Henry Miller – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Tue, 01 Apr 2025 20:00:58 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un incubo ad alta tecnologia https://www.carmillaonline.com/2023/07/11/un-incubo-ad-alta-tecnologia/ Tue, 11 Jul 2023 20:00:11 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=78209 di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene [...]]]> di Paolo Lago

Francesco Terzago, Ciberneti, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2022, pp. 48, euro 13,00.

Se per Henry Miller gli Stati Uniti fra anni Trenta e Quaranta erano un “incubo ad aria condizionata”, già intrisi nel profondo dei simulacri della postmodernità (The Air-Conditioned Nightmare, frutto di un viaggio attraverso gli USA, esce nel 1945), sembra che per Francesco Terzago la società contemporanea sia invece un incubo ad alta tecnologia. Quello che l’autore tratteggia nella sua più recente raccolta di poesie dal titolo Ciberneti assomiglia però a un mondo del futuro prossimo, in cui in ipertecnologiche catene di montaggio si assemblano appunto i “ciberneti”, automi che percepiscono ed elaborano informazioni che arrivano dall’ambiente. La parola di Terzago riesce a trasferire sulla pagina una dimensione di disumanizzazione senza precedenti: ogni singolo fonema scorre freddo, incastonato perfettamente in quello che segue e in quello che precede, come se formalmente, appunto, intendesse ricreare l’andamento di una catena di montaggio del futuro. Lo stesso operaio che deve seguire tutte le operazioni, e che spesso prende la parola, sembra pervaso della medesima disumanizzazione che grava ogni dove, su ogni spazio che lo circonda, in una dimensione metafisica ma continuamente sofferente a causa di uno spento dolore che sembra covare silenzioso sotto uno strato di cenere.

La parola di Ciberneti appare quindi meccanizzata, inserita nella macina polverizzante di un nuovo capitalismo che, come un Frankenstein ipermoderno (“surmoderno”, direbbe Marc Augé), diventa il creatore di tecnologici automi probabilmente destinati a trasformarsi a loro volta in forza lavoro, come i “replicanti” di Blade Runner di Ridley Scott, il cui assemblatore, l’ingegnere genetico J. F. Sebastian, conduce anch’egli una vita immiserita nella solitudine e nella disumanizzazione. Si potrebbe pensare a una costruzione di una poesia ‘operaia’ antitetica a quella allestita da Joseph Ponthus in Alla linea (Á la ligne. Feuillets d’usine, 2019) in cui emerge invece una personale dimensione corporea che coinvolge il lettore nella propria sofferenza fisica e psicologica. Se Alla linea è il lascito di un corpo sofferente che si rivolge a noi nella sua dimensione profondamente umana, Ciberneti è il resoconto macchinico di un perfetto congegno a orologeria che sembra essere riuscito ad annientare qualsiasi dimensione umana, rendendo simile agli automi gli stessi lavoratori impegnati nell’assemblaggio. Ciberneti racconta con grande maestria la glaciale freddezza del congegno del capitale: ogni parola si muove come una macchina e spesso le parole usate appartengono ad un gergo tecnico, come ad esempio “scialitico” o “derma”. Anche le parentesi che incontriamo nel testo assumono una forma meccanizzata e geometrizzata: nella poesia di Ciberneti non esistono infatti parentesi tonde ma solo quadre. Se la parentesi quadra può rimandare ad un altro contesto ‘tecnico’ come quello della filologia, si può pensare piuttosto che esse rappresentino l’avvenuta ‘robotizzazione’ delle parentesi tonde. Sembra che nel mondo di Ciberneti non ci sia posto per le linee curve e sinuose, ma solo per quelle rigide e geometriche.

In un mondo siffatto, gli ultimi lembi di natura rimasta non possono che spaventare e sconvolgere ma anche offrire una dimensione più umana e ‘confortevole’; così leggiamo in Il bisogno di energizzare il sistema albero: “Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso: / distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare / in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia. / Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto: / deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi / tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione”. Una “via di esodo” è allora forse possibile negli “interminabili spazi della produzione”? quegli spazi che riecheggiano forse in versione ipermoderna (o “surmoderna”, per utilizzare ancora il termine di Augé) gli “interminati spazi” che si trovano al di là della siepe dell’Infinito di Leopardi. La “via di esodo” potrebbe anche far pensare al “varco” montaliano ma, ancora una volta, l’ambiente naturale appare stravolto: non è più quello imprigionante ma comunque ancora incorrotto di – ad esempio – Meriggiare pallido e assorto.

Nella poesia successiva, intitolata Tosaerba automatici a guida satellitare, lo spazio naturale assomiglia a quello marittimo delle Cinque Terre descritte da Montale (Terzago, come leggiamo nella nota biografica, vive a La Spezia, porta d’ingresso delle Cinque Terre) mentre una serie di infiniti sostantivati (come nella citata poesia di Montale) scandiscono le azioni che devono essere compiute dall’operaio nei rari momenti di ferie e di tempo libero offerti dall’azienda (“…tra pini e castagni / raccogliere quelle tre varietà di funghi che conoscono tutti quanti. Concedersi tepidari; cercare asparagi / selvatici e staccare, dagli alberi, i frutti / non ancora maturi”). Tra l’altro, queste incursioni nello spazio naturale dovrebbero facilitare l’operazione dei tosaerba del titolo, il cui unico scopo è quello di antropizzare l’ambiente in maniera indiscriminata. Se al giorno d’oggi l’antropizzazione e la distruzione dell’ambiente naturale hanno già raggiunto livelli esorbitanti, fino a provocare tragedie come quella recente in Emilia Romagna (e a questo proposito si legga Violazione di Alessandra Sarchi, un romanzo che già nel 2012 scopriva scheletri negli armadi dei potenti, allestendo una storia di disboscamento e di cementificazione di corsi d’acqua nella campagna vicino a Bologna), nel futuro prossimo di Ciberneti l’ambiente naturale sembra essere ormai già stato allontanato in una dimensione irreale e fantasmatica.

