Honduras – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 18 Jan 2025 05:58:27 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Estrattivismo pandemico/3 https://www.carmillaonline.com/2020/08/13/estrattivismo-pandemico-3/ Wed, 12 Aug 2020 23:45:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62060 di Alexik

La violenza per l’estrattivismo non è una conseguenza ma una condizione necessaria” (A. Acosta).

Nel capitolo precedente abbiamo potuto approfondire come il lockdown generalizzato imposto in tempi di pandemia, riducendo il controllo popolare dei territori, le relazioni fra i vicini e la visibilità delle aggressioni, abbia esposto in molte parti del mondo i militanti sociali e ambientali a un rischio maggiore di intimidazione, assalti ed esecuzioni extragiudiziali. Allo stesso tempo le misure di emergenza sono andate a colpire le forme classiche dell’ opposizione sociale, creando un [...]]]> di Alexik

La violenza per l’estrattivismo non è una conseguenza ma una condizione necessaria” (A. Acosta).

Nel capitolo precedente abbiamo potuto approfondire come il lockdown generalizzato imposto in tempi di pandemia, riducendo il controllo popolare dei territori, le relazioni fra i vicini e la visibilità delle aggressioni, abbia esposto in molte parti del mondo i militanti sociali e ambientali a un rischio maggiore di intimidazione, assalti ed esecuzioni extragiudiziali.
Allo stesso tempo le misure di emergenza sono andate a colpire le forme classiche dell’ opposizione sociale, creando un contesto favorevole  per l’aumento della violenza istituzionale, sia nei termini dell’inasprimento normativo contro le lotte che della repressione di piazza.

Proviamo a delineare una panoramica internazionale di queste tendenze iniziando dal Perù – attualmente sotto la presidenza del neoliberista Martín Vizcarra – dove lo scorso 27 marzo, cioè 11 giorni dopo la decretazione del lockdown, è stata promulgata la “Legge di protezione della polizia“, che prevede la possibilità di un uso sproporzionato della forza, la  licenza di uccidere e l’impunità per gli effettivi della polizia e dell’esercito1.
Il provvedimento, frutto di un iter palesemente incostituzionale, è entrato in vigore nel pieno dello Stato di Emergenza Nazionale dichiarato in nome della pandemia, che pone i membri della polizia nazionale e delle forze armate sotto la catena di comando dell’ordine pubblico interno.
E’ una legge particolarmente pericolosa per l’opposizione sociale e per le lotte in difesa dei territori, tenendo conto che la polizia peruviana viene anche utilizzata per fornire servizi di sicurezza a pagamento per le compagnie minerarie – nel 2019 erano in vigore 29 contratti di questo tipo – e che in questa funzione esercita violenza sulle comunità2.

Sul piano politico, a giudicare dalla scelte operate negli ultimi trenta giorni da Martín Vizcarra nella designazione delle compagini di governo, il progetto che emerge è quello della costruzione di uno ‘Stato di polizia mineraria’, con la nomina in posizioni apicali del potere esecutivo di personaggi che agiscono in rappresentanza degli interessi delle imprese estrattive e con maturata esperienza nella repressione dei movimenti che contrastano le miniere.
Personaggi come Pedro Cateriano Bellido, già primo ministro con delega all’Interno sotto la presidenza di Ollanta Humala3, ruolo in cui si distinse per il  tentativo di ‘pacificare’ con la mano pesante i conflitti minerari4.
O come Rafael Belaunde Llosa, nipote dell’ex presidente Belaunde e figlio del proprietario della società mineraria Argento SRL, impresa a cui sono state contestate più di 100 responsabilità ambientali.
O ancora come l’attuale premier, Walter Roger Martos Ruiz, ex Capo di Stato Maggiore delle forze armate, affiancato dal neo ministro dell’energia e delle miniere Luis Miguel Incháustegui Zevallos, che ha ricoperto in passato il ruolo di vicepresidente presso le compagnie minerarie Golds Fields e Lumina Coppers.

Il 20 luglio scorso la polizia e l’esercito hanno attaccato la popolazione della provincia di Espinar, in piena ribellione contro la multinazionale anglo-svizzera Glencore, la principale esportatrice di rame del Perù.
Glencore è fra quelle imprese che dall’inizio della ‘fase 1’ hanno continuato normalmente le proprie operazioni, mentre la gente normale rimaneva bloccata nelle sue attività di sussistenza a causa delle misure adottate dal governo durante la pandemia.
Per sostenere la popolazione colpita dalla crisi le autorità locali di Espinar avevano deliberato l’uso di un fondo istituito da un accordo quadro con la compagnia mineraria nel 2003, che prevedeva la devoluzione del 3% dei suoi utili annuali verso progetti di sviluppo nella zona.
Una compensazione misera in confronto ai danni arrecati  agli ecosistemi e alle persone, con l’inquinamento di acqua, aria e suolo, e l’avvelenamento degli abitanti che presentano da anni metalli pesanti nel sangue (mercurio, cadmio, arsenico) ben oltre i limiti consentiti5.
Un mese fa la Glencore si è opposta all’utilizzo del fondo, innescando ampie proteste popolari.
La risposta del governo presieduto da Cateriano Bellido non si è fatta attendere, con l’invio di poliziotti infiltrati, l’uso di armi da fuoco sui manifestanti (con 5 feriti, di cui due minorenni), l’arresto di giovani e l’apertura di un’inchiesta contro otto dirigenti delle organizzazioni sociali.

Per non essere da meno del predecessore, l’attuale governo di Incháustegui Zevallos si è da poco occupato dell’aggressione contro il popolo amazzonico Kukama Kukamiria, che vive di pesca sui fiumi Marañón, Tigre, Urituyacu e Huallaga, fiumi a cui è legata la sopravvivenza e la cosmovisione delle comunità. Il nove agosto scorso, giornata internazionale dei popoli indigeni, la polizia peruviana ha attaccato una protesta pacifica di questo popolo contro lo sfruttamento petrolifero delle sue terre e l’inquinamento delle acque da parte della impresa canadese PetroTal Corp, assassinando tre manifestanti e ferendone 11.

Restando in America Latina, passiamo all’Honduras, dove la narcodittatura di Juan Orlando Hernández ha imposto al paese il coprifuoco dal 15 marzo, oltre alla sospensione di diritti fondamentali come la libertà di espressione e di riunione.
Il 25 giugno il governo ha approfittato del blocco imposto alla società honduregna per imporre l’entrata in vigore del nuovo codice penale, contestato dalle organizzazioni sociali come segue:

Ripudiamo un codice penale che criminalizza le proteste sociali, mette a rischio l’esercizio effettivo delle libertà di riunione e di associazione, ponendo in pericolo coloro che esprimono opposizione alle decisioni dei settori al potere, e definisce come crimini il  “disordine pubblico”, la “disobbedienza all’autorità”, le “riunioni e manifestazioni illecite” e il “terrorismo”, in termini così ampi e ambigui che si prestano immediatamente alla discrezione e all’arbitrio al momento della loro interpretazione e applicazione”.

Durante la pandemia sono aumentate nel paese le provocazioni dei militari, che pretendono di entrare in quelle comunità che hanno deciso di chiudersi per autotutela sanitaria, controllando autonomamente gli accessi dall’esterno. Tra queste ci sono le comunità resistenti ai progetti minerari ed estrattivi, che hanno sempre subito forme particolarmente dure di minacce e repressione da parte della polizia e dell’esercito.
Crescono in questo modo le occasioni di frizione con l’esercito e di conseguenza gli arresti arbitrari di militanti, che vengono messi ulteriormente a rischio per l’estensione dell’epidemia nelle carceri6.

Continuano a rischiare il contagio nei penitenziari honduregni otto difensori dell’acqua, detenuti illegalmente dal settembre scorso a causa delle loro opposizione, nel municipio di Tocoa, a una miniera di minerali di ferro a cielo aperto di proprietà della Pinares Investment7.
Giusto per stabilire due pesi e due misure, in nome dell’emergenza covid è stata tentata invece la scarcerazione – bloccata dalle proteste – degli assassini di Bertha Caceres, uccisa nel 2016 per la sua lotta contro le dighe sul fiume Gualcarque.

Nel frattempo un altro compagno honduregno ha fatto la fine di Bertha: Marvin Damián Castro Molina, dell’organizzazione MassVida, è stato ritrovato ucciso dopo la sua desaparecion  il 13 luglio.
Aveva sempre lottato per difendere il territorio dall’imposizione di progetti minerari, idroelettrici ed agroindustriali nella zona di Choluteca, nel sud del paese.

Anche il governo populista e militarista di Rodrigo Duterte nelle Filippine ha approfittato della pandemia per far passare il tre luglio la nuova Legge antiterrorismo, seguita da un’ondata di ritorsioni contro i media indipendenti attraverso la tattica del ‘red tagging’8.
Una legge che verrà utilizzata anche contro i movimenti di difesa ambientale che operano già ora in un contesto violentissimo, che ha determinato l’uccisione di 119 difensori della Terra nei primi tre anni della presidenza Duterte (2016/2019), il doppio di quelli ammazzati nel triennio precedente9.

Durante il lockdown, il 30 aprile, è stato ucciso l’architetto Jory Porquia, membro del Movimento ecologico Madia-es, che aveva svolto un ruolo fondamentale nelle campagne contro l’estrazione mineraria su larga scala, le centrali elettriche a carbone e le grandi dighe.
Jory Porquia era il progettista dei mulini del Panay Fair Trade Center, una rete di cinque cooperative delle cui attività beneficiano oltre 10.000 famiglie sulle isole Panay, e la cui ‘colpa’ è quella di aver tolto molti piccoli contadini dalla dipendenza dei latifondisti.
Poco prima della sua morte era coinvolto nelle operazioni per gli aiuti alimentari e nella cucina comunitaria nella città di Iloilo, per far fronte alla pandemia di COVID-19.
Quarantadue persone, tra cui familiari e colleghi, sono state arrestate durante una carovana di protesta per il suo assassinio, ma non i suoi sicari.

