto difficile trovare sviluppi con caratteri di novità. In generale, fatta salva la saga The Exorcist che ha i suoi punti di forza, gli sviluppi si sono articolati alla grossa su tre filoni: il semplicistico-confessionale, lo psichiatrico (dove si scopre che, nonostante tutto, il demone è tutto interiore) e il giudiziario (l’esorcista a processo per la morte dell’indemoniata), con incursioni fantastiche trasversali a volte suggestive, ma nel complesso deboli e poco originali.

E deboli sono soprattutto i film recenti, spesso dimenticabilissime produzioni (in gran parte americane) documentate in folla su YouTube: emblematico del resto il destino del prequel di The Exorcist, dove la versione molto più interessante e sofisticata del regista Paul Schrader poi silurato (ma per fortuna uscita con il titolo Dominion – Prequel to The Exorcist, USA 2005) è stata accantonata dai produttori per quella molto più convenzionale di Renny Harlin (Exorcist – The Beginning, USA 2004). È davvero impossibile sviluppare in forma di narrazione un topos che richiama ad alcune paure fondamentali (spossessamento e deflagrazione dell’identità personale nella sua accezione più basica, confronto con un Male denso, attivo e simbolicamente spiazzante) e a nodi problematici per una società non solo laica (almeno a grandi numeri), ma depauperata – grazie a una gestione criminale del potere economico e politico – di fondamentali argini interiori nel segno della speranza?

Leggendo Orazio Labbate, e il terzo magnifico romanzo della sua saga gotica siciliana (sul secondo, e sullo spirito che lo anima, cfr. qui), ci rendiamo conto che invece è possibile. Non paia una forzatura l’accostamento tra un testo tanto letterario e suggestioni degli schermi: l’autore stesso lo legittima nelle interviste, e del resto i nomi dei suoi personaggi e le atmosfere evocate sono debitori in qualche senso del cinema e soprattutto delle serie tv americane.

Spirdu – “timore, paura, spirito, demone” come qui tradotto – riprende il mondo dei primi due romanzi ed echi delle rispettive figure, attraverso un intreccio familiare tra Milton, West Virginia, e Butera in quel di Gela: ma qualcosa è cambiato, l’impasto linguistico (straordinario, poetico) si è fatto anche più stretto, spigoloso e graffiante, al punto da suggerire l’inserimento finale di un Glossario del gotico siciliano. È una lingua incredibile, meticcia di dialetto buterese e italiano letterario ma con robuste dosi d’invenzione (es. “Armàlu: animale terribile e indegno”, “Crocifissoùmmira: l’ombra primordiale del crocifisso”,  “Nonàngili: gli angeli che non sono più angeli”, eccetera), che fa pensare a un Consolo infinitamente più nero e gnostico. Una lingua che gioca ambiguamente tra due poli del discorso come sotto il segno di Yaldabaoth, il polo pneumatico ricordato fin nel titolo (non ho contato, ma i richiami sono molti, le ricorrenze dell’altro termine “unsù”, “fantasma”) a evocare non solo gli spiriti possessori e la loro dimensione ma un fiato inafferrabile del testo, e il polo della carne che torna di continuo, spesso come carne morta – gli esorcismi vengono tenuti in un’ex macelleria – con quanto di conturbante quella dimensione ci evochi. Carne e spiriti sono ovunque, dall’uso puntuale alla metafora alle semplici suggestioni, e la lingua (poetica, va ribadito, perché nella scelta e nel conio dei vocaboli, nel loro accostamento, nella pirotecnia di soluzioni immaginifiche mostra una particolare poesia) li richiama di continuo.

Ancora, una lingua buia, che ricorre alle maschere del gotico per parlare di dolori solitudini lutti, radicata nei diversi linguaggi cultuali della Sicilia, nella diverse chiese di un credo notturno: un paganesimo ctonio e tellurico, impastato di misteri – non a caso Gela è uno dei tanti luoghi della Sicilia associati a Persefone/Kore, rapita dal dio dei morti, e alla madre di lei Demetra – e proprio i misteri permettevano di offrire parole (indicibili all’esterno, ma potenti) alle dimensioni oscure dell’esistenza; e un cristianesimo barocco che su quella base pagana e infera si è innestato a un certo punto, mantenendone il respiro arcaico, i tratti perturbanti e il sapore di vertigine accanto a istanze di liberazione dai connotati misteriosi.

In questo senso l’inferno di Labbate trascolora continuamente negli inferi antichi, le entità – quelle “cristiane” come la Madonna dell’Alemanna o il Signore dei Puci, in realtà tenebrosamente pagane – diventano anzitutto patrone di una morte come irruzione del nonsenso che condanna all’infelicità, di una morte-scandalo, e il demonico è uno spazio cosmico, una cifra quasi lovecraftiana: una mitologia tanto fortemente eversiva dei miti-cartolina della sicilianità, quanto la sua lingua dista da quella tranquillizzante di un Camilleri. Emergendo dunque quale vera protagonista del romanzo: una lingua sincretistica, misterica, (si ripete) gnostica – la materia si fa spreco demoniaco, tra oscure speculazioni teologiche e demonologiche; una lingua duttile sia a suggerire le deflagrazioni psichiche – e allora raspa di possessione, si fa parole ossesse – sia a dare il senso di una reazione a quella realtà, tra fragilità e forza, attraverso l’opera del giovane esorcista Jedediah Faluci, che esercita a Falconara presso Butera nell’ex macelleria del padre Peep. Accanto a lui, la giovane poliziotta Kathrine Pancamo della solita Milton, che in Sicilia va cercando non un assassino – quello sostanzialmente l’ha trovato – ma le ragioni dei crimini e il rapporto con la misteriosissima storia della sua famiglia. La loro vicenda è quella di due solitudini che s’incrociano perpendicolarmente, per (forse, ma non spoileriamo) perdersi poi in distanza.

Se però la precedente puntata, Suttaterra, era una storia nel segno del male, del tradimento più infame e del delitto, Spirdu (che è in realtà un romanzo ampiamente autonomo) presenta con pudore ciò che all’assurdo della morte può contrapporre un senso: l’amore per il padre perduto e da ritrovare, e in fondo quello per Kathrine. Entrambi, negli inferi di una Butera ormai consegnata completamente ai demoni, cercano il padre, in modo diverso. Dove è legittimo entusiasmarsi per la capacità di Labbate di recuperare plot e topoi classicissimi – dall’abbinamento di specialista del sacro & poliziotta, alla visita alla badessa dell’orfanotrofio in cui si è cresciuti, fino alla scena conclusiva in una chiesa ormai profanata dalle forze oscure – e trasformarli in un romanzo letterariamente ricco e denso, umanamente profondo e animato da una peculiare tenerezza. L’incontro tra i due giovani in un albergo deprimente e onirico fuori Butera, davanti a un vecchio barista, “Tatanu Buttiglieri, làdiu e troppo siccu come a lutto” è straordinario. E l’epifania finale delle forze di possessione, per chi ricordi i precedenti due volumi e persino le relative copertine (Lo Scuru, 2014 e appunto Suttaterra, 2017), sembra decrittare non casuali rimandi.

