Henri Bergson – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 16 Nov 2024 23:15:45 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La società dei devianti nell’epoca della prestazione https://www.carmillaonline.com/2016/09/27/la-societa-dei-devianti-nellepoca-della-prestazione/ Tue, 27 Sep 2016 21:30:03 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32708 di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo [...]]]> di Gioacchino Toni

la_società_dei_devianti_cipriano_coverPiero Cipriano, La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante), Elèuthera, Milano, 2016, 248 pagine, € 15,00

Cipriano ha fatto dei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (SPDC), ove lavora, il luogo da cui tentare di capire chi sembra non sapere “stare al mondo”, dunque il luogo da cui, osservandone “gli scarti”, comprendere il mondo stesso, quel mondo cinico e spietato che non solo espelle chi non si adegua, ma è riuscito a renderlo produttivo attraverso le cliniche e, soprattutto, attraverso la chimico-dipendenza spacciata attraverso diagnosi comandate dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM).

Franco Basaglia e Franca Ongaro (La maggioranza deviante, 1971) sostengono che la società considera “devianti” tutti coloro che risultano improduttivi ed al fine di farli comunque partecipare al ciclo produttivo, occorre designarli, quanto più possibile, come “malati”. In tal modo il sistema della produzione può creare le sue cliniche, i suoi ospedali, i suoi “imprenditori della cura e della follia”. Rispetto agli anni ’70, sostiene Cipriano, “l’imprenditoria della salute, della malattia e della follia” è diventata molto più sofisticata. Grazie all’industria del farmaco ai luoghi fisici si sono sostituti, od affiancati, nuovi metodi di internamento. «Dovremmo essere consapevoli, sostiene lo psichiatra inglese Derek Summerfield, che l’ordine politico-economico trae vantaggio quando le sofferenze e i disturbi, che probabilmente sono in rapporto con le sue pratiche o le sue scelte politiche, vengono spostati dallo spazio socio-politico, cioè pubblico e collettivo, a uno spazio mentale, ovvero a una dimensione privata e individuale. Da qui nasce l’ossessione, o la compulsione, o la pulsione, per la diagnosi che semplifica ogni cosa» (p. 14).

Si viene divorati dalla società produttivista non solo se, come afferma Basaglia, si fa parte della classe sbagliata, della famiglia sbagliata, della razza sbaragliata ecc., ma anche, aggiunge Cipriano, su uno si ritrova ad essere «più banalmente, troppo magro o anoressico, obeso, iperattivo, depresso, bipolare, borderline, schizofrenico, schizoide, hikikomori, psicopatico, ovvero nichilista, ovvero terrorista, zingaro che non si adatta, migrante, apolide, rifugiato e così via. A ognuna di queste etichette, spesso, corrisponde un farmaco, o una tecnica psicoterapeutica, o un luogo di rieducazione, identificazione, pena, espulsione, insomma tutti questi devianti riluttanti sono pane, sono guadagno per il mondo dei normali, di coloro che sanno lavorare» (pp. 14-15).

Dopo aver raccontato il manicomio fisico nel libro La fabbrica della cura mentale (Elèuthera, 2013) ed aver ricostruito ne Il manicomio chimico (Elèuthera, 2015) [su Carmilla] i passaggi principali che hanno condotto all’era della psichiatria chimica in cui il paziente assume il manicomio un po’ alla volta, psicofarmaco dopo psicofarmaco, con La società dei devianti (Elèuthera, 2016) Cipriano, che ama definirsi “psichiatra riluttante”, racconta «cos’è questo nuovo manicomio illimitato, che è definitorio, diagnostico, categoriale, che rispecchia questo bisogno diffuso, ubiquitario e condiviso di trovare sempre un’etichetta a ognuno, sia esso disturbo o malattia, etichetta che diventa tatuaggio identitario di un individuo, diventa destino, da cui tutto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che potrà o non potrà fare nella vita» (p. 234).
In particolare, in questo terzo ed ultimo volume di quella che Cipriano definisce “trilogia della riluttanza”, si ricostruisce come la stanchezza esistenziale, sempre più diffusa in questa società votata alla prestazione, sia stata trasformata in “depressione” grazie all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ed al Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) e si lancia una campagna contro la contenzione tramite fasce, pratica molto più diffusa di quel che si pensi.

Non solo gli psichiatri trasformano spesso la tristezza in depressione ma, in generale, ormai chi è semplicemente colto da stanchezza, esaurimento o “mal di vivere”, si sente in dovere di rivendicarsi depresso e di pretendere la relativa cura (chimica). Si potrebbe dire che viviamo in una “società dei malati per forza”, in cui chi si trova in uno stato di sofferenza è pressoché costretto a dichiararsi malato e ad accettarne le conseguenze che il più delle volte si presentano sotto forma di farmaco. Non occorre individuare le cause che determinano uno stato di tristezza; questa viene facilmente trasformata in depressione e la depressione, di questi tempi, richiede farmaci antidepressivi. Non solo non interessano le cause del disagio, ma non interessano nemmeno gli effetti della cura sul lungo periodo: il DSM è la nuova bibbia e chiede solo di essere applicato, senza farsi troppe domande.