Va detto che Duterte ha accresciuto enormemente la violenza non solo contro i militanti, ma anche contro la popolazione in generale, soprattutto nel corso delle campagne antidroga che hanno  provocato la morte di 20.000 persone, prevalentemente povere, tramite esecuzioni extragiudiziali.
Violenza che si è manifestata anche in tempi di pandemia con l’arresto di 76.000 persone per violazione del lockdown, e particolarmente contro chi scendeva in strada per la perdita del lavoro e la scarsità degli aiuti alimentari da parte del governo.

In nome dell’emergenza Covid-19 sono stati sgomberati con la mano pesante gli accampamenti di protesta attorno alla miniera di Didipio, gestita da OceanaGold Philippines Inc., nella provincia di Nueva Vizcaya.
Gli accampamenti resistevano fin dal luglio 2019, quando ventinove comunità locali indigene e contadine avevano cominciato a bloccare gli accessi dei veicoli al sito minerario, che si estende per 27.000 ettari.
Il 6 aprile scorso un centinaio di poliziotti ha forzato il blocco delle ‘barricate umane’, in modo da permettere la fornitura di 63.000 litri di carburante per riattivare i generatori che azionano le pompe della miniera.
E’ l’ultimo atto di forza, in ordine di tempo, della australiana Oceana Gold, che negli anni ha imposto lo sgombero forzato di intere comunità per l’ampliamento della miniera di oro e rame, distruggendone le case con i bulldozer ed il fuoco, sotto la supervisione di forze di sicurezza private. La lotta contro Oceana Gold conta anche due morti nel 2012: la attivista Cheryl Ananayo e suo cugino Randy Nabayay, uccisi a colpi d’arma da fuoco in una esecuzione extragiudiziale.

In linea con il generale delirio repressivo in vigore nel paese, altri attacchi contro i movimenti antiminerari hanno interessato la Turchia, con lo sgombero del 28 aprile, nel distretto di Cannakale, dei presidi contro la miniera di Kirazli, della Alamos Gold.
Da 276 giorni migliaia di persone avevano popolato quegli accampamenti per proteggere il Monte Ida e le aree limitrofe dalle attività dell’impresa, che avevano già causato il taglio 200.000 alberi e che potevano mettere a rischio un bacino idrografico da cui si attinge l’acqua per 180.000 abitanti.

Lo sviluppo della miniera era stato sospeso dall’ottobre 2019, quando il governo turco non ha rinnovato le concessioni della società a seguito di proteste diffuse.
Gli accampamenti servivano da presidi di controllo per assicurarsi che la compagnia non rientrasse nella miniera, ma con il pretesto dell’epidemia le autorità turche hanno proceduto all’evacuazione dei campi ‘per motivi sanitari’.
Ai militanti sono state comminate multe di 8.000 dollari per aver ‘disobbedito alle misure sanitarie in vigore per il COVID-19’. Multe pesanti se si pensa che il salario minimo in Turchia è di 300 euro al mese, e 600 quello medio.
Dopo lo sgombero si teme che il governo possa rinnovare il permesso alle attività della Alamos Gold in qualsiasi momento.
Di sicuro, per ora, si prodiga affinché nessuno ne parli: il 26 luglio la polizia turca ha attaccato una conferenza stampa del Yeşil Sol Parti (il partito verde), finalizzata a denunciare l’inquinamento da cianuro generato dal processo di estrazione dell’oro, in riferimento alla regione di Çanakkale. In quella occasione venti attivisti sono stati arrestati.

Una situazione simile è stata registrata in Armenia, dove il 4 agosto la forza pubblica ha spalleggiato le guardie private della compagnia britannica Lydian, rimuovendo con le gru i blocchi eretti nel 2018 dalla popolazione residente, contraria alla apertura di una miniera d’oro presso il  Monte Amulsar, a soli 7 km dal noto sito turistico e centro termale della città di Jermuk.
Vari manifestanti sono stati tratti in arresto.

Dalle Filippine alla Turchia e all’Armenia, la violenza al servizio dell’estrazione aurifera cresce in contemporanea con l’aumento del prezzo dell’oro, le cui quotazioni stanno schizzando in alto per la crisi pandemica e nella prospettiva di una recessione globale. (Continua)


  1. Qui l’analisi del provvedimento e dei suoi profili di incostituzionalità, redatta dalla Red de Protesta y Accion Mineria Ambiente Comunidades 

  2. Juliana Bravo Valencia, Juan Carlos Ruiz Molleda, Ana María Vidal Carrasco (a cura di), Informe: Convenios entre la Policía Nacional y las empresas extractivas en el Perú. Análisis de las relaciones que permiten la violación de los derechos humanos y quiebran los principios del Estado democrático de Derecho, Lima, Febbraio 2019, pp.36. 

  3. Una nomina che può essere considerata come l’emblema della continuità che unisce, nei loro tratti fondamentali, le politiche del ‘nazional progressismo’ di Humala con quelle dei suoi successori dichiaratamente neoliberisti, che non a caso utilizzano gli stessi soggetti, buoni per tutte le stagioni. 

  4. Cateriano  viene ricordato per la repressione a Cajamarca contro l’opposizione popolare al progetto di estrazione aurifera Conga, e per l’invasione militare della Valle del Tambo, la cui popolazione era da anni scesa in lotta per impedire l’avvio del devastante progetto di estrazione del rame ‘Tia Maria’ da parte della transnazionale Sothern Perú Coper Corp.
    Nella primavera del 2015 sulla Valle del Tambo calarono 4.000 effettivi della polizia militare, macchiandosi di una serie di abusi, con infiltrazioni fra i civili, irruzioni violente nelle case, lanci di lacrimogeni dagli elicotteri, un agricoltore ucciso. 

  5. CooperAcción, Derechos Humanos sin Fronteras, Instituto de Defensa Legal y Broederlijk Delen, Metales pesados tóxicos y salud pública:el caso Espinar,  2016, pp. 44. 

  6. Denuncia del Centro Hondureño de Promoción para el Desarrollo Comunitario (CEHPRODEC). 

  7. La Pinares è legata a una delle famiglie più potenti del paese, la famiglia Facussé, proprietaria anche della Dinant, un gigante dell’ agribusiness e dei biocarburanti accusato dell’assassinio di decine di piccoli agricoltori contrari alle piantagioni di olio di palma a Bajo Aguán, nel nord dell’Honduras. In: Global Witness,Honduras, the  deadliest place to defend the planet, gennaio 2017, pp.52. 

  8. La tattica di propaganda del “red tagging” nelle Filippine è stata spesso diretta verso individui e organizzazioni critiche nei confronti del governo, etichettati come “comunisti” o “terroristi”, indipendentemente dalle loro attuali convinzioni o affiliazioni. 

  9. Global Witness, Defending Tomorrow. The climate crisis and threats against land and environmental defenders, July 2020, pp. 52. 

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L’Ottobre ribelle dell’America Latina https://www.carmillaonline.com/2019/11/05/lottobre-ribelle-dellamerica-latina/ Mon, 04 Nov 2019 23:45:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=55947 di Alessandro Peregalli e Susanna de Guio

Questo ottobre, l’America Latina si è risvegliata. Dopo anni di crescita latente di un nuovo fascismo, sospinto dal lento ma pervasivo rafforzarsi del narcotraffico, delle milizie, e delle chiese evangeliche che hanno colonizzato le periferie con la loro reazionaria “teologia della prosperità”, dopo che le classi medie, e in parte anche popolari, di diversi paesi hanno spostato il loro consenso verso la destra sempre più estrema, alleata dei monopoli mediatici, catturate dal suo discorso tossico sulla sicurezza e la corruzione, questo ottobre le “classi pericolose” si sono [...]]]> di Alessandro Peregalli e Susanna de Guio

Questo ottobre, l’America Latina si è risvegliata. Dopo anni di crescita latente di un nuovo fascismo, sospinto dal lento ma pervasivo rafforzarsi del narcotraffico, delle milizie, e delle chiese evangeliche che hanno colonizzato le periferie con la loro reazionaria “teologia della prosperità”, dopo che le classi medie, e in parte anche popolari, di diversi paesi hanno spostato il loro consenso verso la destra sempre più estrema, alleata dei monopoli mediatici, catturate dal suo discorso tossico sulla sicurezza e la corruzione, questo ottobre le “classi pericolose” si sono riprese la scena, e hanno creato un punto di inflessione che marca un prima e un dopo.

Una rivolta continentale

Cile. Il popolo cileno si è riversato in strada e da oltre due settimane sta dando battaglia contro l’agghiacciante violenza delle forze militari, che ha portato al saldo, secondo le stime ufficiali, di ben 19 morti, 2138 arresti, 173 feriti da arma da fuoco, 9 casi di violenze sessuali e molteplici di torture, facendo ricordare da vicino le peggiori atrocità della dittatura militare. Nata dalla protesta studentesca contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana, la mobilitazione si è immediatamente estesa nelle sue dimensioni e nel numero di rivendicazioni, dimostrando che l’aumento di 30 pesos (4 centesimi di dollaro) non era altro che la goccia che ha fatto traboccare il vaso di una situazione sociale ormai insostenibile, nel paese che ha dato la luce al neoliberismo (per lo meno nella sua versione made in Chicago), e che è considerato da decenni un modello da seguire per le classi dirigenti latinoamericane. Un paese dove i beni di prima necessità costano come in Europa occidentale mentre il salario minimo è di 300 euro al mese (la pensione minima ancora più bassa), dove trasporti, educazione, salute, e persino l’acqua sono completamente privati, dove il sistema di pensioni è contributivo (tranne che per militari e carabineros), gli uomini vanno in pensione a 75 anni, le donne tra i 65 e i 70, la settimana lavorativa è di 45 ore. Il Cile è uno dei 15 paesi più diseguali al mondo, in cui l’1% della popolazione possiede quasi il 30% della ricchezza. La costituzione cilena è ancora quella di Augusto Pinochet. 