Certo, a fronte della lettura spesso scipita e rozzamente, trionfalmente confessionistica di tante fiabe filmiche di esorcismi americane, la storia di Labbate ha connotati tali da poter risultare ulcerante e blasfema, sacrilega: come spesso sono però, e a prescindere dalla laicità anche assoluta degli autori, opere che parlano con genuina, fertile visionarietà di una tensione tra mondo interiore e istanze ultime. Passiamo dunque serenamente oltre le Rupi Simplegadi del cleroformio (copyright Marcello Marchesi) e delle compiaciute, modaiole odifreddure da salotto borghese: c’è una scrittura sul religioso che parla delle pieghe e piaghe che abbiamo dentro, del rapporto con un Dio – magari all’insegna della rabbia, come in Giobbe – e di una fragilità tutta umana nel cercare ciò che resta di luce contro le tenebre. Una scrittura che parla, con le parole del mito, del calarsi nella città infera tenendo per mano qualcuno che rischierebbe di smarrirvisi, e forse noi con lei; che parla del peso dei morti nelle nostre vite private e collettive, ma insieme dell’urgenza di cercare, nella loro notte fonda, il volto di un padre che dobbiamo reintegrare nella nostra storia.

È un linguaggio, un logos: e si rivela potente di una sostanziale onestà, davanti a dimensioni come la scomparsa di chi ci è caro, la solitudine interiore, l’eruzione di un nonsenso che chiamiamo Male. Tanto più in questo momento in cui ad altre crisi pesanti si è aggiunta quella pandemica, con tante difficoltà ulteriori a logorare e deprimere, “Malidìtta la tristezza”: dove il paese indemoniato l’abbiamo dentro, e tutto intorno a noi. Un paese del genere non basta un esorcismo a liberarlo, ovviamente.

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Robert Aickman: quella fredda mano nella mia https://www.carmillaonline.com/2021/07/23/robert-aickman-quella-fredda-mano-nella-mia/ Thu, 22 Jul 2021 22:01:19 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67234 di Walter Catalano

Robert Aickman, Brividi crudeli, Edizioni Hypnos, pp.440, 24,90 €.

Robert Aickman (1914-1981) è assai poco conosciuto nel nostro paese e non è certo famoso – ad esclusione di un relativamente ristretto gruppo di cultori devoti – neanche nella sua nativa Inghilterra. Eppure la sua prosa ellittica e sinuosa è probabilmente una delle più raffinate del Novecento britannico, almeno per quanto riguarda la narrativa fantastica. E’ infatti quasi interamente nel campo del fantastico che lo scrittore ha da sempre esercitato il suo talento, ma per [...]]]> di Walter Catalano

Robert Aickman, Brividi crudeli, Edizioni Hypnos, pp.440, 24,90 €.

Robert Aickman (1914-1981) è assai poco conosciuto nel nostro paese e non è certo famoso – ad esclusione di un relativamente ristretto gruppo di cultori devoti – neanche nella sua nativa Inghilterra. Eppure la sua prosa ellittica e sinuosa è probabilmente una delle più raffinate del Novecento britannico, almeno per quanto riguarda la narrativa fantastica. E’ infatti quasi interamente nel campo del fantastico che lo scrittore ha da sempre esercitato il suo talento, ma per stile e tematiche le sue short-stories (ha praticato anche il romanzo ma sono i racconti il suo pezzo forte) restano fuori da ogni comoda classificazione. E’ questo il bello dei testi di Aickman: non possiamo definirli horror, per quanto l’orrore – sempre sussurrato, sempre allusivo – ne faccia spesso parte; non possiamo del tutto chiamarli ghost-stories, per quanto la spettralità ne sia elemento presente e decisivo. Oggi il termine Weird ci fornisce un’etichetta più ampia che con minor grado di approssimazione appare sufficientemente adeguata a circoscrivere le sue narrazioni, anche se l’autore, aggirando con saggezza ogni ostacolo tassonomico, le chiamava semplicemente strange stories.

Un ritratto generale della figura e dell’opera di Aickman l’ho già tracciato su Pulp libri al seguente link: https://www.pulplibri.it/le-strane-storie-di-robert-aickman/  pertanto non mi dilungherò a ripetere dettagli biografici o notazioni critiche per i quali rimando direttamente all’articolo: invece mi soffermerò qui unicamente sulla silloge di racconti appena pubblicata da Hypnos Editore, quarto volume dell’ambizioso progetto che il bravo Andrea Vaccaro sta, con pazienza e determinazione, portando a compimento (ne dovrebbero mancare ancora tre): la pubblicazione integrale di Tutti i racconti fantastici dello scrittore londinese.

Dopo Sentieri Oscuri (comprendente le tre storie di We Are for the Dark, 1951 e Dark Entries, 1964) uscito nel 2012, I poteri delle tenebre (Powers of Darkness, 1966) uscito nel 2014, e Sub Rosa (1968) uscito nel 2019, è ora la volta di questo Brividi crudeli che traduce la raccolta forse più rinomata dell’autore, uscita nel 1975 con un titolo bellissimo che non è stato reso al meglio: Cold Hand in Mine. Un titolo che mai ha trovato una trasposizione italiana ugualmente evocativa: non lo fu nel 1990 quando – allora prima e unica opera di Aickman tradotta – Giuseppe Lippi tentò di inserirlo negli Oscar Horror Mondadori passandolo come Suspense, ma la promessa di orrore e di tensione – almeno nel modo diretto e manifesto a cui i lettori della collana erano avvezzi – nei racconti che componevano il volume non veniva mantenuta, collocando di fatto l’antologia che avrebbe dovuto introdurre un nuovo autore inevitabilmente fuori contesto. Non risulta soddisfacente nemmeno Brividi crudeli, per quanto sia una ben più rispettosa approssimazione alla multiforme unheimlichkeit prospettata da Aickman: l’improvviso, carezzevole tocco di una mano gelida, inaspettatamente gelida.

Titolo a parte, l’edizione Hypnos mantiene le ottime traduzioni di Lippi e aggiunge agli otto racconti della raccolta originale un ritrovamento recente, la novelette – inedita fino al 2015 – The Strangers, tradotta da Elena Furlan.

Si parte con Le spade – il cui adattamento filmato del 1997, sotto la direzione di Tony Scott, costituì l’episodio pilota della serie antologica horror The Hunger – storia di erotismo morboso, ambientata fra alberghi di malaffare e scalcinati luna park in cui il freak-show sconfina con l’esibizione pornografica. In un baraccone isolato una fanciulla, insieme attraente e ripugnante, si lascia trafiggere senza danno con una spada da un componente del pubblico alla volta: dopo aver sferrato il colpo e constatato l’inspiegabile mancanza di ferite sul corpo della giovane, lo spettatore ha il diritto di baciarla. La ragazza, sotto la protezione dell’impresario-magnaccia, non disdegna di concedere, a congruo prezzo, appuntamenti intimi per spettacoli privati agli habitué e il giovane protagonista non resisterà alla tentazione. Il racconto è un esempio perfetto della prospettiva particolare da cui Aickman guarda al sesso: in modo sempre assolutamente diretto senza tuttavia essere mai del tutto esplicito. Non c’è bisogno di Freud per vedere nella spada la metafora della penetrazione: coito e stupro coincidono, ogni carnalità è intrinsecamente sadomasochistica, ogni intimità sessuale dolorosa e crudele.

