Hip Hop – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Gang gang gang! Immaginari e tensioni della metropoli – Ep. 1 https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/gang-gang-gang-immaginari-e-tensioni-della-metropoli-ep-1/ Tue, 09 May 2023 22:40:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77218 di Jack Orlando

La tuta della Nike e il borsello. Il doppio taglio. La “coattanza” di chi cerca rissa per farsi vedere, per affermare la sua presenza. Parlano di coca e di soldi, di lame e di puttane. L’espressione forzatamente cattiva, con le mascelle serrate, cozza con i lineamenti delicati, quasi infantili. Li vedi muoversi in branco intorno al muretto sotto le case popolari, nel centro città o sullo schermo del tuo smartphone.

Si sta codificando nelle periferie metropolitane e nelle loro province ammorbate un immaginario che non ha molto di nuovo, [...]]]> di Jack Orlando

La tuta della Nike e il borsello. Il doppio taglio. La “coattanza” di chi cerca rissa per farsi vedere, per affermare la sua presenza.
Parlano di coca e di soldi, di lame e di puttane.
L’espressione forzatamente cattiva, con le mascelle serrate, cozza con i lineamenti delicati, quasi infantili.
Li vedi muoversi in branco intorno al muretto sotto le case popolari, nel centro città o sullo schermo del tuo smartphone.

Si sta codificando nelle periferie metropolitane e nelle loro province ammorbate un immaginario che non ha molto di nuovo, ma suscita panico e repulsione nella società responsabile e attira magneticamente una gioventù multicolore e turbolenta.
E questo stuzzica le nostre antenne.
C’è qualcosa che brucia sotto la cenere ed è difficile definirlo sottocultura giovanile, difficile accoglierlo come una forma d’espressione rivoluzionaria o progressista o quello che vi pare.
Dalle casse bluetooth i ragazzini pompano machismo violento, sessismo becero, istigazione a delinquere e lumpencapitalismo predatorio. Potrebbe essere facile la tentazione di respingere in blocco tutta l’offerta bollandola come spazzatura.

Ma la trap, come musica e come forma di vita, dilaga e si afferma portandosi appresso tutti i clichè più pacchiani del gangsta rap ma perdendone spesso i virtuosismi di un’arte affinata in decenni, spezzando rime con onomatopee ossessive, innestando musicalità neomelodiche e scarnificando il lessico fino all’osso in una filiazione sporca dalla musicalità più pop ma dall’attitudine decisamente più punk.
Soprattutto spicca per come va accorciando la distanza tra la violenza dei suoi testi e quella della quotidianità dei suoi autori. Esistenzialmente, siamo più vicini ai ‘90 brutali di New York dei Mobb Deep che a quanto si è dato finora in Italia in questa scena musicale. Sottolineiamo il termine esistenzialmente, per non far torto a cultori del genere ma soprattutto per cogliere il dato d’interesse. Che, specifichiamo, non stiamo qui sfoggiare orecchie raffinate.

Per quel che ci riguarda è il dietro le quinte ad attirare la nostra attenzione, vedere chi e perché produce un determinato immaginario, sondare le possibilità di una linea di forza potenziale.
È quanto sta dietro, in termini di soggettività e di vissuto collettivo, ad una determinata produzione culturale o artistica a imprimerle un tratto di forza e renderla capace di produrre empatia ed immedesimazione. Per produrre immaginario forte, prima della tecnica, sono necessari il posizionamento e l’attitudine.
La cazzimma giusta nel posto giusto.

Immancabilmente se ne sono occupati i telegiornali e i servizi scandalistici dei programmi spazzatura che nutrono l’opinione pubblica di questo paese a colpi di fobie manettare, bigottismo morale e razzismo malcelato.
Una leva di giovanissimi artisti che supera i confini della propria scena nel momento in cui finisce in manette. Chi in galera, chi ai domiciliari. Accuse di risse, minacce, rapine, sparatorie.
Che le indagini siano un colabrodo e i capi d’accusa caschino su se stessi non importa granché. Operazioni di questura e servizi giornalistici vanno ad alimentarsi tra di loro in questi casi; quello che si canta al microfono diventa materiale d’indagine. Arrivano daspo urbani dopo che vengono girati videoclip, fogli di via dopo un concerto. Gli avvisi giudiziari si accumulano mentre i problemi legali e personali si ipertrofizzano.

Cosa guida questo accanimento poliziesco è facile intuirlo già solo guardando in faccia i soggetti in questione. Che nella musica di strada si parli di reati e di violenza è una costante, ciò che è diverso in questo caso è l’emergere, specialmente nel Nord Italia, di una dimensione razziale e sottoproletaria che inizia a ricalcare le banlieue di Francia.
Facce da arabi, nomi africani, brutti quartieri. L’immigrazione che ha messo radici ai margini delle metropoli ha dato vita alle proprie comunità di sfruttati e queste hanno generato figli che della fatica, delle umiliazioni e della miseria cui sono costrette le loro famiglie ne hanno le palle piene e cercano il proprio riscatto.

Se delinquenza e teppismo sono aspetti collaterali e strutturali di ogni condizione subalterna, allora la ricerca di dignità ed affermazione esistenziale partirà da qui, dagli elementi che gli sono più prossimi per trascrivere un proprio immaginario.
Costruire attorno al proprio vissuto una specifica narrazione autonoma è d’altronde il primo passaggio di ogni resistenza.
Non solo, è anche una possibilità materiale di riscatto personale. È mettendo in musica il proprio vissuto che le leggende dell’hip hop si sono alzate da una condizione di miseria e violenza altrimenti senza uscita. Non serve citare esempi.
Per questi artisti non fa differenza, vale la stessa regola, ciò che cambia è che tecnologia e social network permettono ascese (e cadute) molto più rapide. Ci vuole molto poco a fare un videoclip, quasi nulla a registrare una traccia, bastano un paio di singoli per firmare con un’etichetta e non essere più un pezzente sulle panchine del parchetto.

Ha colto bene il senso di ciò l’antropologo Pietro Saitta definendola una violenta speranza1. Un tentativo di ribaltare una condizione squalificante cavalcandola come mezzo di successo personale e come salvagente esistenziale.
C’è qualcosa di potente dietro questa lirica, che evidentemente travalica di gran lunga il droga&puttane, ed è una chiara identificazione collettiva e generazionale. La violenza verbale apre ad una consapevolezza che, nemmeno troppo in controluce, reca in sé uno spiccato istinto di classe.

A mò di esempio: marzo 2021, ancora in mezzo alle restrizioni da covid, a San Siro si raduna una folla di ragazzini. Stanno girando il videoclip dei trapper Neima Ezza e Baby Gang, il titolo è “Rapina”.
Bastano le prime rime a vedere che c’è un di più che va nel profondo, oltre la spavalderia.

Mio fra che magna
Se non metto il passamontagna?
Lo buttano in gabbia
Pensando che il ragazzo cambia
Ma esce fra con più rabbia
Italia corrotta e mafia
Lo Stato fornisce
E poi dopo ci butta in gabbia

La galera non è una cazzata da rapper stavolta, lo sa Baby Gang, lo sanno i ragazzi dei suoi quartieri e quelli cresciuti al margine. Qui si esorcizza il suo spettro rivendicando la propria illegalità. È un elemento che fa parte del vissuto della comunità subalterna e ci si transita facilmente.
Quanto facile? Basta guardare il video; la folla di ragazzini per metà della clip è impegnata in una sassaiola con un reparto della celere intervenuta tra i vicoli per disperderla (è ancora il periodo di divieto degli assembramenti). Seguiranno perquisizioni e denunce, diverse a carico di minori.

La posta in gioco traspare subito nelle dichiarazioni della stampa:

“Se si riescono a portare trecento ragazzi senza un’organizzazione vera e propria, diventa una cosa preoccupante, commenta il questore di Milano, Giuseppe Petronzi: Ora stiamo studiando le condizioni in cui si è verificato questo fenomeno.”2

Emulazione dei leader e quindi costruzione di modelli, mobilitazione rapida e spontanea, l’incontrollabilità di una gioventù razzializzata e la sua presunta attitudine violenta. Il teppismo assurge a ultima bandiera di fronte ad una frustrazione costante del presente che non lascia sbocchi. Il video in questione è un tassello importante nella persecuzione giudiziaria di cui sopra. Per i tutori dell’ordine il rischio del contagio è grande e da scongiurare immediatamente.
E forse il timore non è campato in aria.

“Peschiera è Africa!” do you remember? Oltre un migliaio di poco più che bambini, immigrati e non, che muove da tutta la provincia veneto-lombarda per un appuntamento lanciato sui social e converge sui luoghi della movida rivierasca per vandalizzarla. Ritornano le immagini di casse bluetooth con la trap, tute e doppio taglio, ancora la polizia antisommossa che cerca di sloggiarli. Già ne avevamo parlato in queste pagine.3
Ancora indietro, te lo ricordi invece delle notti di Torino e Milano? “Tu ci chiudi tu ci paghi” si gridava ovunque, spesso finendo a contatto con la polizia.
La vetrina di Gucci in Piazza Castello, sfondata e saccheggiata, i selfie davanti ai monopattini in fiamme, i tavolini dei bar e le fioriere che volano sulla celere.
Ancora loro, tuta e doppio taglio, sfumature di blackness, è sempre la stessa composizione che dovrebbe garantire, col proprio sudore, il buon funzionamento della locomotiva d’Italia e invece ne turba il sonno, scalcia contro i suoi ingranaggi.
C’è una collettività che non è ancora comunità politica, ma esprime sé stessa con rabbia e spregiudicatezza.
Questi selvaggi sono ingrati, non sanno stare al loro posto.

Tornando ai nostri artisti, restiamo sempre sui due nomi di prima.
Più datato è il pezzo “Baby” di Baby Gang. Stavolta le immagini sono più crude, anche se studiate a tavolino: spazi angusti e affollati, passamontagna, bossoli e armi da fuoco, canne girate tra i polpastrelli, bilance e pezzi di cocaina sul tavolo. Il grigio e il nero sono i toni che dominano in una luce metallica.

È un’iperbole di immaginario criminale, di quella delinquenza da bassifondi dove si rischia tanto per poche briciole, messa però a fare da cornice ad un racconto autobiografico, dove il nocciolo sta nella condizione del sottoproletariato immigrato. Marocchino e povero in Italia, condizione doppiamente squalificante in cui ognuno dei due termini alimenta l’altro.
Di qui la pratica illegale che assurge a linea di condotta, anche quando non prospetta una via d’uscita, ma consapevoli transiti in galera.