In La terra del prato, infatti, “la terra del prato è stata messa / da un’altra parte. Adesso c’è impermeabilità”. Là dove c’era un prato adesso c’è una colata di calcestruzzo sormontata da “cespi di corrugato indeperibile”. La natura è stata sostituita da un ambiente artificiale: sembra quasi una rilettura “surmoderna” del processo descritto da Pier Paolo Pasolini ne Il pianto della scavatrice, ne Le ceneri di Gramsci. “Piange ciò che ha / fine e ricomincia. Ciò che era / area erbosa, aperto spiazzo, e si fa / cortile, bianco come cera, chiuso in un decoro ch’è rancore”, scrive Pasolini descrivendo la cementificazione degli spazi verdi attorno a Roma avvenuta nel corso degli anni Cinquanta. Ciberneti parla di una contemporaneità che è già futuro, una contemporaneità in cui quegli anni Cinquanta sembrano già preistoria come sembrano già preistoria le lotte operaie della fine degli anni Sessanta. In Un sogno a occhi aperti lo stesso abbrutimento procurato da un ciclo quasi ininterrotto di lavoro sfuma nell’irrealtà e nel sogno, perché “abbiamo / lasciato le nostre case quando era buio, sarà buio / quando ritorneremo e questo ci darà la sensazione / che sia stato tutto un sogno ad occhi aperti”. Lo stesso avveniva negli anni Sessanta e Settanta ma sembra che allora le azioni fossero immerse in una realtà fatta di corpi e di lotte; adesso, invece, nella ‘robotizzazione’ iperbolica dell’esistenza, ciò che è reale sfuma nel sogno e in una onnipresente dimensione virtuale. Più che a un sogno, allora, ci troviamo di fronte a un incubo: un incubo ad alta tecnologia.

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Ignora chi t’ignora https://www.carmillaonline.com/2020/09/14/ignora-chi-tignora/ Mon, 14 Sep 2020 20:30:45 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62659 di Mauro Baldrati

Il 21 agosto, un venerdì, ho scritto una mail – corredata da queste foto – al Comune di Casalecchio di Reno (BO), all’attenzione dell’assessore all’Ambiente: “Gentile dottoressa, a Cesenatico, dove mi trovo, nel parco del Levante ci sono queste postazioni, piccole palestre all’aperto, molto utilizzate. Perché nel parco Talon, visto che ora è un insieme di prati, non ne impiantate di simili? Il parco è frequentato da sportivi, e penso che la cosa sarebbe molto apprezzata. Cordiali saluti.”

A tutt’oggi non c’è risposta. Ma è normale. Questo comune [...]]]> di Mauro Baldrati

Il 21 agosto, un venerdì, ho scritto una mail – corredata da queste foto – al Comune di Casalecchio di Reno (BO), all’attenzione dell’assessore all’Ambiente: “Gentile dottoressa, a Cesenatico, dove mi trovo, nel parco del Levante ci sono queste postazioni, piccole palestre all’aperto, molto utilizzate. Perché nel parco Talon, visto che ora è un insieme di prati, non ne impiantate di simili? Il parco è frequentato da sportivi, e penso che la cosa sarebbe molto apprezzata.
Cordiali saluti.”

A tutt’oggi non c’è risposta. Ma è normale. Questo comune ha la caratteristica di non rispondere alle mail. Un anno fa ne ho inviata un’altra al settore Lavori Pubblici che recitava: “Ma come avete potuto permettere all’impresa che ha effettuato gli scavi per le canalizzazioni della fibra di ricoprire gli stessi col cemento e non con l’asfalto? Ora si sta spaccando, e sarà necessario rifare il lavoro.”

Nessuna risposta. Anzi, il comune ha eliminato i link dei settori dall’home page, così se qualcuno vuole scrivere o telefonare alla Cultura, all’Ambiente, deve procurarsi i recapiti per conto suo. E’ un segnale. Un segnale di modernità. Infatti l’ente pubblico si ritira, dai territori, dai cittadini, che probabilmente sono visti come rompiscatole, portatori di richieste e osservazioni “basse”, che disturbano il manovratore.

Questa modalità si è estesa a tutto il paese, in tutti i settori. Visto che siamo tutti scrittori, è arcinoto che gli editori e gli agenti non rispondono alle mail. Viene da dubitare della loro stessa esistenza. O meglio, gli agenti talvolta rispondono, specialmente quelli medi o piccoli, ma chiedono compensi per valutare le opere. Poi, si vedrà.

E pensare che io, che ho attraversato vari periodi storici, gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta (dei Novanta e 00 cosa si può dire?), ho avuto la fortuna di conoscere l’era antica in cui tutti rispondevano. Editori, critici, altri autori. E non con le mail, ma con lettere scritte a mano o a macchina, affrancate e spedite.

Durante l’adolescenza scrivevo di getto, con una sorta di furore, dei poemi con la modalità prosa spontanea, che copiavo da Jack Kerouac, uno dei miei eroi, insieme a Allen Ginsberg e Henry Miller. Un giorno decisi di spedirne uno a Fernanda Pivano, che aveva tradotto quasi tutti i beat, e a Mario Praz, che aveva scritto l’introduzione al Tropico del Cancro. Della Pivano ero riuscito a procurarmi l’indirizzo, per Praz scrissi semplicemente sulla busta: Mario Praz c/o Accademia dei Lincei, Roma.

Arrivarono le risposte, a pochi giorni di distanza l’una dall’altra. La Pivano scriveva a macchina, Praz con la stilografica, con una calligrafia chiusa, acuminata. La Pivano diceva che se volevo continuare a scrivere dovevo rendere le mie emozioni, le mie storie, dopo averle ripulite dalle scorie intimiste, universali. Così chi leggeva poteva trovare, nella mia scrittura, emozioni e istanze sue. Per anni quelle parole mi sono tornate alla mente, mentre cercavo la mia strada. E ancora oggi le considero un insegnamento importante. Mario Praz scriveva semplicemente che non capiva i giovani. Ci provava, si impegnava, ma era inutile. Per lui eravamo dei mondi lontanissimi. Non era affatto contento di questo. Lo considerava un suo limite, ma non riusciva a superarlo.

Dunque questa è la situazione. Può peggiorare? Immagino di sì, visto che sembra non esserci limite al peggioramento. Forse gli editori più potenti si rinchiuderanno dentro cittadelle fortificate, con guardie armate all’ingresso, assediate da folle di scrittori inferociti mutati in zombies. E potrebbe verificarsi un’effrazione improvvisa che manderebbe tutti nel panico: “E’ entrato uno scrittore!” Sirene, guardiani armati di mitra a canna corta che corrono in tutte le direzioni.

Pertanto, cari scrittori e aspiranti tali, bisogna prenderne atto, e adeguarsi. Ma come? Incazzandosi. Sì, è un sentimento non solo inevitabile, ma utile. Ma quale tipo di incazzatura? Se non ha sbocchi rischia di rivolgersi contro se stessi, provocando depressione, rancore, e malattia che va ad aggiungersi ad altra malattia. Perché è risaputo che gli scrittori sono quasi tutti dei sociopatici che reagiscono con la fantasia ai problemi di rapporto con loro stessi e con gli altri. Migliorano la realtà, senza uscire di casa, senza viverla veramente.

