Henry James – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Owen il pacifista (Victoriana 50) https://www.carmillaonline.com/2024/03/30/owen-il-pacifista-victoriana-50/ Sat, 30 Mar 2024 21:00:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81863 di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry [...]]]> di Franco Pezzini

Una storia di fantasmi può essere una protesta contro la guerra, e così pare che il grande compositore e pianista Benjamin Britten abbia inteso fare con la sua opera 85 in due atti Owen Wingrave, scritta nel 1970 su libretto di Myfanwy Piper a partire dal racconto di Henry James. Ideale precedente era stata la loro collaborazione (1954) sull’opera sempre jamesiana Il giro di vite, ma Owen Wingrave – commissionato a Britten dalla BBC nel 1966 – gli permetteva di far riflettere sulla Guerra del Vietnam e le posture interiori che suscitava.

Il racconto “Owen Wingrave” di Henry James era apparso sul numero di Natale del “Graphic”, 1892, e verrà rivisto per la “New York Edition”: e inizia con un vivace scontro verbale, di cui solo poco per volta riusciamo ad afferrare l’oggetto. Il giovane, dotatissimo, brillante Owen Wingrave ha infatti sconvolto il suo istitutore, il napoleonico Spencer Coyle – un professionista che “preparava aspiranti per l’esercito, accogliendone tre o quattro alla volta, e facendo operare su di loro lo stimolo irresistibile che costituiva a un tempo il suo segreto e la sua fortuna” (seguo la stessa edizione citata qui). Mostrando ora, “davvero senza intenzione, una superiore saggezza che lo irritava”, ha infatti effettuato delle scelte in autonomia per il proprio futuro, rifiutando una “carriera magnifica” nell’esercito. Coyle lo invita a prendersi una vacanza a Eastbourne per tornare in sé (tanto ha il tempo, è molto avanti con gli studi), ma rifiuta di considerare chiusi i loro rapporti: e in realtà quella vacanza dell’allievo serve soprattutto a Coyle, per ricomporsi. Emerge che una zia del giovane è arrivata in città, e lui invita Coyle ad andare a trovarla: no, lei non sa ancora nulla della sua decisione, gli sembrava giusto parlarne prima con l’istitutore.

Ma Wingrave non parte subito, si dirige al parco di Kensington che dalla dimora dove Coyle tiene a pensione i discepoli non dista molto. Raggiunge il parco e si mette a leggere le poesie di Goethe. È sollevato dopo giorni di tensione al pensiero di quel colloquio con l’istitutore, ed è “caratteristico della sua natura che la liberazione assumesse la forma di un piacere intellettuale”. Anzi gli bastano pochi minuti di quella ricreazione per dimenticare tutto, “l’enorme dispendio di energia, il disappunto del signor Coyle e perfino la formidabile zia di Baker Street” che presto dovrà affrontare. In effetti, quando James cercherà di ricostruire la genesi del racconto, ricorderà di essere stato seduto – un pomeriggio estivo di molti anni prima – ai giardini di Kensington, e una splendida figura di giovane si era seduta vicino a lui leggendo un libro. Poi in realtà il tema, la mistica e le ossessioni sul soldato – vedremo che Owen, a dispetto del suo pacifismo, ne è immagine autentica nell’affrontare pericoli e disagi – vengono dalla lettura, nei giorni successivi la morte della sorella, delle memorie del generale napoleonico Marcelin de Marbot, tradotte in Inghilterra nel 1892. Troverà interessanti anche le memorie del feldmaresciallo visconte Wolseley, e, da non-combattente, tratterrà comunque viva memoria di scene della guerra di Secessione. I temi della famiglia e della guerra, le emozioni contraddittorie di un pacifista nonviolento che però ammira gli uomini d’azione, i fantasmi di un passato militare che approdano ai discendenti precipiteranno in questa storia – come attestano gli appunti fin dall’inizio – in chiave fantastica. Vedremo in che modo.

Intanto Coyle sta interpellando il miglior amico di Wingrave, il giovane Lechmere, anche lui sotto le sue cure formative ma non brillante quanto Wingrave e dunque tanto meno stimolante per l’istitutore. Che pure finisce ora col confrontarsi con lui: Wingrave rifiuta di andare alla scuola di guerra, rinuncia alla carriera militare ed è contrario “alla professione delle armi” che ha costituito una sorta di religione di famiglia. Coyle gli domanda se abbia conosciuto la signorina Jane Wingrave, la zia di Owen, che Lechmere definisce terribile e viene corretto dall’istitutore: “Formidabile, vorrete dire, ed è giusto che lo sia; perché, in certo qual modo, nel suo aspetto stesso, da quella brava vecchia zitella che è, rappresenta le tradizioni e le gesta dell’esercito inglese. Rappresenta la forza d’espansione del buon nome britannico”. Dunque Coyle intende coordinare ogni influenza per opporsi alle scelte del giovane, e cerca anche l’appoggio di Lechmere: questi conosce le idee dell’amico, anche se non sapeva volesse ritirarsi, e non si mostra così tranchant come Coyle sull’opinione che il mondo avrebbe di quel ritiro. Comunque ritiene di poter ricondurlo alla ragione.

Poi Coyle chiede un colloquio alla formidabile zia. Ovvio, ribatte lei alle osservazioni dell’istitutore sull’enorme intelligenza del giovane: ovvio che lo sia, in famiglia hanno avuto un solo idiota, Philip Wingrave, primogenito del defunto fratello di lei, imbecille, deforme e relegato in una clinica privata. Le speranze del casato di Paramore si sono dunque concentrate sul secondogenito, bello e pieno di doti eccellenti: ed erano stati i soli figli dell’unico rampollo del vecchio Philip Wingrave. Owen padre era rimasto ucciso sul campo da una sciabola afgana, il terzogenito e la moglie erano morti e Owen jr., rimasto a Paramore col nonno, era stato oggetto di premure particolari della zia nubile.

L’istitutore aveva un particolare ricordo di lei, quando il ragazzo gli era stato affidato per prepararlo alla carriera militare della tradizione di famiglia. Sir Philip viveva in una casa immiserita e tetra ma piena di dignità: per quanto vecchio e tremante, il vecchio militare era circonfuso della leggenda di storie impressionanti. Nell’occasione di quel primo incontro, Coyle aveva conosciuto anche altre due persone: un’amica vedova della signorina Wingrave – la scialba signora Julian, sorella di un gentiluomo caduto nella rivolta indiana, che era stato il fidanzato poi mollato dalla signorina – e la figlia diciottenne, “molto impertinente con Owen”. La morte dell’ex fidanzato aveva spinto la zia di Owen in preda ai rimorsi a espiare quell’abbandono preoccupandosi della sorella di lui e prendendola con sé come governante non remunerata, da poter maltrattare a proprio piacimento. In effetti, l’impressione della zia sull’istitutore non era risultata “tra le più fuggevoli di una giornata, singolarmente gremita per lui del senso di perdite dolorose, di lutti, di memorie, di nomi mai pronunciati, di lontani lamenti di vedove, di echi di battaglie e di notizie penose”. Al punto da lasciarlo un po’ turbato sulla professione a cui avviava i giovani allievi: e Jane Wingrave (col suo aspetto distinto e spigoloso, e il sembiante di genio d’una stirpe di soldati) lo faceva sentire anche peggiore. Non che la signora avesse caratteristiche da virago: erano invece gesti e toni di voce a rimandare al “supremo valore della famiglia”, con un vanto sproporzionato fino alla volgarità nei confronti degli antenati.

Ma per l’istruttore lei rappresenta ora un potente sostegno. “Avrebbe voluto che il nipote avesse una ristrettezza mentale anche maggiore, invece d’essere quasi diabolicamente ossessionato dalla tendenza a guardar le cose nei loro reciproci rapporti”: noi diremmo, nel rispetto della complessità. Certo, non è chiaro a Coyle perché la signorina arrivando a Londra prenda alloggio in Baker Street, che non è zona di abitazioni (Sherlock Holmes a parte). Ma un’unica cosa per lei conta…

Riceve dunque Coyle in una “grande stanza fredda e sbiadita”, dove l’unica comodità personale è offerta da un grosso catalogo dell’Unione militare per l’Esercito e la Marina: e alla notizia da lui recata l’unica reazione è l’indignazione. Dotata di troppo poca fantasia da lasciarsi prendere dalla paura e invece dell’abitudine a guardare il pericolo in faccia, resta inaccessibile al timore che il nipote dia pubblico spettacolo di sé, e persino alla sorpresa o ad altri sentimenti futili e delicati: si indigna della faccenda come farebbe se il nipote “si fosse permesso di fare dei debiti o di innamorarsi di una ragazza di bassa condizione”, ma tanto sa che nessuno prenderà in giro lei. Coyle ammette di non essersi mai interessato tanto a un discepolo, e la signorina trova il tutto ovvio: se gli piace tanto, lo tenga dunque tranquillo. Del resto, più lui parla dell’indipendenza intellettuale di Owen, più lei vede ciò come prova che il nipote sia un Wingrave e un soldato. Solo quando Coyle spiega che Owen svilisce la prospettiva di una carriera militare, lei stupefatta ordina di mandarlo da lei. L’istruttore spiega che era ciò che intendeva fare, ma la esorta a prepararsi al peggio, perché facilmente non riuscirà a convincerlo. La formidabile zia osserva allora di avere “un argomento molto forte”, e fissa Coyle, che perplesso la esorta a utilizzarlo. Solo, mette le mani avanti, il giovane andrà a Eastbourne per rilassarsi un po’: al che lei ribatte che non lo trattino come un invalido, di soldi per lui ne spendono già abbastanza. Lo porterà con sé a Paramore, “lì sarà trattato come si merita, e ve lo rimanderò col cervello raddrizzato”.

L’educatore riflette però che quella donna “è un granatiere”, e la sua mancanza di tatto rischia di peggiorare la situazione. “In conclusione, la difficoltà grande è che il ragazzo è il migliore di tutti loro”. Risultato confermato dai discorsi a cena, davanti all’imbarazzato amico Lechmere e al preoccupato Coyle. Che comincia a pensare che la rozzezza di quella famiglia sarebbe troppo per il giovane sottile che ha diritto di pensare con la sua testa. Poi lo invita a recarsi a Baker Street a incontrare la zia, e il giovane accetta – con un coraggio, al netto di ogni preoccupazione certamente provata, che Coyle deve riconoscergli. Qualcosa che rivela una sua sostanziale natura di soldato: “Molti giovani di fegato si sarebbero sottratti a un rischio di quel genere”. E uscito Owen, Lechmere commenta “Ha le sue idee, e come!”: hanno parlato, e l’amico ha spiegato come i suoi scrupoli riguardino la “crassa barbarie” della guerra. Con una particolare ostilità verso i grandi generali e in particolare versi Napoleone, “una canaglia, un criminale, un mostro”. Coyle vuol sapere cosa Lechmere gli abbia risposto, e questi spiega di avergli obiettato che “era un cumulo di sciocchezze”: e resta invece stupefatto che Coyle ammetta una verità parziale del discorso del discepolo pacifista. Tutto è nato comunque da una serie di letture sui grandi condottieri, che – come chiarito da Owen – gli hanno aperto gli occhi con un’ondata di disgusto. “Ha parlato della ‘smisurata tragedia’ delle guerre, e mi ha domandato perché le nazioni non fanno a pezzi i governanti che le promuovono”, con un odio speciale per Bonaparte. Che, ammette Coyle, era davvero una canaglia e un cialtrone; comunque Lechmere ha avvisato l’amico che i suoi scrupoli di coscienza sarebbero stati visti come un mero pretesto di chi non abbia il temperamento militare. Coyle immagina già che cosa Owen abbia risposto, “Al diavolo il temperamento militare!”: al che Lechmere aveva risposto sdegnato prendendo le difese della professione. Coyle è contento di come Lechmere abbia reagito, e lo invita a incalzare l’amico; gli offre anche un cicchetto, ma si rende conto che il giovane ha qualcosa fermo sullo stomaco. Un po’ ingenuotto, chiede conferma all’istruttore che Owen da lui tanto ammirato non stia semplicemente cercando di sottrarsi ai pericoli – ed è sollevato dalla risposta netta di Coyle, “Ma neanche per idea!”.

Il terzo capitolo inizia una settimana dopo questi fatti. Coyle riceve un invito – da allargarsi a sua moglie e al giovane Lechmere – all’antica tenuta di Paramore, dove Jane Wingrave non è riuscita ad avere la meglio sul nipote. A Coyle viene da sorridere, pensando che va “piuttosto a difendere il suo ex scolaro che ad accusarlo”: sua moglie, che lui scherzando accusa d’essere innamorata di Owen, accetta volentieri, e così l’altro allievo. Ma per l’istruttore “Quella brevissima seconda visita, che cominciò il sabato sera, doveva rimanere l’episodio più strano della sua vita”.