Quale street, quale strada
Tuo padre è un avvocato e mia zia gli pulisce casa
Mia zia gli pulisce casa
Mio frate gli svuota la casa e
Prende frate quella cassa poi
Si fa un anno di vacanza
Non a Dubai o Casablanca
Ma con lo zio Peppe in casanza
A giocare a scala quaranta

La gabbia d’acciaio non concede scappatoie. Per quanto rivendicata ed esaltata, la condizione subalterna e delinquenziale non risponde mai all’esigenza primaria, quella dello stare bene, di vedere felice la famiglia e gli amici. Tema che ricorre come un filo sottile e bruciante lungo tutta questa produzione di genere.

A ben vedere sono due gli elementi che emergono ciclicamente come salvifici.
In primo luogo il gruppo: gli amici, la gang. Che iconograficamente affolla quasi tutta la videografia, oltre che i testi e il sottofondo sonoro; perché è automatico e naturale che chi non ha nulla in tasca si giochi le carte sulla relazione. Nei quartieri avere una collettività di riferimento vuol dire non solo crescere, ma esistere, avere una conferma da qualche parte della propria presenza, sapere di valere qualcosa.
È in gruppo, solo in gruppo che ci si sente forti.
Si parla di cash e di impicci ma si legge della ricerca della forza comune.
La collettività. Aggressiva, violenta e gioiosa. Capace di muoversi in branchi grossi e spavaldi. Dallo schermo dello smartphone al quartiere, dalle telecamere del tg alla piazza invasa. “È una cosa preoccupante”, diceva il questore, quando i selvaggi prendono parola.

L’altro elemento salvifico è la musica. Attraverso la messa in opera del proprio vissuto si ricerca quel successo personale che le vie legali semplicemente proibiscono, mentre quelle illegali lo lasciano solo subodorare per poi tramutarlo in incubo ancora più profondo.
È la svolta che salva dalla sfiga.

È Neima Ezza stavolta a rendere perfettamente tangibile tutto ciò nel suo “Risposta”, un pezzo decisamente più intimista e senza fronzoli, che controbatte alla macchina del fango che gli si è rovesciata addosso e di cui dicevamo poco sopra. Qui il razzismo quotidiano, la brutalità poliziesca, lo stigma vengono apertamente sfidati attraverso il lavoro musicale e le sue possibilità.

questi sai cosa dicono?
“un artista ruba l’oro”
ma il mio contratto di lavoro
vale dieci volte il loro
infangano il mio nome perché ce la sto facendo
un giorno lascerò il mio bendo
morendo lascerò il segno
solo sbirri corrotti mai visto uno corretto
mi dà dello straniero usando frasi in dialetto
io non mi diverto
chi ci darà indietro il tempo che abbiamo perso?
le cose che hanno detto ci rimarranno dentro
ma io non ci do peso
come ogni razzista che insulta sui social network

Questi ragazzi vogliono spaccare perché hanno fame ed hanno ragione, perché vogliono ciò che la società promette e non rende mai, specialmente se stai tra gli ultimi.
Vogliono i soldi perché sono intimamente capitalisti? O forse perché i soldi sono ciò che rappresenta la “via d’uscita”, lo stare bene, la fine della fame?
Ma non parlano d’amore! Non portano avanti ideali nobili, diranno gli amanti dell’umanità, le anime belle. I loro messaggi sono tutto tranne che edificanti.
Bene! C’è qualcosa di più liberatorio di prendere da dentro i propri giorni tutta la merda accumulata e trasformarla in qualcosa di potente, di vivo?
E poi che cosa dovrebbero portare in alto, la fratellanza universale? La bandiera rossa?
Nella morte e nell’impotenza degli slanci politici, tra l’autismo dell’antagonismo, la stucchevole ipocrisia del discorso umanitario e l’ostilità dello stato, dov’è precisamente che dovrebbero trovare la liberazione?

Louisa Yousfi, giovane giornalista francese di origine algerina, ha colto nel segno praticando un percorso molto simile a quello operato qui, ma di ben altra profondità, seguendo le liriche dei trapper Booba e PNL, per aprire uno squarcio nella cattiva coscienza francese e farne sgorgare il sangue delle banlieue, del lato cattivo.
Tutta questa roba, questa poesia trucida, ha un unico scopo: restare barbari.4
Laddove la cosiddetta integrazione non solo ha fallito, ma ha scientemente prodotto una specifica forma di colonizzazione interna alle metropoli democratiche e generato una subalternità cui si imputa quotidianamente un’inferiorità colpevole e, paradossalmente, congenita; ribaltare l’accusa è una pratica di resistenza, risignificare la propria mostruosità vuol dire aumentare la propria potenza, sottolineare l’alterità è ricomporre i pezzi smembrati della propria anima.
È una vendetta contro la dominazione e un assalto alla conquista della propria condizione umana.

Non c’è da fare alcuna mitopoiesi del sottoproletariato, sono le comunità a creare i propri miti. Né di categorizzare moralmente o politicamente lo spaccio e la violenza gratuita.
L’obbiettivo è comprendere. Annusare l’aria. Occorre inseguire le linee di frattura della società alla maniera delle bestie, fiutandone il sangue dalle ferite.

Questa musica merita di essere ascoltata perché mette in opera l’indicibile; salva chi la pratica ma, svelando un vissuto comune, salva anche tutti gli altri. La gang, la famiglia.
È strumento di liberazione perché offre un linguaggio a chi è privato di voce. Perché qualcuno possa ascoltarla e riconoscersi, fare un passo avanti nel dare una forma ai demoni dentro di sé, perché sappia che altri individui, ostili, invece la ascoltano e provano paura.
Oderint dum metuant.
Se scandalizza, se fa paura, fa bene. Perché le voci che giungono dall’abisso, non vengono mai in pace.


  1. P. Saitta, Violenta Speranza. Trap e riproduzione del panico morale in Italia, Ombre Corte, Verona 2023  

  2. https://www.milanotoday.it/attualita/sassaiola-video-rapper-perquisizioni-sansiro.html 

  3. https://www.carmillaonline.com/2022/06/29/banlieue-del-garda/ 

  4. Lousa Yousfi, Restare barbari. I selvaggi all’assalto dell’Impero, DeriveApprodi, Roma 2023 

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Pischelli dell’Ottavo Colle https://www.carmillaonline.com/2023/03/25/pischelli-dellottavo-colle/ Fri, 24 Mar 2023 23:00:24 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76599 di Jack Orlando Fabio Piccolino, Simone “Danno” Eleuteri, Massimiliano “Masito” Piluzzi; Colle der Fomento. Solo amore; Minimum Fax; Roma 2022; pp. 476 20€

Quasi sei mesi. Tempo interminabile per una recensione. Rimandi, incombenze, agitato procrastinare di vita metropolitana. Nelle paranoie serali immagino l’espressione contrariata dell’ufficio stampa a cui ho chiesto il volume. Ogni tanto sorge il dubbio “ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”, ok, è vero che nelle mie stanze lo stereo suona per metà della giornata e che, spesso e volentieri, è l’hip hop nostrano la colonna sonora. Ma io [...]]]> di Jack Orlando

Fabio Piccolino, Simone “Danno” Eleuteri, Massimiliano “Masito” Piluzzi; Colle der Fomento. Solo amore; Minimum Fax; Roma 2022; pp. 476 20€

Quasi sei mesi. Tempo interminabile per una recensione.
Rimandi, incombenze, agitato procrastinare di vita metropolitana.
Nelle paranoie serali immagino l’espressione contrariata dell’ufficio stampa a cui ho chiesto il volume.
Ogni tanto sorge il dubbio “ma chi cazzo me l’ha fatto fare?”, ok, è vero che nelle mie stanze lo stereo suona per metà della giornata e che, spesso e volentieri, è l’hip hop nostrano la colonna sonora.
Ma io non scrivo mai di musica, mica sono un critico musicale… non ho idea di dove mettere le mani. Sono un militante che scrive di politica e tra l’altro, fedele alla mia di old school, rifuggo regolarmente lo scrivere in prima persona, imperdonabile peccato di individualismo alla luce di un’etica incardinata sulla dimensione collettiva.
Ci sono grosse deviazioni dalla disciplina qui. Si cammina su sentieri incerti.

Ma se non ho mai recensito un disco, né un libro sulla musica, la domanda a cui rispondere è: perché quest’impulso? Per quale motivo dovevo leggere e, soprattutto, scrivere di un libro su un gruppo hip hop romano?
Perché c’è qualcosa che è rimasto in sospeso, e che cerco di recuperare.
C’è una presenza assenza che si muove sempre dietro i miei fogli e a cui non riesco a dare voce.
Che cosa hai fatto per tutto questo tempo?

Ricordo il mio primo concerto punk in una scuola occupata, la prima serata tekno in un centro sociale, il primo del Truceklan al Verano (almeno credo fosse lì); tendenzialmente le prime volte si ricordano sempre, o quasi.
Perché il mio primo concerto del Colle Der Fomento non me lo ricordo.
Eppure, o forse proprio per questo, negli ultimi sedici anni avrò assistito almeno ad una dozzina dei loro show. Ma quella prima volta resta in una nebbia vaga, accatastata in un magazzino del cervello, sfocata, insieme ad un esercito di episodi archiviati frettolosamente.
Quello che posso dire sicuramente è che, come il 90% degli adolescenti del primo decennio Duemila, i primi pezzi del Colle l’ho scoperti in cameretta, col passaparola, mentre si scaricavano tonnellate di musica da Emule e Limewire e qualcuno, dopo l’ennesima canna, rimaneva impallato a guardare fisso quell’orrendo salvaschermo psichedelico di Windows Media Player.
No, niente vinili e nessun mc nella banda dove crescevamo, al massimo qualcuno che sapeva usare la bomboletta su un muro, di sicuro non io che ho sempre creato degli abomini malfermi, tanto con lo spray che con la matita; una giovinezza canonicamente molto poco hip hop.

Eppure il CDF, tra le diverse influenze, è stato una presenza costante, per noi come per tante altre bande di ragazzini; in qualche modo ci siamo cresciuti, è il suono originale che ci piace. E nel tempo ce lo siamo tenuto stretto.
Dai banchi di scuola alle prime comitive, dall’università a quella merda di mondo del lavoro. Ospite fisso di ogni playlist personale.
Alla fine, la musica del Colle è diventata un pezzo di identità collettiva, non poteva essere altrimenti: perché ci sono dall’inizio, dalla Roma delle Posse nei ‘90, perché ci hanno parlato di noi che giravamo col cinquantino sotto il cielo della nostra città o di quando ci pioveva in testa e non sembrava smettere, di quando ci siamo persi e a guardare indietro tutto era magia.