Invece, se proprio non si può fare a meno di perseverare, non c’è che uno sbocco possibile. Gli editori e gli agenti vi ignorano? Non continuate a insistere, ad aspettare risposte che non arriveranno. Loro vi ignorano e voi ignorate loro. Anzi, cancellateli dalle vostre menti, fate tabula rasa. Nessuna polemica coi vari vincitori dei campielli e delle streghe, e coi grandi editori che pubblicano certi libri fetentissimi. E se fossero creature virtuali create dai computer quantici delle cittadelle fortificate?

Ovviamente detto così, col punto finale, significa qualcosa di molto brutto. Significa la solitudine, privata e pubblica. Il vuoto, l’oscurità. Invece bisogna lavorare. Come? Studiando, non solo scrivendo.

Intanto bisogna capire come hanno fatto, i nostri antenati degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, a creare un mondo parallelo alternativo. Infatti questa era la parola: ALTERNATIVA. Quelli della controcultura, del do it! si organizzavano. Fondavano dei movimenti di assistenza e di supporto, distribuzione abiti, coordinamenti di avvocati, giornali autogestiti, teatri, concerti. Il concetto era quello di fondare cellule alternative sane in un organismo malato, che diffondendosi potevano guarirlo.

Questa modalità è continuata nei due decenni successivi con l’underground, il do it yourself! dei punk e della new wave, soprattutto nel campo della musica, che resta un sistema di comunicazione universale, perché sconta in misura minore il limite della lingua.

Per cui sarebbe interessante studiare i loro linguaggi, le loro iniziative, cercando documenti e filmati. Esistono anche dei libri utili, uno dei quali è il sempre attuale L’orda d’oro.

Ma non basta. Lo studio deve riguardare anche le opere. La ricerca della propria strada non deve fermarsi. Questo è il punto più delicato. Non è che il mitico esordiente una mattina scende dal letto, butta le braccia in alto e grida alè!!! scriverò un libro che spacca! Magari sì. Magari è nato un nuovo Rimbaud, ma c’è da dubitare fortemente. Lo studio deve uscire dalle viscere, dallo stomaco, dallo stato di esaltazione, e guardare i dintorni. Come sono i tempi, i luoghi, i flussi? Cosa accade dentro il tempo morto, nello spazio trafitto dalla deiezione umana e dai virus? Anche perché, rispetto agli antenati, è sorto un nuovo problema. Anzi, IL problema: l’omologazione di ciò che resta dei lettori. Gli antenati avevano un seguito, un pubblico. Avevano i cittadini del mondo alternativo. Oggi, sembra che il pubblico moderno si precipiti negli store per allungare la mano verso le gigantesche pile dei colibrì e compagnia bella. Quella è la merce che bisogna comprare. Che deve essere non solo letta, ma piaciuta.

Poi, a quel punto, poiché lo stato delle cose riguarda anche gli editori minori, che cercano di sopravvivere all’esterno della cittadella, potrebbe nascere un consorzio di tutela, tipo quello del Parmigiano. Una gabbia per le copertine uguale per tutti, con libertà di immagini, di grafica, di titolo e, in basso, la dicitura Editori Alternativi, seguita dal nome dell’editore affiliato al consorzio. Per esempio, Gli Imperdonabili, hanno elaborato un decalogo con le istruzioni per scrivere narrativa. Si può non essere d’accordo, si può non adottarlo, ma l’idea di un gruppo di tipi che scrivono in modalità collettiva è intrigante. Il tutto sotto l’ombrello del consorzio. Un marchio di identità e di qualità.

E’ un sogno?
Chissà.
Però sarebbe l’inizio di una costruzione, una fondazione, una macchina da guerra.
E come in ogni guerra è indispensabile studiare anche il Sun Tzu.
L’arte di combattere senza combattere.

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La star editoriale ha ucciso la star letteraria https://www.carmillaonline.com/2020/09/03/la-star-editoriale-ha-ucciso-la-star-letteraria/ Thu, 03 Sep 2020 20:29:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=62427 di Mauro Baldrati

Mentre passeggiavo sulla spiaggia ho notato, sotto un ombrellone, un signore CS (cinquanta sessanta) che leggeva un libro. Un caso raro. Infatti dal mio personalissimo osservatorio – la spiaggia di Cesenatico – ho registrato che quest’anno le persone intente a leggere un libro sono quasi scomparse. Chi non ha in mano La settimana enigmistica o un periodico di gossip (ormai rari come i libri) digita sul cellulare. Sono scomparsi anche i lettori estivi di Patricia Highsmith, Camilla Lackberg, John Grisham, Wilbur Smith, Elena Ferrante, Camilleri, Carofiglio.

Mi sono [...]]]> di Mauro Baldrati

Mentre passeggiavo sulla spiaggia ho notato, sotto un ombrellone, un signore CS (cinquanta sessanta) che leggeva un libro. Un caso raro. Infatti dal mio personalissimo osservatorio – la spiaggia di Cesenatico – ho registrato che quest’anno le persone intente a leggere un libro sono quasi scomparse. Chi non ha in mano La settimana enigmistica o un periodico di gossip (ormai rari come i libri) digita sul cellulare. Sono scomparsi anche i lettori estivi di Patricia Highsmith, Camilla Lackberg, John Grisham, Wilbur Smith, Elena Ferrante, Camilleri, Carofiglio.

Mi sono avvicinato, ho buttato l’occhio e sono rimasto di stucco: Il colosso di Marussi. Stentavo a crederlo. E’ un libro del 1941, ripubblicato da Feltrinelli nel 2006, in quanti lo conoscono?

Mi sono fermato, ho esitato. Ma l’ho fatto. Dovevo.

“Complimenti per la lettura” ho detto.
Lui ha esitato a sua volta, poi ha spostato il libro, mi ha guardato e ha sorriso.
“Davvero, è raro vedere qualcuno che legge un libro di un autore dimenticato da dio e dagli uomini”.
C’era un tono di affetto e di gratitudine nella mia voce.
“Lei lo ha letto?”
“Non so, non ricordo, ma amo questo autore”.
“E’ bellissimo”.
Questa battuta mi ha riempito di gioia. Credo che se si fosse trattato di un TQ, o addirittura un VT sarei stato preda di un attacco di sindrome di Stendhal.

Gli ho fatto di nuovo i complimenti, ci siamo salutati e ho raggiunto mia moglie che mi aspettava coi piedi in acqua.