La vera strada della chiesa è invece un esempio dell’Aickman più mistico ed esoterico: certe soglie – da cercarsi in luoghi isolati e periferici del mondo, come il minuscolo arcipelago franco-britannico sul Canale della Manica, scenario del racconto – certe linee di energia che serpeggiano oltre il tempo e lo spazio, oltre la vita e la morte, verso un indefinibile ed enigmatico Altrove, si celano dietro l’ingannevole paravento della sacralità pagana ancestrale e delle sue sopravvivenze nelle credenze popolari dell’ugualmente ingannevole religione cristiana.

Niemandswasser ci trasporta in un ambiente mitteleuropeo, nell’atmosfera Biedermeier di uno degli stati della Confederazione germanica prima della guerra del 1866 fra Austria e Prussia, mentre principi asburgici e nobildonne berlinesi intrecciano amori, destini e misteri sulle rive infestate del lago Bodensee.

Diario di una ragazza inglese è un classico del vampirismo, pubblicato nel 1973 su The Magazine of Fantasy & Science Fiction e insignito nel 1975 del World Fantasy Award per il miglior racconto. Considerata da molti la sua storia più perfetta, è la relazione puntuale di un’inquieta adolescente britannica che registra (pregiudizi etnici inclusi) le tappe del Grand Tour italiano che sta percorrendo con la sua facoltosa famiglia lungo gli itinerari di Byron e Shelley: la fanciulla non riuscirà ad incontrare i due mitizzati poeti, li vedrà solo passare fuggevolmente a cavallo, ma ad una festa nell’antico palazzo di nobili conoscenti italiani farà un incontro ravvicinato assai più eccitante e sanguinoso.

L’ostello è un altro dei racconti più enigmatici e meritatamente famosi della produzione aickmaniana. A rigor di termini non vi si può parlare nemmeno di soprannaturale, eppure il Weird&Eerie di questa storia è ai massimi livelli. Un viaggiatore di commercio a corto di benzina trova casualmente rifugio per una notte in un albergo-pensione: l’accumulo di inquietanti e incomprensibili bizzarrie (l’aspetto e la disposizione degli ospiti durante la cena; la quantità del cibo e le condizioni del servizio; gli espliciti inviti erotici ricevuti da parte di una perfetta sconosciuta; le reticenze ambigue del direttore; il polimorfismo inspiegabile del compagno di stanza, ecc.) daranno i brividi al povero protagonista: un urlo lancinante nel cuore di una notte quasi insonne lo sconvolgerà definitivamente. Il giorno dopo il direttore dell’albergo, dopo avergli comunicato la tragica e improvvisa dipartita di uno degli ospiti, gli procurerà gentilmente un passaggio fino all’autobus per il centro abitato più vicino dove cercare un meccanico per recuperare l’auto: viaggerà insieme ai becchini sul carro funebre che porta via la salma del deceduto. Come ha commentato un critico: “una storia horror sull’orrore di gente così terrorizzata dall’orrore da essere disposta a tutto pur di evitarlo”.

Lo stesso cane è di nuovo un’eccentrica ghost-story senza fantasma, o piuttosto il fantasma c’è ma (quasi) non si vede: un minaccioso cane, guardiano di una villa apparentemente disabitata, esercita una sorta di possessione sulla compagna di giochi e primo amore del protagonista, misteriosamente riuscirà a portagliela via e, forse immune al tempo, a imprigionarla fra la vita e la morte.

Io e Mr. Millar è una storia di inquilini ed appartamenti; il racconto di formazione e di crescita di un giovane protagonista e della sua relazione clandestina con la bella vicina di casa, sposata e madre di diversi bambini; ma è soprattutto la storia di un’infestazione, un’infestazione provocata da un solo uomo e vivo: il misterioso e inqualificabile Mr. Millar, che trasferitosi nel palazzo vi innesca un crescendo di comportamenti, eventi e situazioni sempre più bizzarri e l’insorgere di un’atmosfera sempre più cupa e sgradevole che ostacolerà il love affair fra i due giovani conducendo a un climax presumibilmente soprannaturale e ad uno scioglimento cruento che libererà però finalmente l’ambiente, ripristinando l’(apparente) equilibrio iniziale.

L’uomo degli orologi è forse, di tutti, il racconto più allegorico. Ogni amore è soggetto al tempo, tutto finisce, anche la passione più divorante si consuma e si esaurisce attraverso le ore e i giorni. Nell’immediato dopoguerra inglese il protagonista si è portato in patria dalla Germania sconfitta la bella Ursula, che ha sposato: nata nella Foresta nera, tra gli orologi a cucù, la donna si circonda di strani e impensabili congegni meccanici e intrattiene una segreta relazione con un uomo misterioso che furtivamente viene di tanto in tanto a regolarli. Il marito geloso non riesce a superare la cortina di mistero e di riserbo della compagna ma scopre, al di là delle sue bugie e reticenze, che quando gli orologi si fermano, si rompono o si guastano, anche la bellezza e la gioventù di Ursula vengono meno. Ancora una volta la forza estranea e irrazionale, il “soprannaturale”, sarà il veicolo del disamore, della disarmonia, della fine di ogni rapporto di affetto e di unione.

Al di fuori della raccolta originale anche il lungo racconto aggiunto a questa edizione e ritrovato in una stesura non ancora definitiva, Gli stranieri, conferma, quasi fosse un’ossessione, quanto appena detto: qui la relazione fra il protagonista e la donna amata viene improvvisamente, e in questo caso anche tragicamente, interrotta dall’irruzione dell’Oscuro e dei suoi grotteschi alfieri che, durante un’assurda e angosciante festa di beneficienza, prenderanno possesso dell’amico “sfigato” trasformandolo in un temibile rivale, pericoloso ormai non solo sul piano erotico ma anche e soprattutto su quello metafisico. Ognuno degli attanti in realtà, innamorata fedifraga compresa, non è che la pedina di un gioco molto più grande e del tutto impenetrabile.