Trovatosi un attimo solo con sua moglie – dovevano vestirsi da sera – entrambi commentano “la sinistra tetraggine diffusa per tutta la casa”. La signora si rammarica d’essere venuta, “la casa aveva un aspetto cattivo, strano, sinistro” e la mette a disagio il fatto che la signorina Julian – la diciottenne figlia della quasi-governante – si atteggi con modi affettati come la persona più importante là dentro, mentre Owen pare invecchiato di almeno cinque anni. Evidentemente, osserva Coyle, per pressioni ambientali, gli hanno tagliato i viveri: e lui finisce col parteggiare per l’allievo, cosa che la moglie fa esplicitamente (“era troppo buono per diventare un soldataccio, e quel soffrire per le sue idee era un segno di nobiltà”). In effetti mezz’ora prima Owen si era concesso la familiarità di prendere a braccetto l’istitutore, mostrando “che aveva indovinato da chi poteva aspettarsi la maggiore bontà e comprensione”. Il tutto sotto l’occhiuto spiare della signorina Wingrave, a controllare che l’istitutore non venisse corrotto dall’ex-allievo. Questi tradisce – Coyle è molto diretto – “un’aria strana, malata” e parla della forza di resistenza che ha dovuto esercitare in quel contesto, un obiettivo interiore che il suo istruttore dovrebbe apprezzare. Certo, ha passato ore terribili con il nonno, “che lo aveva aggredito in un modo da fargli rizzare i capelli in testa”, mentre la zia – in modo diverso – è “egualmente oltraggiosa”. Si vergognano di lui e lo accusano di infangare pubblicamente il loro nome, unico in trecento anni a tirarsi indietro, parlando degli scrupoli di lui “come voi non parlereste di un dio dei cannibali”. Tra le pressioni c’è la minaccia di diseredarlo, ma non è questo che lo tormenta – del resto è chiaro che il ragazzo non è un debole o un vigliacco, e i suoi attacchi a chi propone la “stupida soluzione della guerra” sono aperti e duri. No, a turbarlo è altro,

 

l’atmosfera di questa casa. Ci sono strane voci che sembrano borbottare contro di me… dire cose terribili mentre passo. […] Ho ridestato gli spettri. I ritratti stessi mi guardano con occhi di fuoco dalle pareti. Ce n’è uno del mio trisavolo (quello di cui conoscete la straordinaria vicenda, il quadro appeso al secondo pianerottolo dello scalone) che addirittura si agita sulla tela, si sporge un po’ in avanti, quando m’avvicino. Devo pur salire e scendere le scale; è molto sgradevole! Mia zia li chiama la cerchia familiare: siedono là, aggrottati e feroci, costituiti in corte di giustizia. Sono tutti qui dentro, è una sorta di presenza paurosa che non lascia via di scampo, e si prolunga a perdita d’occhio nel passato. Quando tornai qui con lei l’altro giorno, la signorina Wingrave mi disse che non potevo avere l’impudenza di fare certi discorsi qui dentro. Ho dovuto farli a mio nonno, invece; ma ora che li ho fatti mi sembra che la questione sia conclusa. Voglio andarmene, anche se sarà per non tornare mai più.

 

Quanto alla signorina Julian, risponde Owen a una domanda di Coyle, la sua opinione è la stessa della cerchia familiare Wingrave, e della propria – visto che il padre di lei era morto combattendo. Per cui odia Owen, che tradisce quel legato di armi e ferocia patriottarda… Coyle non crede che la ragazza possa odiare il coetaneo, ma ci crede la moglie di lui, che ha notato il contegno perfido della diciottenne verso il giovane, e invece il suo ostentato civettare con il giovane, sciocco Lechmere. Coyle pensa che la ragazza non avrebbe vantaggio ad alienarsi Owen, dunque deve trattarsi di atteggiamenti innocenti, ma la moglie gli ricorda che Owen è caduto in disgrazia, dunque non è più l’erede… L’istitutore allora le racconta del minaccioso ritratto del trisavolo che infesterebbe la casa, e la moglie protesta che avrebbe dovuto fargliela conoscere prima.

Nella prima versione del racconto, la moglie chiedeva a Coyle: “Vuoi dire che la casa ha uno spettro?”, ma nella versione definitiva il testo suona “Vuoi dire che la casa ha notoriamente uno spettro?”, in riferimento alle prove della ricerca psichica al tempo di moda. Comunque la storia rimonta ai tempi di Giorgio II, quando il collerico colonnello Wingrave aveva impartito a un figlio ancora in età di crescita una tale botta sulla testa che il ragazzo era morto – la storia era stata messa a tacere “e i funerali si svolsero tra mormorazioni soffocate”. Ma la mattina seguente il colonnello, “uomo forte e sano”, era stato trovato stecchito – senza ferite o espressioni strane sul viso – nella stanza dell’altra ala (la cosiddetta camera bianca) in cui il corpo del figlio era stato composto prima del trasbordo al cimitero. Una morte inspiegabile, “Si suppone che andasse nella stanza durante la notte, prima di coricarsi, preso da un accesso di rimorso o affascinato da una qualche allucinazione paurosa”: e solo allora emerse la verità sulla fine del ragazzo, ma come conseguenza “nella stanza non dorme mai nessuno”. Una stanza – spiega Coyle che l’ha rapidamente visitata – in sé vuota e triste, niente di speciale.

La moglie resta molto impressionata, e davanti al ritratto del famigerato vecchio colonnello appeso sulla scala – una figura simile deve infestare la casa – dichiara che l’anziano Sir Philip gli somigli in modo prodigioso. Coyle si sorprende a rammaricarsi di non aver insistito di più per la gita di Owen a Eastbourne… A cena, per fortuna, l’ambiente della chiusa e tetra cerchia familiare si stempera per la presenza di estranei, tra i quali il pastore e sua moglie e un giovane venuto a pescare. Ma l’indomani ci sarebbe stato l’arduo confronto con l’arida Jane Wingrave – per cui insomma Coyle rischia di dover dire cosa davvero pensi su quella penosa situazione.

Owen cerca di non turbare l’apparente armonia, e finge di non essere stato messo “al bando”: ma la sua faccia ridente rivela all’istruttore tutta la sofferenza di un agnello destinato al sacrificio. Con “una mancanza di logica che era soltanto superficiale”, Coyle si rammarica che il giovane sia un tale combattente; e intanto osserva la bella Kate Julian e il suoi modi in fondo fuori luogo – sul piano della prudenza come del decoro – per una dipendente senza mezzi, ma con uno spirito incapace di precauzioni. Troppo indifferente per essere aggressiva, Kate ha “l’aria di pensare che poteva prendersi il lusso di comportarsi come meglio le piaceva”, senza nulla da perdere o da guadagnare. Probabilmente perché è protetta dell’anziano Sir Philip – ma qual è il rapporto con Owen? Certo non d’indifferenza, e tanto meno – giudica Coyle – di avversione. Non si tratta di Paolo e Virginia, anche se i due giovani sono cresciuti idealmente con una simile dinamica fraterna, sia pure inframmezzata da periodi di lontananza dell’uno e dell’altra. Mentre il candido giovane Lechmere appare fin troppo colpito da lei.

Si giunge così al quarto e ultimo capitolo, avviato dall’avvicinarsi di Kate a Coyle: senza preamboli, gli annuncia di sapere cosa sia venuto a fare, ma è inutile. Non riuscirà a far niente con Owen. Lo ammirano tanto, per questo sono tanto disperati. Lei adora “la carriera delle armi e [vuole] un gran bene al [suo] vecchio compagno di giochi”, ma evidentemente lui non desidera accontentarla, e la giudica “un’impudente sfacciata” per avergli detto “che il suo modo di comportarsi non era certo quello di un gentiluomo!”. Ma cosa avrebbe detto “se non ci fosse stato nessun precedente?” domanda Coyle, Kate ribatte di non capire, “credevo che aveste il compito di fabbricare dei soldati” e lui risponde che con Owen non occorre fabbricare nulla, “a parer mio Owen è, nel più alto senso del termine, un guerriero”. La ragazza ribatte impaziente “Allora lo dimostri!” e gli volge le spalle: Coyle la lascia andare, “c’era qualcosa nel suo tono che lo irritava e anche, non poco, lo disgustava”. Poi insiste per mandare a letto il giovane Lechmere – che vagheggerebbe di dormire nella stanza infestata, evidentemente per far colpo sulla ragazza – e la moglie vuol essere accompagnata a letto.

Iniziano i congedi per la notte, ma Kate si guarda bene di salutare Coyle, pur gettando un’occhiata a Owen. Il vecchio pestifero Sir Philip ne rifiuta sprezzantemente l’aiuto per recarsi in camera, neanche il giovane avesse falsificato una cambiale. Poi Coyle, ordinato nuovamente a Lechmere di andarsene a letto e di guardarsi dal fare qualunque sciocchezza nottetempo, chiede a Owen di mettere a letto il suo amico e “chiuderlo a chiave dal di fuori […] Lechmere ha una curiosità morbosa circa una delle vostre leggende… delle vostre stanze storiche. Soffocatela mentre è ancora sul nascere”. Owen svaluta a falso la storia della camera infestate, Lechmere obietta che non è sincero e lo sfida a passare la notte lì dentro, Owen ribatte “So chi vi ha detto questo” – ovviamente Kate – e conclude che “lei non sa”, non sa niente. Dopodiché promette a Coyle che rincalzerà le coperte a Lechmere, e l’istruttore si sente indiscreto perché la sua presenza pone involontariamente a disagio i discepoli.

Raccomandato loro di non rendersi ridicoli, incrocia Kate sulle scale: sta tornando giù perché ha perso un turchese, l’unico gioiello che possiede, e gli amici di cui sente il vociare l’aiuteranno nella ricerca. Coyle raggiunge la moglie, ma poi non si sveste e inquieto passa nel corridoio. La stanza di Lechmere è chiusa, a differenza che mezz’ora prima: ma poi sente dall’interno un suono dalla finestra, bussa e, quando il giovane apre, gli spiega che vuol verificare non si esponga a emozioni eccessive. L’ingenuotto risponde che “ce n’è da vendere”, Kate è scesa e lui l’ha lasciata intenta a litigare con Owen, che lei accusa di mentire. Lechmere ammette di aver avuto “la stupidità di tirar fuori di nuovo la storia della camera stregata e quanto [gli] dolesse la promessa […] di non tentare la prova”. Coyle ribatte che non si può cacciare “il naso in quel modo nelle case degli altri”, ma il giovane ribatte che Kate ha creduto al coraggio che avrebbe dimostrato. Ma ha poi aggiunto, “Non ci si può aspettare altrettanto da un uomo che ha preso la sua straordinaria decisione”, una palese sfida a Owen. Ha già passato la notte prima in quella stanza, dice il giovane, senza veder nulla: Kate non gli ha creduto, altrimenti le avrebbe raccontato qualcosa, ma all’affermazione di Owen di non curarsi del parere di lei ha accennato che la sua impressione è che volesse ingannarla – in sostanza che non fosse vera la storia della sua notte là dentro. In realtà l’amico – che ritiene Kate sia attratta dal giovane che sta maltrattando – sospetta che sia un altro l’elemento taciuto da Owen, cioè il fatto che al contrario vi abbia visto o sentito qualcosa… E alla domanda di Coyle, sul perché non ne avrebbe parlato, risponde “Forse è così terribile che non ci sono parole”. Comunque all’accusa di mentire, Owen ha risposto alla ragazza “Conducetemi lì voi stessa e chiudetemi dentro!”. Lechmere non sa se l’abbia fatto.

Coyle non sa dove sia la stanza di Owen e non può controllare; torna in camera, dove la moglie nota la sua incapacità di riposare. In quell’atmosfera oppressiva, non riescono a dormire e parlano dell’accaduto a lungo:

 

Verso le due la signora Coyle s’era fatta così nervosa sul conto del loro giovane amico perseguitato, e così presa dalla paura che quella perfida ragazza si fosse valsa della proposta di lui per sottoporlo a una prova abominevole, che supplicò suo marito, per quanto la cosa potesse turbarlo, di andare a dare un’occhiata. Ma Spencer, a mano a mano che il fascino della notte calava sopra di loro, avevo innaturalmente finito col ridursi a una trepida accettazione della prontezza con la quale Owen si era dimostrato disposto ad affrontare Dio solo sa quale inumana tensione nervosa: cimento tanto più estenuante per una sensibilità già eccitata, in quanto il povero ragazzo sapeva, dalla prova della notte precedente, quale sforzo disperato avrebbe dovuto sostenere.

 

Augurandosi che Owen sia andato davvero nella stanza, in modo da svergognare tutti quanti, Coyle resta però in scacco: non può farsi trovare a esplorare la casa al buio ma non riesce ad andare a letto, fermandosi a leggere nello spogliatoio; si assopisce ed è destato da un grido d’orrore dalla stanza di sua moglie.

Echeggia però un altro grido, “Aiuto! Aiuto!”, e lui corre in quella direzione, verso una parte lontana della casa, tra porte che si aprono, voci agitate e le prime luci dell’alba.

 

Alla svolta d’un corridoio, s’imbatté nella bianca figura d’una ragazza svenuta su una panca, e come illuminato da una rivelazione capì all’istante, continuando nella sua corsa, come Kate Julian, presa troppo tardi dal gelo del rimorso per la sfida beffarda cui il suo orgoglio l’aveva spinta, dopo essere andata a liberare la vittima della sua derisione, fosse fuggita via barcollando, costernata dalla visione della catastrofe di cui era stata causa, catastrofe davanti alla quale egli si trovò un momento dopo, sgomento, sulla soglia d’una porta spalancata. Owen Wingrave, vestito come lo aveva visto poche ore prima, giaceva morto nel luogo stesso dove il suo trisavolo era stato trovato. Aveva in tutto e per tutto l’aspetto del giovane soldato caduto sul campo della vittoria [nella prima versione, l’ultima frase suonava: “Sembrava un giovane soldato caduto sul campo di battaglia”].

 

Si è osservato che il fantasma è in questo racconto il fantasma di famiglia, il senso del passato come peso morto con cui l’orribile famiglia Wingrave vuole coartare il rampollo Owen – etimologicamente “giovane soldato”, in scozzese e gallese – perché prosegua la tradizione guerrafondaia. Il titolo del racconto in effetti è “The young soldier wins his grave”, “Il giovane soldato conquista la sua tomba”.

Ovviamente esiste una chiave psicologica di interpretazione del racconto, con il giovane pressato dalla famiglia, sminuito non solo da questa ma dalla ragazza che in prospettiva avrebbe potuto sposare, convinto obiettore di coscienza e dotato di un rigore da soldato nel portare avanti le proprie convinzioni. Il fantasma non lo vediamo e potrebbe non esserci: è più uno spirito oppressivo della famiglia. Anzi, quando James trasforma il testo in un atto unico teatrale (1908) e la versione viene portata in scena a Londra da Gertrude Kingston, questa fa comparire in scena una figura biancastra ondeggiante: informato mentre è in America, James scriverà una lettera sdegnata per quella soluzione tanto pacchiana che forza l’interpretazione.