“Chi era quel signore? Di cosa stavate parlando?”
“Gli ho fatto i complimenti per il libro che stava leggendo”.
“Oh. Ma lo conosci?”
“No”.
Lei ha riso, rivolta verso il mare. “Ecco, non lo conosci e vai a fargli i complimenti… E che libro stava leggendo?”
Il colosso di Marussi. Ti rendi conto?”
Stava per parlare ma l’ho preceduta. “Sì, lo so, faccio cose strane, ma ho sentito un’empatia immediata, capisci? E’ come se avessi trovato un amico, o un fratello. In un deserto.”
“Sì, in una spiaggia affollata.”
“Appunto, un deserto. Non ti sembra che la lettura sia ormai estinta? E quello legge addirittura Il colosso! Un sopravvissuto. Proprio come me.”

Ultima risata e siamo entrati in acqua.

Alla sera continuavo a pensare a quell’episodio. Mi stimolava riflessioni filosofiche certamente troppo confuse per scriverle. Così ho acceso internet e sono andato a cercare un famoso pezzo musicale del ’79. Ho aggiornato il testo con le tematiche del nostro tempo.

Lo leggiamo mentre lo ascoltiamo.

LA STAR EDITORIALE HA UCCISO LA STAR LETTERARIA

ti ho vista alla libreria Coop
frugavo tra gli scaffali
alla ricerca di te
sebbene fossi giovane
non hai avuto problemi a sfondare

oh – a oh

si sono presi i diritti d’autore
per il tuo secondo romanzo
riscritto da una macchina
e dalla nuova legge del marketing
e ora capisco i problemi che vedi

oh – a oh

ho incontrato i tuoi figli
oh – a oh
cosa gli hai detto?

la star editoriale ha ucciso la star letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria
Sono arrivate le nuove copie e ti hanno spezzato il cuore

oh – a oh
eri la prima
oh – a oh
e ora sei l’ultima

e ora ci incontriamo in una libreria abbandonata
rileggiamo l’incipit
e sembra che sia stato tento tempo fa
e ti ricordi le recensioni che andavano di moda.

oh – a oh
eri la prima
oh – a oh
e ora sei l’ultima

la star editoriale ha ucciso la star letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria
nella mia mente e nella mia macchina
non possiamo tornare indietro,
siamo andati troppo lontano

oh – a oh

la star editoriale ha ucciso la star letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria

nella mia mente e nella mia macchina
non possiamo tornare indietro
siamo andati troppo lontano
sono arrivate le prime copie e ti hanno spezzato il cuore
da’ la colpa allo smartphone!

sei una stella letteraria
sei una stella letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria
la star editoriale ha ucciso la star letteraria

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La figura femminile in un film e in 2 o 3 libri https://www.carmillaonline.com/2020/06/01/la-figura-femminile-in-un-film-e-in-2-o-3-libri/ Mon, 01 Jun 2020 20:24:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=60490 di Mauro Baldrati

Recentemente ho visto Lo chiamavano jeeg robot. Niente male. È un film in controtendenza rispetto ai blockbuster americani coi supereroi, sempre attraenti, palestrati, mezzo guerrieri e mezzo comici, platonici, puritani. Il nostro, Enzo Ceccotti/Jeeg Robot, interpretato da un cupo, scontroso Claudio Santamaria, non lo è per niente. Non ha amici, non ride mai. Fa una vita povera e arida. In comune coi suoi fratelli patinati, per fortuna, ha un superpotere vero (l’ultra forza), e non qualcosa di inutile, come se per distinguersi a tutti i costi [...]]]> di Mauro Baldrati

Recentemente ho visto Lo chiamavano jeeg robot. Niente male. È un film in controtendenza rispetto ai blockbuster americani coi supereroi, sempre attraenti, palestrati, mezzo guerrieri e mezzo comici, platonici, puritani. Il nostro, Enzo Ceccotti/Jeeg Robot, interpretato da un cupo, scontroso Claudio Santamaria, non lo è per niente. Non ha amici, non ride mai. Fa una vita povera e arida. In comune coi suoi fratelli patinati, per fortuna, ha un superpotere vero (l’ultra forza), e non qualcosa di inutile, come se per distinguersi a tutti i costi dallo stereotipo hollywoodiano l’eroe/non eroe dovesse per forza essere un tipo strambo, con un superpotere strambo. Enzo solleva un omaccio obeso che peserà due quintali e lo scaraventa in mezzo alla stanza. Sposta un intero tram. Strappa dal muro un bancomat. Sfonda a pugni lo sportello blindato di un portavalori.

I personaggi (pochi, essenziali, il che ci risparmia un faticoso inventario dei nomi) sono ottimamente rappresentati, soprattutto il malavitoso “Lo zingaro”, interpretato dal grande caratterista Luca Marinelli.

Uno solo non funziona. Anzi, se non rovina, quanto meno danneggia pesantemente il film: Alessia, la ragazza prima avversaria, poi amica e infine amante di Enzo. Querula, sciocca in modo imbarazzante, i suoi dialoghi con Enzo sono quanto di più noioso possano concepire un regista e uno sceneggiatore. Non vogliamo infierire, ma è spiacevole quando un’opera viene sfregiata da una caduta nello stereotipo. Alessia, fissata col cartone animato giapponese Jeeg Robot, di cui ci dobbiamo anche sorbire alcuni spezzoni, trasfigura in una creatura che vorrebbe essere pazzoide in modo creativo, dovrebbe far ridere e anche intenerire, invece, quando è possibile, ce la togliamo dalle scatole con l’avanzamento veloce.

Proprio questa figura femminile fallita mi ricorda invece uno dei tanti “compadri” (al femminile, commadri?) letterari: Linda, dal romanzo Il compagno, di uno dei più osannati, ma anche controversi autori del neorealismo in letteratura: Cesare Pavese. Anche lei è pazzerella, anticonformista, ma in quanto tale è perfettamente realizzata. E’ misteriosa quanto basta per ossessionare Pablo, che non sa quali segreti nasconda, quale doppia vita conduca. I loro dialoghi sono avvincenti, ne desideriamo sempre di nuovi, per capire, per sognare. Pavese non le applica la sua straziante misoginia, che invece troviamo qua e là, come una zavorra, nella sua opera. Un difetto che, purtroppo, ci impedisce di definire Pavese un grande scrittore; o meglio, è un grandissimo scrittore con un difetto. Perché non è riuscito a risolvere completamente questo sentimento nella narrazione, anche perché il suo rancore verso la donna (la madre? direbbe qualcuno) si porta dietro una tristezza e un senso di sconfitta che coprono il suo sistema vitale come un velo opaco.