Secondo la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità del 1948, la “salute” è «uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, non una mera assenza di malattia» (p. 44). Dunque, sostiene Cipriano, viene da pensare che «i poveri, i miserabili, non possano mai essere in buona salute, date le loro esigue risorse per raggiungere il pieno benessere psichico, fisico e sociale, e che la loro miseria sia già malattia. E che tutti gli africani che si imbarcano sulle carrette per attraversare il Mare Nostrum e raggiungere la fortezza Europa lo facciano per venire incontro al proprio benessere psichico, fisico e sociale, per raggiungere il paese della salute, e sfuggire al loro destino di malati. E noi, noi Stati europei, li respingiamo. Ecco che alcuni esseri umani vengono sottoposti ai Trattamenti Sanitari Obbligatori in nome della salute (psichica) che non hanno, e ad altri esseri umani i trattamenti sanitari vengono negati» (p. 44).

Sempre secondo l’OMS, la depressione è la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra i 15 ed i 44 anni) ma, sostiene Cipriano, non esiste uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali siano le cause e che si tratti in effetti di una malattia. Fin dagli anni ’60 si sostiene che la depressione derivi da un basso livello di serotonina e noradrenalina nel sistema nervoso centrale e, ancora oggi, in mancanza di altre spiegazioni, ci si rifà a tale convinzione. Dagli anni ’50 si è imposta quella che è diventata la “bibbia diagnostica” degli psichiatri: il DSM, opera dell’American Psychiatric Association (APA) e con il DSM-III del 1980 si impone l’abbandono di diverse teorie psicologiche sui disturbi psichici in favore di «un manuale di pura descrizione di sintomi, nudi e crudi. Si compie […] la scelta ideologica di eliminare tutte le diverse teorie e interpretazioni dei disturbi psichici» (p. 45). Dunque, dal 1980, grazie al DSM-III, si è depressi se per un periodo di almeno due settimane si hanno almeno cinque sintomi tra: «umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi;pensieri di morte o di suicidio» (46). Perché cinque sintomi e non meno o di più e perché l’elenco prevede un massimo di nove sintomi non è dato a sapersi.

Nel ripercorrere la “storia della depressione”, Cipriano ricorda come Ippocrate distingua tra tristezza cum causa e tristezza sine causa, ove solo quest’ultima è da ritenersi patologica, dunque compie una distinzione tra una “malinconia esogena” (con causa) ed una endogena (priva di causa). Tale impostazione di fondo resta in vigore a lungo, tanto che diversi secoli dopo, lo stesso Sigmund Freud (Lutto e melanconia) sostiene che non si deve curare chi è triste, ad esempio, per un lutto in quanto si tratta di un “dolore normale” che necessita solo di tempo. «Insomma, per duemilacinquecento anni si è tenuta separata la tristezza normale, che ha una causa, dalla tristezza abnorme, che una causa non ce l’ha ma poi tutto cambia dal 1980, con la pubblicazione del DSM-III, il manuale ateoretico, che non vuole più basarsi su alcuna interpretazione (la differenza tra causa esterna o interna, in fondo, è un’interpretazione), ma solo sui sintomi osservabili. Addio alla millenaria differenza tra le due forme di tristezza, dal 1980 esiste una sola depressione: quella che dura più di due settimane e che presenta almeno cinque dei nove sintomi» (p. 47). Se il DSM-III del 1980 almeno specifica che è “normale” provare tristezza per un lutto, anche se si sente in dovere di quantificarne la durata ad un anno (oltre questa durata non si è in lutto ma depressi), con il DSM-IV del 1994 il periodo di “normalità” del lutto scende a due mesi e dal 2013, con il DSM-5, si giunge a due settimane di tristezza consentita. Insomma, sostiene Cipriano, dal 2013 il lutto è pressoché scomparso. È facile capire come grazie a tale logica la depressione si sia trasformata da patologia rara in pandemia.

il-manicomio-chimico-di-Piero-CiprianoDal momento che i manuali diagnostici hanno via via reso depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, questi hanno posto fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena. Se il fine è quello di ottenere la salute attraverso la guerra alla stanchezza ed all’infelicità, lo stesso lutto deve essere regolamentato: due settimane devono bastare a tutti ed in ogni caso. Passate le due settimane occorre tornare ad essere felicemente produttivi. Alcuni decenni di chimica antidepressiva e la cinica riscrittura dei manuali diagnostici hanno portato ad una vera e propria pandemia di depressi. I dati riportati da Cipriano sono impressionanti: al mondo si contano 400 milioni di depressi e 60 milioni di bipolari, ove la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore. Se il disturbo bipolare risulta un fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, con la diffusione degli antidepressivi diviene la seconda patologia psichica più diffusa ed è stato esteso agli adolescenti.
La maggiore fonte di profitto delle case farmaceutiche deriva dagli antidepressivi (negli ultimi due decenni negli USA il ricorso ad antidepressivi è aumentato del 400%), chiaro allora, sostiene Cipriano, che alle aziende farmaceutiche è convenuto l’allargamento dei confini diagnostici della depressione voluto dagli psichiatri dell’American Psychiatric Association. Il dubbio che tale allargamento sia stato dettato dalle industrie farmaceutiche è del tutto legittimo e non sarà un caso se i finanziamenti per redigere il DSM-IV sono arrivati quasi per intero dalle case farmaceutiche e se metà dei redattori è direttamente legata ad esse.

Fino agli anni ’50 la malattia “giustificante la psichiatria” è la schizofrenia, malattia priva di definizione e basata su sintomi. Dopo che l’OMS ha trasformato la salute in benessere psicofisico e sociale, l’agire psichiatrico cambia; non occorre più curare una malattia mentale giudicata inguaribile (la schizofrenia) ma si deve mirare al raggiungimento del “completo benessere psicofisico”. Alla schizofrenia si sostituisce così la depressione. Probabilmente, sostiene Cipriano, l’American Psychiatric Association ha saputo approfittare di qualcosa che “era nell’aria” e la grande stanchezza esistenziale dei nostri tempi è stata tramutata in malattia: la depressione.