E proprio la richiesta di una nuova Assemblea Costituente, insieme alle dimissioni del presidente Piñera, è diventata la principale domanda del popolo cileno. La mobilitazione ha saputo sfidare e superare, con unità e determinazione, la dichiarazione di guerra di Piñera, che ha disposto Stato d’emergenza e coprifuoco in quasi tutto il paese, non si è lasciata strumentalizzare dal terrorismo mediatico che ha seguito i saccheggi e gli incendi di palazzi, centri commerciali e stazioni della metropolitana (saccheggi e incendi presto divenuti pratica costante della polizia per giustificare l’escalation repressiva), e non ha accettato la mediazione al ribasso della recente agenda “sociale” del presidente (cancellazione dell’aumento del biglietto, settimana di 40 ore, salario minimo, ricambio ministeriale), ormai sconfitto sul piano della polarizzazione con la piazza. Mentre, dopo la manifestazione del 25 ottobre, che ha visto sfilare 1.5 milioni di persone a Santiago e 3-4 in tutto il paese, il movimento continua a tenere la piazza e a resistere alla repressione, nuovi contropoteri vengono costruiti a livello locale da un sistema di assemblee territoriali, e nascono nuove articolazioni politiche come la Piattaforma di Unità Sociale, che riunisce un insieme di sindacati e di organizzazioni sociali, e che prova a dare una direzione strategica al movimento.

Ecuador. Solo poche settimane fa in Ecuador si festeggiava il ritiro del Decreto 883, dopo 13 giorni di battaglia campale in tutto il paese e nella capitale Quito, con altissimi livelli di repressione statale, che hanno portato all’uccisione di 7 manifestanti, al ferimento di 1340 persone e all’arresto di 1252. La protesta si era accesa proprio il 1° ottobre in ripudio alla misura economica imposta dal governo di Lenin Moreno che, in ossequio ai dettami del FMI, eliminava il sussidio sul carburante provocando l’impennata del 100-120% dei prezzi dei trasporti e dei beni di consumo primari. Il decreto prevedeva anche misure di austerità per i lavoratori pubblici, che vedevano le loro ferie dimezzate da 30 a 15 giorni l’anno, e che dovevano destinare un giorno di salario al mese al tesoro pubblico per pagare gli interessi sul debito, mentre quelli con contratto temporaneo subivano riduzioni salariali del 20%. Nel frattempo, il fisco condonava debiti milionari ai grandi gruppi monopolisti.

La massiccia protesta popolare è stata composta da una gran parte della popolazione indigena, guidata dalla CONAIE, studenti, il sindacato FUT, gruppi della sinistra socialista e comunista, e il movimento femminista, che hanno concentrato la loro azione sulla revoca del Decreto 883, mentre su un altro versante si sono mossi i gruppi legati all’ex presidente Rafael Correa, che utilizzavano il discorso mediatico del governo, rivolto alle “colpe del governo anteriore”, per tornare in scena come attore politico e chiedere le dimissioni di Lenin Moreno. Dopo gli anni della nuova costituzione, che ha portato alla definizione dell’Ecuador come “Stato plurinazionale”, il secondo governo di Correa ha intrapreso scelte economiche centrate sull’aumento dell’estrazione ed esportazione delle materie prime, con conseguenze devastanti nelle comunità indigene, e con un fortissimo aumento della repressione, che portò a leggi speciali e alla detenzione di molti leader comunitari.

Nelle giornate di ottobre, il protagonismo dalla CONAIE è stato il tassello fondamentale di una rivolta che da diverse province del paese si è riversata nella capitale Quito ed è giunta ad occupare il parlamento; il movimento indigeno ha trionfato non solo ottenendo l’annullamento del decreto ma anche riuscendo a non farsi strumentalizzare dalla polarizzazione politico-mediatica tra Moreno e Correa, aprendo uno spazio di possibilità inedito per l’Ecuador, che scommette sul logoramento di un governo debole e privo di consensi e sul retrocesso di una destra xenofoba che stava speculando sull’immigrazione venezuelana, e che attraverso l’attivazione di un Parlamento de los Pueblos mette le basi per la costruzione di un orizzonte emancipatorio diverso dalla fallimentare esperienza della Revolución Ciudadana.

Haiti. Anche Haiti si è incendiata e ormai da sette settimane è teatro di mobilitazioni, saccheggi, blocchi stradali e scontri; si contano 42 morti dall’inizio delle proteste, di cui 19 causati dalle forze di sicurezza, centinaia di feriti e la paralisi del paese, che si sta sollevando per la quarta volta negli ultimi 16 mesi. Haiti, 168esimo paese al mondo per indice di sviluppo umano (su 189), con una denutrizione cronica che colpisce la metà della popolazione, e quarto paese più colpito da disastri naturali, sconta una storia di più di due secoli di blocchi commerciali e ingerenze imperialiste.

La principale rivendicazione delle proteste è la destituzione dell’attuale presidente, Jovenel Moïse, eletto nel 2016 con forti denunce di frodi elettorali, che è responsabile di aver eliminato i sussidi sull’energia, in ossequio agli accordi presi con il FMI per pagare il debito pubblico del paese, e si è trovato ad affrontare le conseguenze del rincaro del combustibile, che dal 2018 è tornato a prezzo di mercato come conseguenza della crisi economica venezuelana, che ha impedito di rinnovare l’acquisto di petrolio a tassi calmierati dall’impresa Petrocaribe, che era stato disposto dal programma di cooperazione sud-sud implementato da Hugo Chávez nell’ambito dell’ALBA (Alianza Bolivariana de las Américas).

Il tutto coronato da una gestione altamente corrotta da parte dello stesso governo, proprio in merito agli accordi con Petrocaribe. A questo quadro si aggiunge la vergognosa gestione dell’emergenza umanitaria esplosa nell’isola a seguito del terremoto del 12 gennaio 2010. Le ONG straniere hanno canalizzato quasi il 90% delle donazioni internazionali destinate all’approvvigionamento alimentare e l’assistenza sanitaria e psicologica, mentre la missione militare, a guida brasiliana, che avrebbe dovuto accompagnare il processo di ricostruzione del paese ha portato a molteplici episodi di ingerenza e si è rivelata funzionale solo a garantire lo sfruttamento delle risorse naturali e minerarie dell’isola da parte di multinazionali straniere, soprattutto statunitensi e canadesi.

Honduras. Intanto, in Honduras gli scorsi 17 e 18 ottobre è bruciata la rabbia, e con essa numerosi pneumatici e barricate nelle principali arterie del paese. La causa è stata la condanna del fratello del presidente Juan Orlando Hernández (JOH) per quattro delitti relativi a narcotraffico. L’episodio si inserisce in una lunga scia di repressioni brutali come risposta al conflitto sociale che sorge già nel 2009 con il colpo di Stato ai danni del presidente di sinistra Manuel Zelaya. Le proteste si sono nuovamente intensificate soprattutto a partire dal dicembre del 2017, quando il candidato progressista Salvador Nasralla, dopo aver vinto le elezioni presidenziali, è stato destituito da JOH, del partito di governo e rappresentante dell’oligarchia, sulla base di un riconteggio fraudolento dei voti. Le proteste di strada hanno portato a una repressione feroce, con decine di morti, e all’intensificarsi della migrazione di massa verso il Messico e gli Stati Uniti, che ha dato vita alle carovane migranti dell’anno scorso.

Bolivia. Ma se i popoli del continente fanno tremare le fondamenta dei sistemi politici e si ribellano alle politiche neoliberali delle destre, la crisi politica in cui è precipitata la Bolivia a partire dalle elezioni di domenica 20 ha manifestato, nella maniera più lampante, che il progressismo non è, o non è più, la soluzione. Il primo governo di Evo Morales, che aveva trionfato alle elezioni del 2005 dopo un poderoso ciclo di lotte caratterizzato dalla “guerra dell’acqua” (2000) e dalla “guerra del gas” (2003), portò a casa risultati importanti, anche se depotenziati rispetto alle attese, come una limitata riforma agraria, una nuova costituzione che sanciva la forma “plurinazionale” dello Stato, e una parziale nazionalizzazione del gas. Dopo la crisi politica del 2008, durante la quale vi furono forti timori di colpo di Stato e guerra civile, il governo abbandonò definitivamente qualunque velleità di rispetto della Pachamama e dei diritti dei popoli indigeni (soprattutto quelli dell’Amazzonia e delle cosiddette Tierras Bajas), per intraprendere un cammino modernizzatore fatto di iper-estrattivismo, repressione del dissenso, e di totale subalternità agli appetiti imperialisti del Brasile e delle sue maggiori imprese di petrolio (Petrobras) e della costruzione (Odebrecht, OAS, Camargo Correa).