Linda ricorda un’altra eroina che si caratterizza non solo per il detto, ma anche per il non detto, perché avvolta in un mistero impenetrabile: Mona di Henry Miller, la moglie un po’ pazza (l’autore è stato sposato con June Mansfield, poi ricoverata in un ospedale psichiatrico), disposta a tutto per aiutare il narratore Henry, scrittore sconosciuto e spiantato. Sappiamo che fa cose strane quando non è in scena, cose turche, cose disdicevoli. Forse si prostituisce con i ricconi, pur di guadagnare i soldi che permettano a Henry di andare avanti con la scrittura. Ma Miller non lo rivela, non alza il velo, perché proprio la qualità dello scritto permette di far intravedere i segreti del non scritto che fanno volare la fantasia. E Mona è viva, originale, una figura femminile carica di intensità.

E altre tre donne che in qualche modo si assomigliano, si completano: Albertine, Gilberte e Odette di Marcel Proust. Anche l’autore della Recherche è in qualche modo problematico con la donna (la madre? continuerebbe a dire quel qualcuno). Ma ne capolavorizza il mistero, che è insondabile, perché per quanto si accanisca, l’uomo, l’amante, non potrà mai svelarlo; e questa è la sua condanna, la sua discesa agli inferi. Il grande scrittore, per essere tale, usa i suoi demoni, li rende creativi, senza esserne vittima e ostaggio, come talvolta lo è Pavese.

Ma è vero anche il contrario. Madame Bovary non è misteriosa. Di lei sappiamo tutto. Se mente, sappiamo che lo fa e perché. É una sognatrice che vuole evadere dalla vita nell’alta società. E in questo è impotente, perché tutto è in mano all’uomo. Deve essere sottomessa, non ha, né può avere, alcun potere. L’unica sua risorsa è il corpo, l’amore, l’adulterio. E proprio in questa sincerità – che resta tale anche nella menzogna – sta la sua sconfitta. La sua tragedia. Che non è solo letteraria, ma lo è della donna come personaggio collettivo. E per questo diventa un’altra figura femminile di statura artistica immensa.

Questo confronto non ha lo scopo di peggiorare ulteriormente la povertà espressiva di Alessia, ma solo sottolineare come un regista e uno sceneggiatore, per essere “grandi”, debbano evitare di creare i personaggi in laboratorio, ma amarli, per renderli vitali. In Anna Karenina Tolstoj mette se stesso nella figura di Levin, per cui è dentro al romanzo, interagisce coi personaggi. Di Proust neanche a parlarne. Nella gelosia compulsiva di Swann per Odette c’è il suo amore, talvolta platonico ma ossessivo, per alcune donne, in particolare per Laure Hayman, mondana d’alto bordo, o cocotte, che è il modello principale di Odette.

(Le foto:June Mansfield, Laure Hayman, Madame Bovary)

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Il comodo divano della upper class https://www.carmillaonline.com/2020/04/17/il-comodo-divano-della-upper-class/ Fri, 17 Apr 2020 21:00:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59507 di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il [...]]]> di Mauro Baldrati

Franco Arminio è un poeta cool. Uno alla moda. Già da questa premessa uno potrebbe dire: tu sei invidioso. Non potrei negarlo. L’invidia è un sentimento umano, troppo umano. È anche una delle malattie professionali di molti scrittori, insieme all’insonnia e alla paranoia dei rumori. L’importante è esserne consapevoli. Non negare, né rimuovere. Così possiamo dominarla, l’invidia, e non farci dominare da lei.

Ma io non sono invidioso di Franco Arminio come poeta, per un motivo che spiegherò più avanti. No, se l’invidia c’è, lo sono per il suo status di personaggio smart. Perché appartiene a quella élite upper class cui tutto è concesso. Quelli come lui se desiderano una cosa devono solo allungare una mano e prenderla. Non ci sono barriere tra loro e l’oggetto del desiderio. Nessun ostacolo. E’ nella loro natura. Lo è dalla nascita.

Il motivo di questo fenomeno è ignoto. Come ignote sono le cause scatenanti dell’amore, dell’arte, della fede religiosa. Fanno parte della storia millenaria della nostra specie. Di sicuro gli appartenenti a questa élite, come canta Frankie, “si sentono meglio”. È tutto molto comodo, e facile. Mentre per noi che ci agitiamo nella working class ogni piccolo gesto è carico di complicanze e di fatiche. Dobbiamo combattere duramente per raggiungere i nostri obiettivi, anche minimi, e spesso falliamo. E non ci sentiamo affatto meglio.

Per upper class e cool non intendo la ricchezza. I soldi non c’entrano. O meglio, non sono tutto. Un esempio molto significativo di cosa intendo è dato da un flash nel bellissimo Just Kids di Patti Smith. Janis Joplin era sempre attorniata da ancelle, ragazze che la seguivano ovunque e la accudivano. Accadeva che dopo i concerti Janis adocchiasse qualche giovanotto attraente. Allora cercava di sedurlo, di portarselo in camera, per scacciare la tristezza cronica che la perseguitava. Dopo una serata di chiacchiere, di risate, di canne, il giovanotto, d’un tratto se ne andava con una delle ancelle, che per tutta la serata non aveva quasi aperto bocca. E Janis ci rimaneva con un palmo di naso. Così si ritirava in camera, da sola, piangeva disperata e si strafaceva. Più di una volta Patti l’ha accompagnata per consolarla, tenendole la mano.

Franco Arminio è come quell’ancella. Gli basta uno sguardo, un gesto, e tutto diventa cremoso, e dolce. Ho visto un’intervista televisiva, lui in uno scenario dei suoi magnifici appennini. A un certo punto l’intervistatrice gli ha chiesto come mai non scrive romanzi. Franco Arminio ha risposto che non lo fa perché la narrativa è governata dal tempo, e lui non vuole essere dipendente dal tempo. Una risposta perfetta. Infatti l’intervistatrice era rapita. Spalancava gli occhi straripanti di ammirazione e sbatteva continuamente le palpebre. Stava assistendo a una scena epica. Il Poeta che rivelava una grande verità. Un momento irripetibile.