Visto che gli individui sembrano davvero essersi trasformati da oggetti di ubbidienza a soggetti di prestazione, lo “psichiatra riluttante” si chiede se l’esaurimento psicofisico e quello che i manuali diagnostici chiamano depressione non possa essere conseguenza dell’imperativo della prestazione. «Questo è il paradosso dell’uomo moderno, che per la prima volta nella storia si trova a essere padrone, sfruttatore, schiavista di se stesso […] la sua è solo un’apparente libertà. La sua è patologia della libertà. È una nuova società del lavoro, una società che sembra libera ma non lo è, perché è iperattiva, frenetica, schiava della sua stessa isteria di lavoro e iperproduzione. Una società che non contempla il riposo, e ancor meno l’ozio. Di qui la stanchezza […] che ora è diventata depressione» (pp. 49-50).

Nel libro viene riportata l’interessante ricostruzione di Mario Colucci, derivata da Ethan Watters (Crazy like us: the globalization of the American psyche), di come la depressione sia stata introdotta in Giappone al fine di poter inondare il paese di antidepressivi serotoninergici. In Giappone la personalità melanconica non ha tradizionalmente nulla di patologico, anzi, è sempre stata considerata sintomo di serietà, dunque, non facendo parte della cultura nipponica, la depressione deve essere introdotta ed è così che su quella cultura «negli anni Duemila, irrompe la nuova, moderna, scientifica, semplificata, omogenea narrazione proposta (o imposta) dal DSM […] E gli antidepressivi fanno il boom» (pp. 51-52).

Dagli USA arriva anche la “pillola dell’intelligenza”, si chiama Modafinil (“Moda”) ed il suo nome commerciale è “Provigil”, dunque, come suggerisce il nome, si preoccupa di favorire la vigilanza. Inizialmente «doveva servire come farmaco contro la narcolessia. Oggi viene proposta come smart drug, droga furba, cioè pillola dell’intelligenza. Infatti dovrebbe migliorare attenzione, memoria, concentrazione, e dunque intelligenza. Questa molecola sembra davvero l’equivalente del Ritalin dato ai piccoli scolari distratti, da distribuire a quegli adulti che, per stare in tiro, s’ingozzano di troppi caffè, o sono costretti a farsi la cocaina ogni tanto. Con la differenza farmacodinamica, però, che il metilfenidato (Ritalin) agisce solo aumentando la quantità di dopamina, il modafinil (Provigil) agisce anche riducendo il livello di acido gamma amino-butirrico (GABA), che è il principale neurotrasmettitore inibitorio del SNC» (pp. 80-81).

Nel libro viene ricordato come già i militari americani siano costretti per contratto ad assumere farmaci che li rendono più resistenti alla fatica ed al sonno e più performanti in guerra. Dunque, sulla scorta di tale ricorso al potenziamento chimico, c’è chi propone di estenderlo a tutte le professioni impegnate in emergenze. Piloti d’aereo, chirurghi e medici del pronto soccorso, ad esempio, potrebbero presto essere tenuti ad assumere neurostimolatori per migliorare le loro prestazioni in situazioni d’emergenza. Gli studi sugli effetti di queste molecole, però, vengono effettuati sul breve periodo (poche settimane) esattamente come è accaduto per il Ritalin somministrato ai bambini definiti “iperattivi”, col risultato che ci si ritrova, a distanza di anni, di fronte ad individui ridotti a zombie. Un’eventuale estensione ad altre professioni, oltre all’ambito militare, aprirebbe nuove opportunità per il business della salute; si potrebbero avere futuri pazienti depressi o bipolari a cui somministrare farmaci stabilizzatori od antipsicotici. Insomma, si tratta di un perverso meccanismo in cui una pillola chiama l’altra.

Se da un lato è quantomeno inquietante pensare di salire su un aereo con al comando un pilota “rinforzato” da qualche neuro-stimolatore, o di sottoporsi al bisturi di un chirurgo impasticcato, ci preme sottolineare come, anche in questi casi, i lavoratori vengano “potenziati” per essere più “performanti” (produttivi) per un lasso di tempo sempre più breve, per poi essere “scartati” in quanto non più “sicuri” (non più produttivi). Si delinea un quadro in cui la “spremitura” del lavoratore avviene, anche grazie alla chimica, sempre più velocemente e, in un sistema lavorativo votato al mito dell’autoimprenditorialità, quel che è peggio è che sarà il lavoratore stesso a potenziarsi per migliorare la sua posizione sul mercato del lavoro. Sarà il lavoratore stesso a spremersi sempre più velocemente bruciandosi il corpo ed il cervello per poi divenire velocemente scarto, rifiuto improduttivo per sé ma non per il business della salute, capace, come stiamo vedendo, di trarre profitto anche dai “rifiuti umani”. Al pari del business per il trattamento dei rifiuti prodotti dal consumismo, esiste un business che ricava profitto dagli scarti umani.