In compenso la versione teatrale vede nascere una querelle con Bernard Shaw, che – semplificando molto l’argomentazione – accusa il finale di colpevole pessimismo. Per James, che descrive il peso della famiglia e della tradizione, la morte di Owen è una vittoria da soldato, nel segno stesso dello spirito di famiglia ma come invertendone la polarità; per Shaw, si è detto, è una vittoria di Pirro, perché lo spirito di famiglia vince contro Owen, uccidendolo. Shaw si ribella al finale per motivi ideali, James forse guarda l’amarezza dell’esistente: ma diciamo che il suo finale condanna senza appello gli altri personaggi e alla fine lo stesso Coyle. Tutti quanti dovranno trascinarsi il rimorso, non solo la velenosa superficialotta Kate: tutti quanti diverranno fantasmi di loro stessi, destinati a morire consunti dalla propria gretta visione del mondo e da una sconfitta che Owen ha così reso pubblica.

In questi tempi di pornografia bellica, di disegni di legge su leve diffuse – e inutili, in contesti dove tutto viene giocato su armi a lunga gittata e il numero dei morti civili è in percentuale sempre più alto – e la riflessione sull’obiezione di coscienza viene soffocata da paura, orgogli fallocratici, letture losche dei rapporti tra popoli e sbrodolature su pretesi mondi al contrario, non sembra inopportuno rileggere questo racconto di James.

]]>
La vita privata (Victoriana 45) https://www.carmillaonline.com/2023/10/28/la-vita-privata-victoriana-45/ Sat, 28 Oct 2023 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79236 di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura [...]]]> di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, e per l’edizione italiana di Maria Luisa Castellani Agosti.]

Il racconto di Henry James “The Private Life” è un testo molto strano, godibilissimo a leggersi – quasi una commedia brillante – ma destinato a perdere moltissimo con un riassunto. Il tentativo sarà di recuperarne comunque la potenza allusiva e di metafora, condotta attraverso soluzioni narrative nuovamente assai singolari: il racconto di fantasmi diventa così una felice formula per una satira sociale che sa graffiare più a fondo, raggiungendo la meditazione sull’identità. Il racconto, attestano i Taccuini, viene immaginato il 27 luglio 1891: la stesura precede “Nona Vincent” e probabilmente anche “Sir Edmund Orme” anche se il testo viene pubblicato dopo, sull’Atlantic Monthly nell’aprile 1892 e in seguito nella raccolta The Private Life and Other Stories (1893) – seguiamo qui la forma rivista per la “New York Edition” (1907-1909, add. 1917).

La storia si svolge in Svizzera, dove un gruppo di esponenti del mondo culturale di Londra si trova fortuitamente riunito. Ci sono Lord e Lady Mellifont, il grande scrittore Clare Vawdrey e l’immensa attrice Blanche Adney: gente tanto richiesta in società da doverla “prenotare” con sei settimane di anticipo e che ora invece è per caso tutta lì. Anche il narrante fa parte dello stesso mondo ma in quel contesto la compagnia è quasi stupita dallo scoprire le persone più “umane” di quanto non sembri a Londra.

Un giorno, riuniti sulla terrazza dell’albergo per prendere “secondo lo strano uso tedesco, il caffè prima del pasto”, notano quasi di sfuggita la lunga assenza di Lord Mellifont e della signora Adney. Il fatto è che Clare Vawdrey – nome d’arte Clarence – sta parlando, e tutti lo ascoltano: un uomo cordiale, sano e ciarliero, che non parla mai di sé e per nulla avido di omaggi. Ma a un tratto Lady Mellifont chiede al narrante se abbia idea di dove suo marito e la signora Adney siano finiti. Milady è sempre pallida, incolore e sempre vestita di nero: “Nascondeva un segreto” e appare rassegnatamente malinconica. Il narrante spiega che si sono allontanati per una passeggiata un’ora prima, e le propone di chiedere informazioni al marito della signora Adney. Questi è un piccolo compositore, già modesto violinista nel teatro dove lei recitava e di cui aveva favorito la carriera; una specie di buon bambino cinquantenne che sostiene al meglio la parte di marito della diva, rendendola presente nella propria musica, anche se non è in grado di scrivere per lei un testo teatrale. Ma Lady Mellifont preferisce non far vedere di essere inquieta, come – ammette – è di solito quando il marito si allontana a lungo, “Non so esattamente che cosa temo: ho la sensazione generica che non debba più ritornare”.

Poco dopo vedono apparire la signora Adney senza di lui, ma con l’aria tranquilla: l’ha lasciata – spiega – pochi minuti prima, è rientrato in casa. Il narrante coglie però negli occhi dell’attrice, un messaggio come “Sì, ma un incidente c’è stato. Ve lo dirò forse più tardi”. La moglie conclude che Milord sarà andato a vestirsi per il pasto: e poi il narrante ci descrive questo nobiluomo di straordinaria presenza, uomo di mondo dall’impeccabile abbigliamento, con “un costume per ogni funzione e una morale per ogni costume”, di cui il romanziere Vawdrey conosce tutta la vita “quasi dai suoi primi passi nel mondo” sgranata in aneddoti – come di consueto le narrazioni su Lord Mellifont, sempre amabile e imperturbabile.

 

Personalmente, quando si parlava di lui, avevo sempre l’impressione che si parlasse di un morto: la conversazione era contrassegnata da quella particolare accumulazione di fatti significativi. La sua reputazione era una sorta di obelisco dorato, come fosse stato sepolto lì sotto: la somma di leggende e di reminiscenze di cui egli sarebbe un giorno stato oggetto si era cristallizzata in anticipo.

L’ambiguità derivava, suppongo, dalla circostanza che il solo suono del suo nome e l’aria della sua persona, l’aspettativa generale che egli creava, avevano in certo modo un tono così romantico e anormale. L’esperienza della sua urbanità veniva sempre dopo; la previsione, la leggenda, impallidivano di fronte alla realtà. Ricordo che la sera di cui parlo quella realtà mi colpì come suprema. Il più bell’uomo del tempo non avrebbe potuto competere con lui, e sedeva tra noi come un tranquillo direttore d’orchestra, il quale domini col modo armonioso del braccio un’orchestra ancora un po’ grezza. Guidava la conversazione con gesti non meno irresistibili che vaghi; si sentiva che senza di lui non avrebbe avuto niente che si potesse chiamare “tono”. Era questo essenzialmente il suo contributo in qualsiasi occasione – il suo contributo, soprattutto, alla vita pubblica inglese. […] Egli era tutto stile.

 

A confronto, la conversazione di Vawdrey fa “pensare al cronista di fronte al poeta”.

L’attrice, quarantenne, vorrebbe che Vawdrey scrivesse una commedia tutta per lei, portandola a quel ruolo eccelso che ha finora soltanto sognato, sulla base di un canovaccio di trama più sottile. Il problema, a giudizio del narrante, è che il romanziere ormai maturo non è in grado di scriverla. Meraviglioso è il ritratto “di questa donna incantevole, che era bella senza bellezza e completa con almeno una dozzina di deficienze”, da tutti ammirata, sorta di dipinto uscito dalla cornice per le strade del mondo, perpetua sorpresa e anzi miracolo per una società senza acume.

In realtà Vawdrey, a cui lei piace, ha iniziato a scrivere una commedia per lei, e per la stessa ragione tira in lungo l’opera: ora afferma di aver composto il terzo atto. Il problema è che ha passato il tempo a tener banco, prima ha giocato a biliardo, il giorno prima aveva detto di non aver prodotto nulla… per cui gli amici mostrano la loro perplessità. “Non credo di saper bene quando lavoro” commenta lo scrittore, e si proclama in grado di ripetere la scena a memoria… ma in realtà nessuno gli crede troppo. Viene ammannita anche un’introduzione musicale al suono del violino del marito della diva, ma al momento di recitare i versi il romanziere proclama soave di vergognarsi molto (non ne ha l’aria) ma di non ricordarli affatto. Se lui non è costernato, lo è la compagnia, però a salvare la situazione interviene Lord Mellifont: racconta un episodio personale, la volta in cui aveva dimenticato gli appunti per presentare qualcosa davanti a una folla immensa, ma il brillante successo dell’esibizione aveva fatto dimenticare il suo imbarazzo. Così la diva esorta il marito a suonare ancora e il narrante propone al romanziere di mandare qualcuno a prendere il fantomatico manoscritto: quello spiega che un manoscritto non c’è, scriverà l’indomani, ma poi alla confusione dell’altro corregge il tiro. “Se c’è qualcosa, è sul mio tavolo”. Poi la musica di Adney assorbe l’attenzione di tutti.

Però il narrante vuol chiedere qualcosa alla diva. Forzando un po’ il senso del discorso del romanziere, sostiene di aver avuto il permesso di andare a prendere il manoscritto: e lei lo scongiura di farglielo avere. Lui le chiede per contropartita di spiegargli cosa sia accaduto con Lord Mellifont durante la gita – che qualcosa sia successo gliel’ha letto in viso. La voce pubblica, commenta lei colpita, lo definisce in effetti “uno scrutatore di cuori, quella cosa frivola che si chiama ‘osservatore’”. Lei però esita a raccontare la “cosa veramente strana” accaduta; lui le propone un altro enigma, Vawdrey non ha scritto un verso. Lei ribatte di prendere le sue carte e vedranno: andare, intende, nella sua stanza a prelevare i fogli per scoprire. Poi riprende il dominio di sé, stanno dicendo un mucchio di sciocchezze: però gli raccomanda di prendere le carte.

In realtà l’operazione viene rallentata, una signora chiede al narrante una firma ricordo sul suo “album dei compleanni”, e lui è tanto confuso da non ricordare la propria data di nascita. Ma nel frattempo la compagnia si è sciolta, se Vawdrey è andato a letto lui non vuole disturbarlo – però poi realizza che può essere ancora sveglio. La signora Adney è uscita con amici nella notte alpina, il Nostro vagheggia di procurarle il manoscritto e di farglielo trovare al rientro. Raggiunge dunque la stanza di Vawdrey, l’ultima in fondo al corridoio del secondo piano: la mano corre al pomo della porta ed entra nella stanza buia senza bussare.

Davvero molto buia, sta già per accendere un fiammifero quando balza indietro con un sussulto e il balbettio di una scusa: “uno sguardo di qualche secondo mi aveva rivelato una sagoma d’uomo, seduto a un tavolo davanti a una delle finestre”. Di primo acchito l’ha scambiato per una coperta gettata sulla sedia, si è persino domandato se non abbia sbagliato stanza ma poi crede di riconoscere Vawdrey. A quel punto esclama: “Ehi, dico, siete voi Vawdrey?” ma quello non risponde e una luce in corridoio permette di riconoscere davanti a lui l’uomo che è convinto di aver lasciato in conversazione dabbasso con la signora Adney… “Mi voltava un poco la schiena ed era chino sul tavolo nell’atteggiamento di chi scrive, ma la sua identità mi penetrò attraverso ogni poro”. Il narrante si scusa, credeva che si trovasse dabbasso (una scusa un po’ bizzarra per essersi fatto trovare lì…), ma l’altro non dà segno di sentirlo e lui indietreggia fino alla porta, chiudendosela dietro. “Stavo lì, con la mano ancora sul pomo della porta, sopraffatto dall’impressione più strana che avessi mai provato in vita mia”. Perché il romanziere scriveva al buio e non gli aveva risposto? Attende dunque invano il rumore di qualche movimento all’interno ma tutto tace e lui scende, diretto alla porta dell’albergo. Gli altri devono essere rientrati: dopo pochi minuti va a letto.

Tale la prima parte del testo, e la seconda inizia con il sonno agitato del narrante. Ripensando alla sua esperienza è ancora più impressionato, ma tiene a chiedere a Blanche Adney chi fosse con lei sulla terrazza la sera prima. Desiderio che però stranamente evapora all’arrivo dell’alba di una giornata che si preannuncia splendida: per cui se ne esce dopo il caffè e si fa una passeggiata solitaria tra le montagne, con ampio spazio a un riposino sull’erba. Rientra nel tardo pomeriggio per la cena, e dopo essersi cambiato raggiunge gli altri a tavola. È curioso di vedere se Vawdrey lo fisserà in modo strano, ma il romanziere non mostra di considerarlo: dunque a fine pranzo raggiunge l’attrice proponendole un giretto all’esterno. E lì, tra dialoghi impagabili a cui solo una lettura del testo jamesiano può rendere giustizia, le domanda chi fosse lì fuori in terrazza con lei la sera prima, verso le dieci. Lei risponde che era Vawdrey, le ha parlato un po’ della sua commedia… Ma il Nostro vuol sapere di più, e all’ironico stupore della signora Adney a quelle domande risponde che “mentre voi e il vostro compagno eravate occupati nel modo che avete descritto, il vostro compagno era anche intento a scrivere nella sua stanza” (corsivo mio). Lei si ferma, gli occhi scintillano nelle tenebre: chiede se stia mettendo in dubbio il suo racconto, ma viene tranquillizzata. Realizzano così che – in modo del tutto paradossale – un Vawdrey le recitava la scena facendo ammenda per il fiasco in sala e senz’ombra di dubbio un altro, il suo doppio (“Oh, le eccentricità del genio!” commenta lei dopo un accurato interrogatorio dell’interlocutore) scriveva al buio nella propria camera. Una figura in fondo, commenta il Nostro, che “somigliava all’autore delle mirabili opere di Vawdrey. Gli somigliava infinitamente di più che non gli somigli il nostro stesso amico”. Che non mostra altrettanto genio nella conversazione…  Insomma, “Sono due. […] Uno esce, l’altro rimane a casa. Uno è il genio, l’altro il borghese, e noi non conosciamo personalmente che il borghese. Parla, va in giro, è enormemente popolare, vi fa la corte…”. La invita anzi a vedere coi suoi occhi andando in camera di lui, ma lei lo giudica sconveniente, “col tono delle sue battute migliori”. “Tutto è conveniente in un caso del genere”, ribatte il narrante.