Ecco la differenza tra Franco Arminio e me. Se anch’io riuscissi a essere smart, a una domanda perché non scrivo poesia risponderei che la poesia è governata dalla rarefazione del tempo, e io non voglio dipendere dalla rarefazione del tempo. Invece cosa risponderei? Che non scrivo poesia perché non ne sono capace. Una rispostaccia. L’intervistatrice non spalancherebbe gli occhi, ma alzerebbe le sopracciglia con un imbarazzato “oh”. Ecco perché non sono invidioso del poeta Franco Arminio: perché non so scrivere poesia. Non ne vado fiero. È un limite che mi fa soffrire. Ma non riesco a trovare un modo fascinoso per dirlo. E sono costretto a esprimermi conformemente alla mia classe.

La mia classe è la più dura, e la più faticosa. Siamo in guerra. La guerra eterna. Per restare a galla, per andare avanti. Per non recedere nella over: la povertà, il precariato perenne, l’emarginazione. Se si fa politica, poi, è la sconfitta garantita. In realtà se si è giovani, e in buona salute, conviene rompere. Meglio mandare al diavolo il mondo con la sua teoria dell’ingiustizia, col culto del denaro e del privilegio. Henry Miller, un secolo fa, fece questa scelta. Ne parla diffusamente in Plexus, secondo me il suo capolavoro. A New York lavorava come direttore del personale alla Western Union. Tutti i giorni andava al lavoro, doveva gestire un’umanità pazzoide, derelitta, i disperati, i fattorini precari. Perché, si chiedeva, devo lavorare dalla mattina alla sera rischiando la pazzia, con l’incubo dell’affitto pagare, delle bollette, chinando il capo di fronte ai superiori, per poi accanirmi sui più deboli? All’inferno la Società Cosmodemonica, addio all’America puritana e conformista. Così spaccò tutto. Piantò il lavoro, gli impegni, e fuggì nella città dei suoi sogni, Parigi, con dieci dollari in tasca. Iniziò una nuova vita, una vita da marginale, da artista squattrinato. Da happy rock.

Franco Arminio non ha questa esigenza.
Gli basta il suo morbido, strano destino di poeta cool di successo.
Ha tutto ciò che gli serve.
Franco Arminio si sente meglio.

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Terzo vademecum per scrittori professionisti https://www.carmillaonline.com/2016/11/13/terzo-vademecum-scrittori-professionisti/ Sat, 12 Nov 2016 23:03:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34440 di Jack Baldrus

Henry Miller, Giorni tranquilli a Clichy, Es editore, Milano 2010, pp 115 € 17

miller1(qui e qui i precedenti) E’ prevista una ulteriore possibilità per l’iscrizione alla Congregazione degli scrittori professionisti. E’ un esame di riparazione per chi, per motivi anagrafici, o psicologici, non è riuscito a superare la prova su Marcel Proust o Franz Kafka. La commissione giudicatrice si rende conto che lo studio approfondito, e improvviso, di stili così in controtendenza può causare forme di straniamento, o di vero e proprio blocco mentale. Forse entrare nel [...]]]> di Jack Baldrus

Henry Miller, Giorni tranquilli a Clichy, Es editore, Milano 2010, pp 115 € 17

miller1(qui e qui i precedenti) E’ prevista una ulteriore possibilità per l’iscrizione alla Congregazione degli scrittori professionisti. E’ un esame di riparazione per chi, per motivi anagrafici, o psicologici, non è riuscito a superare la prova su Marcel Proust o Franz Kafka. La commissione giudicatrice si rende conto che lo studio approfondito, e improvviso, di stili così in controtendenza può causare forme di straniamento, o di vero e proprio blocco mentale. Forse entrare nel periodo lungo asmatico proustiano, o nell’antilirismo puro di Kafka necessita di tempi lunghi per chi è nato e cresciuto con gli stili semplificati, o eccessivamente virtuosistici, che dominano nell’editoria moderna. Pertanto si è convenuto che, soprattutto per i giovani, è necessaria l’elasticità, e un periodo adeguato di recupero letterario. Anche chi è stato bocciato su Proust o Kafka ha comunque iniziato un percorso di avvicinamento agli immortali, che dovrà continuare con l’approfondimento delle letture.

Henry Miller non è un immortale, anzi, è mortale, troppo mortale. La sua opera presenta sezioni narrative così datate da risultare addirittura grottesche, nella loro sciatteria. Alcuni passi dei suoi romanzi oggi fanno sorridere, o indignare; possono creare disgusto o forme di ribellione. Non ha raggiunto gli stadi purificati di verità interiore, ma si è fermato alla schiuma superficiale di sentimenti contaminati da un lavoro tossico di un Super Io solo apparentemente superato dall’Es creativo. Con l’uso dell’oscenità, e della liberazione degli istinti, che all’epoca erano forme di ribellione nel sistema bloccato del puritanesimo americano (i suoi libri sono stati bloccati dalla censura per molti anni), Miller ha creduto di combattere la dittatura del Sistema (Super Io), in realtà ha dimostrato di esserne dominato, accettando certi enunciati che oggi ci sembrano primordiali, barbarici e reazionari.

Per esempio, nel romanzo breve che segnaliamo come introduzione alla sua opera, I giorni di Clichy (titolo originale, rinominato in questa pubblicazione di Es), scritto nel 1940 e ambientato nella Parigi degli anni Trenta, due scavezzacollo, il Narratore e l’amico Carlo (ispirato al compagnone di bisbocce Alfred Perles), artisti per nulla bohemiens ma spiantati, predatori e menefreghisti, vagano per i bassifondi sempre alla ricerca di qualcosa da mangiare e donne da “stendere”. Non c’è trama, ma unicamente ricerca di avventure, proteine e vitamine da mettere in pancia e una superficie orizzontale possibilmente non infestata dalle cimici per stendersi e schiacciare un pisolino. Questo è il mondo. Questa è la vita. Ma come fare, oggi? Come la mettiamo? Come si può passare sopra a una evoluzione etica che viene calpestata da certe “avventure” dei nostri due sub-eroi? Per dire, raccolgono per strada una ragazza quattordicenne, in stato confusionale, che vaga per le strade senza una meta apparente. Se la lo portano a casa, e siccome è carina, l’amico Carlo la “stende” subito. Poi la fa vedere al Narratore, la fa “valutare” (“guarda che tette!”), e infine la tengono come servetta e schiava sessuale di Carlo. Ora, una lettrice moderna manderebbe subito al diavolo il libro e il suo autore. Se poi decidesse di avere pazienza, e andare avanti, troverebbe un altro episodio dove i due monelli rimorchiano una povera, stramba prostituta (sempre chiamata “puttana” e “sgualdrina”, come tutte) ossessionata dall’affitto da pagare, e le rubano tutti i soldi, abbandonandola in un albergo che non potrà pagare perché l’hanno appena ripulita. E qui, ci sarebbe l’adieu definitivo e un gigantesco fuck off.