Aickman con tocco ineguagliabilmente allusivo, senza mai dare l’ombra di una spiegazione, quando non delinea scenari storici credibili, descrive l’Inghilterra depressa e cadente di un immediato dopoguerra (sia il primo che il secondo) che spesso persiste e si prolunga eternamente nei quartieri periferici degli anni ’60, remoti dalla swinging London, dalle minigonne e dalla musica beat. I suoi personaggi raccontano, quasi sempre in prima persona, e talvolta a distanza di anni ricordano eventi della gioventù, sepolti nel loro passato. Personaggi che non corrispondono affatto al tipico protagonista del dark tale anglosassone: l’esteta solitario alla Machen o alla Lovecraft, l’erudito antiquario alla M.R. James, l’intellettuale in fuga dal mondo alla Hodgson o alla Blackwood, personaggi diversi dallo stesso Aickman, che ben avrebbe potuto collocarsi egli stesso entro tali tipologie letterarie. I suoi protagonisti sono invece giovani piccolo borghesi in cerca di occupazione, editor di romanzetti pornografici, broker, commessi viaggiatori, impiegati della City; un campionario assolutamente non scontato di umanità minuta, la cui vivida descrizione ricorda la precisione analitica dei bambini e degli adolescenti ritratti da Walter de la Mare, l’unico letterato la cui voce si possa comparare alla sua.

C’è dunque sempre una buona ragione per leggere Robert Aickman e ce n’è una ancora migliore per cominciare proprio da questa magistrale raccolta, Cold Hand in Mine, o, se preferite, Brividi crudeli.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Nemico (e) immaginario. L’orrore che avanza. Corpi mutanti e identità inquiete all’alba dello yuppismo anni Ottanta https://www.carmillaonline.com/2021/07/19/nemico-e-immaginario-lorrore-che-avanza-corpi-mutanti-e-identita-inquiete-allalba-dello-yuppismo-anni-ottanta/ Mon, 19 Jul 2021 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66954 di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di [...]]]> di Gioacchino Toni

«Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione» (Edoardo Trevisani)

«Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi» (Fabio Migneco)

Il fascino del genere horror deriva probabilmente dal suo mettere in scena una contrapposizione tra conosciuto e sconosciuto, tra il “normale” ed il diverso, offrendo allo spettatore la possibilità di identificasi in quell’alterità che la società ha represso e bandito in quanto “mostruoso”. Affascinato dal bizzarro, dal macabro, dal terrorizzante, l’essere umano individua nell’horror la possibilità di esperire paura e disgusto in un contesto non reale, dunque non fisicamente minaccioso. Probabilmente il vero oggetto dei film horror, come sostiene la studiosa Antonietta Buonauro, è «costituito dalla rappresentazione degli incubi culturali che la società occulta/censura, come fa il Super-io con certi contenuti onirici individuali: laddove il sogno e la fantasia sono espressione del represso, di tensioni tra norme sociali e desideri inconsci, l’horror, attraverso l’imago del mostro, mette in scena il socialmente inaccettabile, consentendo di accedervi senza pagarne le conseguenze1.

E negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta è proprio divorando film horror e di fantascienza, racconti di Poe e Lovecraft, oltre che fumetti in quantità industriale,  che alcuni ragazzini maturano l’idea di impugnare, non appena cresciuti, una macchina da presa per esplorare e dare immagine a nuovi incubi anche costo di entrare in rotta di collisione con l’immaginario manistream. Tra questi ragazzini c’è sicuramente John Howard Carpenter, nato nel 1948 a Carthage, New York, e cresciuto nel Kentucky in un ambiente famigliare artisticamente vivace da cui deriva l’amore per la musica e la passione per il cinema. È impugnando una Brownie 8 mm che il giovane Carpenter inizia a girare i suoi primi cortometraggi disseminandoli di riferimenti ai moster movie giapponesi ed ai western.

A passare in rassegna l’intera produzione cinematografica dello statuitene sono due recenti volumi: Edoardo Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo (Edizioni NPE, 2021) che, come suggerisce lo stesso titolo, ne mette in evidenza l’originalità e Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter (La case books, 2021), che invece si focalizza sul ruolo del corpo nelle opere del regista.

L’intera filmografia carpenteriana mette in scena l’inquietudine, la sensazione di pericolo imminente, la paura che si manifesta nelle modalità più diverse e che travolge i protagonisti delle sue opere e con esse il pubblico. Da questo punto di vista uno dei film più inquietanti realizzati dal regista, su cui entrambi i volumi inevitabilmente si soffermano, è La Cosa (The Thing, 1982) che può essere considerata tra le pellicole che, sull’onda delle montanti paure identitarie del periodo, hanno saputo portare sugli schermi un nuovo immaginario [su Carmilla].

I due autori ricostruiscono la genesi del film a partire dall’idea della Universal di riprendere La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, 1951) di Christian Nyby (e forse lo stesso Howard Hawks), per trarne un film più fedele al racconto Who goes There? di John W. Campbell pubblicato nel 1938. Se nel racconto sono facilmente individuabili riferimenti al pericolo nazista, il film del 1951, allinenadosi all’immaginario statunitense dell’epoca, sposta la minaccia riferendosi al comunismo. Nell’opera di Nyby, sottolinea Trevisani, oltre al pericolo rosso, è al contempo ravvisabile,

come spiega Stephen King in Danse Macabre, l’espressione di una forte sfiducia nei confronti degli scienziati e dei politici progressisti insieme a loro, pieni di grandi idee, ma incapaci di vere e proprie azioni risolutive in tempo di crisi. Nel film di Hawks e Nyby di fronte al pericolo alieno tutti gli abitanti della base sono pronti a fare fronte comune e a collaborare, a eccezione professor Carrington, malato di superomismo, che è pronto a tutto pur di salvare la creatura per scoprire i suoi segreti2.

La stesura della sceneggiatura per il nuovo film risulta travagliata; le difficoltà ruotano attorno alla natura dell’entità aliena che Campbell descrive come essere che muta la sua forma appropriandosi dei corpi degli esseri con cui viene a contatto seminando così il terrore tra gli umani. Nel film del 1982 che vede John Carpenter alla regia e Kurt Russell nei panni del protagonista McReady, dopo che Clint Eastwood, Jeff Bridges e Nick Nolte hanno rifiutano la parte, l’essere alieno si presenta come un microrganismo colonizzatore che, giunto al Polo a bordo di un’astronave in tempi remoti, assume le forme di vita con cui viene a contatto: è chiaro pertanto come il problema maggiore per la realizzazione della pellicola riguardi gli effetti speciali necessari a rendere l’atto della mutazione.

Sebbene alcune riprese siano realizzate tra i ghiacci dell’Alaska, buona parte della pellicola viene girata negli Studios della Universal in piena estate all’interno di un set refrigerato al fine di rendere visibile il fiato dei personaggi. Rob Bottin, addetto agli effetti speciali, racconta:

volevo che La Cosa fosse come un incubo. Quando ti svegli da un incubo e non ti ricordi bene cosa hai visto. Non ti è chiaro. È una cosa che cambia nell’ombra. Ecco come avevo pensato alla “cosa”. Volevo qualcosa di diverso dal solito uomo dentro un costume di gomma, qualcosa di completamente alieno, più alieno di Alien. Ho iniziato a pensare e ho concluso che forse il segreto era proprio nel titolo del film. […] perché non trovare un qualcosa che può cambiare quando lo desidera e davanti ai tuoi occhi, e di cui non sai quale sia la forma originale?3.