Prendendo spunto dalla serie televisiva di successo Dr. House, Cipriano tratteggia alcune inquietanti caratteristiche della società contemporanea. Il Dr. House, medico a cui interessa la malattia ben più che il paziente, rappresenta davvero il «medico perfetto per questa società schizoide […] È un medico schizoide a cui non piace, o meglio teme, la relazione. Tant’è che per potersi permettere una sufficiente capacità relazionale si droga, si fa, si prende farmaci, ora non lo so cosa diavolo prenda lui di preciso, di certo antidolorifici, ma come lui moltissimi medici o terapeuti si prendono la cocaina o gli antidepressivi, per essere più socievoli e performativi, più terapeutici, perché proprio loro non ce la fanno, se no, a essere in sintonia con l’altro. Ecco il dramma, allora, di una società disconnessa, schizoide, nel senso di portata per l’autismo, arelazionale, che sempre più sta perdendo il contatto con il mondo, con gli altri, con il koinós kósmos (mondo comune) eracliteo, a favore dell’autistico ídios kósmos (mondo proprio). È una società, quella che acclama il paradigma del medico schizoide dottor House, che è essa stessa schizoide, perché manca di sintonia, di capacità di entrare in relazione affettiva con gli altri. E questo modo i porsi viene scambiato per apatia, o tristezza, e quindi depressione. Ma la depressione è un’altra cosa. La depressione, i moderni, mistificatori manuali americani, non lo sanno che cosa sia. Dunque apparentemente abbiamo un’epidemia di depressione. In realtà è, questa, l’epoca della schizoidia. L’epoca dei dottor House, e dei malati a lui speculari» (pp. 84-85).

Tra la depressione e la psicosi si colloca una nuova sindrome che i giapponesi definiscono “hikikomori”, letteralmente starsene in disparte, isolarsi dalla vita sociale. Dunque, ritirarsi dalla prestazione o, almeno, aggiungiamo noi, pensare di farlo, perché in questa società si diventa facilmente produttivi anche quando si pensa di non esserlo. L’hikikomori è spesso un adolescente che si isola socialmente, passa il tempo chiuso in casa costantemente davanti al computer a navigare in rete sopperendo così ad una solitudine reale con la convinzione, dettata dall’iperconnessione virtuale, di non esserlo. La studiosa Sherry Turkle (Reclaming Convesation), un tempo entusiasta delle incredibili potenzialità di affermazione della propria identità grazie ad internet, ed ora decisamente pessimista al riguardo, accusa i social network di aver condotto ad un’atrofia dell’empatia.

Grazie alla legge 180, per il solo fatto di soffrire di un disturbo psichico, non si fa più riferimento al malato definendolo “pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo” (criterio d’internamento in manicomio della legge 36 del 1904) al fine di giustificare il ricovero coatto. La 180 per il trattamento dei disturbi psichici prevede la volontarietà del paziente e solo eccezionalmente si può agire in maniera impositiva. Il Trattamento Sanitario Obbligatorio può darsi solo se: «1. esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; 2. gli stessi non vengono accettati dal paziente; 3. non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere» (p. 148). L’obbligo della cura (TSO) non avviene più per “tutelare la società” ma per “dovere etico di cura”; si è passati da una questione di pubblica sicurezza ad una terapeutica. I dati dimostrano come più un servizio territoriale è debole, maggiore è il ricorso ai TSO e, nonostante la 180, secondo Cipriano, la psichiatria italiana non solo non si è liberata dal manicomio ma sembra sempre più farvi ritorno: «nessuna prevenzione, nessuna presa in carico, prevalente intervento sull’emergenza con trattamenti coatti gestiti con modalità poliziesche, ricoveri ad infinitum con aggressive terapie farmacologiche e contenzione al letto» (p. 150).

Cipriano si dice convinto che TSO e contenzione siano strettamente collegati. «La contenzione, il legare le persone, sovente inizia già per strada, la iniziano poliziotti o carabinieri, e gli psichiatri che si trovano recapitate persone già ammanettate, nei pronto soccorso, non fanno altro che togliere le manette e mettere le fasce» (p. 152). Dunque sussiste la necessità e l’urgenza di promuovere una campagna per l’abolizione delle fasce di contenzione: legare una persona ad un letto di ospedale è l’ultimo atto violento di una lunga serie che magari inizia con le manette, poi continua con la perquisizione, l’essere spogliati di tutti gli effetti personali e la scansione temporale ferrea degli orari in cui mangiare, dormire, fumare, assumere farmaci ed avere colloqui. Di fronte a tutto ciò Cipriano si chiede quanto possa sorprendere un’eventuale reazione rabbiosa da parte del ricoverato. «Il folle è violento perché è malato. Questo si pensa di solito. E se invece la sua violenza fosse una risposta alla violenza delle istituzioni della follia? E se la violenza dell’internato (ieri) dei manicomi, o del trattamento provvisorio (oggi) nei SPDC, fosse un moto di rivolta contro l’istituzione che lo mortifica, che sancisce al trasformazione del suo corpo malato in un corpo istituzionale, in un suppellettile da sorvegliare e controllare alla stregua di una porta, di una serratura, di una finestra?» (p. 161).