Eppure Henry Miller non è tutto qui. Queste sono scorie, prodotti di una certa primordialità selvaggia-politico-affettiva che noi, più evoluti di lui, possiamo perdonare. In realtà, con una lettura responsabile e smaliziata, si possono trovare elementi di straordinaria attualità in Miller. Il mondo: degradato oltre ogni limite, con una denuncia radicale del sistema dell’American Way of life, fatto di ossessione per il lavoro e la carriera, di conti da pagare; le città disumane progettate unicamente a misura di auto e di posti di lavoro, termitai cementificati dove vivere come insetti che corrono come pazzi. In questo inferno di muratura, luci e acciaio, il Narratore, che ricopre un ruolo sociale importante (come l’autore: Miller era direttore del personale alla Western Union), molla tutto e se ne va in Europa senza un dollaro, allo sbaraglio, per seguire la sua vocazione di scrittore. Via, lontano da una terra che nega ogni forma artistica, avendo come unico obiettivo il culto del denaro e del profitto.

Ne I giorni di Clichy, una sorta di riduzione sintetica del Tropico del Cancro, lo troviamo in piena azione, in una sorta di segmento narrativo isolato da un contesto più ampio, opere che raccolgono tutta l’intensità, il misticismo e il lirismo (molto apprezzati da Gilles Deleuze) del suo immaginario: la monumentale Rosy Crucifixion, i Tropici, Primavera Nera. Come non trovare corrispondenze col nostro tempo? Cambiano i costumi, i dettagli, gli optionals, ma le restituzioni narrative spietate di una società ingorda, ignorante e distruttiva ci sono vicine, si applicano facilmente al nostro tempo. E poi la popolazione di pazzi, di disperati, di clown naturali che affollano le sue pagine: come non confrontarla con la diffusione della follia moderna, creatura deforme di una società malata?

miller2E infine il personaggio. L’eroe milleriano è un nomade che vaga per le strade della pazzia e della miseria, spinto dalla sua vocazione granitica di scrittore, da un misticismo orientaleggiante che gli serve per neutralizzare il mortifero materialismo capitalista, e da un pessimismo cosmico alla Schopenhauer. Va avanti baldanzoso esaltato dalla lettura di Rimbaud (un altro eroe giovane in rivolta nella palude velenosa della meschinità borghese), di Proust (il modello del grande scrittore/ricercatore), con la pancia vuota e una inestinguibile voglia di vivere. Sembra indifferente alla miseria, alla fame, alla solitudine. Il mondo è pieno di avventure e di offerte, basta essere felici in sé, essere allegri nella disperazione e nella mancanza di prospettive; basta mandare al diavolo tutto, e godersi la natura, e soprattutto il piacere del proprio corpo. Certo, qua e là ci sono riduzioni comiche del sesso, e il Narratore, al quale basta uno sguardo per accoppiarsi immediatamente con qualunque donna in qualunque luogo, sembra una parodia del già parodistico Sex Machine de Dal tramonto all’alba. Ecco uno dei tanti passi tratti dalle acrobazie sessuali di Joey: “Le tirai su le gambe, sulle mie spalle, e l’attaccai a colpi d’ariete. Credetti che non avrei mai smesso di venire, eiaculavo con un getto continuo come da una pompa da giardino”. Ecco, l’eroe di Miller è fatto così: potrebbe stendersi sulla pancia e girare in tondo come una trottola in equilibrio sul “bischero” eretto.

Ma il sesso, di un iper-realismo così estremo da risultare mistico, gli serve come resistenza creativa alla distruzione sociale. Accoppiarsi in continuazione senza alcun pudore o senso di colpa è la sua forma di battaglia contro la repressione e il puritanesimo. E’ la forma estrema e indistruttibile di libertà. E’ la ricerca della vita. Così l’eroe milleriano è un eroe della resistenza umana, una figura quanto mai utile e attuale nella nostra epoca negativa. Come può il sistema soffocante della borghesia americana non evocare l’abbraccio mortale del Pensiero Unico che tutto contamina, e incatena? Un passaggio efficace de I giorni di Clichy esprime con efficacia questa natura ultrapositivistica della Roccia Felice milleriana, sempre tale in mezzo ai disastri e alla follia: “E lui (Carlo, ndr) affermava che ero un ottimista inguaribile; ma non si trattava di ottimismo, bensì della convinzione profonda che anche se il mondo era affaccendato a scavarsi la fossa, rimaneva ancora tempo per godersi la vita, per stare allegri, senza pensieri, per lavorare o non lavorare”.

Si potrebbe dire che solo un tipo così, solo un “uomo nuovo” può fare la rivoluzione. Perché non ci può essere futuro in un sistema se non è sorretto dal consiglio della vampira Eve de Solo gli amanti sopravvivono: “Contemplare la natura, coltivare la gentilezza e l’amicizia”. Serve questo, oltre le barricate. Servono la forza, la generosità, la curiosità, il coraggio, la comicità, la sfida, la pazzia creativa dell’Happy Rock milleriano.

E anche della sua essenza di pioniere, di esploratore letterario. Chiudiamo con un altro passaggio da I giorni di Clichy, e dite se non poteva essere che lui il guru dei beat (Kerouac in testa), e di tutta la generazione successiva, gli anni Sessanta: “Entrai in bagno distrattamente per pisciare. V’erano, sparsi qua e là, fette di pane, pezzi di formaggio, olive ammaccate. Il tutto gettato via per sazietà, con disgusto, evidentemente. Presi una fetta di pane per vedere se fosse mangiabile. Qualcuno l’aveva calpestata rabbiosamente. C’era un po’ di mostarda; ma si trattava proprio di mostarda? Meglio provare con un’altra fetta di pane. Sembrava abbastanza pulita, anche se zuppa perché in quel punto il pavimento era bagnato. Vi schiaffai sopra un pezzo di formaggio. In un bicchiere lasciato accanto al bidè era rimasto un goccio di vino. Lo mandai giù, poi addentai il pane con cautela. Non era affatto male. Anzi, aveva un buon sapore. I germi non danneggiano chi ha fame o è ispirato. Per dimostrarlo mi pulii il sedere con il pane; rapidamente, certo. Poi lo mandai giù. Ecco! Perché fare gli schifiltosi?”