Scorgono però in distanza Lord Mellifont, e ciangottando l’attrice commenta che “se Clare Vawdrey è doppio, e sento il dovere di dire che più ce ne sono meglio è, Sua Grazia ha il male contrario: non è nemmeno intero” – e domanda se l’abbia mai visto da solo. Certo, ma – emerge – sempre in modo da stabilire una relazione: Milord che va a trovarlo o il reciproco, ma con tanto di preannuncio. Mentre, spiega lei, “Dovete prenderlo alla sprovvista”, per esempio piombandogli in camera… e non vedrà niente. Mentre ora lo vedono lì, perfetto come per promuovere la candidatura elettorale delle Alpi, aureolato delle sue perfezioni, e il narrante comprende:

 

egli mi apparve così essenzialmente, così cospicuamente e uniformemente nella luce dell’uomo “pubblico” che lessi in un lampo la risposta all’enigma di Blanche. Era tutto “pubblico” e non aveva una corrispondente vita privata, così come Clare Vawdrey era tutto privato e non aveva una corrispondente vita pubblica. Avevo sentito soltanto la metà del racconto della mia compagna; tuttavia, mentre ci univamo a Lord Mellifont – ci aveva seguiti perché la signora Adney gli era simpatica, ma si pensava sempre di lui che accettasse la compagnia altrui piuttosto che cercarla – , mentre partecipavamo per mezz’ora della prodiga ricchezza del suo discorso, sentii, con una duplicità nella quale non era ombra di rossore, che noi lo avevamo, per così dire, smascherato.

 

Il tutto con un certo fondo di indulgenza:

 

Lo avevo segretamente commiserato per la perfezione con la quale recitava la sua parte, mi ero domandato quale vuoto quella maschera coprisse in realtà, che cosa gli rimanesse nelle ore spietate in cui l’uomo è solo con se stesso, o, peggio ancora, solo con quel se stesso anche più severo che è la sua legittima moglie. Com’era in casa e che cosa faceva quand’era solo? C’era qualcosa in Lady Mellifont che giustificava questi dubbi, qualcosa che suggeriva come anche per lei egli dovesse continuare a essere l’uomo “pubblico”, e lei assediata da dubbi della stessa natura. Non li aveva mai risolti: ecco il motivo della sua perpetua inquietudine.

 

Ma lui rappresenta per lei e per la servitù “l’eroe”: però quando nessuno poteva ammirarlo “Probabilmente si abbandonava, riposava; ma quale vuoto spaventoso doveva mai essere necessario per compensare tanta pienezza di presenza!”. E ora loro sono soltanto due, “ma non mi era mai apparso più ‘pubblico’”, più perfetto nei modi, più notevole nel tatto, più evidente “l’unicità assoluta della sua identità”.

La signora Adney gli deve ancora il suo aneddoto, ma quella sera non riescono a parlarne: lei resta incantata ad ascoltare Vawdrey che le legge la famosa scena finalmente composta. Il momento giunge solo l’indomani, quando lei accetta una passeggiata con il narrante. In quel contesto ammette di essere affascinata dal secondo io dello scrittore, la teoria del doppio spiega tutto e la incanta, tanto più che la scena è “Magnifica, e [lui] legge stupendamente” (salvo l’impressione di lei che sembrava trattarsi dell’opera di un altro). E parlano un po’ di “quale risorsa fosse nella vita un simile sdoppiamento di personalità”. Distante dal marito, lei ammette di essersi innamorata di un tale personaggio: “Disgraziata, egli non ha passioni”, ribatte algido il narrante ma lei spiega che è proprio per quello, un’attrice “non può prendersi il lusso di essere ricambiata”, in fondo il suo matrimonio gradevole e fortunato è “rovinoso”. E ascoltando quei versi lei sentiva solo un “folle desiderio di conoscerne l’autore”…

Poi, messa alla stretta sul racconto che deve al complice di indagini, cerca di ricordare i dettagli mentre entrano in un’incantevole valletta tortuosa: e a un tratto viene loro incontro Lady Mellifont. Pensava che il marito fosse là per dipingere, ma non l’ha trovato. Commentano che, se raggiunto, lui salterà fuori: la nobildonna si allontana, dicendo che non è il caso gli riferiscano che lei l’ha seguito. “Ha dei sospetti, sapete” commenta allora il narrante con l’attrice. Se non lo raggiungono, non ci sarà nessun dipinto. E finalmente la diva racconta l’episodio di qualche giorno prima. Non le era riuscito di trovare Milord, che d’altra parte non sapeva di essere cercato: “Appare non appena si accorge della presenza di qualcun altro”. Avevano passeggiato insieme, racconta, ma quando lei si era staccata per tornare all’albergo s’era accorta d’essersi portata via il temperino di lui: allora è tornata indietro, ma la valle non presentava possibilità di nascondersi e lui non c’era – come lì, nella valle davanti a loro. Forse per un momento di fatica, al ritorno alla solitudine, l’estinzione di lui era stata completa. “Era svanito, aveva cessato di esistere”. Ma appena lei l’aveva chiamato ecco l’uomo pubblico era riapparso dove avrebbe dovuto essere: poi certo, lei può essersi sbagliata – ammette alle obiezioni poste dall’interlocutore – ma ha la ferma convinzione del contrario. Per questo Blanche vorrebbe che il Nostro facesse una capatina in camera di lui. Che obietta non osi farlo nemmeno la moglie: no, ma in realtà lo desidererebbe, spiega l’attrice, perché nutre dei sospetti. Possibile che lui, d’altro canto, si sia accorto di aver suscitato stupore con la sua sparizione e riapparizione nella valle della passeggiata: ma alla domanda su quale aspetto avesse, ribatte “Esattamente quello che ha ora!” (corsivo mio) perché lui è apparso brandendo il proprio album degli acquarelli. Si mette in posizione, poi inizia a parlare e intanto dipinge, “Tutta la natura s’inchinava davanti a lui, e gli elementi stessi aspettavano”. E quando tornano in albergo, prima lo vedono alla finestra della sua stanza e poi non più, “Ridissolto […] Nell’immensità del cosmo” dopo la fatica della performance di poco prima a loro uso e consumo. Il quadro lasciato a Blanche si rivela però senza firma.

A sua volta Vawdrey è ora uscito per una passeggiata, ma a giudicare dalle nubi avrebbe fatto bene a portarsi dietro un ombrello. Blanche chiede al narrante se può portarglielo lui e fare in modo che restino fuori più tempo possibile: vorrebbe riuscire nel frattempo a vedere nella stanza il Vawdrey genuino.

Il Nostro calcola che prima di uscire ha tempo di fare una capatina fino al salottino di Lord Mellifont, con la scusa di chiedergli che firmi il suo quadro. Però, quando si trova davanti alla porta, si rende conto che bussando rovinerebbe tutto: un ingresso improvviso sarebbe l’unico modo per coglierlo nella sua assenza paradossale. E ha già la mano sul pomo quando Lady Mellifont appare dalla propria stanza… Non pronunciano parola ma corre tra loro uno scambio di pensieri e a un tratto lui riconosce sulle labbra di lei un quasi del tutto silenzioso “Non fatelo!”.

 

Se il mio esperimento le appariva sotto l’aspetto di un atto di violenza, ero pronto a rinunciarvi; pure, mi parve di cogliere nel suo viso spaventato una rivelazione anche più profonda, una possibilità di disappunto se io avessi ceduto. Era come dicesse: – Se ve ne assumete la responsabilità, fate pure. Sì, per mezzo di un altro sarei disposta a sorprenderlo; ma non dovrebbe mai sapere che io ci sono entrata per qualcosa.

 

Lui le spiega la storia della firma mancante al dipinto che tiene tra le mani come scusa. Lei prende la tela con un’evidente lotta interiore, rientra in camera sua e poi torna, avendo vinto la tentazione: se le lasciano il dipinto, lo farà firmare dal marito. Incassato il fallimento del progetto, il Nostro osserva per stemperare che il tempo sta cambiando: lei ribatte che in quel caso loro partiranno subito. Inattesamente poi gli stringe la mano, con un gesto che lui interpreta come: “Vi ringrazio dell’aiuto che avreste voluto darmi, ma meglio lasciare le cose come sono. Se sapessi, chi mi potrebbe più aiutare?”. E lui conclude che Milady è sicura, ma non vuole fare la prova.

Corre a portare l’ombrello allo scrittore e poco dopo devono assieme cercare riparo sotto un temporale di straordinaria violenza. Si rifugiano allora in una baracca per il bestiame e restano bloccati per un’ora, durante la quale il narrante resta ampiamente deluso da Vawdrey: “Non so esattamente come mi raffigurassi un grande scrittore esposto al furore degli elementi, non so dire quale atteggiamento alla Manfredi mi aspettassi dal mio compagno”. Ma certo non trova trascinante il sentirsi ammannire una serie di storie insulse, oltretutto già sentite, sulla famosa Lady Ringlose e sul noto critico signor Chafer: alla luce dei lampi, chiarissimo che

 

per i rapporti sociali quel mirabile genio trovava sufficiente una sua personalità di seconda scelta. Senza dubbio la società non meritava di meglio, ma la distinzione comportava un disprezzo che non poteva non riuscire umiliante per un ammiratore. Il mondo era volgare e stupido, e l’uomo genuino sarebbe stato uno sciocco a esibirsi davanti ad esso quando poteva chiacchierare e pranzare per delega.

 

Inutile pensare a una deroga soltanto per il Nostro…

Quando rientrano trovano gli amici un po’ preoccupati per la loro lunga assenza, Vawdrey si è inzuppato e va a cambiarsi – e Blanche lo guarda in modo studiatamente freddo. Il narrante la segue in sala, “non era mai stata così bella”. Entusiasta, gli bisbiglia – “col più rapido dei bisbigli, che fu al tempo stesso il grido più alto che avessi mai sentito” – di aver avuto la parte tanto sperata: è andata nella stanza di Vawdrey, quello vero, “È stata l’ora più bella della mia vita”… Poi, liquidati come irrilevanti Lord Mellifont e la firma sotto il suo quadro e invitato il narrante ad andare a cambiarsi, esce, entusiasta: trova l’innocuo marito, “Stavamo parlando proprio di te, amor mio!” e provvede a baci e abbracci.

Quando però il Nostro scende a mangiare scopre che il cattivo tempo ha già smembrato la compagnia: i Mellifont sono partiti, Blanche lo farà il giorno dopo, Vawdrey – la versione farlocca – domanda al narrante perché la diva abbia preso a detestarlo.

Tornati a Londra devono riconciliarsi perché Vawdrey termina la commedia e Blanche la interpreta. Evidentemente non un capolavoro, e l’attrice resta alla ricerca della gran parte da sostenere. Per la verità, il narrante ne avrebbe in mente una, ma lei sfortunatamente non lo corteggia: l’indagine ha permesso loro di avvicinarsi, ma solo in via transitoria. Come in fondo col marito di lei, si tratta di alleanze sociali, che nulla hanno in comune con pulsioni più genuine e viscerali – almeno da parte dell’attrice – in un mondo che è una gran recita. Lady Mellifont invece ha sempre una parola gentile per il Nostro, “ma questo non mi consola”.

In questo caso le apparizioni sono quelle speculare, dunque opposte, del doppio di una persona, Vawdrey, e – con trovata narrativa geniale, originalissima, ma in realtà con precedenti lungo il corso della storia della letteratura  – di un’altra persona quale semplice simulacro, proiezione di un’identità sociale e che esiste solo in pubblico ma svanisce in privato. Inevitabile pensare alla storia di Elena presente a Troia solo come simulacro mentre la sua identità autentica è in Egitto, o in generale alla lunga storia del Doppelgänger in letteratura. L’aspetto che rende tanto straordinario questo testo, con la sua coppia di anomalie parallele, è anche l’ironia che lo pervade. Vawdrey è ispirato a una figura reale, Robert Browning, grande poeta e uomo tanto comune – cordiale, dogmatico, pieno di opinioni risapute e giudizi usuali: quasi due personalità distinte, e James fatica a comprendere come abbia potuto conquistare Elizabeth Barrett. Browning muore nel dicembre 1889 a Venezia e James, presente alla funzione per lui all’abbazia di Westminster, ne scriverà un omaggio anonimo su The Speaker. Il tema peraltro si collega a tutta una riflessione condotta da James sulla doppia personalità.

A questo modello ne contrappone però un altro, l’uomo che esiste solo in pubblico, il pittore vittoriano – il massimo esponente dell’arte classica nel periodo – Frederic Leighton, baciato dal successo in tutti i campi, e tuttavia alla morte subito dimenticato. Era solo una figura pubblica.

]]>
James & James – Fantasmi (Victoriana 38/I) https://www.carmillaonline.com/2022/10/21/james-james-fantasmi-victoriana-38-i/ Fri, 21 Oct 2022 20:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=74484 di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, [...]]]> di Franco Pezzini

[Sono ripresi a Torino per il decimo anno i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario, con la prima stagione di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro, per le importanti implicazioni sul fronte iconologico. Si propone qui, in due puntate, il contenuto della prima puntata. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, con traduzione in questo caso di Maria Luisa Castellani Agosti.]

 

1.1. Corpi, fantasmi e tante opere

Sforbiciare dall’opera di un autore come Henry James i soli testi sui fantasmi può risultare senz’altro una forzatura, considerando i mille fili tesi all’interno di una produzione eccezionale e i mille tipi di fantasmi – sociali, sentimentali, emotivi, morali – che corrono tra le sue opere. Questo è senz’altro un limite dell’operazione che ci apprestiamo ad avviare, che però non è un Tutto (Henry) James ma mira a comparare due serie di ghost story databili a un periodo più o meno sovrapponibile legato al mondo vittoriano – quelle appunto dei due James, Henry e Montague Rhodes, che declinano il tema del fantasma in modo diversissimi, nell’ambito di una cultura che ne sta facendo un vero e proprio feticcio. Studi recenti mostrano quanto l’impatto del lavoro delle società spiritiste influisca sugli sviluppi letterari della suggestione, che d’altra parte riceve forza dall’incontro e lo scontro di nuovi paradigmi filosofici e scientifici.

Henry James non è inglese ma americano, nasce a New York nel 1843: quindi quasi contemporaneo di un altro immenso narratore americano di fantasmi, Ambrose Bierce, nato l’anno prima (tra l’altro James morirà nel 1916, Bierce scompare nel 1914). James ha cinque anni quando esplode l’ultima delle grandi rivoluzioni del 1848, quella spiritista, ne ha sei quando l’anno dopo muore Poe e ventuno quando nel 1864 muore Hawthorne, che come Balzac e Turgenev sarà tanto importante per la sua narrativa.