Ancora di più: perché è uno di quei pochi esempi rimasti di musica autentica, fatta perché se ne ha bisogno e non per i soldi, perché segue la sua ricerca e la sua evoluzione, nessuna moda e zero parruccate; che se ne frega delle major, dei contratti e delle passerelle, eppure sfonda e rimane al centro della scena, contando solo sui propri mezzi.
Underground e indipendenti ma assolutamente mai marginali né scrausi.

Tre decenni, praticamente una vita, e il Colle resta in piedi e non regala niente.
In quattrocento e passa pagine di libro sulla loro esperienza, non si legge solo della carriera artistica di un gruppo, si legge una storia di Roma; la sua controcultura, la socialità degli spazi alternativi, le comitive dei muretti, una storia che ci appartiene, ma anche qualcosa in più.

Citare dalla coda, dribblare lo spoiler:

Non soltanto un’avventura musicale ma il racconto di come si possa tentare una strada diversa, di quanto possa essere faticoso percorrerla pur conoscendo la rotta, per accorgersi infine che ne è valsa la pena. È la storia di persone che hanno attraversato questi anni insieme e di tante altre che pur non conoscendosi sono unite da un sentire comune, dalla consapevolezza di essere parte di un qualcosa in cui identificarsi. Un rapporto speciale che ha a che fare con i sentimenti, le percezioni, l’empatia […] è “fam, not fan”: è famiglia, ed è qualcosa di cui facciamo parte.1

Eccolo il succo: il punto non è l’essere hip hop, e non è nemmeno (soltanto) la musica, il punto è che si tratta di una questione d’attitudine; è ricerca continua, è il cammino da cani sciolti che sanno unirsi in branchi, è essere famiglia per salvarsi da una vita che stritola, è restare fedeli a sé stessi mentre intorno cambia tutto e cambiamo anche noi.
Quel magliettone col fiammifero non lo abbiamo più nell’armadio ma, come il Colle, siamo ancora ghetto chic, finché cerchiamo di tirare fuori qualcosa di bello dalla merda che viviamo, perché ci si rigira lo stomaco se non trasformiamo i nostri giorni e pure se oggi abbiamo sulle spalle trenta o quarant’anni e di cazzate ne facciamo molte meno, abbiamo ancora la visiera del cappello calata bassa sopra gli occhi.
Né per l’oro né per loro, solamente perché…

Se lo abbiamo imparato, se quest’attitudine ce la siamo coltivata dentro, molto è stato anche grazie a queste rime, che ce le siamo portate appresso.
Qualcuno se l’è messa nella bic e nelle pagine sporche d’inchiostro, qualcuno dentro i guantoni su di un ring, c’è chi l’aveva nelle cuffiette mentre si staccava da terra l’aereo a Fiumicino e si cercava un futuro altrove, chi l’ha usata come stampella quando usciva dal reparto psichiatrico e chi come scudo mentre era ostaggio dello Stato.
Questa roba ci ha accompagnato e ci ha cresciuto, mentre piangevamo e ci mettevamo il ghiaccio sui bozzi e mentre ridevamo e ci regalavamo abbracci.

E allora davvero, per questa storia, non ci poteva stare titolo migliore che Solo amore.
Quasi sei mesi ci ho messo, e solo un paio di paginette, dovevo scrivere una recensione e ho fatto tutt’altro.
L’espressione contrariata dell’ufficio stampa, le mie paranoie serali.
Però, ecco che cosa avevo lasciato in sospeso.
In fondo cercavo l’occasione.
Serviva un cenno che fosse scritto, pure se rapido e leggero, ma che non restasse sempre sottinteso, per quei pischelli sui muretti sempre in bilico; per quel senso d’appartenenza che conserviamo in un angolo del petto insieme a nomi, volti e sensazioni; per quell’identità che in fondo ti fa amare questa città pure quando ti scortica e non ti rende indietro un cazzo; per quegli attimi e quei battiti che ti costruiscono.
Che puoi non ascoltare, ma non puoi cancellare.


  1. Op. cit.; pp 399-400 

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Rivolta e “negritudine” https://www.carmillaonline.com/2019/09/11/rivolta-e-negritudine/ Wed, 11 Sep 2019 21:01:17 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=54237 di Sandro Moiso

Gioacchino “Jack” Orlando, No Justice No Peace. Storia militante delle lotte per l’autodeterminazione afroamenricana, Red Star Press, Roma 2019, pp. 224, euro 16,00

Molte sono state le attenzioni, e le pubblicazioni, rivolte negli ultimi anni alla ricostruzione storica, sociologica e politica delle esperienze di lotta e organizzazione degli afroamericani nel ventre della bestia rappresentata dalla società americana, dalla sua struttura economica e dalla sua compartimentazione razziale e di classe. Ma l’autore di questo libro è il primo a dichiarare esplicitamente che il suo intento non è né storiografico né [...]]]> di Sandro Moiso

Gioacchino “Jack” Orlando, No Justice No Peace. Storia militante delle lotte per l’autodeterminazione afroamenricana, Red Star Press, Roma 2019, pp. 224, euro 16,00

Molte sono state le attenzioni, e le pubblicazioni, rivolte negli ultimi anni alla ricostruzione storica, sociologica e politica delle esperienze di lotta e organizzazione degli afroamericani nel ventre della bestia rappresentata dalla società americana, dalla sua struttura economica e dalla sua compartimentazione razziale e di classe. Ma l’autore di questo libro è il primo a dichiarare esplicitamente che il suo intento non è né storiografico né etnografico e che, piuttosto, è quello di voler fornire ai lettori un modello di auto-organizzazione, riflessione e di lotta ancora utile, forse più che mai, ai nostri giorni, in un contesto di frammentazione sociale e impoverimento che se da un lato vede un ritorno massiccio della propaganda razzista e nazionalista tra le file di quello che potremmo descrivere come il “fu proletariato bianco”, dall’altro vede svilupparsi un contesto di solidarietà che più che basarsi sulla lotta sembra orientarsi sempre più verso una “disarmante” pietà e carità cristiana.

Gioacchino “Jack” Orlando, classe 1992, è calabrese d’origine, romano d’adozione oltre che militante autonomo, lavoratore precario, studioso del movimento operaio, e saltuario collaboratore di Carmilla. Con la tesi di laurea che si è trasformata nell’opera appena pubblicata da Red Star Press ha vinto il premio Lorusso attribuito dal CUA (Collettivo Universitario Autonomo di Bologna).

Al centro della riflessione di Orlando, dichiaratamene, brilla la stella polare del pensiero di Franz Fanon, in particolare quello dedicato alla riappropriazione della violenza come strumento costituente/destituente attraverso cui il “dannato”, tale ancora troppo spesso per il colore della pelle o identità etnica, può “attivare un percorso di riappropriazione identitora aria e presa di coscienza politica, preliminare all’organizzazione antagonista”1. Riappropriazione che passa anche attraverso il concetto di negritudine, ovvero del riconoscimento di una condizione di sfruttamento ed emarginazione che può però rinchiudere in sé anche le radici culturali e politiche di una ridefinizione del sé individuale e collettivo, tesa a fare della stessa categoria uno strumento per la costruzione di una soggettività autonoma ben definita e antagonista del sistema che l’ha prodotta.

Le riflessioni di Fanon, secondo l’autore, servono ad ampliare ed integrare la griglia di interpretazione marxista e permettono di comprendere meglio la dimensione di violenza sistemica e multiforme (poliziesca, culturale, giuridica, psichica, economica) che agisce all’interno di un contesto segregato come quello americano. Ma non solo.
Non a caso nel primo dei due intermezzi che separano tra di loro i tre capitoli della ricerca, l’attenzione è rivolta tutta all’influenza che sugli afroamericani, e sul Black Panther Party in particolare, ebbero l’azione e il pensiero dei principali leader dei movimenti di liberazione in Africa: Patrice Lumumba, Kwame Nkruma, Sékou Touré, Amilcar Cabral.

Nel primo capitolo, «Burn Baby Burn!» Le origini della protesta nera, l’autore non dimentica però il percorso che da Rosa Parks, passando attraverso il pensiero e l’azione di W.E.B. Du Bois, Aimé Césaire e Martin Luther King, ha condotto al radicalismo di Malcom X, ultima fermata dell’evoluzione della strategia afroamericana per il riconoscimento di “diritto” della propria soggettività prima del salto verso l’ipotesi anti-coloniale, rivoluzionaria e insurrezionale sviluppata dal B.P.P.2

Tale scelta di lotta viene inserita da Jack all’interno di una tradizione di lotte e rivolte, in cui il pensiero torna inevitabilmente alle riflessioni fanoniane sulla violenza come strumento di riscoperta di un’identità politica, che hanno caratterizzato le comunità afroamericane nel corso dei quattro secoli intercorsi tra lo sbarco dei primi schiavi americani in Virginia e l’attuale America di Trump.
Tale tema viene trattato nel secondo intermezzo: «Roots!» La lunga resistenza contro la schiavitù.

L’ultimo capitolo3, riprende il discorso della lotta e della organizzazione dal basso là dove la momentanea sconfitta delle Pantere nere, dovuta sia all’azione implacabile del Cointelpro (acronimo di Counter Intelligence Program) che all’introduzione massiccia delle droghe nei ghetti come fattore di disgregazione sociale e politica, l’aveva lasciato.

Ecco allora, oltre che allo sviluppo di un movimento come Black Lives Matter, l’attenzione si sposta sulla funzione dell’Hip-hop e delle gang come possibili strumenti di aggregazione, anche politica, proprio nei luoghi in cui la disgregazione sociale precedente avrebbe potuto far pensare ad una sconfitta definitiva delle istanze afro-americane di riconoscimento dei propri diritti e, soprattutto, di quelle più radicali tra queste.