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Due stranieri a Parigi: Giovanni Boldini e Brassaï https://www.carmillaonline.com/2015/04/16/due-stranieri-a-parigi-giovanni-boldini-e-brassai/ Wed, 15 Apr 2015 22:03:54 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21950 di Mauro Baldrati

Marchesa_CasatiDue stranieri a Parigi: potrebbe essere questa la definizione comune di due mostre d’arte, una di pittura e una di fotografia, in atto in questi giorni. Gli stili sono diversi, post impressionista il pittore, espressionista il fotografo. Eppure, ciascuno a modo suo, il pittore e il fotografo hanno ritratto un ambiente, il segmento di un’epoca, soprattutto attraverso le figure umane, e i segni che da esse si sprigionano.

Giovanni Boldini, a Forlì, Museo San Domenico, Piazza da Montefeltro 12, fino a 14 giugno.

Boldini, nato a Ferrara nel 1842, si trasferisce a Parigi nell’ottobre del 1871, vale [...]]]> di Mauro Baldrati

Marchesa_CasatiDue stranieri a Parigi: potrebbe essere questa la definizione comune di due mostre d’arte, una di pittura e una di fotografia, in atto in questi giorni. Gli stili sono diversi, post impressionista il pittore, espressionista il fotografo. Eppure, ciascuno a modo suo, il pittore e il fotografo hanno ritratto un ambiente, il segmento di un’epoca, soprattutto attraverso le figure umane, e i segni che da esse si sprigionano.

Giovanni Boldini, a Forlì, Museo San Domenico, Piazza da Montefeltro 12, fino a 14 giugno.

Boldini, nato a Ferrara nel 1842, si trasferisce a Parigi nell’ottobre del 1871, vale a dire cinque mesi dopo la feroce repressione della Comune. La restaurazione è già in fiore, i salotti del bel mondo riaprono più sfavillanti che mai, duchesse, principesse, banchieri e bellimbusti riprendono le loro feste in maschera, i loro ricevimenti e le loro chiacchiere vuote. Come dimenticare la confusione del giovane Narratore della Récherche quando finalmente, dopo mesi e anni di appostamenti, viene ammesso nel leggendario salotto dei Guermantes? E’ sconvolto dalla fatuità delle discussioni, non riesce a credere che loro, i semidei, parlino di cose tanto meschine, e soprattutto che lei, la duchessa della quale è perdutamente innamorato, sia così superficiale. Sono i segni della mondanità, naturalmente, i segni “maggioritari” e futili di cui parlò Deleuze nel suo piccolo saggio su Proust, segni effimeri, vuoti e bugiardi, che si dissolvono nel nulla e non lasciano traccia.

Boldini in breve tempo diventa un pittore d’élite richiestissimo e il ritrattista ufficiale di tutte queste duchesse e principesse. Ora, noi che siamo dei pronipoti di Lenin, potremmo esaltare l’aristocrazia reazionaria e l’alta borghesia predatrice della Belle Époque? I suoi quadri, i suoi ritratti sono ambientati quasi esclusivamente in questo mondo. Signore magnifiche, illuminate da una luce che le rende semidivine, si offrono leggiadre all’occhio del pittore, che le fissa sulla tela. Sarebbe contro natura, no? Eppure, c’è anche altro. C’è la bellezza, lo stile, una ricerca che sembra andare oltre una certa musicalità dell’impressionismo, che viene per così dire fissato nei segni dell’apparenza, che diventano come ossessivi, monomaniaci, nel loro splendore autistico. Non c’è critica esplicita in Boldini, e neanche camuffata; però di fronte all’interminabile galleria di ritratti sontuosi e perfetti, lo spettatore non può non ricordare gli appunti di Marguerite Yourcenar in contemplazione dei mosaici di Ravenna, la corte d’Occidente immobile nella sua fissità, un’immobilità che ricorda la morte e il Grande Nulla. Tutte le duchesse di Boldini hanno questa fissità, questo manierismo che le rende delle maschere meravigliose e inarrivabili. La sua opera lascia irrisolto il mistero dello stile, che supera il contenuto ed esplode di fronte allo spettatore, che in barba a tutte le teorie e agli idealismi non può esimersi dall’ammirarlo, lasciandosi andare dolcemente alla contemplazione e al sogno.

Brassaï, a Milano, Museo Morando, Via Sant’Andrea 6, fino al 28 giugno.

brassai-lovers-in-cafe-pariSe in Boldini c’è Proust, coi suoi segni e le sue idealizzazioni, in Brassaï c’è Henry Miller. C’è tutto Miller, il Tropico del Cancro, le sue notti folli e miserabili, i suoi bordelli, i tipi assurdi, il “vizio”, i bistrot, la velocità, lo straniamento, l’esaltazione, il voyeurismo. Brassaï (lo pseudonimo deriva dalla regione della Transilvania della quale era originario Gyula Halász – nome impronunciabile che venne cambiato, proprio come il suo quasi contemporaneo Endre Ernő che diventò Robert Capa), arrivò a Parigi nel 1924. Non era uno specialista della fotografia, ma un grande eclettico: dipingeva, scriveva, usava gli strumenti e gli stili per le sue ricerche. La macchina fotografica, come una chiave di ingresso, proprio come la definì Susan Sontag, gli servì per entrare negli ambienti, per conoscere e catalogare tipi umani, per frugare tra le pieghe nascoste del mondo notturno. Percorreva la città di notte, con la massiccia fotocamera sul cavalletto, immortalava marciapiedi lucidi di pioggia, le prostitute, tutta la vita di strada che, proprio come scrisse Henry Miller, che presto diventò suo amico (e come avrebbero potuto non fraternizzare?), “significa accidente e incidente, dramma, movimento. Soprattutto significa sogno”. C’è il sogno, in Brassaï. Il sogno parigino degli anni Trenta, quando il tempo sembrava bruciare come un furioso fuoco fatuo, dopo la fine di un orrore e l’approssimarsi di un altro, e tutti correvano, gridavano, combattevano, si amavano. Il tutto ritratto in un bianco e nero energico, sfrontato, che sembra anticipare quello cannibalesco e ultravoyeuristico del grande Weegee, o quello disperante della tormentata Diane Arbus, coi suoi freaks, le sue creature della notte che sembrano gridare senza che un solo suono umano esca dalle loro bocche. Brassaï, il non-specialista, il catalogatore delle notti parigine, uno dei maestri del bianco e nero e del ritratto, col suo eclettismo ha creato alcune immagini che hanno viaggiato per decenni, come Lovers, i due innamorati che, riprodotti su milioni di poster, sono diventati una delle fotografie più famose del mondo.

[In apertura: la marchesa Luisa Casati Stampa, opera d’arte vivente e musa dissipatrice dell’époque boldiniana; all’interno, Lovers, di Brassaï]

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