L’ambiente in cui Henry James cresce è particolarmente fertile sul piano culturale. La sua è una famiglia di intellettuali di origini irlandesi: è figlio di una donna colta, Mary Walsh e di un teologo swedenborgiano (come certi personaggi di Le Fanu) e filosofo cultore di letteratura e amico di tutto il giro dei trascendentalisti, Henry James Sr., coltissimo e forse ingombrante. Il fratello di Henry è il filosofo pragmatista e psicologo William James (1842-1910), tra i fondatori della psicologia funzionale, presidente tra l’altro della Society for Psychical Research dal 1894 al 1895, per cui di spettri si discute in famiglia; anche la sorella Alice James (1848-1892) scrive, è molto legata a William (forse troppo, con sfumature incestuose tutte mentali) e soffre fin dall’età di diciannove anni di un insieme di problemi al tempo etichettati spesso come isteria, ma anche nevrastenia, gotta reumatica, suppressed gout, complicanza cardiaca, nevrosi spinale, iperestesia nervosa, crisi spirituale (nel diario parla di impulsi a uccidere il padre, o a uccidersi…), e che, trattati con terapie sperimentali come massaggi elettrici continueranno comunque ad affliggerla fino alla morte precoce a quarantatré anni – un personaggio di enorme interesse, il cui diario vivace, spiritoso e speziato tenuto fin dal 1889 mostra una scrittura elegantemente letteraria. I fratelli ammireranno quel testo, e William vi vedrà il radicale, insanabile conflitto tra ciò che è stata Alice e il mondo esterno, laddove invece lei riteneva trattarsi di una lotta tra la propria volontà e il proprio corpo. Sperando di averne giovamento, Alice si trasferirà in Inghilterra nel 1884 assieme all’amica educatrice Katharine Peabody Loring. Dalla sua figura, Susan Sontag trarrà materiale per il suo unico testo teatrale, Alice in Bed: ma il diario di Alice è un’opera a sé, e preziosissima è la parte della sua malattia terminale, tre anni con un cancro al seno, in assenza di altre terapie fronteggiato con morfina e altri oppiacei.

La famiglia conduce Henry in continui viaggi tra l’America e l’Europa, fa sì che studi con istitutori di rango a Ginevra, Londra, Parigi e Bonn; all’età di diciannove anni frequenta con scarso successo la Harvard Law School, ma fin da giovane legge e studia con passione le letterature europee –  inglese, francese, italiana, tedesca e russa, solo quest’ultima in traduzione – e prende a misurarsi con la scrittura, dal primo racconto, pubblicato in forma anonima nel 1864, “A Tragedy of Error”. Due anni dopo la famiglia si trasferisce da Boston a Cambridge, e lui conduce vita sedentaria a casa – che interromperà solo per il primo viaggio da adulto in Europa (1869). Una tranquillità imposta dal fatto che la vita sociale non lo ricrea in alcun modo, ma la vita in casa è “vivace quanto l’interno di un sepolcro”.

A quel punto è lanciato, e inizia a collaborare con una quantità di testate (tra queste The Nation, The Atlantic Monthly, Harper’s e Scribner’s), producendo una messe di opere che incideranno con potenza sull’idea moderna di romanzo. Scriverà 22 romanzi, di cui due incompiuti, 112 racconti (tra lunghi e brevi), alcune opere teatrali e un enorme numero di testi saggistici e articoli di critica letteraria. Dopo un periodo a Parigi, nel 1876 eccolo trasferirsi in pianta stabile in Inghilterra, inizialmente a Londra. Ma facciamo un passo indietro.

 

1.2. “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”

Quello che è stato individuato come il primo racconto del sovrannaturale di HJ (il suo settimo racconto pubblicato) compare appunto nel febbraio 1968 sul citato The Atlantic Monthly: “The Romance of Certain Old Clothes” verrà rivisto a più riprese fino all’edizione definitiva del 1885. E di primo acchito può sembrare un racconto di Hawthorne: teniamo conto che l’autore ha venticinque anni ed è ovviamente influenzato dalle letture che ama.

L’epoca è metà Settecento, Massachusetts: lì vive una gentildonna vedova, Veronica Wingrave (nella prima versione era Willoughby), con tre figli, un maschio e due femmine. “La bellezza era una tradizione di famiglia”, e i figli sono tutti belli. Il maschio Bernard è benedetto da tutte le doti esteriori e interiori salvo l’intelligenza, toccata alle sorelle, che hanno nomi shakespeariani in grazie della venerazione del defunto padre per il Grande Bardo (tanto più apprezzabile in una società che al tempo non ama quel tipo di scrittura): la maggiore è Rosalind, dall’eroina di Come vi piace (nella prima versione era Viola come la figura della Dodicesima notte, e la Rosalind di Shakespeare è più aggressiva della sua Viola, come la spinosa rosa lo è rispetto alla violetta); la minore Perdita, dal Racconto d’inverno. La madre, adempiendo con animo rotto il desiderio del defunto, invia il figlio in Inghilterra a studiare a Oxford. Dopo cinque anni e un viaggio in Francia, il ventitreenne Bernard torna un po’ preoccupato di trovare il New England noioso e antiquato, e in realtà deve ricredersi. Le sorelle intanto sono divenute “due deliziose signorine, con tutte le prerogative di grazia delle giovani inglesi e una certa innata simpatica brusquerie, un che di selvatico che, se non era una dote, costituiva un’attrattiva in più”. E il giudizio positivo è anche rafforzato agli occhi di Arthur Lloyd, un suo compagno di università e grande amico, bello e ricco, venuto con lui in America per motivi di commercio e che ha suscitato ottima impressione a casa Wingrave.

Le due sorelle, “nel fiore della loro freschezza giovanile”, sono comunque molto diverse. Rosalind, alta e pallida con trecce dai riflessi dorati – e plausibilmente molto diversa dal peperino omonimo di Shakespeare – “non era fatta per le avventure”. Quanto a Perdita, non richiama le malinconie evocate dal nome: “Aveva una carnagione da zingara e occhi infantili, ardenti, oltre al vitino più sottile e i piedini più veloci di tutta la patria dei Puritani”, ed è molto più vivace della sorella anche nel dialogo. Su entrambe Lloyd fa colpo, con le sue doti esteriori e interiori, l’educazione e i discorsi affascinanti che non trovano pari tra i giovanotti locali. A sua volta Lloyd, che ha il presentimento che finirà con lo sposare una delle due, è ancora incapace di formulare preferenze. Le due frattanto mostrano un contegno irreprensibile, pur vivendo una sottesa competizione per il signor Lloyd:

 

Nel loro rapporto reciproco […] stavano piuttosto sul chi vive. Erano buone amiche fraterne, e concilianti compagne di letto (dividevano infatti il lettone a quattro colonne) e più di un giorno sarebbe occorso perché tra loro germogliassero e fruttificassero i semi della gelosia […] Ognuna aveva deciso che, se disprezzata, avrebbe sopportato il suo dolore in silenzio e nessuno ne avrebbe saputo nulla; poiché, se erano capaci di molto amor proprio, erano anche fornite di una buona dose di orgoglio. Ma ciascuna nel proprio intimo pregava che, malgrado tutto, la scelta, la preferenza di Lloyd cadesse su di lei. Abbisognavano certo di molta pazienza, di molto dominio di sé, di molta capacità di dissimulazione. A nessuna ragazza di buona famiglia era lecito, a quei tempi, prendere la minima iniziativa; le era soltanto consentito rispondere a quelle che venivano prese. […] Le due giovani, l’una in quasi costante compagnia dell’altra, avevano infinite occasioni di tradirsi. Che ciascuna sapesse d’essere osservata non causava però la minima differenza in quei piccoli favori che si rendevano a vicenda, o nelle varie mansioni casalinghe che assolvevano insieme. Né l’una né l’altra dava segno di timore o d’agitazione sotto il muto dardeggiare degli occhi della sorella. L’unico visibile mutamento nelle loro abitudini fu che ebbero meno da dirsi. Parlare del signor Lloyd era impossibile, e parlar d’altro era ridicolo. Per tacito accordo cominciarono a mettersi i vestiti più belli, a escogitare dei piccoli espedienti di civetteria in materia di nastri, gale e falpalà consentiti nell’ambito d’un’indiscussa modestia.

 

È possibile che James abbia qui in mente altre due figure ispirate al teatro di Shakespeare, cioè la dialettica tra le pur diversissime Matilda e Isabella nel Castello d’Otranto di Walpole. Ma è estremamente interessante che proprio la compressione di emozioni qui in scena – per educazione, per buonismo – finirà con lo spurgare fantasmi terribili.

Per qualche mese sembra che nulla accada. Ma una sera di dicembre Rosalind si sta pettinando i capelli davanti allo specchio della toeletta, ma è buio, dunque accende le due candele fissate alla cornice dello specchio e va alla finestra a tirare le tende: e vede la sorella risalire il viale, poi esaminare qualcosa che tiene in mano e premerselo alle labbra. Quando Perdita appare sulla soglia della stanza sobbalza – pensava che la sorella fosse con la madre a un ricevimento di signore – e Rosalind le chiede di entrare e darle qualche colpo di spazzola ai capelli, profittando dello specchio per sorvegliarla. Perdita si accorge degli occhi di Rosalind puntati alle sue mani, e pochi attimi dopo la sua mano sinistra viene afferrata: “Di chi è quest’anello?” domanda la sorella con veemenza. Perdita deve confessare che è stato il signor Lloyd: ma al commento stizzito della sorella, secondo cui il giovane è diventato generoso tutt’a un tratto, ribatte che no, “Non tutt’a un tratto. È già un mese che me l’ha offerto”. Breve scambio teso: le è bastato farsi corteggiare un mese per accettarlo? Lei l’avrebbe fatto attendere almeno dueNon conta l’anello, ma ciò che significa!non è una ragazza ammodo, mamma e Bernard sono informati?la mamma ha approvato, e alla richiesta di Mr Lloyd ha concesso la sua mano. “Avresti voluto che chiedesse la tua, sorella carissima?”

 

Rosalind le rivolse una lunga occhiata, piena di rovente invidia e di sofferenza. Poi abbassò le ciglia sulle guance pallide e si scostò. Perdita si rendeva conto che la scena era stata spiacevole; ma la colpa era della sorella. Questa, tuttavia, ritrovò il proprio orgoglio e tornò sui suoi passi. – Ti faccio i miei migliori auguri, – le disse con un leggero inchino. – Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita.

Perdita uscì in un riso amaro. – Non parlarmi in quel tono, – esclamò. – Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore. Via, sorellina, – aggiunse, – non poteva mica sposarci tutt’è due!

– Ti auguro ogni bene possibile, – ripeté Rosalind come un automa, risedendosi davanti allo specchio, – una lunga vita e un mucchio di figli.

C’era qualcosa nel suono di quelle parole che non piacque affatto a Perdita. – Un anno almeno me lo concedi? – le domandò. – In un anno posso avere un bel maschietto… o magari una bambina. Se mi ridai la spazzola, ti aggiusto i capelli.

– Grazie – rispose Rosalind. – Sarà meglio che tu raggiunga la mamma. Non sta bene che una signorina fidanzata si prenda cura di una ragazza che non lo è.

– Ma andiamo – ribatté Perdita ritrovando il suo buon umore. – Io ho Arthur che si prende cura di me. Hai più bisogno tu del mio aiuto che io del tuo.

Ma la sorella la spinse fuori.

 

E a quel punto, finalmente sola, Rosalind può scoppiare in lacrime e sfogarsi un po’, in modo tale che al ritorno di Perdita insiste e riesce ad aiutarla a vestirsi con quanto di più bello abbia e ad accettare un suo merletto, per apparire degna della scelta del pretendente. “Assolse tali servigi con laconico rigore, ma si trattò appunto di puri servigi, intesi a chieder perdono, a offrire riparazione; e non ne prestò più altri”. Di nuovo il non detto, il non espresso che però resta sotteso al di là di ogni buona intenzione cosciente: aveva ragione Perdita a dire “Preferirei che mi maledicessi di tutto cuore”: quel che cova lì davanti allo specchio è quasi un atto di magia ritmato da auguri sinistri: “Ti auguro ogni felicità e lunghissima vita […] una lunga vita e un mucchio di figli”.

Non troviamo qui ancora il quadro di oppressive convenzioni sociali – legate anche al fronte dei passaggi di eredità – che non troppi anni dopo renderà un dramma il matrimonio di una sorella minore prima della maggiore (pensiamo a certe storie di Jane Austen), nell’ambito di un progressivo irrigidimento della condizione femminile dal Sette all’Ottocento: però certo la situazione di Rosalind è doppiamente difficile, sul piano psicologico come di giudizi collettivi.

Viene stabilita la data del matrimonio per l’aprile che viene, ma Lloyd è molto preso da impegni d’affari e insomma lo spettacolo delle tenerezze con Perdita fa soffrire Rosalind meno di quanto temuto. Del resto, verso di lei Lloyd ha la coscienza tranquilla, non c’è mai stato alcunché d’ambiguo e non nutre sospetti di un affetto diverso da quello fraterno. “Arthur si sentiva del tutto a suo agio: la vita prometteva così bene, sia dal lato domestico che finanziario!”, dove certo emerge il ritratto di un amabile babbeo incapace di empatia, e che non avverte una serie di rischi. Quelli grandi come quelli piccoli, quelli collettivi come quelli personalissimi: si è ancora lontani dal clima della Rivoluzione americana, e non avverte motivo di drammi familiari.

“Intanto in casa della signora Wingrave più che mai frusciavano sete, risuonavano i colpi secchi delle forbici, gli aghi correvano veloci. La brava signora aveva deciso che la figliola dovesse portarsi via di casa il corredo più elegante che i suoi mezzi le consentissero o che la contrada potesse fornire”. Inevitabile, di nuovo, pensare a Hawthorne: in particolare quello della Lettera scarlatta, dove il giudizio si attacca a un pezzo di stoffa, visto che la lettera scarlatta viene indossata. I sobri puritani, la cui enfasi sull’interiorità bandisce ogni vezzo esteriore, restano perplessi e tuttavia sottilmente intrigati dal gusto barocco di Hester Prynne, quella dimensione creativa che lei trasfonde nelle decorazioni, pizzi e trine degli abiti con cui si guadagnerà da vivere e nel design di moda della stessa lettera scarlatta che porta sull’abito. La voce narrante ne sorride, è una sorta di piccolo regalo che la sua eroina concede a se stessa, un assaggio di Bellezza. Qualcosa che però può in fondo richiamare a un’altra dimensione creativa nel segno del gusto e della Bellezza, la scrittura che aiuta a uscire dalle gabbie asfittiche del moralismo.