Come disobbedire da psichiatri alla consuetudine di legare? Secondo Cipriano si può disobbedire trovando altri modi per contenere la rabbia, la furia e la violenza del paziente e rendere pubblica la disobbedienza, raccontando, scrivendo, facendosi delatori, svelando che legare le persone al letto è una pratica diffusa. «Per vincere, e sconfiggere questo spettro, lo spettro delle fasce, e il fascismo subdolo che il loro uso comporta, c’è bisogno di persone (operatori) etiche e disubbidienti, che sappiano opporsi a questa prassi, che sappiano disubbidire all’assurdità di questa consuetudine, all’assurdità dei protocolli e delle linee guida, che sappiano sottrarsi alla banalità del male di una medicina e di una psichiatria che per curare esercita forza e violenza» (pp. 164-165). Dunque, insiste lo “psichiatra riluttante”, occorre convincere la società civile e gli operatori che ricorrono alle fasce, occorre far capire che con quelle fasce gli operatori legano tanto i pazienti quanto loro stessi, si umiliano, in modo diverso, entrambi.
Gli attacchi di Cipriano prendono di mira anche la psicoterapia che, a suo avviso, può avere senso soltanto se poco interpretativa e molto narrativa, perché il suo scopo non è guarire ma conoscersi attraverso il racconto della propria esistenza. Intanto gli operatori possono nella pratica quotidiana provare ad abolire l’ottocentesco giro di visita giornaliero in favore di un colloquio continuo, portare fuori i ricoverati, revocare i TSO, sciogliere i legati costi quel che costi e ridurre i farmaci. Almeno, suggerisce lo “psichiatra riluttante”, sarebbe utile riuscire a convincere i giovani operatori del settore, i pazienti ed i loro famigliari che «un altro modo per curare i disturbi dell’anima è possibile» (p. 26).

CIPRIANO_Fabbrica_Cura_MentaleAi nostri giorni si ricorre frequentemente al termine “schizofrenia”; tutti credono di sapere cosa essa sia mentre in realtà non è così. Nel saggio viene ricostruito, seppur per sommi capi, il processo storico che ha costruito tale diagnosi a partire da Emil Kraepelin (1856-1926) che, a fine ‘800, classifica i disturbi psichici osservando la loro evoluzione nel tempo. La sua fiducia sulla genesi organica della follia lo porta a distinguere la dementia praecox (una serie di forme morbose che si manifestano già prima dei 30 anni di età e che sfociano in demenza) dalla follia maniaco-depressiva (che ritorna alla normalità). Nel suo approccio i giudizi di valore hanno la meglio su quelli clinici e, pur senza ammetterlo, molti psichiatri ai giorni nostri sono intimamente e nichilisticamente kraepeliniani al pari del famigerato DSM-5. È chiaro, sottolinea Cipriano, come la visione pessimistica semplifichi il lavoro dello psichiatra: lo deresponsabilizza. L’incurabilità è comoda per i medici ma significa condanna certa per i pazienti.

Eugen Bleuler (1857-1939) sostiene, invece, che l’esito demenziale è raro e non la regola in questo disturbo, dunque introduce il termine “schizofrenia” provando a concedere ad essa una speranza terapeutica. Nonostante ciò la nozione di schizofrenia si è rivelata “una nuova prigione” perché molti psichiatri continuano a curare gli schizofrenici come dementi precoci. Bleuler distingue tra sintomi fondamentali ed accessori ed indica nella frammentazione delle funzioni psichiche il nucleo della malattia da cui derivano alterazioni dell’affettività, ambivalenza e tendenza ad isolarsi dalla realtà. Bleuer, sostiene Cipriano, pur soffermandosi eccessivamente sui sintomi accessori a discapito di quelli da lui stesso indicati come fondamentali, ha il merito, almeno sul piano teorico, di riportare «il più grave disturbo psichico dal territorio dell’incomprensibile e del non curabile a quello della comprensibilità e della curabilità» (p. 207).

Eugéne Minkowski (1885-1972), riprendendo i disturbi individuati come fondamentali nella schizofrenia da Bleur restringe ulteriormente il campo e si concentra in particolare sull’autismo considerato dallo studioso come perdita del senso della realtà. Cipriano pone l’accento sull’influenza esercitata dalla filosofia di Henri Bergson su Minkowski: «la nozione di intuizione (suggestione bergsoniana) diventa per Minkowski la chiave di volta per un metodo, un modo, una possibilità di incontrare la persona schizofrenica» (p. 210). Diviene così più importante cogliere le confidenze dei malati rispetto al mero elenco dei sintomi. Nel libro Schizofrenia (1927) Minkowski sottolinea come etichettare nosograficamente un essere umano significhi marchiarlo per sempre precludendosi la possibilità di comprenderlo. «È per questo che, sulla scorta del pensiero di Bergson, si è fatto promotore della cosiddetta diagnosi per penetrazione, cioè di una diagnosi intuitiva, non intellettiva, una diagnosi per sentimento, una diagnosi che sente, una gefüldiagnose, una diagnosi che ha bisogno di un modo particolare dello psichiatra di stare con quella persona, attento, interessato a lui e non ai suoi sintomi caldo e non freddo, affettivo e non staccato. Ecco che, in questo modo, diagnosi, comprensione, relazione e terapia sono un tutt’uno, diventano inestricabili» (p. 211). Nel libro viene ricostruita l’idea minkowskiana di schizofrenia ponendo l’accento sulla centralità della nozione di curabilità in psichiatria; partire dall’idea di incurabilità significa condannare a priori le persone. Purtroppo, continua Cipriano, oggi ad avere la meglio è la linea kraepleiniana rispetto a quella minkowskiana e dire schizofrenia significa dire incurabilità.