Dopo aver mostrato, durante i titoli di testa, un disco volante che si schianta su un pianeta, che si scoprirà presto essere la Terra, il film si apre con un cane che nel fuggire dagli spari provenienti da un elicottero torva rifugio presso una base di ricerca scientifica statunitense tra i ghiacci. Scesi a terra armi in pugno con l’ossessione di dover assolutamente eliminare il cane, gli inseguitori restano uccisi nel corso di un conflitto a fuco ingaggiato con gli uomini della base. Questi ultimi, intenzionati a capire quanto accaduto, scoprono, oltre ai corpi dei compagni degli assalitori congelati in circostanze misteriose, un nastro che documenta il ritrovamento di un’astronave sepolta tra i ghiacci da parte di scienziati scandinavi. L’animale giunto alla base statunitense si comprenderà poi essere la forma assunta dalla “cosa dall’altro mondo” per propagarsi velocemente come un’infezione all’interno di una comunità umana in cui ormai nessuno si fida più di nessuno. Scrive a tal proposito Migneco che, a ben guardare, tra i messaggi che «la condizione umana è già contaminata, ancora prima che sia la Cosa a farlo. I personaggi sono diffidenti tra do loro e nel gruppo non c’è una grande coesione, anzi, e l’avvento della Cosa rende solo più esplicito il tutto»4.

Primo capitolo di quella che sarebbe poi stata definita la Trilogia dell’Apocalisse, – composta da La cosa (The Thing, 1982), Il signore del male (Prince of Darkness, 1987) e Il seme della follia (In the Mouth of Madness, 1994) –, quello di Carpenter è un film pessimista, claustrofobico, che non concede speranze al pubblico che, terminata la visione, non può che uscire dalla sala in preda ad un senso di disagio. Probabilmente il motivo principale dell’insuccesso di pubblico alla sua uscita, secondo Trevisani è da ricercarsi nella

estrema impietosa lucidità con cui [Carpenter] descrisse l’alba degli anni Ottanta. Mentre la gente preferiva farsi cullare dalla favola fantascientifica di E. T. di Spielberg, che era in sala in contemporanea con La Cosa, e dal suo ottimismo nei riguardi del prossimo, Carpenter aveva già compreso quali paure stavano dilaniando la coscienza dell’America. Se La Cosa da un altro mondo di Hawks è il racconto di un’umanità unita contro la minaccia esterna, quella di Carpenter è un’umanità divisa dall’individualismo, dalla paura e dalla diffidenza, in sostanza per Carpenter la “cosa” è quel germe che sta sgretolando la società. Era qualcosa che già il regista avvertiva sin dai tempi di Distretto 13, solo che ora quelle premesse raggiungono il pieno compimento5.

È come se il Male, dismessa la maschera di Halloween, avesse indossato quella di qualsiasi essere umano, continua Trevisani; quasi ad esplicitare che chiunque può essere il mostro.

Il film insiste sul rapporto tra spazio interno e quello esterno: al primo appartiene l’ambientazione claustrofobica della piccola base isolata dal resto del mondo e abitata da una dozzina di uomini costretti ad ingannare alla meglio il tempo che sembra non passare mai; al secondo, minaccioso e sconfinato, appartengono tanto le infinite distese di ghiaccio del paesaggio polare quanto lo spazio attraversato dall’astronave aliena prima di precipitare sulla terra.

Si torna alle premesse di Dark Star, volendo, solo che il rapporto dentro fuori riguarda i corpi e le identità e il senso di questo assedio inevitabilmente assume un peso politico non indifferente. La Cosa esce nei cinema agli inizi degli anni Ottanta, l’epoca dell’edonismo, del rampantismo, della reaganomics. A un irrigidimento politico reazionario e a una sempre maggiore precarizzazione delle classi lavoratrici corrisponde l’esaltazione del corpo e il culto dell’apparenza6.

Da lì a poco, ricorda l’autore, gli schermi televisivi – e non solo statunitensi – sarebbero stati occupati dai corsi di aerobica di Jane Fonda che invitano a sentirsi responsabili nel caso il corpo che ci si ritrova non sia quello desiderato. All’immaginario yuppie improntato sul culto del corpo e dell’apparire, un piccolo filone del cinema horror degli anni Ottanta risponde pensando e mostrando il corpo in altro modo.

In una società in cui la decadenza del corpo è trattata alla stregua di un peccato capitale, di un sacrilegio, Carpenter si permette di dare in pasto i corpi a un alieno la cui strategia di sopravvivenza è l’imitazione, la riproduzione perfetta delle sembianze umane, ma che trova la forma più estrema di offesa nella deformazione, nel deturpare il fisico, nel trasformalo in incubo. Il mostruoso, il deforme, che suggerisce contaminazioni impossibili, deviazioni dalla norma, sono l’orrore massimo di una società che vede solo la strada dell’omologazione7.

Dell’unità tra umani che permetterà la vittoria nei confronti dell’essere alieno del film del 1951, nella versione del 1982 non c’è traccia; a dominare sono piuttosto la diffidenza e la rivalità. «È la paranoia del contatto, che viene fuori alla vigilia del contagio dell’AIDS, ma è anche qualcosa di più, è la costatazione che nessun corpo è autonomo e che nessuno può decidere solo ed esclusivamente per se stesso»8. Alla faccia della sociofobica Iron Lady insediatasi a Downing Street: “you know, there’s no such thing as society. There are individual men and women and there are families”. Mark Fisher9, ricorda Trevisani, ricorre proprio al film di Carpenter per spigare la natura di quel capitalismo che ama presentarsi come entità astorica dunque priva di alternative (lo slogan “There Is No Alternative” è stato ripetuto talmente tante volte da Margaret Thatcher da finire per essere soprannominata con l’acronimo “TINA” da un suo collega di partito):

entità che appartiene a una dimensione senza tempo e senza spazio, preesistente ai sistemi politici come, una sorta di abominio che le società primitive e feudali tentavano di tenere a distanza e dotata della capacità di integrare continuamente il differente, la protesta, il trauma, rielaborandole ininterrottamente, rubandone l’aspetto e sostituendone la natura: “un’entità mostruosa, plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”10.

Nella versione degli anni Cinquanta, ambientata in una base aerea statunitense in Alaska, soggiace il timore di un possibile attacco sovietico dal polo ed è sospettando un coinvolgimento dei russi che, saputo di un disastro aereo vicino al polo, il capitano Pat Hendry decide di indagare sull’accaduto, salvo poi trovarsi poi di fronte ad un essere alieno simile ad una pianta che si nutre di sangue. Nonostante la ritrosia dello scienziato Carrington che, al pari di tanti altri suoi colleghi che si incontrano nella fantascienza, non esita a sacrificare vite umane per poter condurre le sue ricerche, l’equipaggio statunitense decide di eliminare l’entità aliena. Di fronte all’invulnerabilità di quest’ultima alle pallottole spetta a Nikki Nicholson, l’unica donna del gruppo, proporre una soluzione alternativa: se l’alieno è una pianta, allora non resta che provare a “cuocerlo”.