Teniamo ancora presente il titolo di questo racconto, “The Romance of Certain Old Clothes”, ma anche La lettera scarlatta è presentata nel sottotitolo originario come A Romance: parliamo cioè una narrazione allegorica, visionaria, se vogliamo fantastica ed ecco il rapporto col gotico del perturbante, non di un novel con le tipiche caratteristiche di attenzione alla concretezza sociale. E il frutto proibito circonfuso d’indicibile non è, come nella Lettera scarlatta, una trasgressione sessuale – per quanto astratta in chiave mitica e quasi onirica – ma qualcosa denunciato insospettabilmente fin dal titolo.

Tutti questi preparativi in vista del matrimonio, compresi i consulti con le comari dei dintorni, non possono che far soffrire Rosalind, che oltretutto per gli abiti nutre “una passione smodata e un gusto assolutamente squisiti, come sua sorella sapeva benissimo”: tanto più che Rosalind è alta, “maestosa e fiorente” e sembrava “fatta per portar rigidi broccati e ricche trine pesanti” – e dunque da quei conciliaboli tra madame cerca solo di astrarsi. Quando poi arriva a casa “un bel taglio di seta bianca damascata in turchino e argento, mandato dal fidanzato stesso, giacché a quei tempi non si considerava sconveniente che lo sposo prescelto contribuisse al corredo della sua promessa”, Perdita si rattrista di non sapere immaginare come utilizzarlo degnamente, andrebbe meglio a Rosalind – che, stimolata, a quel punto inizia a intervenire con competenza su tanta meraviglia di sete, rasi, mussole, velluti e merletti, senza una parola d’invidia. “Grazie ai suoi sforzi, il giorno delle nozze Perdita era pronta a sposare vanità mondane in numero superiore a qualsiasi altra emozionata fanciulla che mai avesse affrontato la benedizione sacramentale di un ecclesiastico del New England”.

Si è convenuto che la coppia passi i primi giorni dopo il matrimonio nella villa di un amico scapolo inglese di Lloyd, quindi dopo il rito Perdita torna alla casa materna per indossare un abito da amazzone. Rosalind la aiuta, ma poi non scende a salutarla: Perdita risale in casa, torna alla stanza e la trova in piedi davanti allo specchio, abbigliata con velo e ghirlanda da sposa lasciati dalla sorella per riprenderli al ritorno dalla campagna. Anzi, attorno al collo ha il pesante filo di perle donato come dono nuziale dal marito a Perdita – che resta in piedi sbigottita, fissando la sorella che si contempla nello specchio, come in un triste teatro,

 

scorgendovi Dio sa quali visioni audaci. Perdita ne fu orripilata. Vide risorgere l’odioso spettacolo della loro antica rivalità. Fece un passo verso la sorella, come per strapparle di dosso velo e fiori. Ma, incontrando nello specchio gli occhi di Rosalind, s’arrestò.

– Addio, cocca, – disse. – potevi almeno aspettare che fossi uscita di casa –. E abbandonò di corsa la stanza.

 

Notiamo di nuovo il tema dello specchio, rivelatore di verità imbarazzanti e dunque nascoste: Rosalind è la donna dello specchio, la sua magia è tutta lì, laddove Perdita si servirà di altri medium.

Nel primo anno di matrimonio, la distanza di venti miglia da Boston dove Lloyd ha acquistato una magnifica casa è sufficiente, coi mezzi limitati del tempo, a rendere rari gli incontri con la famiglia della madre di Perdita. E intanto Rosalind, afflitta da una terribile depressione, viene spedita dai parenti di New York per farla un po’ distrarre. Fa ritorno a casa in occasione del matrimonio del fratello, in apparenza guarita, e viene anche il cognato senza Perdita, che sta per partorire – e, serio e pensieroso com’è in quel momento, Rosalind lo trova particolarmente interessante. Una serietà che d’altronde non gli impedisce di notare lo scarto tra la bella e opulenta Rosalind (vestita oltretutto con scintillante eleganza, grazie a una cifra corrispondente a quella spesa per la sorella) e la sposina sofferente a casa, in faticosa gravidanza.

Il giorno dopo il matrimonio Arthur porta dunque con sé Rosalind per una cavalcata: avendo perso a un certo punto la strada, tornano al crepuscolo. La signora Wingrave li accoglie preoccupata, a mezzogiorno è giunto un messaggio da Perdita, sono iniziate le doglie: Arthur si mangia le mani e ingoiato un rapido boccone monta a cavallo, arrivando a casa a mezzanotte. Il parto è già avvenuto, è nata una bimba: la moglie gli domanda perché non sia stato con lei, e lui spiega candido – teniamo presente che non conosce la dinamica tra le due sorelle, o almeno non vi bada – di essere stato fuori con Rosalind. “La moglie emise un debole lamento e gli volse le spalle”, ma nonostante tutto la sua ripresa procede per una settimana… Salvo poi interrompersi e crollare, “fosse per un eccesso di dieta o per un’infreddatura”, e il disperato Arthur deve constatare che Perdita è vicina alla morte.

Lei dichiara di esservi rassegnata, e tre giorni dopo il peggioramento annuncia di sentire che non passerà la notte: fa allontanare la madre e i domestici e tiene accanto solo la piccola e il marito. Commenta che pare strano davanti al bel fuoco nel camino non ritrovare vita: tutto il fuoco che lei aveva dentro l’ha donato a quella “piccola favilla mortale”. Poi fissa il marito con sguardo penetrante, sospettoso: “Non era riuscita a riprendersi dal colpo infertole da Arthur quando egli le aveva detto che nell’ora del suo travaglio era stato con Rosalind”. Pur avendo fiducia in lui,

 

ora, sul punto di scomparire per sempre, provava nei confronti della sorella un senso di gelido terrore. Intuiva nell’intimo che Rosalind non aveva mai cessato d’invidiarle la sua buona sorte; un anno di serena sicurezza non aveva cancellato in lei l’immagine della fanciulla ornata dei suoi paramenti nuziali, sorridente di finto trionfo.

 

Chiaro che adesso che Arthur resta solo e afflitto la sorella – bella, seducente – si allargherà. Guardando lui ora, desolato e piangente, pare difficile “dubitare della sua costanza”, e del resto “lui non è fatto per una come Rosalind […] lei non lo ama veramente: ama soltanto i fronzoli, i bei vestiti, i gioielli”; e guardando gli anelli donatile dal marito e le crespe di merletto sulla camicia da notte considera che la sorella tiene più a quelle cose che a lui. “Fu come se, in quel momento, al pensiero dell’avidità della sorella, un’ombra scura si frapponesse tra Perdita e il corpicino indifeso della piccola”: e chiede al marito di toglierle gli anelli e, con tutti i suoi merletti, le sue sete, quel meraviglioso guardaroba che non ha uguali nella provincia, di destinarli come preziosa eredità alla figlia quando sarà donna. Quella spoliazione è rivelativa: a Perdita non interessano gli abiti in sé, ma la loro forza simbolica che passa al frutto del suo grembo.

Dal letto, argomenta: “Alcune di quelle cose un uomo può permettersi di comprarle una sola volta: se andassero perdute non le vedresti mai più. Perciò dovrai custodirle gelosamente”. Per la sorella ha lasciato comunque una dozzina di capi, specificando alla madre quali siano: compreso quell’abito azzurro e argento che era proprio fatto per Rosalind, mentre lei la faceva sembrar malata (una stoffa mandata dal marito, e che finisce con l’avere un tragico valore di prefigurazione del volto cereo di Perdita e di un futuro status per Rosalind). Ma tutto il resto dev’essere per la piccola, fortunatamente dotata della sua stessa carnagione e colore degli occhi. Dopo una ventina d’anni si sa che la roba torna di moda: e canfora e foglie di rosa, nel buio del cassone, conserveranno tutto. Chiede dunque che le prometta di conservare quei vestiti, ché non vadano dispersi: la madre “provvederà a farli avvolgere bene”, e lui li terrà in disparte, sotto chiave, nel cassone listato di ferro del solaio. Madre e governante consegneranno a lui la chiave, che lui darà solo alla figlia. Al marito, “stupito della forza con cui la moglie pareva aggrapparsi a quell’idea” fa promettere e poi giurare tutto quello, poi conclude che si fida di lui, con sguardo supplichevole.

“Arthur sopportò il suo lutto con virile fermezza”, e un mese dopo la morte della moglie alcune circostanze legate al lavoro lo richiamano in Inghilterra, dove passa quasi un anno – e la piccola viene accudita dalla nonna. Al ritorno, lui riapre casa e annuncia “l’intenzione di mantenere lo stesso tenore di vita che aveva prima della morte della moglie”. Alle voce che si sarebbe risposato, almeno una decina di fanciulle prendono a ronzargli attorno e “non si può davvero dire che fosse colpa loro se, nei sei mesi successivi al suo ritorno, la previsione non si avverò”. Continua a lasciare la piccina alla nonna, “la quale asseriva che un cambiamento d’ambiente in così tenera età poteva nuocere”, ma poi il senso di mancanza per il padre è troppo forte e la manda a prendere dalla governante. Per far fronte ai timori della madre preoccupata della piccola, Rosalind la accompagna annunciando che tornerà l’indomani, salvo invece restare a Boston per tutta la settimana e tornare a casa solo per prendere del vestiario. Il fatto è che quando mostra di voler allontanarsi la nipotina piange, e Arthur sostiene che il dolore ucciderà la figlia (notiamo che la bambina senza nome è un mero oggetto di una dinamica di giochi di ruolo). “Insomma, l’unica soluzione fu che Rosalind rimanesse con loro finché la piccina si fosse abituata ai visi estranei”: e ci mette due mesi. Solo allora Rosalind si accomiata dal cognato. Beninteso, la madre non era stata affatto contenta, “non era cosa per bene, aveva protestato, in provincia ne parlavano tutti” – anche se poi si era rassegnata alla cosa per il periodo di oggettiva quiete così goduto dalla casa. Il fatto è che il figlio vi ha condotto la moglie, e tra lei e Rosalind “esisteva un’aperta ostilità. Rosalind forse non era un angelo, ma nel trantran quotidiano era abbastanza di buon carattere e, se bisticciava con la moglie di Bernard, non era che non vi fosse provocata”. Il soggiorno presso il cognato risolve il problema: tanto più che le permette di stare accanto alla sua antica fiamma. “Gli acuti sospetti della povera Mrs Lloyd circa i sentimenti di Rosalind per il marito erano stati ancora ben lontani dalla realtà”.

Di quella passione – che passione rimane – Arthur sente l’influsso: l’idea di una fedeltà nell’amore alla defunta non rientra nella sua natura, e dopo non molti giorni di coabitazione con la cognata inizia a convincersi che (a usare il linguaggio del tempo) Rosalind è “diabolicamente bella”. Utilizzi o meno le arti insidiose che la povera Perdita “era stata tentata di attribuirle”, in ogni caso sa muoversi: e la scena di lei che ricama davanti al camino con la piccola sul tappeto che gioca con i gomitoli è un “quadretto affascinante”, che Lloyd sarebbe uno stupido a non notare, tanto più che Rosalind rivela atteggiamenti sapientemente materni verso la piccina. È però dignitosa e per lui quasi inavvicinabile, pronta sempre a ritirarsi mezz’ora dopo cena: e “Se queste erano arti, Rosalind era una grande artista”. Comunque il loro effetto graduale e ben dosato finisce col dar frutto:

 

parecchie settimane trascorsero prima che Rosalind cominciasse a sentirsi sicura che le sue entrate avrebbero compensato le spese. Allorché ne fu intimamente persuasa, fece il baule e riprese la via di casa. Per tre giorni aspettò; al quarto giorno Mr Lloyd comparve, pretendente rispettoso ma pieno d’ardore. Rosalind lo stette ad ascoltare con grande umiltà e lo accettò con infinita modestia. È difficile supporre che Mrs Lloyd avrebbe perdonato il marito; ma se qualcosa avesse potuto annullare quel risentimento, sarebbe stato il comportamento cerimonioso di quell’incontro. Rosalind impose al fidanzato un periodo d’attesa assai breve. Si sposarono, com’era doveroso, con una cerimonia molto intima – quasi in segreto –, forse nella speranza che, come si disse allora per celia, la defunta Mrs Lloyd non lo venisse a sapere.

Il matrimonio appariva felice sotto ogni aspetto: ognuno dei contraenti aveva ottenuto ciò che aveva desiderato: Lloyd “una donna diabolicamente bella”, e Rosalind… ma i desideri di Rosalind, come il lettore avrà osservato, sono rimasti un bel mistero.

 

Con due nubi sulla loro felicità, anche se forse il tempo le avrebbe dissolte. Nei primi tre anni, Rosalind non riesce a diventare madre, ma intanto il marito subisce pesanti perdite di denaro, col risultato di una diminuzione delle spese, “e Rosalind dovette adattarsi a non essere la gran signora ch’era stata sua sorella”. Regge comunque bene la parte della signora elegante, anche se ha scoperto con dispetto che il meraviglioso guardaroba di sua sorella è requisito a beneficio della figlia.