La messa in discussione di manicomi inizia a darsi soltanto negli anni ’60 di pari passo con il trattamento farmacologico a cui fanno ricorso anche gli psichiatri anti-istituzionali. Per certi versi si passa dalla camicia di forza al manicomio chimico ma, probabilmente, sostiene Cipriano, si tratta di una sorta di passaggio obbligato utile a porre fine al manicomio tradizionale, inoltre, nel breve periodo, gli antipsicotici risultano efficaci sui sintomi più eclatanti. «I sintomi cosiddetti floridi, nel giro di settimane o mesi, di solito si spengono. Lasciando il posto, per lo più, ad altri vissuti. Per esempio a uno stato di introflessione, di chiusura, di asocialità, insomma di schizoidia esasperata, di contatto vitale con il mondo ormai perduto, anche se i deliri o le allucinazioni magari non ci sono più» (pp. 223-224). Come mai gli psichiatri si concentrano su tali sintomi accessori trascurando «il vero disturbo generatore della schizofrenia, che è l’autismo, inteso come perdita del contatto vitale con la realtà?» (p. 224).

Secondo Cipriano qualche responsabilità deve essere imputata a Kurt Schneider (Psicopatologia clinica), psichiatra che a metà degli anni ’50 descrive lo schizofrenico molto diversamente da come viene indicato precedentemente da Minkowski. Se in quest’ultimo «dominava la visione di uno schizofrenico arroccato nel suo autismo, isolato, staccato […] In Schneider prevale la sensazione di una persona esposta al mondo esterno, che quasi ha perduto la sua pelle, senza più intimità, alla mercé degli altri» (p. 225). Nella visione schneideriana pare dominare l’idea di perdita dei confini dell’io (la perdita della meità) e da tale visione pare prendere il via «il filone più tipicamente clinico-nosografico della schizofrenia, che disinteressandosi del disturbo generatore, ma interessandosi dei sintomi patognomonici, condizionerà fortemente la nosografia di questo disturbo, e dunque il manuale americano che dagli anni Cinquanta si è venuto ad affermare, manuale che schneiderianamente si professa ateoretico, disinteressato alle cause dei disturbi ma attento ai sintomi» (p. 225). Arriviamo così a quell’elenco burocratico dei sintomi delle schizofrenia del DSM-5 del 2013 che gli operatori del settore debbono considerare per «formulare una diagnosi così tanto grave, diagnosi che ancora non sappiamo se è un destino o una malattia: – due o più di questi sintomi, durante più di un mese, tra deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento affettivo, alogia, abulia); – disfunzione sociale o lavorativa; – durata del disturbo per più di sei mesi; – esclusione di disturbi dell’umore o disturbo schizoaffettivo; – esclusione dell’uso di sostanze o patologie mediche» (p. 226).

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Alle origini della narrativa europea dell’homo epistemologicus https://www.carmillaonline.com/2015/07/03/alle-origini-della-narrativa-europea-dellhomo-epistemologicus/ Fri, 03 Jul 2015 21:30:19 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=22901 barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i [...]]]> barilli narrativa europea contemporaneadi Gioacchino Toni

Renato Barilli, La narrativa europea in età contemporanea. Cechov, Joyce, Proust, Woolf, Musil, Mursia, Milano, 2014, 350 pagine, € 24.00

L’analisi della narrativa proposta da Renato Barilli in questo saggio riprende sostanzialmente l’impianto da lui applicato alle arti visive, ricostruito su questa rivista in “Arte e cultura materiale” e, meglio ancora, argomentato dall’autore stesso nel suo Scienza della cultura e fenomenologia degli stili (1982, nuova ed. 2007). In estrema sintesi, si può dire che il materialismo storico culturale a cui si rifà Barilli invita a cercare nei fattori concernenti la tecnologia i parametri alla base delle diverse epoche culturali.

Occorre iniziare da una questione terminologica: il termine “contemporaneo” viene utilizzato dall’autore per evidenziare come la produzione narrativa trattata nel saggio si differenzi rispetto alle proposte proprie dell’epoca moderna. Altrove, Barilli propone un ampliamento della nozione di “postmoderno”, fino a renderlo paritetico al termine “contemporaneo”, estendendolo sino a farlo partire dal finire del Settecento. (Tutto sul postmoderno, 2013). Vale la pena, in questo caso, mantenere ancora il tradizionale ricorso al termine contemporaneo, come d’altra parte decide di fare lo stesso autore sin dal titolo del saggio.
La distinzione tra moderno e contemporaneo, sottolinea l’autore, risulta evidente se si prende in esame la rivoluzione epistemologica che porta a modalità totalmente nuove di concepire il comportamento umano nei confronti della realtà esterna. Ad un homo oeconomicus, caro alla modernità, in omologia al positivismo ed alle forme narrative proprie del realismo-naturalismo, succede un homo epistemologicus, intento ad indagare la sua soggettività profonda. All’analisi della produzione narrativa dell’homo oeconomicus, l’autore ha dedicato Dal Boccaccio al Verga. La narrativa italiana in età moderna (2003) e La narrativa europea in età moderna. Da Defoe a Tolstoj (2010), all’attuale testo spetta di affrontare la produzione narrativa europea dell’homo epistemologicus.
L’attenzione rivolta agli eventi minimali del vissuto, alla corrente di coscienza in evidente omologia con l’elettromagnetismo dell’età contemporanea, sancisce la fine dell’esigenza moderna di orientare gli atti di coscienza verso finalità positive: “Succede allora che, nello statuto della narrativa contemporanea, quello che secondo la Poetica aristotelica sarebbe pur sempre il primo ingrediente, l’azione, la diegesi, il mito (…) fa un passo indietro, mentre prevale l’ethos, cioè appunto l’analisi coscienziale, con la conseguente esclusione che si possa raggiungere un esito finale”. Come avviene ai coetanei in ambito tecnico-scientifico, i narratori contemporanei possono tralasciare i “grandi” avvenimenti, differenziandosi così dalle modalità moderne.
Nell’introduzione, l’autore non manca di motivare diverse esclusioni eccellenti tanto tra i predecessori ed i coetanei degli autori analizzati, come ad esempio Gabriele D’Annunzio, Henry James, Joseph Conrad e Thomas Mann, quanto i limiti “in avanti”, oltre ai quali non si spinge la trattazione.