Questa opposizione tra logica pura (maschile) e intuizione (femminile) è un elemento fondamentale nel dibattito della fantascienza sull’essenza dell’umanità. Anche se la science fiction si risolve quasi sempre con la forza, sono spesso gli attributi femminili di emozione e intuizione che segnano la differenza tra uomini e alieni, e permettono la vittoria umana11.

Se i protagonisti dei film degli anni Cinquanta si mostrano certi della netta distinzione tra se stessi e gli alieni, nella versione di Carpenter gli umani sono alla ricerca di conferme circa il loro essere restati tali. Mentre la minaccia nella prima pellicola è identificabile con un nemico esterno (i sovietici), agli albori di un mondo che, perdendo le sue certezze, sembra avviarsi verso trasformazioni che condurranno alla globalizzazione e alla digitalizzazione, i timori derivano piuttosto dalla difficoltà di definire “cosa” stia divenendo l’umano. È forse questa l’angoscia a cui allude la difficoltà e l’urgenza dei protagonisti di distinguersi dagli alieni.

La base statunitense nel film di Carpenter è abitata da uno spaccato di umanità – di soli uomini – a cui è precluso – o che si preclude – il contatto, in balia dalle proprie nevrosi. Una dozzina di uomini costretti a vivere in spazi angusti non sembrano riuscire a fronteggiare chi ha capacità di riprodursi e diffondere la propria specie..

Per molti versi La cosa è uno slasher movie, segue molti dei meccanismi del genere, solo che alcuni circuiti sono interrotti, i rapporti a un certo punto risultano sfalsati e forse fu anche questo a disorientare il pubblico. L’alieno è sostanzialmente l’assassino che in uno spazio chiuso, in un’arena, fa fuori i personaggi uno dopo l’altro, il problema è che viene a mancare il consueto motivo sessuale implicito, o meglio viene sovvertito. In più manca l’atto per eccellenza dello slasher, l’omicidio, anzi, è come se la morte perdesse di significato nel film di Carpenter, non esiste più, dato che l’annientamento del personaggio coincide con la colonizzazione e la distruzione effettiva è affidata ai componenti ancora umani del gruppo12.

La Cosa non si mostra mai direttamente, la si “percepisce” soltanto attraverso le forme che assume di volta in volta e quando coincide con l’essere umano è ormai troppo tardi e l’ossessione del controllo – “Voglio tenervi tutti sotto controllo” afferma McReady rivolgendosi ai colleghi –, non può fermare il contagio che, invisibile, fuori campo, conduce insormontabilmente alla temuta mutazione. Il mondo della razionalità scientifica che ha, sin dalle sue origini, a che fare con il controllo visivo, si mostra incapace di individuare l’alterità aliena che invece riesce a controllare e ad appropriarsi degli esseri umani.

Secondo Migneco il film può anche essere interpretato come la rappresentazione del timore della malattia e della morte.

Potrebbe essere l’Aids, il cancro, l’epatite, qualsiasi cosa. Potrebbe persino essere solo l’invecchiamento, il disfacimento del corpo. Solo all’inizio l’orrore arriva da fuori, come un virus, poi viene da dentro, è in noi e infatti l’unico modo per sapere se i personaggi sono ancora umani o cose, è un’analisi del sangue […], perché “l’analisi del sangue che determina cosa stia davvero succedendo dentro il corpo umano”. […] Corpo e sangue. Identità, La Cosa priva i protagonisti dell’ultima certezza, quella della propria identità, del proprio essere. Chi è umano e ch no? Di chi ci si può fidare?13

Nel film si potrebbe scorgere, continua Migneco, anche un approfondimento relativo alla paranoia, agli effetti della paura, una vicenda in cui il male distrugge l’interiorità per poi ri/crearne una a sua immagine. Più ai personaggi, il film sembra sembra riferirsi a di chi, seduto su una poltronicina, lo sta guardando al cinema. Dai primi anni Ottanta messi, a suo modo, in scena da Carpenter è passato parecchio tempo; “la cosa” nel frattempo non ha smesso di diffondersi… mentre ci si continua a ripetere con McReady, ma forse con sempre meno convinzione: “I know I’m human”…


Nemico (e) immaginario serie completa


  1. A.  Buonauro, Horror film e estetica masochistica: piacere visivo e dinamiche dell’identificazione, in DWF. Donna Woman Femme: Rivista internazionale di studi antropologici storici e sociali sulla donna, 2008, n. 1, vol. 77, pp. 40-57. 

  2. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, Edizioni NPE, Battipaglia (SA), 2021, p.93. 

  3. G. D’Agnolo Vallan, R. Turigliatto, John Carpenter, Lindau, Torino 1999, pag. 147. Brano riportato in E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 95-96.  

  4. Fabio Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, La case books, 2021, p. 64. 

  5. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 99. 

  6. Ivi. 100. 

  7. Ivi, p. 101. 

  8. Ibid. 

  9. M. Fisher, Capitalist Realism: Is There No Alternative?,  Zero Books, UK, 2009, tr. it.: M. Fisher, Realismo capitalista, Produzioni Nero, Roma, 2018. 

  10. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., pp. 101-102. 

  11. Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Milano, 2021, p. 303. 

  12. E. Trevisani, John Carpenter. Il regista da un altro mondo, op. cit., p. 202 

  13. F. Migneco, Il corpo nel cinema di Carpenter, op. cit., pp. 65-66. 

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Incubi al femminile: la Strange Fiction di Lisa Tuttle https://www.carmillaonline.com/2020/10/17/incubi-al-femminile-la-strange-fiction-di-lisa-tuttle/ Fri, 16 Oct 2020 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=63129 di Walter Catalano

Lisa Tuttle, Il profumo dell’incubo, Edizioni Hypnos, pp. 335, €. 17,90.

Texana trapiantata da decenni in Scozia, Lisa Tuttle si può considerare una delle principali eredi dirette contemporanee della grande tradizione femminile anglosassone della weird fiction, quella lunga e gloriosa traiettoria che dai Gothic novel di Anne Radcliffe, attraverso il Frankenstein di Mary Shelley, il romanticismo oscuro delle sorelle Bronte, le inquietudini vittoriane di Charlotte Riddell o Edith Nesbit, e quelle primo novecentesche di Edith Warthon, Elizabeth Bowen o Vernon Lee, giunge tortuosa e troppo spesso ingiustamente sottovalutata, [...]]]> di Walter Catalano

Lisa Tuttle, Il profumo dell’incubo, Edizioni Hypnos, pp. 335, €. 17,90.