Per parecchi mesi non parla della questione al marito, ma, quando la evoca, lo fa in termini timidi: gran peccato che tante meraviglie vadano perdute, scolorite, mangiate dalle tarme, private di valore dal mutare della moda. Però il rifiuto secco di Lloyd le fa archiviare la questione, almeno temporaneamente; passano altri sei mesi, e i pensieri di Rosalind sono sempre lì al cassone, che sale a contemplare come un oscuro oggetto del desiderio – chiuso con tre grossi lucchetti e fasce di ferro, percosso con la scarpina si rivela favolosamente pieno. Eccolo l’oggetto perturbante e sostitutivo della morta, quasi a imitare la statua di Ermione del Racconto d’inverno. Trovando tutto ciò un’ingiustizia e una cattiveria, Rosalind decide dunque di ripartire all’attacco con il marito: ma quando l’indomani solleva la questione, lui la interrompe severo – non se ne parla. Lei ribatte d’essere “lieta di sapere in quale considerazione sono tenuta”, si sente “davvero una donna felice […] sacrificata a un capriccio”, e inizia a lacrimare di stizza e delusione. Al che il marito, che “come tutti gli uomini di buon cuore, nutriva orrore dei singhiozzi di una donna” si risolve a spiegare che è stata una promessa, un giuramento a Perdita: e a quel punto Rosalind prorompe in singhiozzi convulsi “che erano il seguito lungamente differito della violenta crisi di pianto cui s’era abbandonata la sera che aveva scoperto il fidanzamento della sorella”. Pensava di aver chiuso con la gelosia, che invece riemerge selvaggia: chiede che diritto avesse Perdita di disporre del suo avvenire e di obbligare lui a essere meschino e crudele. “Ah, occupo davvero un posto ben degno, ci faccio una gran bella figura! Mi si chiede di prendere il posto che Perdita ha lasciato! E che cosa ha lasciato, dopo tutto? Mai come ora m’ero resa conto di quanto poco ha lasciato!”, non ha lasciato niente… Per quanto il discorso sia illogico, non è perciò meno appassionato: Adamo/Lloyd cerca di baciarla e Rosalind/Eva lo respinge. Ha desiderato la donna “diabolicamente bella” e l’ha trovata… per cui si ritira confuso verso lo scrittoio, dov’è la chiave del cassone, chiusa in un pacchetto col suo sigillo gentilizio (“Je garde, ne era il motto”). La prende, si vergogna di rimetterla a posto – un’abdicazione che tradisce il suo stesso motto di famiglia – e la getta sul tavolo davanti alla moglie: lei ribatte di tenersela, la odia, lui dichiara di lavarsene le mani, “E che Dio mi perdoni”. Poi i due, come in una scena teatrale, abbandonano la stanza, ciascuno da una porta diversa: e quando lei vi rientra, trova la bambinaia e la piccola, che impossessatasi del pacchetto ha spezzato il sigillo con le manine. Può sembrare una simbolica autorizzazione: Rosalind si impossessa della chiave del frutto proibito.

All’ora di cena Lloyd esce dall’ufficio, ma è giugno e c’è ancora luce. Le pietanze sono in tavola, ma Rosalind non c’è e il domestico non la trova – in apparenza manca da tutto il pomeriggio. Anche il marito la cerca invano e gli viene in mente di poterla trovare in solaio, dove sale da solo. La chiama senza risultati dalla rampa e gli trema la voce: notiamo questa sua inquietudine, quasi paura, che annuncia il rapporto con il Perturbante ma insieme la trasgressione alle regole del Giardino. Sale dunque al vano tappezzato di armadiature (che, piene di abiti e biancheria, stanno alla situazione come gli alberi non interdetti dell’Eden), che termina con una finestra a occidente: il baule è lì davanti e la moglie vi sta di fronte in ginocchio. Incapace di emettere un suono, Arthur la raggiunge: il coperchio è sollevato a mostrare i tesori di Perdita, ma Rosalind ora è caduta riversa, una mano a terra e una sul cuore.

 

Le sue membra erano mortalmente rigide: sul suo volto, nella luce del sole al declino, c’era il terrore di qualcosa di peggio della morte. Le labbra erano dischiuse come in una supplica, in un’espressione d’angoscia e d’agonia; sulla fronte e sulle gote esangui spiccavano i segni di dieci orribili ferite cagionate dalle mani di un fantasma vendicatore.

 

A questo punto il titolo, “La romanzesca storia di certi vecchi vestiti”, rivela la sua misura sorniona e ironica. Si è osservato che il riferimento al romanzesco fa pensare alla scelta del primo Hawthorne di mescolare prodigioso e reale, anche se in Hawthorne un po’ tutta l’atmosfera è pregna di visionario, qui l’elemento sovrannaturale arriva solo in chiusura. Ma è pur vero che già nel discorso finale di Perdita, e se vogliamo fin dagli auguri – sinceri ma sinistri – formulati da Rosalind alla sorella davanti allo specchio un fiato di fatalità vagamente magico, da maledizione antica ristagna nell’aria. E in fondo il preludio è già in quella contesa tra le sorelle in apparenza tanto educata e contrassegnata da bon ton e parvenze di affetto: proprio Hawthorne era stato maestro nell’impastare fantasmi nel linguaggio.

D’altronde la dimensione perturbante – i rancori dei morti richiamati in una storia di rivalità tra sorelle – sedimenta negli abiti e particolarmente in quella raccolta proibita dove le foglie di rosa impediscono all’altra rosa, Rosalind, di accedere.

]]>
Un François Rabelais del West https://www.carmillaonline.com/2021/10/27/un-francois-rabelais-del-west/ Wed, 27 Oct 2021 20:00:34 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=68668 di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, [...]]]> di Sandro Moiso

Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, (a cura di Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea), Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 128, 10,00 euro

Prima che la cancel culture oggi di moda finisca col proibire la circolazione delle sue opere, sarà bene dare uno sguardo a questo testo minore di Mark Twain, stampato a firma anonima per la prima volta in un numero limitato di copie nel 1880, e agli altri cinque testi allegati all’attuale edizione italiana. Infatti, anche se negli Stati Uniti è stata proposta la rimozione dalle biblioteche, per il presunto razzismo ravvisabile nelle sue pagine, di Le avventure di Huckleberry Finn, ritenuto invece da T. S. Eliot “un capolavoro” e da Ernest Hemingway il romanzo capostipite della letteratura statunitense moderna, la raccolta antologica, proposta da Mattioli 1885 e fino ad oggi inedita in Italia, conferma il ruolo di provocazione e dissacrazione svolto dallo scrittore nordamericano nei confronti della cultura piccoloborghese, bigotta e perbenista statunitense, di ieri e di oggi.

Nel caso specifico l’obiettivo è quello di smascherare il puritanesimo perbenista del mondo letterario statunitense della seconda parte dell’800 che, pur fingendosi colto e attento alla grande letteratura del passato europeo, finiva con lo scandalizzarsi davanti all’uso di qualsiasi parola o frase che non rispettasse le regole del bon ton e del perbenismo borghese (e se ciò suggerisce al lettore alcuni atteggiamenti riferibili al fraseggio politically correct attuale, sappia che questo è proprio l’effetto che la presente breve recensione intende ottenere).

L’occasione per la stesura del testo che dà il titolo alla breve antologia, ce lo spiegano bene i curatori del volume e il successivo commento di Franklin J. Meine, intitolato non a caso Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana1, fu fornita all’autore dalla lamentela espressa dal direttore di una rivista dell’epoca sul fatto che alla letteratura americana mancasse un autore del calibro di Rabelais.
Detto fatto: Mark Twain, nato Samuel L. Clemens e che amava definirsi come «nato irriverente», confezionò su misura un breve ma strabordante testo nello stile dell’autore francese del XVI secolo e lo inviò al medesimo direttore. Che, naturalmente, espresse giudizi feroci e sarcastici sul manoscritto e sul suo autore.

1601, o come recitava per intero il titolo corretto e completo Una conversazione, come la si faceva accanto al caminetto, al tempo dei Tudor, descrive una piacevole serata alla corte della regina Elisabetta I, ormai vecchia, circondata da personaggi quali Francis Bacon, Sir Walter Raleigh, Ben Johnson, Francis Beaumonte, la duchessa di Bilgewater (26 anni), la contessa di Granby (30) e sua figlia Lady Helen (15), due damigelle d’onore [Lady Margery Boothy (65) e Lady Alice Dilberry (70)] e William Shakespeare (qui rinominato Shaxpur). Tutti i personaggi sono reali e soltanto colui che tiene il diario della serata resta anonimo, anche se, a detta di Twain, è chiaramente ispirato alla figura di Samuel Pepys, un politico e scrittore inglese del secolo successivo che oggi è ricordato soprattutto per il suo Journal, il diario tenuto tra il 1° gennaio 1660 e il 31 maggio 1669, in cui si dimostrò capace di mescolare con grande abilità e naturalezza le osservazioni di carattere personale con quelle riguardanti i grandi avvenimenti di cui fu testimone. Diario di cui lo scrittore americano fu un avido ed erudito lettore.

Fin qui nulla di strano se non fosse che, al contrario di quanto potrebbe attendersi il lettore, l’argomento non è costituito dagli affari interni, dalla politica internazionale, dalla scienza, dal teatro o dalla cultura classica. Niente affatto. Qui, invece, si parla disinvoltamente della qualità ed intensità di scoregge, organi genitali maschili e femminili, amplessi più o meno focosi, abitudini sessuali e matrimoniali di altri popoli e delle perversioni in uso all’epoca della decadenza dell’impero romano. Senza scandalo alcuno e nella più totale naturalezza. Espressa dalla regina quando «ha sollevato le sopracciglia e con grande ironia e con aria smancerosa ha esclamato: Oh, merda! Al che tutti sono scoppiati a ridere, tranne Lady Alice»2.

Il testo, dopo l’invio al direttore della rivista, fu stampato una prima volta in tiratura limitatissima presso la tipografia dell’accademia militare di West Point grazie al tenente C.E.S. Wood che la dirigeva e che suggerì allo stesso Twain «di pubblicarlo come se si trattasse di un libro di età elisabettiana con caratteri ortografici obsoleti creati appositamente a mano. Inoltre Wood fece anche macerare dei fogli di carta di lino nel caffè allungato e in altri intrugli, facendoli poi seccare in modo da far sembrare che la carta fosse antica di quattro secoli»3.

Al di là della beffa contenuta nello stesso processo di falsificazione, c’è da dire che l’operazione riuscì a tal punto che ancora nel 1906, ventisei anni dopo la sua prima pubblicazione, fu lo stesso Mark Twain a dover chiarire, in una lettera indirizzata a Charles Orr, bibliotecario della Case Library di Cleveland, che: «Il titolo del pezzo è 1601. Consiste in una conversazione inventata di sana pianta che sarebbe avvenuta, esattamente in quell’anno, nel salottino della regina Elisabetta […] e non è, come John Hay suppone erroneamente, un serio tentativo di riportare la nostra letteratura e la nostra filosofia a i tempi sobri e casti di Elisabetta; se in quelle pagine si trova una sola parola decente, è solo perché m’è sfuggita»4.

D’altra parte come ebbe a sottolineare, successivamente alla prima pubblicazione del testo, lo stesso C. E. S. Wood:

Se ho compreso bene il fermento e l’inquietudine intellettuale di cui 1601 è il frutto, direi che la struttura intellettuale e lo strato subconscio più profondo derivassero dagli Anglosassoni, tanto primitivi quanto l’uomo comune del periodo Tudor. Mark Twain veniva dalle rive del Mississippi – dai marinai dei battelli a fondo piatto, dai piloti, dagli scaricatori di porto, dagli agricoltori e dai villaggi popolati da gente rozza e primitiva – esattamente come Lincoln.
Finì nei campi minerari dell’Ovest tra postiglioni di diligenze, giocatori d’azzardo e gli uomini del ’495. Aveva nel sangue e nel cervello la semplice ruvidità di un popolo di frontiera.
Quelle che alle orecchie altrui risuonano come parole volgari e offensive, per lui erano un linguaggio comune. […] Un simile linguaggio è energico e vigoroso, ed efficace, come lo sono tutte le parole primitive. L’affinamento rende meno espressivi, più deboli – o diciamo meno taglienti – ma le volgari parole monosillabiche cadono giù spietate come il colpo d’ascia di un pioniere, e MT era esattamente questo. Quindi credo che 1601 sia il frutto dell’umorismo, della satira e dell’odio del puritanesimo che in MT sono così profondi e istintivi. […] Ogni parola che troviamo in 1601 era utilizzata dai nostri rozzi pionieri in quanto facevano parte del loro vocabolario – e nessuna parola è stata mai inventata dall’uomo con intenti osceni, ma solo come linguaggio per esprmere meglio quello che intendeva dire. Nessun atto della natura è osceno in sé […] Credo anche che MT si divertisse a scandalizzare – ad affibbiare schiaffi sonori a ciò che Chaucer avrebbe semplicemente definito la “nuda realtà”6.

A completamento di quanto sino ad ora detto, vale la pena di citare ancora una volta lo stesso Twain che, avendo studiato in maniera approfondita i modi di fare e la mentalità sia maschile che femminile della cosiddetta “età aurea” della regina Elisabetta I, nel quarto capitolo del suo romanzo Uno yankee alla corte di re Artù, a proposito di una conversazione presso la famosa Tavola Rotonda, può permettersi di scrivere:

molti dei termini usati con la più grande disinvoltura da quella grande assemblea di dame e di gentiluomini di prim’ordine, ebbene, avrebbero fatto arrossire anche un comanche.
Indelicatezza? No, è un termine troppo blando per rendere l’idea. Certo, anch’io avevo letto Tom Jones e Roderick Random e altri libri del genere7, e quindi sapevo che in Inghilterra, per lo meno fino a un centinaio di anni fa, le dame e i gentiluomini inglesi, anche i più raffinati, indulgevano in un linguaggio piuttosto scurrile e volgare, con ciò che implicava anche nell’ambito morale e di comportamento. Anzi, a essere sinceri, tale andazzo e proseguito anche nel nostro secolo XIX – quando, in linea di massima, nella storia dell’Inghilterra, o dell’Europa intera, hanno finalmente iniziato a fare la loro comparsa i primi esemplari di vere gentildonne e veri gentiluomini8. Pensate un po’…e se Walter Scott, invece d’infilare a martellate quelle conversazioni di sua invenzione nella bocca dei suoi personaggi, avesse permesso loro di esprimersi come volevano? Il modo di parlare di Rebecca, di Ivanhoe e della dolce Lady Rowena avrebbe imbarazzato persino uno scaricatore di porto dei nostri giorni9.