Lo slogan che dà il titolo al libro, sviluppatosi a partire dalla rivolta losangelena dei primi anni Novanta e poi diffusosi a macchia d’olio in tutti i ghetti del pianeta, da Detroit alle banlieu parigine, diventa a questo punto il vero filo conduttore di tutta la ricerca. Ricerca, come rivendica più volte l’autore, militante che più che incasellare nella ricerca storica e sociologica un materiale ancora rovente, in attesa che il tempo lo faccia raffreddare, intende piuttosto rilanciarne l’attualità per soffiare ancora sul fuoco delle rivolte che, nella crisi generalizzata dell’attuale modo di produzione, covano ovunque sotto le ceneri. Anche là dove il concetto di negritudine sembra essere più lontano, meno compreso e più osteggiato. Così come, per altre vie, sembra suggerire anche un’altra, e discussa, fanoniana: Houria Bouteldja.

“Negritudine” diventa allora sinonimo di emarginazione, sfruttamento. miseria economica e culturale, perdita di identità collettiva, ma allo stesso tempo può diventare strumento per una nuova ricerca identitaria che solo la lotta potrà realizzare, al di là, anche, delle fratture sociali e delle linee del colore e dei confini nazionali. In questo possibile percorso risiede l’utilità e l’attualità del testo di Orlando, di cui mi perito di suggerire la lettura a chiunque voglia veramente comprendere le contraddizioni del presente e le possibili vie per il superamento dalle stesse. Al di fuori di concezioni partitiche ed ideologiche che più che a unire contribuiscono soltanto a dividere ulteriormente un corpo sociale che sembra aver perso, in nome della redditività e del consumo, qualsiasi carattere di classe e qualunque aspetto di antagonismo rivoluzionario.

Un’opera che nel suo percorso ed impostazione risponde proprio a quella necessità di “promuovere all’interno delle università italiane un dibattito che sappia far emergere il patrimonio collettivo costituito da tutte quelle storie di lotta e militanza che troppo spesso sono costrette all’oblio da un’organizzazione del sapere che privilegia il punto di vista del potere costituito”, indicata come prioritaria tra le motivazioni finali per l’istituzione del Premio di laurea Francesco Lorusso, di cui quest’anno è stata insignita.


  1. G.J. Orlando, No Justice No Peace, p. 11  

  2. Di cui si occupa il secondo capitolo: «Move On!» Un socialismo dal ghetto, il caso del Black Panther Party.  

  3. «Terrordome!» Ghetti e resistenze nella contemporaneità.  

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The Roof is on Fire: l’America della nuova coscienza “nera” https://www.carmillaonline.com/2018/01/16/the-roof-is-fire-lamerica-della-nuova-coscienza-nera/ Mon, 15 Jan 2018 23:01:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=42724 di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?» Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali. La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta. Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal [...]]]> di Giacomo Marchetti

Angie Thomas, The Hate U Give. Il coraggio della verità, traduzione di Stefano Bortolussi, Giunti 2017, pp.416, euro 14,00

«Perché ascolti sempre questa musica preistorica?»
Domanda Starr, la protagonista sedicenne a Khalil, mentre la riporta a casa dopo averlo incontrato casualmente ad una festa terminata con una sparatoria tra gang rivali.
La musica preistorica è quella di Tupac Shakur, rapper afro-americano figlio della militante del Partito delle Pantere Nere Afeni Shakur e icona dell’Hip Hop degli anni Novanta.
Il romanzo prende il nome proprio da un acronimo usato dal musicista che acquista nei suoi versi un significato particolare.
Thug Life, traducibile in “vita da teppista” diviene: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody.
E così Khalil spiega l’acronimo: «nel senso che quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo».
Tupac, per Khalil, era la verità.
Lo diverrà anche per Starr, cessando di essere solo, musica “dei vecchi tempi”.

Khalil, cresciuto insieme alla protagonista è costretto a farla, la vita da teppista, con una situazione familiare alle spalle piuttosto problematica a causa della madre che non riesce ad uscire dalla tossicodipendenza, ed una nonna anziana e malata.
Starr vive nello stesso quartiere di Khalil, ma studia in una scuola lontano dal suo abitato, in cui è una delle poche teen-ager afro-americane; suo padre, ex membro di una gang – come a sua volta sua padre – è stato in carcere ed ora gestisce un piccolo spaccio alimentare nel quartiere regalato dal vecchio proprietario – unico a dargli un lavoro uscito di prigione – ; la madre lavora come infermiera professionale.

Starr ha un fratello più grande che il padre ha avuto da una relazione extra-coniugale con la “donna” di King, capo-banda della gang di quartiere, i King Lords, a cui il padre era “affiliato”, e un fratellino più piccolo Sekani…
Starr, ha visto uccidere da una “pallottola vagante” la sua migliore amica Natasha alcuni anni prima, senza che fosse fatta luce su quell’omicidio.
Nella finzione letteraria così come nella realtà, le vite degli afro-americani uccisi in conflitti a fuoco non conta, sia che a sparare sia un agente di polizia sia che l’omicidio avvenga in altre circostanze.

Quella notte, Khalil e Starr verranno fermati dalla polizia che ucciderà Khalil durante il fermo nonostante fosse disarmato e non avesse dato adito ad alcun comportamento “sospetto”.
Sarà la presunta aggressività verbale di Khalil e il possesso di una spazzola nella portiera dell’auto, confusa per una pistola, a far premere il grilletto all’agente secondo il suo “alibi”.
Il vero motivo è che Khalil è un giovane afro-americano…

La vita di Starr viene stravolta una seconda volta, e forse l’unica cosa che la salva dall’essere la seconda vittima della violenza poliziesca quella notte – l’autore dell’omicidio non smette di puntarle la pistola addosso anche dopo aver ucciso Khalil – è il preciso decalogo che i suoi genitori le hanno imposto dall’età di dodici anni sul comportamento da tenere in caso di fermo.
Le parole del padre, Starr, le ha stampate in testa, quando sente la sirena e lo specchietto retrovisore dell’auto su cui viaggiano si colorano d’azzurro.
Devi fare tutto quello ti dicono di fare […]Tieni le mani bene in vista. Non fare movimenti bruschi. Parla solo se interpellata.
Le ha insegnato il padre, e così si comporta, “salvandosi”.

Da allora, vive un perenne conflitto interiore, che risolve decidendo di non tacere di fronte alla morte dell’amico, di non rimuoverla per dimenticare in fretta.
Non vuole convivere silenziosamente con i propri rimorsi di coscienza che si alternano agli incubi che popolano le sue notti.
The Hate U Give è “un romanzo di formazione” e il lettore viene proiettato nel mondo di una sedicenne afro-americana nel suo mutevole rapporto con il mondo e con se stessa nella sua vita di tutti i giorni, ma che tiene testa a tutti, genitori compresi.
Ai poliziotti che la interrogano e che le chiedono:
«Puoi dirci cos’è successo la sera dell’incidente?»
Starr risponde a bruciapelo:
«Intende la sera che è stato ucciso».

Una vita quotidiana fatta anche di amore viscerale per le Jordan (i vari tipi di calzature indossati da Air Mike) e per il Basket, i “cibi spazzatura”, l’irrompere improvviso della sessualità, un rapporto organico e strutturante con i social – che divengono strumenti della sua battaglia e non solo semplici passatempi – e personaggi dello spettacolo della cultura mainstream con cui idealmente tal volta si confronta, come Willie il principe di Bel Air della fortunata serie televisiva.

La sua vita si svolge dentro più di un conflitto e “tra conflitti”, basti pensare che suo zio Carlos, il fratello della madre, importante sostituto del padre durante i suoi anni di detenzione, è un poliziotto nato e cresciuto in quartiere ma trasferitosi poi nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.
Suo zio, non rinuncia a “proteggere” la nipote anche recidendo quella “solidarietà di corpo” che è il collante della polizia in casi come questi, e prendendosi in carico un altro giovane afro-americano a cui la gang a cui era affiliato vorrebbe “fare la pelle”.

Starr sceglie di contribuire al sabotaggio della macchina del fango montata contro Khalil che viene rappresentato dai media come un criminale tout court, ed indaga direttamente sulla strada intrapresa dal suo coetaneo accusato di essere uno spacciatore appartenente ad una banda, scoprendo i motivi reali della sua scelta “extra-legale”. Decide di diffondere attraverso i social, insieme agli altri, un’ immagine dell’amico più consona alla realtà rispetto a quella stereotipata dei media mainstream, facendo divenire virale la percezione della comunità degli affetti attorno a Khalil.
Una ricerca travagliata, perché la costringe a fare i conti per ciò che provava veramente per Khalil, a far riemergere i ricordi di un passato che aveva dovuto rimuovere a causa della morte di Natasha e del “trio” che formavano insieme a lui: momenti di felicità infantile che fanno l’effetto di un pugno alla bocca dello stomaco a causa della tragica scomparsa degli amici.

Starr fornisce elementi concreti per smontare la tesi che utilizza l’inversione tra vittima e carnefice tesa a deresponsabilizzare l’agente per la morte di Khalil, affinché non si proceda giuridicamente contro di lui.
La protagonista affronta la spensierata crudeltà del pregiudizio razziale che anche una delle sue migliori amiche, Hailey, esercita su di lei, ridefinendo un universo relazionale più maturo e cosciente con un’altra sua amica asiatico-americana.
Ingaggia un confronto serrato con il suo ragazzo Chriss, figlio di una famiglia agiata che vive nel sobborgo bianco della scuola che frequenta.

Ciò che ha vissuto Starr “politicizza” le sue relazioni, in un rapporto dialettico di incontro/scontro fondato su basi nuove. Così, alla fine, Starr è un vettore di crescita di Chriss, che decide di partecipare organicamente alle proteste degli afro-americani – unico bianco in un quartiere nero in rivolta – e in maniera non meno impegnativa sceglie di affrontare il padre e lo zio di Starr che non vedevano di buon occhio il fidanzamento della figlia con un bianco, ma che alla fine si rassegnano all’evidenza che il ragazzo abbia “le palle”.
Chriss, è un “traditore di razza” disposto a mettere in discussione i suoi pregiudizi razziali inconsapevoli, in un percorso che lo porta a annullare anche il suo “machismo”, l’opposto positivo di Hailey e dei suoi tanti coetanei pronti a sfruttare la morte dello “spacciatore” Khalil solo per perdere un giorno di scuola.
Williamson, il nome della scuola che frequenta, e Garden Heitghts, il quartiere-ghetto dove vive, «sono due mondi completamente diversi» che la protagonista aveva precedentemente deciso di tenere separati, ma l’esistenza e le relazioni in questi due “universi paralleli” si intrecceranno dissolvendo le divisioni artificiali e facendo comunicare tra loro i compartimenti stagni dell’esistenza precedente.
Ma se si dissolvono nella scelta di vita di Starr, i muri della segregazione secondo la linea di colore rimangono alti per le due comunità.