Sebbene la Bolivia abbia avuto in questi anni una crescita economica del 5%, la sua qualità è stata perfettamente in linea con i parametri macroeconomici del FMI, e con un’alleanza con importanti settori capitalisti, primo tra tutti l’agrobusiness della soia, responsabile dei recenti incendi in Amazzonia. Inevitabilmente, liberando il paese all’accumulazione economica del capitale, quest’ultimo ha fagocitato lo spazio politico, ed il consenso di Evo si è via via deteriorato. La prova è stata la sconfitta di misura nel referendum del febbraio 2016, in cui il governo proponeva la possibilità, negata dalla costituzione, di estendere la sua eleggibilità al quarto mandato. In barba al voto popolare, la Corte Costituzionale decise invece clamorosamente di consentire il quarto mandato dichiarando, in maniera sorprendente, che si tratterebbe di un “diritto umano”. Con in mente questo precedente, la campagna elettorale di Morales si è giocata tutta sulla sua possibilità o meno di vincere direttamente al primo turno, per il quale era sufficiente superare il 40% dei voti con un vantaggio di 10 punti sul secondo. Ma la sera delle elezioni, quando erano stati scrutinati l’83% dei voti, Evo Morales era dato al 45%, appena 7 punti in più del suo avversario, l’ex presidente Carlos Mesa. La decisione del Tribunale Elettorale di sospendere la pubblicazione dei dati per 24 ore durante lo scrutinio, ha scatenato le proteste degli elettori della destra, mentre anche i sostenitori di Evo scendevano in strada per denunciare un presunto tentativo di colpo di Stato imperialista. Quando Morales aveva ormai dichiarato lo Stato d’Emergenza, che sembra diventato l’unica risposta che i presidenti latinoamericani sono capaci di dare di fronte alle espressioni di piazza, il Tribunale Elettorale rese pubblici i risultati quasi definitivi che davano la vittoria di Evo con 10.1 punti di vantaggio. L’argomentazione del governo, che le ultime schede scrutinate provenissero dalle zone rurali, dove il consenso a Morales è più alto, è certamente credibile, così come sono storicamente provate le inclinazioni golpiste della destra latinoamericana, ma il contesto nel suo insieme è così torbido che la legittimità democratica, etica e politica, di Evo, insieme alla sua pretesa di essere un’alternativa alle destre, sembra ormai del tutto compromessa.

Argentina. (foto a sinistra e prossime due di Gianluigi Gurgigno) Scendendo verso il Cono Sur, le elezioni dello scorso 27 ottobre in Argentina hanno confermato –sebbene con solo 8 punti di stacco- il risultato delle primarie di inizio agosto, dove il candidato peronista Alberto Fernandez, spalleggiato dalla ex-presidente Cristina Kirchner e da una coalizione progressista, si imponeva per 15 punti sulla ricandidatura di Mauricio Macri. Il cambio di governo è stato festeggiato come una vera e propria liberazione dall’incubo che hanno rappresentato le politiche neoliberiste di Macri degli ultimi quattro anni: nonostante la costante risposta di piazza da parte di sindacati di base e organizzazioni sociali, che ha visto il suo apice in un fortissimo movimento di massa contro la riforma delle pensioni nel dicembre 2017, il governo è riuscito a contrarre il debito più grande della storia con il FMI, e a demolire l’economia interna a suon di licenziamenti e politiche liberalizzanti che hanno portato alla svalutazione del peso del 300% in due anni, a un’inflazione galoppante e alla continua perdita del potere d’acquisto dei salari e a un’impennata negli indici della povertà.

Nonostante la felicità popolare per il risultato alle urne, non si vedono all’orizzonte possibilità di modificare rapidamente la situazione di crisi economica in cui versa il paese, tanto più che il nuovo governo è frutto di un’alleanza troppo ampia e moderata per permettere scelte coraggiose contro l’austerity, con numeri risicati in parlamento, e con poco margine di sovranità nazionale da negoziare con l’FMI. Ancora più difficile da prevedere è la ricomposizione dei settori popolari e delle organizzazioni sociali, che in questi anni hanno mantenuto un livello alto e costante di mobilitazione, ma che si presentano di fronte al governo del Frente de Todos con esigenze e pratiche politiche diverse e a tratti divergenti tra loro.

Uruguay. In quella stessa giornata, in Uruguay il voto ha rimandato a un secondo turno il testa a testa tra il candidato del Frente Amplio, Daniel Martínez, e il rappresentante della destra Luis Lacalle Pou, del Partido Nacional, ma la popolazione alle urne ha affermato con forza il suo rifiuto alla riforma costituzionale, proposta da un senatore nazionalista, che intendeva dare ampi poteri ai militari nella gestione dell’ordine pubblico, qualcosa che nel paese non avviene dai tempi della dittatura militare terminata nell’85. Contro questa riforma, presentata con il nome innocente e securitario di “vivir sin miedo” (vivere senza paura), si era svolta lo scorso 22 ottobre una manifestazione moltitudinaria.

Colombia. Sempre il 27 ottobre, si sono svolte elezioni locali in Colombia, che hanno visto un arretramento della destra di Álvaro Uribe e del presidente Ivan Duque. Tutte le maggiori città, e molti municipi minori, hanno visto la sconfitta dei candidati legati al loro partito Centro Democrático, in primo luogo la capitale Bogotá, che ha visto il trionfo dell’attivista LGBT Claudia López, del partito progressista Alianza Verde. Queste vittorie sono state trainate, tra l’altro, da un recente aumento delle mobilitazioni studentesche nel paese. Il voto ha anche registrato la sconfitta della strategia del terrore e della repressione politica del governo, in un paese che ha visto aumentare il numero di leader sociali e indigeni assassinati, sabotare in vari modi l’accordo di pace tra governo e FARC, e crescere nuovamente il terribile fenomeno dei “falsi positivi”, ossia contadini assassinati e presentati come guerriglieri in cambio di un “premio” governativo.

Panama. Ma l’ottobre appena trascorso ha contagiato numerosi altri paesi, la cui lista appare interminabile. Massive mobilitazioni si sono verificate a Panama, con enormi proteste, soprattutto studentesche, contro un progetto di riforma costituzionale che, inizialmente finalizzato a fornire un marco efficace contro la corruzione, ha visto l’inserimento in extremis di misure di carattere sociale, prima fra tutte una parziale privatizzazione del sistema universitario. Nelle ultime settimane, le mobilitazioni hanno permesso il ritiro dell’articolo incriminato, mentre un nuovo fronte di lotta si apre con la protesta della comunità LGBT per il matrimonio egualitario.

Costa Rica. Proteste in difesa dell’educazione pubblica si stanno dando anche nella vicina Costa Rica, che però per ora non hanno saputo contagiare altri settori sociali ma hanno comunque portato alle dimissioni del ministro dell’Educazione.

Paraguay. E lo scorso 28 ottobre forti proteste e blocchi stradali a oltranza si sono verificati anche in Paraguay, dove la Federación Nacional Campesina è scesa in piazza contro la repressione e gli sgomberi delle comunità contadine e per chiedere politiche di appoggio all’agricoltura familiare.

Messico. Da parte sua, sebbene viva una situazione di luna di miele con il nuovo governo progressista di Andrés Manuel López Obrador che registra ampi consensi dopo 36 anni di devastazione sociale sotto i governi dei partiti PRI e PAN, nemmeno il Messico è del tutto esente da questo scenario di opposizione sociale e dal basso: lo scorso 12 ottobre il Congreso Nacional Indígena ha dato vita a una giornata di mobilitazione contro le grandi opere promosse dal nuovo governo, in primis il cosiddetto Tren Maya, il corridoio logistico sull’Istmo di Tehuantepec, e il corridoio energetico Proyecto Integral Morelos.

Perù. Infine, è d’obbligo menzionare la forte crisi politica che vive il Perù, dove a settembre le mobilitazioni di piazza hanno permesso al presidente Martín Vizcarra di vincere un duro scontro istituzionale con la maggioranza parlamentare legata all’ex dittatore Alberto Fujimori, che ha fallito nel suo tentativo di colpo di Stato istituzionale.

Il “no” al modello neoliberale

Questo ottobre di piazza e di rivolte in America Latina parla di uno scossone tellurico generalizzato che obbliga ad andare oltre i singoli contesti nazionali e ad osservarlo nel suo insieme, a considerare che esistono connessioni tra i diversi fenomeni di protesta che si stanno verificando nel continente. Soltanto un anno fa, la vittoria di Bolsonaro in Brasile sembrava sancire l’ennesima “fine della storia” per il continente, il compimento di una torsione reazionaria che sembrava far sprofondare la regione, irrimediabilmente, negli inferi dell’eterno ritorno del suo passato schiavista, latifondista, del genocidio, e spingerla in un nuovo ciclo coloniale imposto con la classica formula neoliberale fatta di sfruttamento intensivo del suolo e delle materie prime destinate all’esportazione, tagli alla spesa sociale, distruzione dell’economia interna a favore delle imprese multinazionali, il tutto accompagnato da alti livelli di repressione, garantita dalla militarizzazione incontrollata dall’alto, venduta con l’installazione della paura e della richiesta di maggiore sicurezza, e infine dal proliferare senza fine di narcos, milizie, paramilitari, eserciti, polizie nazionali, squadroni della morte.

In molti paesi del continente, laddove nei primi anni del nuovo secolo potenti movimenti di massa e infuocate rivolte popolari avevano fatto emergere governi che si definivano “progressisti” o “post-neoliberali”, e che avevano permesso, seppur con in mezzo a mille contraddizioni, un drastico calo dei tassi di povertà assoluta, e un ricambio parziale nella classe politica, con l’inclusione di dirigenti e quadri provenienti da movimenti sociali e sindacati, dopo la crisi economica mondiale del 2008 si esauriva progressivamente la spinta propulsiva e financo l’illusione di qualsiasi trasformazione strutturale dei rapporti sociali e di classe. A partire dal 2015, dopo due anni di drastico calo nei prezzi delle materie prime, capitolarono uno dopo l’altro il governo di Cristina Kirchner in Argentina, sconfitto dall’imprenditore Mauricio Macri, e quello di Dilma Rousseff in Brasile, travolto prima dal movimento di massa del 2013, che si opponeva alle politiche speculative e antisociali del Partito dei Lavoratori (PT), e poi dall’inchiesta Lava Jato, strumentalmente usata da magistratura e oligarchia economica per determinare un colpo di Stato parlamentare e assumere direttamente il potere politico del paese. Nel 2016 Dilma veniva disarcionata attraverso un golpe parlamentare, mentre in seguito l’ex presidente Lula, che godeva ancora del consenso della maggioranza dei brasiliani, veniva arrestato e impossibilitato a candidarsi attraverso un giudizio politico.