Texana trapiantata da decenni in Scozia, Lisa Tuttle si può considerare una delle principali eredi dirette contemporanee della grande tradizione femminile anglosassone della weird fiction, quella lunga e gloriosa traiettoria che dai Gothic novel di Anne Radcliffe, attraverso il Frankenstein di Mary Shelley, il romanticismo oscuro delle sorelle Bronte, le inquietudini vittoriane di Charlotte Riddell o Edith Nesbit, e quelle primo novecentesche di Edith Warthon, Elizabeth Bowen o Vernon Lee, giunge tortuosa e troppo spesso ingiustamente sottovalutata, fino al magistero di Shirley Jackson e Flannery O’Connor. Una prospettiva sul disagio femminile e una testimonianza di emancipazione letteraria, filosofica e sociale dal dominio patriarcale che, procedendo dai territori impervi e trasgressivi del gothic, dell’horror e del weird a quelli altrettanto ribelli della fantascienza e del fantasy, arriverà a includere, con la Tuttle stessa, anche Ursula K. Le Guin, Margaret Atwood, Octavia E. Butler, Alice Sheldon, Joanna Russ, Joyce Carol Oates, e decine di altre. Nel campo del fantastico, come in molti altri, è evidente quanto le autrici siano state, oltre che più presenti, anche decisamente più rilevanti degli autori.

Lisa Tuttle ha brillantemente praticato tutte le declinazioni e i sottogeneri della narrativa fantastica, ha pubblicato una Encyclopedia of feminism, ha curato come editor varie antologie miscellanee tra cui Skin of the Soul: New Horror Stories by Women (1990), raccolta horror di sole scrittrici, e Crossing the Border: Tales of Erotic Ambiguity (1998), stessa formula ma applicata a testi erotici. La sua lunga carriera letteraria inizia nel 1981, a fianco di George R.R. Martin – di cui è stata per qualche tempo compagna – con cui ha scritto il romanzo Windhaven (da noi Il pianeta dei venti); a questo sono seguiti una decina di altri romanzi, altrettante raccolte di racconti e vari testi per l’infanzia, oltre alla saggistica femminista di cui abbiamo detto. La scrittrice ha lasciato l’America fin dagli anni ’80 per trasferirsi prima a Londra, dove è stata sposata per qualche anno con il noto autore britannico Cristopher Priest, poi in Scozia dove risiede tutt’ora.

La scelta dell’Europa come residenza definitiva non è stata certo casuale per questa artefice di atmosfere che rifuggono dalla Grande Esteriorità tipicamente statunitense, una dimensione che include, nel campo che la riguarda, il cosmic horror alla Lovecraft, in cui la minaccia arriva sempre dall’esterno, dal “totalmente altro” (e possono rientrare in questa categoria sia Stephen King che, in certi casi, perfino un certo Poe, nel Gordon Pym, ad esempio). La Tuttle predilige invece la scuola della Grande Interiorità, quella che in campo fantastico vede come suoi maggiori esponenti Walter de la Mare o Robert Aickman, nelle cui opere il perturbante si sprigiona soprattutto dagli ambienti familiari e quotidiani e dove le forze estranee provengono dal profondo di noi. In questo modo lo slittamento fra i piani di realtà è più sottile, l’ambiguità fra vissuto e sognato salda l’autobiografia all’affabulazione fantastica e le storie e i personaggi  per lei mantengono sempre un punto di vista rigorosamente femminile.

L’efficacia di questo procedimento è testimoniata nell’antologia appena pubblicata dall’infaticabile Hypnos Editore, Il profumo dell’incubo: tredici storie selezionate dalla scrittrice stessa appositamente per il pubblico italiano e che ripercorrono la sua intera carriera, da “La casa degli insettidel 1980, a “L’ultima sfida” del 2017, passando per “Sostituti” del 1992, uno dei suoi testi più apprezzati. I racconti sono tutti, senza eccezione, di straordinaria qualità: si parte sempre da una situazione apparentemente ordinaria, da problemi e conflitti di ordine naturale che, quasi inavvertitamente scivolano lentamente verso un bizzarro e un abnorme che raramente si manifestano in sovrannaturale esplicito ma restano sempre elusivi ed enigmatici. Non si può parlare a questo proposito esattamente di ghost stories, proprio come avveniva nel caso di Robert Aickman, che definiva infatti i suoi racconti strange tales. Anche la Tuttle parla di strange fiction più che di horror per dare un’idea della sua narrativa. Come ci spiega l’autrice nell’introduzione al volume, autobiografia e deriva fantastica non sono incompatibili ma complementari: così in “Il volo per Byzantium”, la partecipazione ad una improvvisata convention fantascientifica in Texas diventa la porta d’ingresso nell’incubo; in “Gli oggetti nel sogno potrebbero essere più vicini di quanto sembrano”, un appuntamento con l’ex-marito vent’anni dopo la separazione per cercare una casa fantasma nel Devon con l’aiuto di Google Earth e GPS, produrrà risultati imprevedibili quanto sgraditi; la cameretta della prima infanzia o dell’adolescenza diventerà la trappola di “Sogni nell’armadio” o “L’uomo di cibo”; l’angoscia della gravidanza partorirà il delirio di “La mia malattia” o “A cavallo dell’incubo”. Non mancano gli omaggi espliciti: a Walter de la Mare in “L’ultima sfida” e soprattutto a Robert Aickman in “Il libro che ti trova”, una delle storie forse più terribili e commoventi della raccolta, in cui ispirandosi all’incontro mancato a Londra fra la Tuttle e lo scrittore ormai morente per un male incurabile, si evoca il fantasma tragico dell’amore tormentato e infelice fra Aickman e la scrittrice Elizabeth Jane Howard, spettro di tutti gli amanti respinti.

Questa splendida raccolta soddisferà sia gli appassionati di narrativa fantastica che quelli di letteratura al femminile: una lettura affascinante e disturbante, sempre profonda e mai pretestuosa, perfettamente in linea con la temibile e gloriosa tradizione delle oscure signore tessitrici di incubi liberatori: speriamo che porti all’autrice anche nel nostro paese tutta l’attenzione e la stima che merita.

 

 

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Le brigate: distopia pandemica e stato d’eccezione https://www.carmillaonline.com/2020/07/22/61557/ Tue, 21 Jul 2020 22:01:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=61557 di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi [...]]]> di Raul Schenardi

Ariel Luppino, Le brigate, Traduzione di Francesco verde, Ed. Arcoiris, Salerno, pp. 168, € 13.

Fiaccato dalle massicce dosi di paranoia iniettate quotidianamente per mesi dalle tv e dai giornaloni di regime, e piuttosto depresso dalla visione del gregge che si ostina a girare per strada con la mascherina (leggi: museruola) incurante del fatto che noi abbiamo bisogno di respirare ossigeno, e non anidride carbonica, ho deciso di dare un’occhiata a quello che succedeva nella vecchia Europa. Insieme a qualche notizia confortante di manifestazioni in vari paesi contro il lockdown (leggi: arresti domiciliari), ho scoperto che in Francia, dove Macron si frega le mani soddisfatto per essersi tolto dai piedi i gilet gialli, è partita un’iniziativa inquietante: è nata una task force di “investigatori sanitari” che impegnerà almeno 30.000 membri per scovare i “positivi” al Covid19, tracciare e avvertire i loro contatti e organizzare misure di segregazione. Altro che app più o meno volontarie: 700.000 test a settimana, e quando qualcuno sarà trovato “positivo”, a tutti i suoi contatti verrà chiesto di “isolarsi da soli”, in casa o “negli hotel requisiti a questo scopo”. Ma è stato il nome scelto per questa task force a far scattare nella mia testa un campanello d’allarme e una rapida associazione mentale: “brigate”. 