Anche il rapporto con il quartiere si modifica nel corso degli eventi, una relazione complessa dove gli elementi di una irrinunciabile familiarità con le relazioni di mutuo appoggio storicamente intessute dai suoi abitanti, si alternano ad uno spazio fisico disseminato da pericoli.
Rischi dovuti allo scontro tra le gang, dove anche andare a fare due tiri in un campo di basket in un parco all’aperto in un territorio conteso può riservare “spiacevoli sorprese”.
Un quartiere dominato da un circolo vizioso che costringe gli ultimi della scala sociale – per poter emergere o più comunemente per sopravvivere – all’affiliazione ad una banda che ha come propria ragione d’esistenza lo spaccio di droga che falcidia le vite delle persone a causa della loro tossicodipendenza, della guerra per lo spaccio e delle massiccia presenza della polizia “giustificata” dalla “guerra alla droga” stessa.
Questa è una dinamica magistralmente inquadrata dalla serie televisiva dell’HBO: The Wire, affresco di una città, “nera” e “povera” come Baltimora, che ritroviamo nel libro della Thomas…

Lo spettro dell’insurrezione urbana, il riot, attraversa tutto il romanzo, e prende concretamente forma in due momenti separati aventi come apice “i disordini” che provoca la decisione della giuria di non incriminare il poliziotto che ha ucciso Khalil, nonostante la coraggiosa testimonianza di Starr di fronte al Gran Giurì e alla sua altrettanto temeraria, e non scevra di conseguenze, scelta precedente di comparire in una seguitissima trasmissione televisiva.
Il quartiere diventa teatro di una violenza contraddittoria che investe obiettivi “legittimi” della rabbia popolare: un’auto della polizia e il negozio dei pegni, come attività commerciali la cui scomparsa desertificherebbe ancora maggiormente il tessuto urbano e la condizione stessa degli “insorti”, aspetti che riecheggiano i temi sviluppati da Spike Lee in “Fai la cosa giusta”.

Riprendiamo le parole di Tupac: quello che la società ci vomita addosso da piccoli le si rivolta contro quando ci incazziamo.
Questa è la cifra del romanzo, se alle nuove generazioni afro-americane viene fatto bere “il latte marcio” del suprematismo bianco nel mix letale di quartieri degradati, violenza poliziesca, “carcerizzazione” e guerra tra bande come orizzonte di vita, il precipitato politico di questo non può che essere la ribellione.

Che sia lo scatto di coscienza di una sedicenne, la solidarietà tra subalterni della stessa comunità o il riot che brucia l’illusione di una società post-razziale in un quartiere dove la polizia si comporta come forza d’occupazione, la matrice resta la stessa.
Tupac è il medium, anche a livello di storia familiare, tra ciò che è stato storicamente il movimento di liberazione degli afro-americani – di cui il romanzo è pieno zeppo di riferimenti grazie alla figura del padre ed è rappresentato all’oggi dalla figura dell’avvocato-attivista che aiuta Starr nella sua battaglia.

Così come le rivolte nei ghetti afro-americani segnarono il passo a fine anni ‘60, decretando la fine dell’illusione integrazionista del movimento per i diritti civili sotto la leadership di Martin Luther King e aprendo la strada ad una “nuova” radicalizzazione degli afro-americani, così le proteste scaturite dall’uccisione di afro-americani da parte della polizia ha fatto maturare una nuova coscienza nera “organizzata” – di cui #BlackLivesMatter è l’esempio maggiormente conosciuto – facendo cambiare pagine alla società colorblindness narrata dall’industria culturale di Obama.
Questo romanzo, da cui è stato tratto un film per la regia di G.Tillman Jr., ne è un esempio potente, incalzante nella scrittura, serrato nei dialoghi, come le rime di un brano hip hop, mondo da cui l’autrice – che vive da sempre a Jackson, nel Mississippi – proviene.

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Estetiche del potere. Graffiti, dispensatori d’aura ed ordine pubblico https://www.carmillaonline.com/2016/07/22/31544/ Fri, 22 Jul 2016 21:30:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31544 di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come [...]]]> di Gioacchino Toni

graffiti_coverAlessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico, Il Mulino, Bologna, 2016, 182 pagine, € 14,00.

Le polemiche sorte a proposito della mostra bolognese “Street Art. Banksy & Co. – L’arte allo stato urbano” [sulla vicenda: Wu Ming su Giap e Mauro Baldrati su Carmilla], hanno ormai perso i riflettori e le prime pagine dei media locali e nazionali. Tutto sommato la missione dei media può dirsi compiuta: lo spazio concesso alle polemiche ha avuto i suoi effetti promozionali ed al pubblico, come agli sponsor ed ai “creatori di eventi”, un po’ di polemica piace sempre. Ora i media torneranno a parlare di graffiti solo per celebrare qualche associazione impegnata a ripristinare il candido decoro urbano prevandalico, per promuovere qualche nuova mostra dispensatrice di aura ufficiale o per motivi di ordine pubblico. Difficilmente la questione graffiti urbani potrà uscire da questa trattazione schematica.

Al di là della semplificata e rigida partizione con cui se ne occupano i media, sono davvero così impermeabili l’uno all’altro questi diversi fronti? A ricostruire il quadro della situazione viene in aiuto il saggio di Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. In tale volume il fenomeno del graffitismo viene trattato dal punto di vista estetico, sociale e culturale a partire dall’analisi tanto delle motivazioni che muovono i giovani writer ad intervenire sulle mura urbane, sfruttando il buio della notte e giocando a guardie e ladri con l’autorità, quanto quelle del fronte antigraffiti. Da un lato gli autori del testo si preoccupano di palesare le contraddizioni che attraversano i diversi schieramenti che non possono essere ricondotti a soli due soggetti, writer e antiwriter. Dall’altro lato il saggio evidenzia come alcune “categorie di pensiero” tendano a travalicare i diversi fronti in campo. Davvero, come evidenziano i due studiosi, parlare «sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (p. 19) e se c’è «un fenomeno culturale che illustra a meraviglia il funzionamento tautologico e circolare dei meccanismi sociali in un mondo complesso, si tratta proprio dei graffiti e delle campagne per cancellarli» (p. 153).

Nel Primo capitolo il writing contemporaneo viene collocato all’interno di una lunga tradizione di scrittura ed arte murale. Se la prima è un tipo di espressione che risale ad antiche culture, come quella egizia, le forme di rappresentazione parietale si trovano già nel Paleolitico superiore. Gli autori non intendono proporre improbabili paragoni tra le pitture rupestri preistoriche e le forme contemporanee, ma sottolineare come il gesto di quei lontani antenati costituisca una sorta di universale antropologico. Nelle decorazioni rupestri, in un ambiente collettivo, viene rappresentato il mondo nei suoi aspetti considerati significativi; attraverso quelle pratiche il mondo viene dunque condiviso. Da quando, attorno al XV secolo, l’arte inizia ad essere intesa come espressione individuale, si è via via persa l’idea «dell’attività artistica come opera collettiva, nel doppio senso di qualcosa creato in comune e rivolto a un uso collettivo» (p. 47). Secondo Dal Lago e Giordano, al di là di improbabili altri paragoni, come detto, il writing contemporaneo ha in comune con il graffito rupestre l’idea di dar vita ad una forma di comunicazione pubblica.

Il saggio si sofferma anche sul muralismo messicano che, riprendendo la tradizione figurativa preispanica, palesa forti intenti pedagogici. Tale movimento presenta diverse contraddizioni a proposito del rapporto arte/potere, tanto che dal ruolo sovversivo rivestito nella prima fase della rivoluzione, passa ben presto ad avere un mero ruolo celebrativo una volta che le istituzioni rivoluzionarie si sono stabilizzate. Gli autori mettono in luce come l’ambiguità dei muralisti messicani derivi anche dall’adesione ad un’ideologia progressiva positivistica e questo è proprio uno dei motivi per cui tali artisti esercitano una certa attrazione anche nel capitalismo statunitense. A tal proposito gli autori ricordano come lo stesso Diego Rivera, nel 1931, venga chiamato dall’industriale Ford per illustrare il Detroit Insitute of Art con l’opera Detroit Industry or the Man and the Machine. «L’ambiguità si rivela nella celebrazione del matrimonio tra uomini e macchine proprio nel momento in cui la società americana era attraversata da aspri conflitti tra operai e industriali (si dice che tra i lavoratori che protestavano ci fossero anche i malpagati assistenti di Rivera)» (p. 53).

DECORO URBANO

DECORO URBANO

Nel volume viene ricordato anche come agli albori della pubblicità di massa, le scritte tracciate con la vernice sui muri vengano preferite ai manifesti cartacei, tanto che su diversi edifici statunitensi ed europei risultano ancora visibili le tracce sbiadite di vecchi messaggi commerciali. Ancora oggi nell’Africa, soprattutto sub-shariana, le pubblicità sono spesso dipinte direttamente sulle pareti. Alle pitture murali ha fatto ricorso anche il regime fascista al fine di riportarvi i motti mussoliniani o l’effige stessa del dittatore. Dunque, fino ad epoca recente, “scrivere sui muri” è stato un sistema di comunicazione diffuso e legittimo. In Occidente, le cose sembrano cambiare negli Stati Uniti dei primi anni Settanta, quando nei ghetti arfoamericani e latinos i graffiti murali iniziano ad essere utilizzati come reazione alle discriminazioni delle minoranze ed all’omologazione dello spazio urbano.

Secondo gli autori del saggio, al di là dei significati originari, il writing rappresenta «un impulso a lasciare il proprio segno sul palcoscenico urbano» (p. 34). I muri finiscono con l’ospitare «i punti di vista di mondi privi di accesso legittimo alla parola in pubblico» (p. 34). Dunque la prima e “pericolosa” novità introdotta dal fenomeno del writing degli anni Settanta, non è tanto il comunicare sui muri urbani, ma il fatto che a farlo non siano più soltanto gli apparati di propaganda commerciale e politico-statale. Si tratta in primo luogo di una “presa di parola” da parte dei ceti meno abbienti: «tracciare i segni sui muri significa […] contrapporsi all’immagine della povertà, dell’emarginazione e dell’ingiustizia sociale che la società ufficiale o legale produce in nome dell’ordine pubblico» (p. 35). Oggi le cose sono ovviamente cambiate ed a ricorrere a comunicazioni murali non sono soltanto gli ambienti marginali ed antagonisti; i muri oggi sembrano rappresentare spazi fisici in cui l’irrequietezza esistenziale e politica si può manifestare liberamente e ciò non è per forza prerogativa dell’antagonismo sociale.