Nel frattempo, laddove l’oligarchia tradizionale non riusciva a impadronirsi direttamente del potere politico, per poter scaricare il peso della crisi economica sulle classi popolari, cresceva come un cancro all’interno degli stessi governi ancora considerati “di sinistra”, come in Venezuela e in Bolivia, una nuova élite economica, politica e militare, mentre si inaspriva la tendenza alla devastazione ambientale e dei territori e della svendita di praticamente tutte le risorse naturali alla voracità accumulatrice del grande capitale straniero, soprattutto cinese. Così, mentre la crisi economica si configurava come crisi di redditività della rendita estrattiva, i governi rispondevano con maggior estrattivismo, scavando ulteriori solchi sul cammino, promesso a parole, di una crescita autonoma e di un delinking dalla globalizzazione neoliberale.

Infine, in quei paesi dove il modello economico non era mai stato, nemmeno timidamente, messo in discussione, come in Messico (almeno fino al 2018), in Cile, in Colombia, e nella maggior parte dei paesi centroamericani e caraibici, continuava indisturbato il regime necropolitico fatto di brogli elettorali, “guerra al narcotraffico”, paramilitarismo, assassinii politici. Berta Cáceres, Santiago Maldonado, Marielle Franco, Samir Flores, i 40.000 desaparecidos in Messico degli ultimi 13 anni (tra i quali i 43 studenti di Ayotzinapa), l’aumento esponenziale dei femminicidi, il massacro di leader sociali in Colombia e in Brasile, le pallottole dell’esercito honduregno contro il suo stesso popolo, così come la repressione del “sandinista” traditore Daniel Ortega in Nicaragua sono solo alcuni esempi di una politica di sterminio di massa perpetrata su base selettiva (razziale, di genere, politica), che è tornata ad essere, in tutta la regione, forma pura di governo.

Gli ultimi due anni sono stati emblematici di questo ritorno in America Latina dei peggiori incubi del passato e delle misure economiche tipiche della faccia più sanguinaria del neoliberismo. Due paesi, l’Argentina di Macri e l’Ecuador di Lenin Moreno, il successore del “progressista” Rafael Correa, legavano le sorti della propria bilancia economica al Fondo Monetario Internazionale, che tornava quindi a dettare l’agenda di “riforme strutturali” come aveva fatto negli anni ‘80 e ‘90, mentre l’elezione in Brasile di Bolsonaro faceva presagire lo sbarco in America Latina di un’estrema destra sul modello di quella euroamericana di Trump, Orban e Salvini, e che non si vergognava di rivendicarsi in totale continuità con l’esperienza delle dittature militari. (Nella foto di Gianluigi Gurgigno, festeggiamenti in Argentina)

E proprio il Brasile sembra essere, ad oggi, il grande assente dell’ottobre caldo latinoamericano. Proprio in quel mese, infatti, il parlamento brasiliano ha votato in ultima istanza una riforma delle pensioni lacrime e sangue senza quasi nessun tipo di risposta popolare da parte di partiti, sindacati e movimenti che sembrano ancora sotto shock dall’elezione dell’anno scorso. Tuttavia, questo non significa che il progetto reazionario intrapreso dal nuovo governo sia un cammino privo di ostacoli. La popolarità del presidente è ormai scesa al 30%, mentre lo stesso Bolsonaro è recentemente entrato nell’inchiesta che indaga sulla morte della militante del PSOL Marielle Franco, per vincoli diretti, e una possibile complicità, con gli assassini materiali di Marielle, due ex poliziotti miliziani di Rio de Janeiro. E se il vento della rivolta che soffia altrove è una realtà lontana dal Brasile, ciò non vuol dire che non si tema un contagio: lo scorso 31 ottobre, infatti, il deputato e figlio del presidente, Eduardo Bolsonaro, ha esplicitamente minacciato la possibilità di un colpo di Stato militare se dovessero verificarsi ampie proteste sociali, e per queste dichiarazioni è oggi a rischio di espulsione dalla Camera dei Deputati. Intanto, si fa sempre più possibile una prossima liberazione di Lula, il che registra una distanziamento di settori sempre più ampi della borghesia brasiliana da Bolsonaro, e il possibile intento di una manovra “conciliatrice”, che mantenga le nuove “conquiste” del neoliberismo nel paese, ma che scongiuri una possibile crisi sociale.

Riprendersi il futuro?

Lo scenario che emerge da questo ottobre, con l’accendersi di focolai di ribellione in diversi paesi latinoamericani, segnala un repentino arresto dell’avanzata egemonica conservatrice e porta avanti una rivendicazione di fondo che converge nel denunciare un modello fondato sulla diseguaglianza e lo sfruttamento, insopportabile a livello socio-economico e insostenibile a livello ambientale, come già dicevano i movimenti contro la globalizzazione dei mercati nei primi anni Duemila.

Nel contesto attuale, tuttavia, il campo popular è più diviso al suo interno di 15 o 20 anni fa, quando a Porto Alegre intellettuali, partiti, sindacati e movimenti si riunivano per pensare “un altro mondo possibile”, mentre da Buenos Aires, Cochabamba, Caracas e Mar del Plata (ma anche da Seattle e Genova) partiva l’attacco su scala mondiale al neoliberismo, si cominciava a immaginare un “Socialismo del XX secolo” e in tutto il mondo si parlava di “laboratorio sudamericano”. Oggi la crisi picchia più forte, soprattutto nei territori che in questi ultimi anni sono diventati, sotto la spinta del modello estrattivista, vere e proprie “zone di sacrificio”. In questi anni si è consumato il fallimento dell’alternativa progressista, che pure nel breve periodo aveva portato a indubbi passi in avanti nelle condizioni di vita della maggioranza della popolazione, ma che si è sostenuta, a livello strutturale, sul rafforzamento delle dinamiche di dipendenza economica, commerciale, produttiva e finanziaria dal capitalismo globale, solo un po’ meno gringo e un po’ più cinese rispetto a prima, ma ugualmente predatorio: questa sconfitta ha portato a un impasse programmatico e di immaginario da cui difficilmente oggi si si intravede l’uscita. Sebbene le vittorie elettorali in Messico e Argentina, e l’incredibile tenuta del governo di Maduro di fronte ai tentativi di golpe militare, registrino un ri-equilibrio nella bilancia di forze regionale tra governi conservatori e progressisti, è chiaro che le rivolte di ottobre non nutrano più le illusioni di un tempo e che cerchino alternative lontano da un progressismo che si è rivelato una variante interna all’ordine neoliberale.

Più che sognare “un altro mondo possibile”, queste rivolte raccolgono l’eredità dei tempi torbidi e apparentemente senza speranza che viviamo, e si ribellano, senza se e senza ma, a un presente non più sopportabile, laddove la depredazione ha ormai rubato anche la possibilità di pensare il futuro. Raccolgono, in un certo senso, l’eredità dei movimenti degli ultimi anni, sollevatisi contro l’ordine necropolitico del capitale: le numerose resistenze indigene in difesa dei loro territori, della terra, dell’acqua e della vita; le lotte contro i femminicidi e il dominio sul corpo delle donne; le lotte disperate contro la narcoguerra e la desaparición forzada nei paesi in cui la violenza è normalizzata e regna l’impunità criminale. L’ultimo ciclo di movimenti sociali condivide una tenace ma quasi disperata lotta per la vita, che si affianca a quella, più recente e più globale, dei milioni di giovani in rivolta contro la catastrofe ambientale e un futuro che lascia immaginare solo la fine del mondo. E proprio l’effervescenza giovanile è un elemento comune a molte mobilitazioni, dall’Ecuador al Cile, da Panama alla Costa Rica, passando per la Colombia e per la breve ma intensa lotta universitaria in Brasile tra maggio e giugno, e prova che la componente studentesca e universitaria sta acquisendo un protagonismo sociale in tutto il continente che da parecchi anni non esprimeva con questa intensità.

Paulo Freire parlava di “inedito possibile” come di una situazione limite in cui, come prodotto di un’insorgenza collettiva e condivisa, qualcosa che sembra essere strutturalmente negato inizia a diventare una possibilità reale. Questa possibilità, per realizzarsi, deve prendere corpo, forma, organizzazione e, possiamo dirlo, programma. Ma un programma che, per lo meno, possa essere meno deprimente dei “meno peggio” e delle fragili immagini del possibile che, prima di ottobre, venivano frapposte alla barbarie: la politica riformista e conciliatoria di un López Obrador in Messico, il ritorno del peronismo moderato in Argentina, il perpetuarsi della burocrazia autocratica bolivariana in Bolivia e Venezuela, o la giusta liberazione di Lula in Brasile. Intanto, finito l’ottobre storico, si scommette sul prolungarsi dell’Ottobre politico, e in tutti i paesi ci si chiede, ora che lo spettro dell’insurrezione è diventato uno scenario possibile, quale sarà il prossimo paese ad esserne contaminato.