Tra gli autori passati in rassegna da Barilli, Anton Cechov risulta essere forse il più problematico da inserire nella compagine di narratori entrati a pieno titolo tra i fondatori della narrativa europea contemporanea. Più giovane di un paio di decenni rispetto agli altri protagonisti trattati dal testo, Cechov può essere considerato un autore di transizione che mantiene ancora qualche legame con le caratteristiche tipiche del moderno, come ad esempio la persistenza di tracce dell’universo pauperistico ottocentesco ma, al contempo, non manca di fare i conti con “questioni contemporanee” come la difficoltà di amare e di dar vita e mantenere rapporti di coppia. Barilli sostiene che mentre “l’amore spontaneo” rappresenta una dinamica psicologica tipica della stagione moderna del naturalismo, in ambito contemporaneo si assiste all’intervento di una sorta di “freno autocritico” che porta l’individuo ad indagarsi allo specchio: l’atto di amare diventa un’impervia scalata che sottopone ostacoli a ripetizione, soprattutto interni. A proposito della permanenza, nel russo, di questioni pauperistiche, occorre dire che, nei suoi racconti, egli si limita però ad indicare genericamente la causa degli ultimi, senza mai giungere ad una critica sociale esplicita e puntuale. I suoi personaggi possono anche lasciarsi andare ad un minimo di empatia per i deboli ma, dopo averlo fatto, si rifugiano nel dibattito interno, psicologico, in linea con le caratteristiche dell’homo epistemologicus, dell’età contemporanea: “l’impegno verso fini sociali può solo essere agitato, enunciato a livello programmatico, ma mai imbracciato come effettiva via da percorrere”. Sul versante teatrale, se Cechov può dirsi contemporaneo per l’abilità nell’analisi del vissuto psichico, dunque a livello contenutistico, molto meno può esserlo per questioni formali; il teatro cechoviano fatica a reggere il confronto con le grandi prove del teatro novecentesco, non raggiungendo mai, sostiene Barilli, i livelli pirandelliani, pur se, ad onor del vero, conseguiti dall’italiano successivamente alla scomparsa del russo.

Con tutti questi “limiti” che lo rendono, per alcuni aspetti, in bilico tra moderno e contemporaneo, il suo inserimento nel gruppo indagato, si rivela utile a Barilli per poter introdurre gradualmente il ben più innovativo James Joyce, a partire dall’analisi delle analogie e delle differenze tra i due. Non mancano, infatti, analogie tra gli scritti di Cechov e la prima opera in prosa di Joyce, Gente di Dublino. Sebbene l’Irlanda non conosca la servitù della gleba, e dunque l’irlandese, a differenza del collega russo, non sia tenuto a fare i conti con la tematica ottocentesca del pauperismo, se si confrontano i protagonisti, le somiglianze di certo non mancano. In Cechov domina un ceto medio composto da ex proprietari andati in malora ed eterni studenti ed, a ben guardare, tale mondo non è molto diverso da quello dei personaggi mediocri ad un passo dal fallimento, che si rifugiano nell’alcool, che popolano Gente di Dublino. Tanto il russo quanto l’irlandese si guardano bene dallo “sporcarsi le mani” con i grandi eventi delle rispettive terre; i due preferiscono non dare troppo rilievo a tale ambito. In linea con la logica della narrativa contemporanea, così come Cechov evita di battersi contro la burocrazia statale e per il riscatto delle classi subalterne appena uscite dalla servitù della gleba e Joyce si sottrae dal prendere parte alla battaglia per l’indipendenza contro gli inglesi, anche Marcel Proust si mostra refrattario a lasciarsi coinvolgere dall’affaire Dreyfus che scuote la Francia dell’epoca. In tutti tre i casi le grandi questioni vengono tenute sullo sfondo preferendo a queste l’indagine psichica dei personaggi o il perdersi nella narrazione dei dettagli. In fin dei conti i grandi eventi storici finiscono per essere abbassati al ragno di dettagli che, mestamente, prendono posto tra altri dettagli: sono presenti ma pari grado alle inezie. A tal proposito, sostiene l’autore, “L’homo oeconomicus, che dominava la scena dell’ottocentesco teatro ‘moderno’ non aveva tempo per concedersi questi spazi fuori rotta, non così il contemporaneo homo epistemologicus che sa bene come il qui e ora sia solo una provvisoria e momentanea cresta dell’onda, incalzata da altre onde passate e future che si succedono senza tregua”.