Nel saggio viene sottolineato come l’ostilità di molti cittadini nei confronti dei graffiti che ricoprono le mura del quartiere in cui vivono derivi anche da un senso di impotenza nei confronti di una scelta che altri, nottetempo, hanno fatto per tutti. Il cittadino che si ritrova le mura del palazzo “esteticamente modificate”, non ha avuto voce in capitolo. Tale frustrazione si scarica facilmente sui writer ma, a ben guardare, suggeriscono gli autori del testo, il cittadino è impotente anche di fronte alle modificazioni estetiche della città, siano esse temporanee o permanenti, imposte dalle politiche urbane comunali e dal mondo del commercio. Gli spazi urbani in cui i cittadini si trovano a vivere costituiscono pertanto «l’arena dei conflitti (di interessi e visioni del mondo) che si esprimono anche nelle dimensioni semiotiche ed estetiche. Ciò che gli abitanti vedono intorno a loro è, a seconda dei punti di vista, una scena collettiva squallida o invitante, degradata o scintillante, rilassante o inquietante, piacevole per alcuni, sgradevole per altri…. In ogni caso, è il risultato dell’azione di poteri e interessi spesso invisibili, a cui nessuno pensa quando passeggia per le strade e giudica ciò che lo circonda» (pp. 41-42). Dal Lago e Giordano individuano nei graffiti contemporanei l’indicazione di un punto di vista altro, diverso, rispetto ad una scena urbana che intende proporsi/imporsi come necessaria/obbligatoria ma che in realtà è contingente, derivata da un’evoluzione storica che avrebbe potuto dirigersi verso tante altre direzioni.

Nel Secondo capitolo viene passata in rassegna l’evoluzione del writing e le sue connessioni con l’arte contemporanea. Questa sezione del volume prende il via con l’articolo comparso nel luglio del 1971 sul “New York Times” ove viene riportata la fotografia di una porta della 183a strada ricoperta da sigle. Tale pubblicazione rappresenta per certi versi un momento significativo per il writing perché apre un discorso pubblico su di esso.

È soprattutto nell’ambito della cultura Hip Hop che «le tag, che nascono come sigle o firme e quindi come un tipo di scrittura, diventano vere e proprie forme artisticamente autonome, composizioni complesse, progettate e poi realizzate (pieces). Le lettere si dilatano nello spazio, si riempiono di colore creando immagini di grandi dimensioni (masterpieces). I caratteri (blockletters) si gonfiano (bubble style), oppure acquistano una dimensione in più (3d style) e, infine, perdono la loro funzione, diventando forme volutamente illeggibili (wild style)» (pp. 78-79). La risposta delle istituzioni newyorkesi non tarda ad arrivare; all’epoca del sindaco John Lindsay sono ben 1500 i writer arrestati. Lo stesso mondo dei graffiti si rinnova; la bomboletta spray sostituisce il pennello e s’impone il lavoro di gruppo, dunque le stesse tag non di rado si trasformano da firma individuale ad espressione dell’intera crew.

La stagione d’oro della Street art coincide con gli anni Ottanta, quando il «graffitismo si emancipa come linguaggio autonomo e l’attenzione si sposta dal gesto in sé al risultato» (p. 82) e ciò, sottolineano gli autori del saggio, attira l’attenzione del mondo dell’arte ufficiale provocando così l’apertura di un fronte interno al mondo dei writer che vede contrapporsi “puri” e “venduti”. «Dal momento in cui l’idea di Street art ha libera circolazione all’interno dei confini dell’arte riconosciuta, diviene oggetto di un discorso fondamentale per confezionare gli oggetti artistici. Un discorso a cui i graffitisti “perbene” aderiscono pienamente. Spesso, le dichiarazioni di guerra al sistema dell’arte e al suo mercato da parte loro sono in netta contraddizione con fruttuose frequentazioni di galleristi e collezionisti. Una contraddizione che non disturba affatto questi ultimi che, al contrario, si industriano per trovare formule spericolate, capaci di conciliare la natura anarchica della Street art con il suo sfruttamento commerciale» (p. 84).

Al fine di consentire ai graffiti di entrare a far parte del circuito artistico ufficiale, occorre togliere loro l’etichetta criminale e così gli “addetti alla trasformazione” si appellano all’idea che i graffitisti sono criminali per necessità (mancanza di spazi su cui lavorare) e non per scelta. A questo punto, sostengono gli autori, i writer indipendenti che non si concedono, o che tentano di resistere per quanto è loro possibile – visto che il sistema-arte non manca di speculare su produzioni indipendenti anche senza il consenso degli autori -, sanno benissimo che la Street art è divenuta una moda tra le altre all’interno del circuito ufficiale. «Sanno anche che il loro lavoro anonimo potrebbe essere fotografato e inserito in un catalogo, con tanto di prefazione di un critico alla moda: un’eventualità a cui non possono opporsi, ma della quale non intendono approfittare» (p. 87). Altri writer accettano di entrare a far parte del mercato dell’arte e non mancano di estendere l’ambito d’azione commerciale a sneakers, cappellini, t-shirt e felpe dei grandi marchi. In un modo o nell’altro il luccicante e remunerativo mondo dell’arte (e del commercio più in generale) ha modificato le regole del gioco e nulla può più essere come prima.

DECORO URBANO

DECORO URBANO

«I writer, quando sposano il mercato, portano in dote l’aura di trasgressione della loro vita precedente, ma non basta. Sono necessarie le giuste parole dei critici per trasformare in arte ciò che fino a qualche anno prima era deliberatamente fuori dal sistema […] Occorre rompere con il passato, mantenendo vivo quanto basta il mito degli anni ruggenti, ridotto a una scena di sfondo. Occorre soprattutto inventare qualcosa di nuovo per garantire la bontà del prodotto, dimostrando che non tutti i graffiti sono arte. Ciò significa mettere ordine in un repertorio sterminato e, come sempre accade, stabilire criteri estetici, canoni tecnici, limiti e regole» (pp. 90-91).

La questione dei canoni estetici che creano gerarchie ed indicano cosa è arte e cosa non lo è, risulta centrale nel discorso di Dal Lago e Giordano. Gli autori citano esempi di writer “convertiti al mercato” che imputano l’ostilità dei cittadini nei confronti dei lavori di tanti “colleghi” alle loro scarse capacità professionali. Chi ha scelto di “contaminarsi col mercato” è costretto, come abbiamo visto, a mantenere i piedi su due staffe e nell’argomentare circa i difficili rapporti del writing con la cittadinanza, può giungere ad indicare nella mancanza di abilità tecnica di tanti colleghi la principale causa di astio. Se tutti fossero “bravi” come coloro che il mercato ha saputo scegliere, verrebbero meno molti motivi di ostilità. «Riemerge il fantasma della tecnica, grande cavallo di battaglia di qualsiasi posizione reazionaria nell’arte» (p. 92), sostengono gli autori che, a tal proposito, portano alcuni esempi di motivazioni addotte dalle associazioni ostili al writing in cui si sostiene che i graffiti “non possono” essere considerati un fenomeno artistico o perché “l’arte è un’altra cosa” o perché, derivando da un’azione illegale, “non possono” essere considerati “arte”. Lo stesso Museo d’arte moderna di Bologna (Mambo) nel luglio del 2009 giunge a proporsi di “periziare” i murales in città al fine di evitare che, “malauguratamente”, vengano cancellate “opere d’arte” nel corso delle operazioni di ripristino del “decoro urbano” promosse dal Comune. Insomma, da più latitudini si avverte la necessità di distinguere ciò che è arte da ciò che non lo è.

Negli anni Novanta ormai il mondo dei writer è cambiato radicalmente rispetto alle origini del fenomeno; è cambiata la composizione sociale, ora molto meno connotata, sono mutate le tecniche di realizzazione e si è di fronte ad un contesto molto più globalizzato. Se in passato l’idea era quella di coprire la città, ora l’intervento tende piuttosto a scoprirla, svelarla e, spesso a deriderla. Negli ultimi tempi diversi writer hanno messo in campo notevoli abilità manageriali nella gestione della propria immagine, nel saggio viene fatto esplicitamente riferimento al caso forse più noto: «Banksy incarna perfettamente il modello dell’artista capace di fondere la sua arte e la sua capacità imprenditoriale in un’unica grande opera: se stesso» (p. 101). C’è chi ha voluto vedere analogie tra la figura di Banksy e quella di Andy Wharol. A tal proposito, nel saggio, viene evidenziato come mentre il primo si è più volte espresso con opere di esplicita contestazione nei confronti del sistema capitalistico e consumista, Wharol ne ha invece tessuto acriticamente le lodi. Resta il fatto che l’anonimo fustigatore della società dei consumi ha finito col generare un business impressionante attraverso le sue opere e le riproduzioni delle stesse. Lo stesso attacco del celebre writer ai brand delle grandi multinazionali è stato portato attraverso tecniche pubblicitarie che hanno contribuito a creare il “brand Banksy”.

Anche l’arte mainstream non ha mancato di fare i conti con il fenomeno del graffitismo ma, puntualizzano gli autori, «l’interesse degli artisti “ufficiali” nei confronti della strada è un’estensione del territorio della galleria e non una reale fuoriuscita dalla gabbia dorata in cui operano. Diciamo che l’arte ufficiale può solo citare quella di strada, può appropriarsene o trasformarla, ma non sarà mai la stessa cosa. Infatti non gode del privilegio della gratuità e del disinteresse, da cui in fondo deriva ogni innovazione nell’arte e nella vita» (p. 163).