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¡Berta Cáceres presente! https://www.carmillaonline.com/2016/03/29/berta-caceres-presente/ Mon, 28 Mar 2016 22:00:29 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29497 bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo [...]]]> bertadi Helena Scully Gargallo e Nino Buenaventura

[Presentiamo un testo di Helena Scully Gargallo sull’attivista Berta Cáceres, vilmente uccisa il 3 marzo scorso in Honduras. La sua lotta e la memoria non si fermano. Il testo è stato letto il 23 Marzo 2016, ore 19.34, calendario Mediterraneo, Circolo Anarchico Berneri, Bologna. Di seguito riportiamo una poesia di Nino Buenaventura dedicata a Berta, “Ritratto d’amore con assassinio”, scritta in italiano e tradotta in spagnolo dallo stesso Nino. F.L.]

Difficile parlare con la rabbia e il dolore che percorrono tutto il corpo, bloccando la gola, impedendo alla parola e al pensiero di fluire.

Difficile sfidare l’impotenza suscitata dalla consapevolezza che ci stanno ammazzando e che per loro la vita non ha nessun valore.

Le lacrime devono essere versate per dissipare il dolore, per far si che l’acqua del pianto ci rinverdisca dentro e che quello che crescerà in noi ci riempia di vita.

Quando la rabbia ci pervade, la miglior cosa è respirare profondamente e organizzarci, tanto collettivamente, come individualmente, cosicché, piano piano, si trasformi in ribellione.

Lo scorso tre marzo, Berta Cáceres, compagna fondatrice e coordinatrice del Consejo Cívico Popular e Indígena de Honduras (COPINH) è stata assassinata dalle pallottole d’un sistema che disprezza la vita, che ha paura della forza dei popoli che difendono i loro fiumi, le loro terre, il loro crescere e il loro vivere condividendo.

berta-vive-la-lotta-continuaBerta era e continua a essere la forza dei popoli originari di Abya Yala. Il riecheggiare dei suoi passi persiste nelle strade della Esperanza (Honduras), dove è nata ed è stata uccisa. La sua potente voce continua a nascere dalle nostre bocche per gridare agli assassini della terra, che l’organizzazione popolare della forza Lenca è più forte del piombo con il quale la vogliono far tacere, che la nostra scommessa è per la vita, nel senso più ampio della parola, e soprattutto, che la vita non è un regalo che loro gentilmente ci concedono, la vita non si impone, la vita si rinforza, si purifica e si organizza, per combattere contro la paura, il proiettile, la diga idroelettrica, la miniera, l’esercito e tutti i meccanismi di morte e controllo che ci vogliono imporre e con i quali vogliono distruggere il nostro spazio vitale.

Berta è stata assassinata dallo stato hondureño che dà in concessione e vende le terre che non gli appartengono, perché la terra e di chi la cammina, la semina, la vive. Colpevoli della sua morte sono l’impresa costruttrice di capitali locali DESA (Desarrollos Energéticos S.A.), e una delle più potenti costruttrici, la cinese Sinohydro. Assassino è il governo golpista e dittatoriale di Juan Orlando Hernández, che è anche colpevole di non dar la protezione necessaria e mantenere in un territorio ostile e pericoloso il compagno Gustavo Castro Soto, testimone diretto dell’omicidio di Berta Cáceres e ferito nell’attacco. Il malgobierno hondureño sta impedendo che Castro esca dal paese, mettendo in pericolo la sua integrità fisica e mentale. Gustavo Castro è, come Berta, un difensore della terra, coordinatore di Otros Mundos Chiapas (organizzazione messicana per la difesa dei diritti umani, i beni comuni e la madre terra).

Berta insieme al COPINH riuscirono ad impedire la costruzione della centrale idroelettrica Agua Zarca che pretendeva incarcerare ed avvelenare le acque del fiume Gualcarque, da dove sorgono le voci sacre delle bambine del popolo Lenca. La costruzione è stata fermata temporaneamente, ma la militarizzazione della zona e il continuo assedio delle e degli integranti del COPINH, che resistono nel territorio, è estremamente preoccupante.

L’Honduras è uno dei paesi più pericolosi per gli attivisti. Centodieci ambientaliste e ambientalisti sono stati uccisi negli ultimi cinque anni; l’assassinio di Berta non è un caso isolato, e sappiamo che la sua morte non è stata la prima e purtroppo non è stata nemmeno l’ultima; due settimane dopo che è stata strappata la vita della nostra compagna, sorella, amica, madre, è stato ucciso Nelson Garcia, compagno facente parte del COPINH. È stato assassinato due ore dopo aver partecipato alla resistenza contro lo sgombero degli abitanti della comunità di Río Chiquito.

berta_vive_xlargeCon l’assassinio di Berta, con l’esproprio delle nostre terre, delle nostre acque, dei nostri spazi di costruzione di altri mondi, quello che cercano è terrorizzarci, farci credere che non abbiamo possibilità di agire, farci aver paura di conoscere le nostre strade, i nostri quartieri, le nostre campagne.

Voglio dire, come giovane messicana, come compagna di tutti voi in basso a sinistra: il loro sistema di morte solo rinforza la nostra lotta per il Buen Vivir, la loro imposizione perpetua del terrore come modello di vita ci spinge a organizzarci per recuperare e per far crescere i semi che rinverdiranno i nostri prossimi passi.

Adesso più che mai, gridiamo: ¡Berta vive! ¡La lucha sigue! ¡El pueblo Lenca vive! Berta non è morta, ne sono nate altre cento!

Abajo y a la izquierda compas, continuiamo a seminare di vita il desde abajo per far vedere a quelli di sopra che la morte non ci renderà muti, che sarà distrutta la loro imposizione del terrore.

Continuiamo ad organizzarci affinché la nostra cieca rabbia si dissipi; per risolvere con il lavoro comunitario, con il dialogo con altre realtà, fra di noi, i problemi che ci impongono e le sfide che si presentano, senza mai arrenderci.

Non riusciranno a strapparci la parola, nonostante continuino a riempire di sangue le nostre terre, le nostre case, i nostri corpi… amori ed amicizie.

Non fermeranno la lotta dei nostri popoli. Non riusciranno a violentare le nostre terre, non riusciranno a venderle. Perché se toccano una di noi, toccano tutte.

Berta, esempio di tutto, insegnante, Utopía, Esperanza, come si chiamavano i suoi spazi di lotta.

La nostra Berta respira, nei ricordi di ognuna di noi. Quella Berta che suscitava la mia ammirazione e allo stesso tempo m’intimidiva, con la sua voce da gigante. “E te, perché non parli?” Mi rimproverava Meli mentre camminavamo due passi dietro mia madre e la madre della mia amica Berthita, “Mi fa paura la sua forza” – “La forza di un popolo non ti deve mai intimorire, Helena”.

Il propagarsi dei suoi passi dà un significato al futuro di costruzione di nuove forme e sguardi per capire il territorio-corpo, la lotta femminista e indigena, il sentire dell’acqua.

Ringrazio la vita per avermi permesso di conoscere le sue terre, seguendola nel suo camminare.

Berta si espande nella resistenza del popolo Lenca e nella resistenza di ogni popolo di Abya Yala e del mondo.


RITRATTO D’AMORE CON ASSASSINIO – Per Berta Cáceres

Le tue figlie sono minute,

una di esse si morde il labbro

e parla con la tua voce da gigante.

Eri madre

ed eri figlia del tuo popolo,

una combattente senza gloria,

senza fortuna.

 

Poi sono venuti gli omuncoli del denaro

con assetate idrovore meccaniche,

sono venuti a quantificare la vita di un popolo,

a chiuderla in disumane barriere

a trasformare la vita in capitale

e la morte in bene comune.

La prepotenza del piombo

ha potuto con te quello che non ha potuto

la strisciante lascivia del denaro.

 

Ascoltate! Hanno assassinato Berta!

Hanno assassinato uno dei sorrisi

che si scagliava contro il tempo.

Ascoltate! Hanno assassinato una di noi,

ed è come se in un sol colpo

avessero asportato un’intera foresta,

come se in un lampo avessero dimezzato una montagna,

avessero potuto incendiare i fiumi e i mari.

Ascoltate! Hanno assassinato Berta,

e l’acqua or schizza furibonda dai propri argini!

 

Per te scrivo queste righe,

per te mai conosciuta

per te intravista

nella figura sfuocata di tua figlia,

nelle lacrime di una amica.

 

Chiedo a te Berta,

di poter accarezzare il tuo nome,

la tua forza,

per essere un po’ anch’io figlio tuo,

e madre… perché in me nasca l’alba di una nuova alba.

Perché il tuo sorriso sia il marchio inconfondibile

che smentisca la rassegnazione dei pessimisti,

degli spossati.

 

Nino Buenventura

 

[Versione in spagnolo – Versión en español]

 

RETRATO DE AMOR CON ASESINATO – Para Berta Cáceres

Tus hijas son menudas,

una de ellas se muerde el labio

y habla con tu voz de gigante.

Eras madre

y eras hija de tu pueblo,

una combatiente sin gloria,

sin fortuna.

 

Y llegaron los homúnculos del dinero

con sedientas tragadoras mecánicas,

llegaron a cuantificar la vida de un pueblo,

a cerrarla en deshumanas barreras

a transformar la vida en capital

la muerte en bien común.

La arrogancia del plomo

pudo contigo lo que no pudo

la serpentina lascividad del dinero.

 

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta!

Mataron una sonrisa

que se arrojaba contra el tiempo.

¡Escuchen! Asesinaron a una de nosotros,

y es como si de un solo golpe

hubiesen extirpado una entera foresta,

como si en un relámpago hubiesen demediado una montaña,

como si pretendieran incendiar los ríos y los mares.

¡Escuchen! ¡Asesinaron a Berta,

y ahora el agua salpica furibunda desde su proprio manto!

 

Por ti escribo estos versos

jamás conocida,

por ti vislumbrada

en la figura difuminada de tu hija,

en las lagrimas de una amiga.