Mentre la logica dell’homo oeconomicus è di tipo selettivo, nell’Ulisse joyciano, coerentemente con la logica contemporanea dell’homo epistemologicus, si intende afferrare la totalità degli accadimenti. A tal proposito Barilli indica un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo William James, volto a dare il massimo rilievo alla nozione di flusso di coscienza in opposizione all’economicità moderna. La narrativa moderna impone una selezione rigorosa, volta a cogliere ed a dare rilievo soltanto agli elementi utili all’affermazione del singolo, al soddisfacimento dei suoi bisogni materiali, collocando in subordine gli effetti psicologici, da tutto ciò “deriva anche la necessità di costruire un andamento, una sequenza delle occasioni, dei passi da compiere, il che corrisponde a quanto viene definito usualmente coi termini della trama, del ‘mythos’ nell’accezione originale aristotelica”. Nella narrativa antieconomica contemporanea, pertanto, alla logica lineare e consecutiva ne subentra una a “gorgo”. Se nell’epistemologia di James si vuole che la totalità di sentimenti e percezioni si presenti qui e ora, in Henri Bergson, invece, viene introdotto “un asse verticale-diacronico”, come a dire che molte di quelle sensazioni, le epifanie joyciane, vengono immagazzinate in una sorta di inconscio freudiano dal quale possono essere recuperate “solo se sollecitate da qualche impressione rinvenibile nel qui ed ora”.

Proust, pur essendo un autore molto diverso da Joyce, vanta con esso alcuni elementi in comune. In linea con la cultura contemporanea che intende ricavare “fiumi di energia” anche dal frammento minimo di qualsiasi materia, entrambi si focalizzano sul materiale d’esperienza che meglio conoscono; Joyce insiste sul piccolo mondo di Dublino, mentre Proust sul mondo salottiero parigino. Così come Barilli individua un’omologia sostanziale tra Joyce e l’insegnamento dell’epistemologo James, analogamente, riscontra un’omologia tra il pensiero di Bergson e la trama di idee su cui si basa la Recherche di Proust. Nell’ambito della medesima epistemologia contemporanea, volta a superare la logica selettiva e narratologica moderna, che raggiunge il culmine nel corso dell’Ottocento, le coppie James-Joyce e Bergson-Proust, rappresentano, secondo Barilli, due differenti procedure. La prima coppia adotta un criterio di “attualismo assoluto”, costretto, inevitabilmente, a fare i conti con una perdita del vissuto che può, però, essere richiamato. L’urgenza di questi recuperi induce Joyce a procedere per brevi attimi, adottando tecniche di registrazione che giungono a spezzare le frasi ed a sperimentare il ricorso alle onomatopee e le pratiche del cislinguismo finendo col negare, in definitiva, ogni possibilità diegetica. La via Bergson-Proust risulta decisamente differente. In James il dato irrilevante resta a premere nelle retrovie ma può riaffiorare nel presente, in Bergson il dato irrilevante affonda lungo l’asse verticale celandosi alla vista e lasciando il primo piano alle condotte abituali. In Bergson una parte della memoria involontaria, le sensazioni inutili ed antieconomiche, sottratta al controllo dell’intelligenza, si deposita in un sottofondo remoto, simile all’inconscio freudiano, mentre in primo piano, a livello orizzontale, domina una “memoria in atto” che fa corpo con i nostri gesti, che, nella scrittura proustiana si traduce nel ricorso a lunghi tratti di narrazione “simil-moderna”. Proust non ricorre alla registrazione diretta, prelinguistica, joyciana, egli struttura un’architettura narrativa complessa e labirintica pur parimenti antieconomica nel mirare alla riemersione di momenti di assoluta gratuità. Joyce, in linea con la logica di James, in funzione dell’immediatezza, deve ricorrere a testimoni, Proust, invece, alla meditazione individuale.

Ai citati narratori pienamente contemporanei, Joyce e Proust, il saggio aggiunge Virginia Woolf e Robert Musil. Nel, 1922, con l’uscita de La stanza di Jacob, si compie la svolta che porta la scrittrice ad entrare con la sua opera pienamente in ambito contemporaneo. La moltiplicazione dei soggetti percipenti permette alla Woolf di accumulare un’ampia massa di dati ove si mescolano elementi ambientali con altri di natura antropologica. Il contatto con Thomas Stearns Eliot risulta importante non solo per le suggestioni che ne riceve, ad esempio dal suo processo di ibridazione tra prosa narrativa e poesia ma, sostiene Barilli, anche per il collegamento, seppure indiretto, che la scrittrice finisce per avere con la produzione filosofica di Francis Herbert Bradley, grazie al fatto che questa era stata studiata da Eliot. Una filosofia che “predica una immersione totale nell’esperienza come in un bagno unificante, in cui spariscono i confini tra i soggetto e l’oggetto, i due momenti mescolano le loro acque in un tutto unico, che può essere una pienezza di dati o anche una notte oscura, comunque qualcosa di ultimativo e finale”.
A Musil tocca chiudere la rassegna degli autori trattati dal saggio ed, a differenza degli altri, egli è in effetti l’unico a stabilire un collegamento diretto con una delle figure fondamentali che segnano il passaggio dal moderno al contemporaneo; si tratta dell’epistemologo Ernst Mach. Musil, infatti, stende la sua tesi di dottorato proprio sulla produzione filosofica di Mach. In questo caso la presenza fissa e costante dell’oggetto lascia il posto ad uno sciame di frammenti. Musil ne deriva una concezione in cui oggetto e soggetto risultano inscindibili, essi diventano “funtivi di un’azione unica, collegati da un nesso relazionale”. In L’uomo senza qualità, del 1925, il protagonista dell’opera risulta essere, secondo la lettura barilliana, “il portatore privilegiato ed esemplare di ogni possibile concomitanza con la grande rivoluzione epistemologica di fine Ottocento”. Si giunge davvero ad un passo da una “puntuale applicazione dell’empiriocentrismo di Mach e, assieme ad esso, di ogni altra concezione fondata sul principio di indeterminazione, tale da ‘porre a casa’ l’universo e le sue fondamenta”.

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