Nel Terzo capitolo vengono analizzate le ragioni dell’ostilità nei confronti del writing. Come presupposto alle questioni che verranno affrontate, gli autori sottolineano come l’attività artistica, indipendentemente da cosa essa sia in origine, divenga socialmente tale solo nel momento in cui viene riconosciuta da chi dispone, storicamente, della legittimità per farlo. Sappiamo che tale soggetto, tale istituzione, viene ad avere diritto di vita e di morte circa il riconoscimento dell’artisticità o meno di un’opera ed in questo discorso non si tratta di accettare o mettere in discussione tale autorità, si tratta di prendere atto del ruolo che certe cariche hanno nell’ambito del conferimento di artisticità qui ed ora. Premesso ciò, Alessandro Dal Lago e Serena Giordano sottolineano come nelle motivazioni delle associazioni antigraffiti non ci si appella tanto al diritto decisionale degli abitanti circa gli interventi sulle superfici delle pareti di casa, ma piuttosto, spesso, si entra nel merito artistico dei graffiti sostenendo che questi non sono opere d’arte. Così facendo tali associazioni si inoltrano su un terreno scivoloso perché sappiamo come sia variabile il concetto d’arte nel tempo. Se i graffiti, o alcuni di essi, fossero ritenuti opera d’arte dalla maggioranza dei cittadini e/o dalle “autorità in materia”? In linea di principio, ricordano gli autori, qualsiasi graffito può “divenire” (essere indicato come) opera d’arte.

In alcuni casi gli abitanti del quartiere hanno difeso i graffiti (e gli autori) in quanto ritenuti una valorizzazione del contesto urbano e tutto ciò indipendentemente dal fatto che fossero stati realizzati illegalmente e che nessun critico d’arte od altra autorità in materia si fosse espresso a riguardo. La mera questione estetica risulta scivolosa, pertanto il fronte antigraffiti, non di rado, si sposta sul versante pedagogico indirizzando i potenziali vandali verso spazi consentiti, non rendendosi conto che una componente fondamentale del writing ha a che fare con il fascino dell’illegalità.

In conclusione, abbiamo visto come, ancora una volta, un fenomeno controculturale, di strada, finisca con l’essere in buona parte riassorbito da un sistema che non esita a ricavare profitto anche da chi lo contesta. Qualche writer si adegua, preferendo mettere a profitto le sue abilità creative a costo magari di trasformare quello che era stato un linguaggio di ribellione donato alla collettività in un testo vuoto che deve essere riempito da critici e dispensatori d’aura. Qualcun altro decide di resistere e di non farsi coinvolgere dal mercato, magari vendendo la propria forza lavoro altrimenti per campare. È una vecchia storia che ha attraversato – e sempre lo farà – le cosiddette sottoculture quando queste diventano appetibili al circuito economico; lo abbiamo visto nell’ambito musicale e nella gestione degli spazi sociali così come tante volte abbiamo assistito a contrapposizioni frontali tra più o meno “puri” contro più o meno “venduti”. Resta il fatto che i graffiti sono «sia un aspetto rilevante della convivenza urbana, sia l’occasione per i cittadini di esprimersi su un buon numero di questioni di interesse generale. In breve, hanno una grande capacità di aggregazione concettuale. Parlare sui graffiti significa anche e sempre parlare di qualcos’altro che sta a cuore ai parlanti» (pp. 18-19).

 

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Montagne del mè Piemont* https://www.carmillaonline.com/2013/06/19/montagne-del-me-piemont/ Tue, 18 Jun 2013 23:00:36 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=6670 di Sandro Moiso

resa dei conti

Fabrizio Salmoni, Resa dei conti alla Maddalena. 2010-2011. Diario di due anni di lotta contro l’Alta Velocità in Valle di Susa, Lu::Ce Edizioni, Massa 2012, pp. 272, 14 euro.

Conosco l’autore del libro da almeno quarant’anni. Dai tempi di Lotta Continua e del suo servizio d’ordine. Molta acqua è passata, da  allora, sotto i ponti, ma la lotta NoTAV ha costituito il motivo del nostro tornare ad incontrarci oggi, ormai sessantenni. E ciò, più che un motivo di senile nostalgia, costituisce invece una delle chiavi di lettura di questa [...]]]> di Sandro Moiso

resa dei conti

Fabrizio Salmoni, Resa dei conti alla Maddalena. 2010-2011. Diario di due anni di lotta contro l’Alta Velocità in Valle di Susa, Lu::Ce Edizioni, Massa 2012, pp. 272, 14 euro.

Conosco l’autore del libro da almeno quarant’anni. Dai tempi di Lotta Continua e del suo servizio d’ordine. Molta acqua è passata, da  allora, sotto i ponti, ma la lotta NoTAV ha costituito il motivo del nostro tornare ad incontrarci oggi, ormai sessantenni. E ciò, più che un motivo di senile nostalgia, costituisce invece una delle chiavi di lettura di questa cronaca delle lotte valsusine del biennio 2010-2011.

Il diario di Salmoni (giornalista, animatore del blog Maverick, esperto di storia e di musica tradizionale americana) costituisce infatti una cronaca appassionata, ma mai trionfalistica. A tratti spigoloso nei giudizi, l’autore si tiene volutamente distante dal politically correct, non solo nei confronti di personaggi dai tratti istituzionali come Don Ciotti, ma anche nei confronti delle varie componenti del movimento. Una lettura stimolante, a tratti discutibile, ma sicuramente mai accomodante. Di fatto un contributo non secondario al dibattito sul TAV e sulle iniziative di chi gli si oppone. Con riflessioni che vanno dalle strategie comunicative (Volantino? Rete?) alle tattiche adottate (pacifiche e/o “militari”).

 Certo, nella cronaca sono le giornate del 2011 a risaltare: dallo sgombero forzato ed imponente dei presidi della Repubblica della Maddalena alla battaglia campale del 3 luglio, autentico showdown tra movimenti e forze del disordine. Ma anche la storia delle iniziative dei comitati locali, nella pianura pedemontana compresa tra Bussoleno e Torino, si rivelerà interessante per più di un lettore. Un lavoro paziente di organizzazione e protesta, dalle forme diverse, ma identico nel significato: “il TAV non passerà qui…e nemmeno un po’ più in là!”. Come il proliferare di comitati di lotta, anche nelle aree limitrofe, ha ben dimostrato negli anni.

 Spigoloso, dicevo, come il carattere delle popolazioni locali. Un carattere tipico dei piemontesi delle valli e delle campagne, che Fabrizio, in qualche modo, utilizza soprattutto nel non dimenticare i tradimenti di coloro che sono passati da un versante all’altro della lotta ( Mercedes Bresso,  Antonio Ferrentino), i nemici di sempre ( Mario Virano e Sergio Chiamparino) e, infine, i “picchiatori di Stato” ( il “duro “ Mortola, poi condannato per i fatti della Diaz).

 Sì, perché la cronaca di Salmoni non è soltanto una cronaca locale, ma è anche una cronaca dell’Italia di questi anni. Tutto si lega e non potrebbe essere altrimenti. Mentre allo stesso tempo, se fosse davvero isolata e ridotta a fatto locale, non si potrebbe spiegare il ruolo di attrattore fatale per i movimenti anti-capitalisti della lotta No TAV. Nel dialetto piemontese si potrebbe dire che l’autore “a l’à guærnaila” ( dal verbo guærnè o uærnè: legarsela al dito, ricordarsi di qualcosa o qualcuno per poi, col tempo, vendicarsi). Naturalmente con accompagnamento di poche, ma significative schede.

 Sì, alcune cose e scelte vanno ricordate per poi essere fatte pagare con il disprezzo dei cittadini e degli ex-elettori. Tipico atteggiamento di popolazioni e classi sociali che conservano, anche e non soltanto in senso negativo come qualcuno vorrebbe, il senso della rivalsa, intesa come memoria dell’offesa ricevuta e della necessaria resistenza che ne deriva. Alla faccia della pacificazione intesa come cancellazione della memoria. Popolazioni di valli e campagne, appunto. Di quelli che un tempo erano definiti i bogia nen (quelli che non si muovono, non si spostano). Non in senso sociale, ma nel senso militare poiché così erano chiamati i soldati piemontesi dei quadrati di fanteria che nelle guerre risorgimentali non arretravano e non cedevano davanti alle cariche degli ulani della cavalleria asburgica.

 Ma, la storia ci dice, quei bogia nen venivano dalle campagne e dalle montagne. I torinesi, soprattutto i borghesi e i membri della burocrazia e dell’aristocrazia sabauda, erano i “tiro an pet, auso le sole”, coloro che fuggivano anche solo al rumore di una scoreggia (letteralmente: se sentono qualcuno tirare un peto, alzano le suole, scappano). Ed eccolo qui, a quasi due secoli di distanza, ancora lo scontro tra barbari e moderni. Tra europeisti evoluti (Chiamparino, mafiosi calabresi legati alle imprese costruttrici, forze del disordine, Lega delle Cooperative, PD) e  arretrati montanari o possibili terroristi (tutti coloro che si oppongono al progetto).

 E oggi in quelle valli, di cui Fabrizio ci descrive sinteticamente la grande bellezza, ancora si  scontrano i bogia nen con i corrotti della vecchia capitale sabauda. E in questo, per ricollegarci con quanto detto in apertura, sta la forza del movimento, la sua capacità di attrarre ed organizzare forze diverse e , apparentemente, disperse. Il suo fascino, che ha fatto sì che tanti ex-militanti, i delusi di un tempo, tornassero alla battaglia e alla lotta contro il più ingiusto ed odioso dei modi sociali di produzione.

Vale però ora la pena di rivolgere alcune domande  allo stesso autore per fargli raccontare le sue impressioni “sul campo” e le difficoltà che ha incontrato (compresa una querela ) nel difendere la lotta No TAV attraverso il  suo blog Maverick.

      Per te l’incontro con la lotta NoTAV ha significato un ritorno alla “politica attiva”: come sei giunto  a prendere tale decisione? Pensi che la stessa cosa sia avvenuta anche per altri? 

 Come racconto nella parte introduttiva, sono incappato nella lotta contro il Tav un po’ casualmente e neanche troppo convinto. Quel poco che sapevo mi sembrava che riguardasse una questione molto tecnica. Inoltre, era dal 1978 (dalla stancante esperienza di Radio Città Futura) che non facevo politica e gli anni trascorsi in Texas mi avevano cambiato alcune coordinate culturali, integrando la mia formazione. E’ stato l’episodio del Seghino con il comportamento della polizia a indignarmi e a farmi capire che c’era veramente una lotta di popolo in corso. Da quei giorni, come racconto nel libro, ho cominciato a partecipare ritrovando uno scopo per cui valeva la pena rimettersi in gioco.

      Potresti raccontar quali problemi hanno accompagnato le tue prese di posizione attraverso il tuo blog e quali personaggi si sono particolarmente distinti nell’attacco nei tuoi confronti? 