 

Te pido, Berta

acariciar tu nombre,

tu fuerza,

para ser por un poco hijo tuyo,

y madre… para que en mí nazca el alba de una nueva alba.

Para que tu sonrisa sea la señal inconfundible

que desmienta la resignación de los pesimistas,

de los postrados.

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Elezioni presidenziali e nodi irrisolti di El Salvador https://www.carmillaonline.com/2014/02/20/elezioni-presidenziali-e-nodi-irrisolti-di-el-salvador/ Thu, 20 Feb 2014 00:00:45 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=12816 di Fabrizio Lorusso

fmln el salvadorIl 2 febbraio scorso ci sono state le elezioni presidenziali a El Salvador. Nessun candidato ha superato il 50% più uno dei voti, quindi si andrà al ballottaggio il 9 marzo per decidere chi sarà il nuovo presidente tra il 2014 e il 2019. Nel “Pulgarcito de América” (Pollicino d’America), com’è soprannominato questo paese per le sue piccole dimensioni (poco più di 21.000 km quadrati, più o meno come la Puglia o l’Emilia Romagna) sono tante le questioni aperte, al di là della campagna elettorale e dei sondaggi che, per ora, stanno favorendo [...]]]> di Fabrizio Lorusso

fmln el salvadorIl 2 febbraio scorso ci sono state le elezioni presidenziali a El Salvador. Nessun candidato ha superato il 50% più uno dei voti, quindi si andrà al ballottaggio il 9 marzo per decidere chi sarà il nuovo presidente tra il 2014 e il 2019. Nel “Pulgarcito de América” (Pollicino d’America), com’è soprannominato questo paese per le sue piccole dimensioni (poco più di 21.000 km quadrati, più o meno come la Puglia o l’Emilia Romagna) sono tante le questioni aperte, al di là della campagna elettorale e dei sondaggi che, per ora, stanno favorendo la sinistra del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (FMLN) al secondo turno. Un primo dato è che per la prima volta hanno potuto votare i quasi tre milioni di salvadoregni residenti all’estero, due milioni e mezzo solo negli Stati Uniti, anche se solo 142mila di loro si sono potuti effettivamente iscrivere nelle liste elettorali. L’affluenza alle urne è stata bassa: solo il 52% degli aventi diritto (17% in meno rispetto al 2009), cioè 4 milioni 955 mila su un totale di 6,3 milioni di abitanti. E’ la quinta volta che i salvadoregni votano alle presidenziali dalla fine della guerra civile (1980-1992) che fece 75mila vittime e 15mila desaparecidos e vide confrontarsi i guerriglieri dell’FMLN e le élite conservatrici delle cupole politiche e imprenditoriali, sostenute dall’esercito.

Il partito attualmente al governo, l’FMLN, nato dopo l’incorporazione della guerriglia alla vita politica, ha vinto le presidenziali per la prima volta nella sua storia nel 2009 con un candidato di “compromesso”, cioè l’ex corrispondente di CNN in America centrale, Mauricio Funes, un personaggio non organico al Frente, gradito al mondo dell’impresa e alla classe media, quindi percepito come meno radicale. Quest’anno, invece, il candidato che per un soffio (ha preso il 49% dei voti) non ha ottenuto la vittoria al primo turno è l’ex combattente e sindacalista Salvador Sánchez Cerén, ex Ministro dell’Istruzione che ricopre la carica di vicepresidente e incarna l’anima più autentica dell’FMLN. In caso di vittoria definitiva il 9 marzo sarà accompagnato da un candidato alla vicepresidenza, Óscar Ortiz, che è anch’egli un dirigente del Frente anche se rappresenta la corrente più innovatrice e critica della verticalità ereditata dalla struttura di partito che dominava durante e dopo la guerra civile. Sánchez Cerén potrebbe diventare il terzo presidente ex guerrigliero in America Latina, dopo la brasiliana Dilma Roussef e l’uruguaiano José Mújica.

La “tensione generazionale” all’interno del partito tra innovatori e vecchia classe dirigente (la comandancia guerrigliera) sembra aver trovato una sintesi accettabile nel duo presidente/vice e dovrebbe andare a sostituirsi a un’altra “tensione” che è prevalsa in questi anni di governo (2009-2013). Si tratta di quella tra il Frente e il capo di stato attuale Funes, un moderato che nel 2009, da una parte, ha permesso all’FMLN di sdoganarsi come forza di governo, ottenendo consensi anche tra i settori conservatori, e dall’altra è considerato come un outsider poco propenso a toccare gli interessi imprenditoriali e a cambiare con decisione la direzione della politica economica in senso meno ortodosso e neoliberale. In effetti, all’atto pratico, è andata proprio così, nonostante l’introduzione di alcuni programmi sociali e di un ruolo più attivo dello stato. Ad ogni modo il Frente ha mostrato la sua capacità di governare e d’integrarsi ala politica dell’epoca post-conflitto armato, per cui ora le frange più organiche e storiche del partito reclamino un ruolo centrale.   

La destra salvadoregna è rappresentata fondamentalmente da due gruppi della medesima oligarchia nazionale, ossia dalla “moderata” coalizione Gana (Gran Alianza por la Unidad Nacional) dell’ex presidente (2004-2009) Elías Antonio Saca e dal partito più estremista Arena (Alianza Republicana Nacionalista), già al potere dal 1989 al 2009, che ha presentato il candidato Norman Quijano, ex sindaco della capitale. Arena sorse negli anni ottanta e durante il conflitto armato si vincolò agli squadroni della morte. Il suo fondatore, Il Maggiore Roberto d’Aubuisson, fu accusato di essere l’autore intellettuale dell’assassinio di Monsignor Arnulfo Romero nel 1980.

Con proposte che sono variazioni sul tema del dogma neoliberista, Quijano, odontologo di 67 anni, ha avuto il 39% delle preferenze, mentre Saca ha ottenuto l’11,4% dei voti, sostenuto dall’alleanza Gana e dal suo nuovo Partido Concertación Nacional, nato da una costola di Arena. Il suo bacino elettorale potrà essere determinante per il ballottaggio tra Quijano di Arena e Sánchez Cerén del Frente. Di fatto la presenza di Saca e di una destra divisa tra “moderati” e “intransigenti” in campagna elettorale è stata il catalizzatore degli attacchi di Arena che ha sottovalutato il pericolo di una vittoria delle sinistre.

La coalizione Gana s’è proposta come una forza centrista di bilanciamento e sarà oggetto dei corteggiamenti de primi due partiti. Lo stesso Sánchez Cerén, appena usciti i risultati, ha messo le mani avanti e s’è dichiarato disposto a “lavorare con tutti per costruire un’agenda per il paese”. L’ex presidente Saca potrebbe “far pagare” un prezzo politico per il suo sostegno al Frente nel medio periodo, per esempio nel 2015 quando si voterà per rinnovare il congresso unicamerale di 84 deputati. Ad oggi l’FMNL ha una maggioranza relativa alla camera con i suoi 31 deputati, ma ha bisogno dei voti di Gana e dei suoi 11 deputati, oltre a quello di altri gruppi minori, per avere la maggioranza assoluta.

L’accordo con una destra “presentabile” ricorda molto le larghe intese all’italiana, ma pare un’alternativa viabile nel caso salvadoregno. Con un astensionismo intorno al 50% anche un recupero di voti tra indecisi e delusi è una strada per il Frente che, secondo i sondaggi più recenti, dovrebbe avere comunque un margine di vantaggio sufficiente per vincere il ballottaggio. Ciononostante, dopo i fatidici cento giorni di luna di miele post elettorale, potrebbero nascere più contrasti tra le anime organiche e di sinistra del Frente e la coalizione centrista Gana di Antonio Elías Saca di quanti non ne siano esplosi durante il mandato di Funes.

La sua amministrazione non ha rotto gli schemi neoliberisti, anche se ha mostrato alcune tendenze, non rivoluzionarie ma almeno differenti, che dovrebbero rinforzarsi in caso di conferma del Frente al governo: il maggior coinvolgimento statale nella formulazione della politica economica coi piani di sviluppo, in materia sociale per la riduzione della povertà e in tema di sicurezza nella lotto contro la criminalità organizzata, specialmente i narcos e le pandillas o gang della mara salvatrucha. Sono politiche che per essere continuate e ampliate richiedono risorse maggiori di quelle disponibili, sempre molto limitate per via della scarsa capacità dello stato di riscuotere le tasse, la mancanza di un sistema fiscale progressivo e l’avversione della classe imprenditoriale verso il fisco. Inoltre la crisi mondiale del 2008-2009 (e seguenti) s’è fatta sentire a El Salvador più che nel resto dell’America Latina che, in genere, ha retto bene in questi anni. Quindi senza riforme la capacità riformatrice del Frente avrà un freno, anche se l’economia dovesse riprendere a crescere a ritmi sostenuti.

Funes scelse di non aderire all’ALBA (Alternativa Bolivariana para las Américas), l’alleanza creata e promossa dal defunto presidente venezuelano Hugo Chávez, mentre decise di partecipare come osservatore all’Alleanza per il Pacifico, un blocco commerciale cui aderiscono il Cile, la Colombia, il Messico e il Però, sotto l’egida degli USA e col sostegno degli imprenditori nazionali, soprattutto degli esportatori. L’economia salvadoregna si basa da una parte su una gran massa di micro-proprietà agricole di sussistenza, necesssarie ma insufficienti per sfamare la maggior parte della popolazione rurale, e dall’altra sull’agricoltura per l’export (caffè, cotone, mais e zucchero coltivati nei latifondi), sull’industria tessile e la maquila, cioè le fabbriche di assemblaggio.