Al di là dell’ironia nei confronti delle vere gentildonne e dei veri gentiluomini del neo-puritanesimo borghese, è chiaro che a cadere sotto l’ascia da pioniere di Mark Twain è proprio colui che è ritenuto il padre di quel “romanzo storico” che, a partire dalla prima metà dell’Ottocento, avrebbe contribuito a ricostruire una storia nazional-popolare in chiave borghese. Percorso del quale Alessandro Manzoni fu in Italia esponente e precursore. Con tutte le conseguenze relative alla rimozione di linguaggi, mentalità e comportamenti considerati “disturbanti” all’interno delle reali classi sociali, basse o alte che fossero.

Non solo: vi è in Mark Twain la chiara e precisa volontà di reintrodurre nella letteratura un linguaggio vero, autentico e reale, a differenza, ad esempio, del Manzoni appena citato che, invece, fece di tutto per reinventarlo allo scopo di dare all’Italia una lingua “nazionale” (che spesso ancora oggi e con tanta difficoltà occorre imprimere a scuola nelle giovani menti). Rivendicazione che si affiancava al tentativo di Walt Whitman di ricorrere a livello poetico al linguaggio quotidiano e che avrebbe così tanto caratterizzato buona parte della letteratura e della poesia americana moderna (con buona pace di Henry James che per poter trattare temi relativi alla coscienza e alla moralità “borghese” fu costretto a trovar rifugio sulle sponde europee)10.

Ecco allora che per contrastare il neo-puritanesimo accluso al pacchetto del politically correct perbenista, Mark Twai può ancora rivelarsi utile e dilettevole. Come dimostra magnificamente la feroce critica rivolta alla religione cristiana e alla bigotteria contenuta in uno dei racconti più divertenti tra quelli compresi nell’antologia, La piccola Bessie, in cui una bimba di appena tre anni, con le sue imbarazzanti domande alla madre, mette in crisi gran parte delle verità della fede rivelata.


  1. Franklin J. Meine, Mark Twain, il ragazzaccio della cultura americana in Mark Twain, 1601. Conversazioni davanti al fuoco, Mattioli 1885, Fidenza (PR), pp. 17-42  

  2. M. Twain, 1601.Conversazionii davanti al fuoco, op. cit., p.63  

  3. Livio Crescenzi e Marianna D’Andrea, Introduzione a M. Twain, op.cit., p. 13  

  4. Cit. da Franklin J. Meine in M. Twain, op. cit., p. 19  

  5. Il 1849 fu l’anno della corsa all’oro in California – N.d.R.  

  6. Ivi, pp. 27-28  

  7. Si tenga presente che a narrare l’evento è il protagonista del romanzo stesso. I due romanzi citati, Tom Jones di Henry Fielding e Roderick Random di Tobias Smollett, uscirono, rispettivamente in Inghilterra nel 1749 e nel 1748 – N.d.R.  

  8. Corsivo ad opera del redattore di questo testo  

  9. Mark Twain, Uno yankee alla corte di re Artù, Mattioli 1885, 2020, pp. 44-45 cit. in F. J. Meine, op.cit., pp. 29-30  

  10. Per quanto riguarda Walt Whitman si veda invece qui su Carmilla  

]]>
Lo spazio dell’immaginario nella notte della felicità https://www.carmillaonline.com/2020/04/27/lo-spazio-dellimmaginario-nella-notte-della-felicita/ Mon, 27 Apr 2020 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=59696 di Paolo Lago

Tabish Khair, La notte della felicità, traduzione di Adalinda Gasparini, Tunuè, Latina, 2020, pp. 121, € 14,50.

La notte della felicità di Tabish Khair è un romanzo meravigliosamente sospeso fra ambiguità e lucidità. Come scrive Tzvetan Todorov, “ci sono testi che mantengono l’ambiguità fino alla fine, il che vuol dire anche al di là. Richiuso il libro rimarrà l’ambiguità”. Todorov si riferisce al Giro di vite di Henry James, il quale “non ci consentirà di decidere se dei fantasmi si aggirano nella vecchia proprietà o se si tratta di allucinazioni [...]]]> di Paolo Lago

Tabish Khair, La notte della felicità, traduzione di Adalinda Gasparini, Tunuè, Latina, 2020, pp. 121, € 14,50.

La notte della felicità di Tabish Khair è un romanzo meravigliosamente sospeso fra ambiguità e lucidità. Come scrive Tzvetan Todorov, “ci sono testi che mantengono l’ambiguità fino alla fine, il che vuol dire anche al di là. Richiuso il libro rimarrà l’ambiguità”. Todorov si riferisce al Giro di vite di Henry James, il quale “non ci consentirà di decidere se dei fantasmi si aggirano nella vecchia proprietà o se si tratta di allucinazioni dell’istitutrice, vittima del clima inquietante che la circonda”. Anche il romanzo di Khair che, come leggiamo nel risvolto di copertina, si situa vicino alle “ghost stories ‘senza fantasma’ di James, Du Maurier e Byatt”, mette in scena un clima di ambiguità attraversato però da uno sfondo sociale guardato con estrema e disincantata lucidità.

La narrazione si affida all’espediente del manoscritto ritrovato, utilizzato assai spesso in letteratura, da Potocki fino a Poe e Manzoni. L’incipit è costituito da un’apostrofe al lettore, il quale viene descritto nell’entrare in una stanza di un albergo a cinque stelle di Mumbai, in India: “Comincia così… Entri nella stanza. Chi sei? Potresti essere chiunque”, vale a dire “un uomo d’affari o un amministratore delegato di passaggio per una sola notte”, “un medico di successo”, “un comune turista”, “uno scrittore” al quale viene offerto il pernottamento dagli organizzatori di un festival letterario, “un dipendente, magari uno dei responsabili di livello più basso, mandato a verificare che il bar sia rifornito come si deve”. Basta che questo “chiunque” o “quasi chiunque” apra il primo cassetto del comodino accanto al letto per trovare una risma di carta tutta scritta a mano, accanto a una Bibbia e a un Bhagavad Gita. Il titolo del manoscritto “è accattivante” ed è stato barrato: “L’infinità spettrale delle piccole distanze”. Il fascino di questo titolo, probabilmente, sta in due parole che si pongono in serrato contrasto: “infinità” e “piccole”. Inoltre, l’aggettivo “spettrale” introduce il tema di un fantastico e di un immaginario incastonato nella realtà scontata e quotidiana come a voler dire che nel “piccolo”, nel consueto, si può riscoprire un’inedita e inesausta fonte di immaginario. L’autore del manoscritto è Anil, uno dei protagonisti del romanzo. È un uomo razionale, un ricco capo d’azienda che vive in una casa elegante e gira in auto con l’autista. È lui ad aver scritto quelle fitte pagine. La sua azienda si è accresciuta e ha raggiunto un buon successo grazie anche all’aiuto di un suo dipendente musulmano, Ahmed, divenuto nel tempo il suo braccio destro. Ahmed è un uomo schivo e silenzioso, connotato da una calma e da una saggezza fuori del comune. La sera della festa musulmana di Shab-e-baraat, Anil accompagna Ahmed a casa sua a causa di un forte temporale e viene invitato dal suo dipendente a entrare per assaggiare un gustoso dolce, l’halwa, preparato dalla moglie Roshni.

Appena varca la soglia della casa di Ahmed, il personaggio si ritrova quasi proiettato in un’altra dimensione, in cui vige il fantastico e l’immaginario: “Mi sembrò davvero, allora, di entrare in una sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente, come quando ci si tuffa in una piscina, o si tratta di un pensiero che solo ora associo al mio ingresso in quella casa?”. È come se Anil fosse entrato all’interno di una “eterotopia”, cioè uno “spazio altro” che, secondo l’analisi di Michel Foucault, si configura come un luogo reale, separato dal normale contesto quotidiano, “una specie di contestazione al contempo mitica e reale dello spazio in cui viviamo”. Lo spazio della casa di Ahmed è come attraversato da una “sostanza più densa e vischiosa, qualcosa di più resistente”, quindi, per certi aspetti, si potrebbe anche configurare come uno spazio di resistenza, uno spazio, per utilizzare un termine di Foucault, di “contestazione”. In cucina, la moglie sta preparando l’halwa e non si mostrerà al suo ospite per rispettare l’osservanza musulmana della purdah, la pratica che vieta agli uomini di vedere le donne. La presenza di Roshni assume quindi una consistenza spettrale, immaginifica, relegata entro la soglia di una sostanza incorporea. Ma è un avvenimento – che qui non sveleremo – che mette in crisi la razionalità di Anil. È in virtù di esso che il ricco capo d’azienda comincia a nutrire forti sospetti nei confronti di Ahmed, addirittura sulla sua sanità mentale. Come sempre ricorda Todorov riguardo a Aurélia di Gérard de Nerval, il romanzo dello scrittore francese costituisce “un esempio originale e perfetto dell’ambiguità fantastica”: “il raggio d’azione di questa ambiguità è certamente quello della follia”. Forse – continua Todorov – questa follia si configura, in realtà, come una “ragione superiore”. E, lentamente, anche ne La notte della felicità, Anil verrà inglobato dalla “follia” di Ahmed che lo guiderà come una sorta di “ragione superiore”.

Di fronte al ‘perturbamento’ innescato da una dimensione e da un avvenimento per lui incomprensibili, Anil si affida alla razionalità. Ingaggia infatti un suo amico a capo di un’agenzia di investigazioni per cercare delle informazioni sulla vita di Ahmed, il quale si è improvvisamente trasformato in un ‘diverso’, uno ‘strano’, un potenziale nemico per il suo placido e regolato ordine borghese. Il ricco e razionale Anil, di fronte a una dimensione segnata dallo strano, dalla follia e dall’immaginario, risponde con la razionalità dell’investigazione e dello spionaggio. Lo stesso Foucault ricordava che la dimensione dell’eterotopia si contrappone alla rigidità geometrica e razionale della “polizia”, del controllo, dello “spionaggio”. Considerando la nave come “l’eterotopia per eccellenza”, lo studioso francese afferma che “in una società senza navi i sogni si inaridiscono, lo spionaggio si sostituisce all’avventura e lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”. Ahmed, la sua casa e sua moglie Roshni sono quasi gli alfieri di un mondo di sogno, di una “notte della felicità” in cui l’immaginario forse ancora riesce a resistere. Lo “spionaggio” inizia quindi a scandagliare la vita di Ahmed e la narrazione del ‘manoscritto ritrovato’ è intercalata da periodi contrassegnati da uno stile piano e oggettivo, da referto, i quali si inseriscono nel più ampio racconto relativo alla vita del personaggio, segnato da momenti più poetici e immaginifici.

Uno di questi momenti è sicuramente rappresentato dalla descrizione della visita al cimitero in cui riposa il padre di Ahmed. A sua madre Ammajaan viene proibito l’ingresso perché, viene detto, i costumi sono cambiati e la legge islamica ne proibisce l’ingresso alle donne. Ahmed, con la consueta calma, cerca in tutti i modi di far entrare la madre, fino a una vera e propria pratica di resistenza: accompagnare e sorreggere Ammajaan, anziana e stanca, nel percorrere a piedi una squallida e sporca ferrovia per raggiungere un posto, fuori dal cimitero, dal quale si può vedere da lontano la tomba del padre. Di fronte all’assurdo divieto di potersi recare a rendere omaggio alla tomba del padre (che ci può far pensare, per certi aspetti, agli odierni e disumani divieti, in tempo di emergenza da Covid, di recare l’ultimo saluto ai propri cari defunti), viene attuata una pratica di resistenza lenta e silenziosa:

Riesci a immaginarlo? Puoi vedere questa vecchia, col suo equilibrio ormai instabile, camminare lentamente, barcollando, sui binari e tra i binari, quei binari dove si deposita tutto quello che viene buttato dai treni, quei binari che gli indiani poveri usano per defecare, quei binari sui quali, da un momento all’altro, potrebbe arrivare un treno in corsa? E suo figlio che la sorregge, le orecchie tese per udire il minimo rumore di un motore che si avvicina, che si trattiene dal farle fretta e allo stesso tempo vuole che si muova il più velocemente possibile… E poi raggiungono il posto e lei già da lontano riconosce la tomba, congiunge le mani e offre la stessa, immutata preghiera. Poi si voltano e tornano indietro per la stessa via dalla quale sono venuti.

All’interno del racconto, elegantemente ricreato dalla bella traduzione di Adalinda Gasparini, appare anche la dura realtà sociale dell’India contemporanea, attraversata da plaghe di povertà ancora irrisolte e caratterizzata da crudeli scontri sociali, come quelli che vedono la sanguinosa contrapposizione fra indù e musulmani. Attraverso la ricostruzione della vita di Ahmed svolta dal detective appare perciò sotto i nostri occhi anche uno spaccato di vita indiana con le sue usanze e le sue abitudini. Ma la razionalità che scandisce i referti oggettivi ricostruiti dal detective si scontrerà, alla fine, con un nuovo turbine dell’immaginario. Se Anil, infatti, aveva costruito la sua intera esistenza su una base razionale, pratica e realistica, dovrà rifare i conti con se stesso. Il fantastico e l’immaginario, per mezzo di una sorta di oggetto magico, un “portapranzi d’acciaio come quello che Ahmed si portava sempre in ufficio”, lo avvolgeranno completamente in maniera quasi impercettibile. Quindi, accingendosi a narrare la sua storia, egli attua una via di fuga dal suo mondo razionale, freddamente basato sull’economia e sul lavoro (“Ignora la mia storia se vuoi, estraneo, io però non posso ignorarla. E non posso nemmeno raccontarla nel mio solito mondo”). E allora, ‘perturbato’ da Ahmed, questo angelico ed etereo alfiere dell’immaginario che ha sconvolto la sua vita fatta di certezze, Anil, dopo essere quasi riuscito ad entrare in un nuovo spazio liberato, vergherà il suo racconto per poi abbandonarlo in una stanza d’albergo e consegnarlo come un lascito al nostro sguardo di lettori.


Riferimenti bibliografici:

Michel Foucault, Utopie Eterotopie, trad. it. Cronopio, Napoli, 2011.

Tzvetan Todorov, La letteratura fantastica, trad. it. Garzanti, Milano, 2011.

]]>