 Gli unici “problemi” li ho avuti da: Massimo Numa, cronista de La Stampa, che ha tentato di disturbarmi a più riprese con messaggi che mi contraddicevano e anche con commenti sotto falso nome (come per il caso Alessio). Poi sono stato querelato dal vicequestore Sanna (oggi questore a Forli). Si è offeso perchè ho riportato un episodio dello sgombero di Venaus nel 2005 che lo vide protagonista violento e per i toni accesi dell’articolo.  Al giudice che mi ha interrogato ho portato numerosi precedenti riscontri scritti di quell’episodio, compresa un’intervista a un procuratore della Corte dei Conti, quindi mi aspetterei un’archiviazione. Ma con l’atteggiamento attuale della Procura di Torino non la dò per scontata.  Recentemente per l’articolo sugli operai/crumiri del cantiere ho subito gli attacchi mediatici di cui si sa, senza precedenti per me. Ma dato che sono “tignoso”, ho reagito querelando il sen. Stefano Esposito (Pd) per minacce e diffamazione, l’on. Silvia Fregolent (Pd) per diffamazione. Altre querele sono allo studio.

    Spesso traspaiono nel testo alcune tue considerazioni di carattere “militare” sulle iniziative portate aventi dal movimento NoTAV: quali ti sembrano essere le affinità e le differenze maggiori tra le azioni odierne e quelle dei servizi d’ordine degli anni settanta? Sono comparabili?

 Non ci sono affinità. Il movimento è basilarmente pacifico sia per natura che per giusta scelta strategica. E’ persino “disarmato” e direi ingenuo sul piano della controinformazione. Le aree più bellicose sono naturalmente i giovani, l’area anarchica e i centri sociali, ma l’organizzazione è scarsa. L’enfasi è sulla mobilitazione di massa. Le più recenti azioni di disturbo al cantiere mostrano un qualche livello di organizzazione se non altro per le condizioni notturne e “ambientali” in cui si svolgono. Il mio linguaggio “militare” nel descrivere certe situazioni viene dagli studi e dalle letture degli scritti di Raimondo Luraghi** di cui sono stato affezionato discepolo.

     Non ti sembra che il movimento attuale abbia una maggiore duttilità e capacità tattica rispetto alle forme imbalsamate della politica cui la sinistra, anche extra-parlamentare, ci aveva abituati?

 Il movimento No Tav è un movimento di popolo, è in grande quello che una volta si chiamava una lotta autonoma. E’ costituito da tante diverse componenti che trovano accordo e sintesi nell’obiettivo di sconfiggere il progetto Tav, ognuna per proprie motivazioni, non tutte omogenee. Per questa unità di intenti e per capacità di sintesi è diventato forte e un modello per tanti altri. La duttilità, l’imprevedibilità, la disorganizzazione, l’eterogeneità sono allo stesso tempo elementi di forza e di debolezza. Quello fondamentale è il numero. All’intermo, le dinamiche sono simili a quelle di qualsiasi movimento: un po’ di leaderismo, qualche rivalità personale, parecchi personalismi, qualche tentativo di prevaricazione, ma finchè la struttura territoriale tiene, l’attuale forma di governance collettiva funziona. Anche perchè ci sono elementi di grande intelligenza, ci sono saggezza popolare e buon vecchio senso comune.

   Perché dimostri tanta antipatia nei confronti della musica hip hop o altra che accompagna le manifestazioni dei centri sociali? Ha a che fare con il tuo amore per la country music? Per finire potresti spiegare questa passione che ti accompagna fin dalla gioventù?

 Grazie della domanda, direbbe la Santanchè…A dispetto di quanto possa sembrare estremo in certi scritti (colpa soprattutto del mio carattere, di una certa educazione di famiglia intransigente sui principi e del mio passato militante), mi considero un ambientalista-conservatore. Nei lunghi anni del mio disimpegno ho acquisito idee, interessi e valori che a un osservatore politicamente corretto possono sembrare contradditori ma che secondo me non lo sono. E’ un lungo discorso. Mi infastidisce molto il provincialismo culturale, soprattutto quello “di sinistra”, che pretende di misurare tutto sui propri modelli e stereotipi stabilendo cosa è “progressista” e cosa no, trascurandone pure l’aspetto commerciale. Cosi il rock, bandiera di cambiamento della mia generazione ma poi formalizzatosi in stilemi e atteggiamenti convenzionali, soprattutto in Italia è rimasto sempre etichettato come musica ribelle e quindi buono e sempre giovane; blues, jazz e derivati buoni a prescindere “perchè musica dei neri” reputati per qualche ragione sempre rivoluzionari o antagonisti, il folk buono perchè popolare e progressista, il country cattivo “perchè musica dei bianchi reazionari”.  Tutti giudizi in cui prevale ideologismo, ignoranza e pressapochismo. Si vuole ignorare per esempio che senza blues e country non ci sarebbe rock&roll e che il country è quindi una delle due matrici fondamentali della musica che consumiamo. L’ hip hop è un sottogenere sviluppatosi da una matrice culturale sottoproletaria dei neri americani che ha come modelli i comportamenti malavitosi, la droga, il sesso, il successo e i dollari facili. L’opposto di quello che dovrebbe essere una cultura “di sinistra” (per quello che oggi significa). La sua estetica si basa solo sul ritmo e sulla componente elettronica (io ritengo che far musica sia fatica, sudore nell’imparare e nel suonare, insomma che sia un elemento umano) mentre la componente vocale, intesa come interprete di una melodia, è sostituita da  un parlato cantilenante in cui non trovo valenza artistica (saper cantare è difficile).  Io ascolto da sempre rock e blues ma ho conosciuto il country quando facevo l’autotrasportatore nel 1978. Del country apprezzo l’importanza della melodia, della struttura-canzone, del virtuosismo strumentale e dei suoni, entrambi legati alla componente emotiva (come il blues), delle tematiche (storie di vita quotidiana e di miserie quotidiane, universali); condivido molti valori, in particolare la nostalgia e l’importanza di quanto di buono c’è nel passato, ma anche il legame con la terra, l’importanza della famiglia, della casa o della comunità come punto di riferimento a cui tornare (io sono tornato a casa, in Val di Susa). Può bastare?

    Potresti raccontare come è nato e come si è trasformato il tuo blog e il perché del suo nome: “Maverick”?

 Il blog è nato di recente, nel 2010 , a supporto della mia nuova professione di giornalista iniziata organicamente nel 2007 con la rivista American West. In gergo western, il maverick è il vitello che è nato sui pascoli quindi non è marchiato. Fino almeno al roundup stagionale non è proprietà di nessuno. La parola è stata adottata comunemente col significato di indipendente (un maverick in politica è uno che non appartiene a nessun partito…). Tale mi ritengo.

    La tua cronaca si ferma al 2011. Come pensi si sia evoluta la situazione in Valle dopo di allora, sia dal punto di vista del movimento che dei lavori? Pensi che la fiducia data da una parte del Movimento ai 5 Stelle e a Grillo possa aver aiutato o aiutare gli sviluppi futuri della lotta? Insomma: a che punto siamo con la TAV?

 Penso che come la carica di Pickett a Gettysburg abbia segnato il punto di “alta marea della Confederazione”, il 2011 lo sia stato per il movimento, in quella seconda fase di attività (la prima, vittoriosa, culmina nel 2005 nella presa di Venaus). Dal 2012 si è aperta una terza fase in cui la controffensiva dello Stato si è sviluppata drammaticamente con una combinazione di attacco mediatico e di repressione giudiziaria. L’impatto è stato durissimo e si è aggiunto all’ampliamento di un cantiere in una zona non visibile ai più (ottima la scelta del sito, dal punto di vista dei developers).  L’attacco mediatico si è sviluppato su due tematiche: affermare la falsa percezione che “tutto è deciso”, che il progetto è “irreversibile” (per spargere scoramento) e affondare sul tema della violenza (per dividere il movimento, disinformare l’opinione pubblica e costruire autogiustificazioni per aumentare la pressione militare e politica). Inoltre, l’atteggiamento dei partiti e dei poteri torinesi di chiusura totale e di rifiuto di riaprire qualsiasi discussione, ha contribuito a costruire una gabbia in cui il tema Tav doveva rimanere isolato (anche da rischi di cedimenti politici esterni).

La repressione giudiziaria, checchè ne dica Caselli, si è scatenata sul movimento con più di 700 procedimenti, arresti e processi. La giustizia è impiegata a senso unico: denunce ed esposti dei valsusini non procedono mentre al Tar vengono sistematicamente respinti (ad oggi 33 su 34). In sostanza, sul terreno è quasi impossibile muoversi perchè si viene identificati, filmati e denunciati per poco o niente. Emblematici gli esposti ai servizi sociali nei confronti delle famiglie di minori che distribuivano volantini o la recente condanna di alcuni No Tav a cinque mesi per aver attaccato un adesivo su un mezzo della polizia. La volontà è quella di bloccare qualsiasi iniziativa di contrasto al cantiere sperando di spingere i valsusini ad azioni d’avanguardia per alzare il livello di repressione. Malgrado questo, con la bella stagione , il flusso di gente in Clarea è aumentato e l’estate porterà nuove manifestazioni e azioni di sabotaggio del cantiere.

L’irruzione in parlamento di una nutrita pattuglia di parlamentari No Tav (Sel e 5 S) ha portato speranza e respiro, la percezione che la dinamica tra opposizione popolare e opposizione istituzionale possono dare buoni risultati. C’è molta attesa. Il momento comunque è difficile, c’è frustrazione, confusione, dolore nel vedere devastare la Val Clarea, ma viene affrontato con realismo e la determinazione di sempre. Personalmente, credo che ci sia bisogno di qualche fatto nuovo che cambi gli equilibri. La controparte sta perdendo pezzi e spinge per portarsi più avanti possibile con lavori e appalti per sancire il “non ritorno”, l’impossibilità di fermarsi ma l’impressione è che scalcino e tengano duro per  non perdere la faccia. Sanno che la critica al Tav si sta diffondendo e che rischiano tutto alla distanza. Devono fare in fretta per prendere e distribuire più soldi possibile. Col Tav questi partiti vivono o muoiono definitivamente.

* Titolo di una canzone del cantautore torinese Gipo Farassino, spesso utilizzata come vero e proprio inno bandistico dai comitati NoTAV della Valle di Susa

** Raimondo Luraghi (1921-2012), storico militare e dell’America Settentrionale, autore di una delle opere più importanti  sulla guerra di secessione americana: Storia della guerra civile americana 1861-1865, Einaudi 1966, Rizzoli 2009

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