Le relazioni con il gruppo dell’oligarchia “esportatrice”, ridotto numericamente ma potente economicamente, rappresentano dunque la grande sfida di governo sul tema dell’equilibrio fiscale, per ora nettamente favorevole ai più ricchi. Altri punti chiave sono i vincoli e le alleanze internazionali, per ora più di tipo commerciale che strategico, il controllo della violenza imperante nel paese, e le riforme dello stato e dell’economia in senso più includente ed equo.  

La campagna elettorale non è stata esente da dure accuse reciproche tra i candidati riguardo alla politica da seguire con la mara salvatrucha e il crimine. L’FMLN non ha potuto affrontare integralmente il problema, ma è riuscito a far scendere sensibilmente il tasso di omicidi nel paese, negoziando una tregua parziale con la criminalità organizzata. Per questo l’opposizione l’accusa di aver stipulato un “patto criminale”. Invece Sánchez Cerén ha incolpato a sua a volta la destra di Arena di aver scatenato ondate di violenza preelettorali utilizzando squadroni di sicari e delinquenti per destabilizzare la situazione di relativa calma che regnava. L’uso mediatico della violenza da parte dell’opposizione conservatrice ha chiuso il cerchio, ma non ha funzionato. Infatti, un cavallo di battaglia del Frente è stata la “questione morale”, cioè la denuncia di corruzione rivolta contro l’ex presidente Francisco Flores, eletto con Arena nel periodo 1999-2004, il quale avrebbe tentato la fuga dal paese nel gennaio scorso dopo essere stato accusato di aver ricevuto, e in parte intascato, tra i 10 e i 20 milioni di dollari in donazioni da parte del governo di Taiwan durante il suo mandato.

Il “patto” o tregua con le gang, che prevede un trattamento carcerario migliore per i boss detenuti in cambio di una diminuzione della violenza e i conflitti tra le gang, non rappresenta certamente una soluzione definitiva, ma ha dato alcuni risultati, per lo meno in termini statistici: il tasso di omicidi ogni 100mila abitanti è sceso da 70 a 45 tra il 2010 e il 2012 e nel 2013 è stato di 39. Sono medie altissime, anche se inferiori a quelle dei paesi vicini che formano, insieme a El Salvador, il cosiddetto “triangolo della morte”: il Guatemala ha un tasso di 42 omicidi ogni 100mila abitanti e l’Honduras 82, tra i più elevati del mondo. La destra propone “mano dura” senza mediazioni contro la delinquenza e militarizzazione della politica di sicurezza contro narcos e pandillas, una “soluzione” facile per la propaganda, ma già rivelatasi nefasta in altri paesi, come il Messico, dove è stata propinata con risultati pessimi.

Il nuovo presidente assumerà l’incarico il primo giugno in un contesto di disuguaglianze estreme e stagnazione economica, con un PIL in crescita dell’1,9%, meno rispetto agli altri paesi latinoamericani, e la povertà che, sebbene sia diminuita del 7% negli ultimi 5 anni, colpisce ancora il 40% della popolazione. Alla mano dura delle destre il Frente contrappone la “mano intelligente”, cioè una serie di programmi di reinserimento sociale dei detenuti e degli ex carcerati, accompagnata dal mantenimento dei programmi governativi in favore delle scuole pubbliche e delle borse di studio finanziate da Alba Petroli, un’impresa mista dei comuni salvadoregni e del governo venezuelano.

Non si scorgono all’orizzonte, però, né proposte di riforma fiscale, né piani progressivi per la ricostruzione istituzionale e l’espansione della copertura della previdenza sociale, della salute, dei servizi pubblici, dei beni comuni e dell’educazione. Questi restano sempre sottoposti a logiche private o, nel migliore dei casi, a politiche clientelari o parziali, per cui stentano ad assumere un carattere veramente redistributivo e universale per via delle pressioni esterne, foriere di politiche economiche ortodosse ed escludenti, e di un’élite locale di certo più parassitaria che lungimirante.

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Appello contro la repressione in Honduras https://www.carmillaonline.com/2013/09/29/appello-contro-la-repressione-in-honduras/ Sun, 29 Sep 2013 08:00:23 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=9692 Copinh[Pubblichiamo un riassunto dei fatti e l’appello lanciato da Copinh e, per l’Italia, dal CICA – Collettivo Italia CentroAmerica riguardante l’arresto arbitrario di Bertha Caceres Flores, coordinatrice del Copinh (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras), una delle poche organizzazioni in resistenza contro il golpe del 2009 e la “restaurazione” pseudodemocratica avvenuta nel paese centroamericano dopo la vittoria elettorale del presidente attuale. Porfirio Lobo. La repressione nei confronti del Copinh, e in generale contro i popoli indigeni e i contadini, è stata costante].

Venerdì 20 [...]]]> Copinh[Pubblichiamo un riassunto dei fatti e l’appello lanciato da Copinh e, per l’Italia, dal CICA – Collettivo Italia CentroAmerica riguardante l’arresto arbitrario di Bertha Caceres Flores, coordinatrice del Copinh (Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras), una delle poche organizzazioni in resistenza contro il golpe del 2009 e la “restaurazione” pseudodemocratica avvenuta nel paese centroamericano dopo la vittoria elettorale del presidente attuale. Porfirio Lobo. La repressione nei confronti del Copinh, e in generale contro i popoli indigeni e i contadini, è stata costante].

Venerdì 20 settembre 2013 il pubblico ministero del Tribunale de La Esperanza, Intibucá, Honduras, ha ordinato l’arresto preventivo per Bertha Caceres Flores, coordinatrice del Copinh, organizzazione indigena lenca, nell’ambito di un processo istruito a seguito della denuncia delle imprese che stanno costruire una diga e una centrale idroelettrica sul fiume che fornisce acqua alle nella comunità di Rio Blanco, le multinazionali DESA e Sinohydro. E domani, 25 settembre, dovrebbe essere emesso l’ordine di cattura nei suoi confronti.

Il Collettivo Italia Centro America considera che il processo intentanto da Desa e Sinohydro sia “politico”, perché le comunità indigene della zona e il Copinh, che non sono stati consultati secondo quanto dispone le Convenzione 169 dell’OIL, ratificata dall’Honduras nel 1995, sono in lotta contro il progetto, e da sei mesi occupano pacificamente e in modo continuativo la strada che conduce al cantiere.

Le manifestazioni e l’opposizione hanno già causato due morti tra gli indigeni della regione di Rio Blanco.

Per il momento, il processo ha coinvolto Bertha ed altri due membri del Copinh, Tomás Gómez Membreño e Aureliano Molina Villanueva, mentre si preparano altre denunce a carico di rappresentanti dell’organizzazione.

Vi chiediamo di firmare l’appello a sostegno del Copinh (lo leggete qui sotto, potete aderire inviando una mail all’indirizzo honduras@puchica.org ), che verrà in seguito inviato al ministero degli Esteri italiano, e invitiamo chi può farlo a sostenere -attraverso il Collettivo Italia Centro America- le spese legali sostenute dal Copinh, con un versamento sul conto corrente bancario intestato al Collettivo Italia Centro America è IT64 G050 1801 6000 0000 0127 111 (presso la filiale di Milano di Banca Popolare Etica). La causale è “Solidarietà Copinh”

Collettivo Italia Centro America –  www.puchica.org

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Con l’ordine di arresto preventivo emesso nei confronti di Bertha Caceres, coordinatrice generale dell’organizzazione indigena Copinh, il sistema giudiziario honduregno si dimostra complice di un potere politico -che è ancora quello che ha perpetrato il Colpo di Stato del giugno 2009-.

Mentre l’Honduras si prepara a un processo elettorale farsa, per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, l’arresto di una tra le più riconosciute leader indigene del Paese rappresenta una chiara intimidazione nei confronti di tutti coloro che -in un Paese “svenduto” agli interessi multinazionali- lottano contro mega-progetti idroelettrici, minerari e contro l’accaparramento di terre.

Bertha, tutto il Copinh e il popolo lenca dell’Honduras rappresentano da oltre vent’anni un punto di riferimento anche per la società civile internazionale, per le loro lotte per il riconoscimento dei diritti dei popolo indigeni, primi tra tutti quelli relativi all’accesso alla terra e alla difesa dei beni naturali. Nel 2012, la prigioniera politica Bertha Cáceres è stata insignita, in Germania, del premio internazionale Shalom 2012.

Negli anni, il Copinh si è mobilitato contro decine di centrali idroelettriche, come quella di Agua Zarca a Rio Blanco, dove è in corso da sei mesi l’occupazione pacifica da parte della comunità Lenca. Adesso, però, il regime mostra il “pugno fermo”, slogan elettorale del presidente in carica, Pepe Lobo, perché gli interessi delle multinazionali sono diventati quelli del Paese.

Dall’Italia, dove Bertha e il Copinh hanno tessuto reti di solidarietà da Nord a Sud, manifestiamo solidarietà alla nuova “prigioniera politica”, e invitiamo il ministero degli Esteri ha farsi latore del nostro messaggio di fronte al governo honduregno:

– chiediamo che l’ordine di carcerazione nei confronti di Bertha Caceres venga ritirato, e venga annullata ogni accusa;

– chiediamo l’annullamento delle accuse contro Tomás Gómez Membreño e Aureliano Molina Villanueva, delle misura decise dal giudice nei loro confronti e dell’ordine di rimuovere il presidio contro il progetto idroelettrico di Rio Blanco;

– esigiamo la fine di ogni criminalizzazione del Copinh e dei movimenti sociali del Paese;

– esigiamo il rispetto della Convenzione numero 169 dell’Organizzazione internazionale del lavoro;

– esigiamo la smilitarizzazione delle zone indigene dell’Honduras.

Per informarsi:

Berta condannata in Honduras LINK

Appello sito CICA LINK

COPINH LINK

 

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