Le brigate, infatti, è il titolo di un romanzo dello scrittore argentino Ariel Luppino (classe 1985), pubblicato dalla casa editrice Arcoiris nella collana Gli eccentrici (traduzione di Francesco Verde e postfazione di Federica Arnoldi), che avevo letto di recente nell’originale e che ha suscitato il mio entusiasmo.

Fin dalla prima pagina siamo immersi in un universo distopico e in una atmosfera a dir poco infernale: una misteriosa epidemia che si presume trasmessa dai topi e i cui sintomi sono strane macchie sulla pelle e disturbi del linguaggio – do you remember William Borroughs? “Il virus è il linguaggio” –, ha trasformato la città di Buenos Aires in una sorta di lazzaretto. Il sipario di questo vero e proprio teatro della crudeltà si apre in un Centro di Detenzione dove i reclusi sono costretti a “pelare topi” e vengono vessati da una figura archetipica, il Milite, uno psicopatico che si diverte a torturare senza motivo e a stuprare chiunque gli arrivi a tiro. Il suo motto: “Il lavoro rende liberi”. I prigionieri, costretti a girare in pigiama, hanno i capelli rasati a zero: “Tutti uguali, tutti la stessa merda: detenuti”, e ogni tanto qualcuno viene usato come cavia per qualche esperimento “scientifico”. “Il giuramento d’Ippocrate non valeva in quel merdaio. Potevano fare di noi ciò che volevano.”

I vecchi devono nutrire i topi, i giovani devono raccoglierne le palline di sterco (“i più curiosi dicevano che a mangiarle non facevano male, che avevano un buon sapore”), e intorno ai topi si sviluppa una fiorente economia: con le loro pelli si fabbricano stivali, e c’è chi se li mangia vivi o ne beve il sangue, incurante dell’epidemia, mentre la città è percorsa da orde di cacciatori, poliziotti corrotti, spacciatori e alienati.

La voce narrante è un detenuto qualsiasi, nei confronti del quale però il Milite, che “continuava ad atteggiarsi a peronista”, mostra una certa simpatia, tanto da affidargli incarichi meno obbrobriosi degli altri: “Il mio compito, spiegò, sarebbe stato quello di accendere il fuoco [per preparare il mate], ma pareva meno pesante che rispondere al telefono in un call center”. Nella seconda parte del romanzo l’io narrante, che legge il Mein Kampf come se fosse la Bibbia o l’I-ching, rivelerà di essere un aspirante scrittore impegnato nella stesura di un romanzo “che nessuno avrebbe mai voluto pubblicare”, oltre che un allucinato convinto di essere stato contattato dagli alieni, che gli infondono il loro sapere straordinario… eiaculandogli dentro.

È anche innamorato – “… lei, che dava un senso al non-mondo”, sempre che si possa parlare d’amore in questo girone infernale – di una donna di cui si fida assai poco e che lo trascinerà in situazioni scabrose ed estreme. L’unica traccia di umanità, di dignità umana, trapela dal comportamento della moglie di un carrettiere, che si suicida dopo aver cantato una canzone tristissima in guaranì, perché il Milite, invaghitosi di lei, le ha ucciso il marito. Tutti gli altri personaggi, che fanno capolino in una sequenza di scene in cui la violenza diventa sempre più parossistica, sono abominevoli: così l’Industriale con la moglie, che visitano il Centro di Detenzione per ottenere un fegato sano da trapiantare al figlio, o decisamente parodistici, come il concorrente di un programma televisivo che finge da dieci anni di vivere in stato vegetativo: “Otto infermieri, quattro sceneggiatori e un direttore di produzione lavoravano per rendere la storia credibile”.

Assistiamo persino a uno spettacolo teatrale allestito per i detenuti che mette in scena la loro stessa grottesca situazione (do you remember Shakespeare, il Sogno d’una notte di mezza estate?).

Il Milite sogna di scatenare una seconda guerra per riprendersi le Falkland/Malvinas (“Là, in quelle isole di merda, me ne stavo in fondo a una trincea, a pisciarmi addosso per cercare di scaldarmi”) e vuole estorcere, con i consueti sistemi brutali, il denaro all’Industriale e l’appoggio tecnologico di uno “scienziato”. All’obiezione secondo cui: “Non basta un conflitto diplomatico per scatenare una guerra”, risponde: “Dipende. Per questo ci sono i media, no?”.

Nel frattempo, “l’ossessione sanitaria cresceva di giorno in giorno e io non ne ero immune”: vi ricorda qualcosa? Bastano poche citazioni per evidenziare le qualità “profetiche” dell’autore, che ha pubblicato in Argentina il suo romanzo nel 2017: “La gente però circolava con le mascherine, e il ricorso alla fecondazione in vitro, per evitare che l’ovulo potesse essere fecondato da un ignaro portatore sano, andava aumentando”.

Le brigate è un romanzo denso, stratificato: en passant Luppino nomina alcuni autori che configurano una stirpe a cui appartiene a pieno titolo: “… cominciai a leggerle dei racconti. Onetti, Fogwill, Laiseca. Niente Saer!”. In un altro punto fa capolino anche Jorge Barón Biza, autore del magnifico Il deserto, mentre non viene fatto il nome di Osvaldo Lamborghini, che pure è assai presente, sia per la violenza del linguaggio – da apprezzare il lavoro improbo del traduttore – sia per le numerose scene a sfondo sessuale. Le metafore sono scarse e scarne: “Mise le mani come se stesse strangolando un suricato”; “non poté frenare l’impulso di andare controcorrente, come un salmone kamikaze”; del resto, se la strada dell’inferno è lastricata di metafore, qui siamo già arrivati a destinazione e non ne abbiamo bisogno.

In Argentina il romanzo è stato accolto con grande favore dalla critica. Ricardo Strafacce ha sottolineato che, facendosi carico della storia del genocidio militare argentino, il modo di narrare di Luppino “ce lo fa vedere meglio di qualsiasi descrizione realista di quel passato”. Agustín Conde De Boeck, che ha scritto la recensione più acuta ed esaustiva, dice che Le brigate “fa sembrare Meridiano di sangue di McCarthy una semplice puntata di Bonanza”. César Aira ha dichiarato di approvare senza riserve il romanzo. E secondo la scrittrice Gabriela Cabezón Cámara, con Le brigate “la letteratura argentina ha raggiunto uno dei suoi nuovi vertici, fra i migliori”. Un libro necessario, che serve a ricordarci che non viviamo affatto nel migliore dei mondi possibili.

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