Hard rock – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Milano, Vigorelli 1971: “Abbattete lo Zeppelin !” https://www.carmillaonline.com/2021/07/15/milano-vigorelli-1971-abbattete-lo-zeppelin/ Wed, 14 Jul 2021 22:01:10 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67111 di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di [...]]]> di Walter Catalano

Giovanni Rossi, Led Zeppelin ’71, La notte del Vigorelli, Tsunami Edizioni, pp. 272, 20.00€.

Giunta ormai alla seconda edizione, dopo quella del 2014, l’inchiesta/ricostruzione dell’unico concerto (abortito) dei Led Zeppelin in Italia, non si limita ad essere soltanto un bel libro di giornalismo musicale. Prendendo spunto dai fatti di cronaca l’autore, Giovanni Rossi, compie una panoramica a 360 gradi sull’Italia di quegli anni – con il ’68 già lontano alle spalle e il ’77 ancora remoto a venire – tracciando un rapporto storico, sociologico e politico puntuale di uno dei momenti più difficili ma anche esaltanti attraversati dalle giovani generazioni dell’epoca: il 1971, un anno cruciale in cui necessità popolare di cambiamento e volontà istituzionale di conservazione si scontrano già con violenza ma in modo ancora immaturo e confuso. Conflitti che non deflagrano più solo nelle fabbriche e nelle università, ma anche nei luoghi deputati alla cultura e al tempo libero.

Chi ha vissuto quel periodo lo ricorda con un brivido ambivalente di rimpianto e di sollievo. Sollievo per il tramonto successivo, faticoso ma inderogabile, dei cascami di un ancien régime opprimente e fortunatamente sepolto, rimpianto per le possibilità che allora si squadernavano illusoriamente infinite e, nel tempo, si sono ridotte, sfilacciate, erose, fino a rivelarsi fallaci e disattese.

Nel corso del ’71 i Tupamaros rapiscono l’ambasciatore inglese in Uruguay; in Egitto apre la diga di Assuan; Amin Dada prende il potere in Uganda; le missioni Apollo 14 e 15 preludono sommessamente al crepuscolo dell’era spaziale; le truppe sudvietnamite invadono il Laos; a Città del Messico si consuma la strage del Corpus Domini; Nixon cancella gli accordi di  Bretton Woods ponendo fine alla convertibilità del dollaro in oro; Jim Morrison viene ritrovato morto nella vasca da bagno della sua stanza in un albergo di Parigi, mentre George Harrison vara il Concert for Bangla Desh e John Lennon pubblica Imagine. Intanto in Italia la commissione d’inchiesta su SIFAR e Piano Solo smentisce l’ipotesi di qualsiasi possibile golpe proprio mentre Paese Sera rende noto il tentativo di un altro golpe, quello di Junio Valerio Borghese del 7 dicembre 1970, e il Principe Nero, colpito da mandato di cattura, rifugia in Spagna; il giudice di Treviso emette mandato di cattura verso i neofasciti padovani Freda e Ventura in relazione agli attentati del 1969; Franco Basaglia diventa direttore del manicomio di Trieste e la Corte Costituzionale abroga l’articolo 553 del codice penale che vieta la produzione, il commercio e la pubblicità degli anticoncezionali. Il ventunesimo Festival di Sanremo viene vinto da Nada e Nicola di Bari con Il cuore è uno zingaro, secondi i Ricchi e Poveri e Josè Feliciano con Che sarà, ma saranno significativamente i terzi classificati, Lucio Dalla e l’Equipe 84 con 4 Marzo 1943, a primeggiare nelle vendite: anche il pubblico popolare chiede tematiche e melodie almeno un po’ diverse.

Così Ezio Radaelli, impresario e barone dell’industria dell’intrattenimento, fino dal 1962 ideatore e patron del Cantagiro – formula presa a modello dal Giro d’Italia di ciclismo, che consisteva in una carovana canora in giro per l’Italia con i cantanti in competizione, giudicati da giurie popolari scelte tra il pubblico delle varie città – fiuta l’aria di rinnovamento: nel ’71 il Cantagiro diventerà Cantamondo, non avrà classifica e affiancherà ad ogni tappa alle star nostrane anche big della musica internazionale come Aretha Franklin, Miriam Makeba, Nina Simone, King Curtis, Charles Aznavour, Sam & Dave, Donovan e, dulcis in fundo, i Led Zeppelin, per la prima volta in tour in Italia, che chiuderanno la manifestazione canora. Quello che non risulta perfettamente chiaro all’impresario è che alcuni mondi musicali sono ormai sempre più fieramente  incompatibili, che il pubblico di gruppi rock come i Led Zeppelin (lasciamo per ora da parte gli alfieri del Rhythm&Blues o il menestrello folk-psichedelico Donovan) non ne vuole minimamente sapere di una musica leggera e leggerissima, vista, non a torto, come di regime perchè ammannita giornalmente dalla Rai in Tv e in radio: Gianni Morandi e sodali (Lucio Dalla compreso) non hanno la minima speranza di condividere indenni lo stesso palco con la band di Whole Lotta Love. Un’inconciliabilità che porterà alla catastrofe.

Giovanni Rossi, come in un giallo ben costruito, predispone, capitolo per capitolo, scenari e dramatis personae. Una Milano in cui da pochi giorni la signora Licia Pinelli, vedova di Pino, ha denunciato (il 24 giugno 1971, il concerto è fissato per il 5 luglio) il Commissario Calabresi e i suoi accoliti questurini per omicidio volontario, sequestro di persona, violenza privata e abuso di autorità, mettendo in fibrillazione tutta l’estrema sinistra cittadina. San Siro, luogo più indicato per l’evento, è inagibile per lavori di ristrutturazione e si ripiega sul velodromo Vigorelli. Nel frattempo una fiumana di giovani sciama da tutta Italia – chi in auto, chi in treno, chi in autostop – verso il concerto dell’anno. Poche sono state fino ad allora le occasioni di vedere i grandi del rock nel nostro paese: a Roma, i Beatles al Teatro Adriano nel 1965, Jimi Hendrix al Brancaccio nel 1968, i Rolling Stones nel 1967 e nel 1970, in varie città tra cui Roma e Milano. Ma non erano ancora eventi di massa come questo.

I Led Zeppelin sono al culmine della loro fama. Hanno pubblicato tre LP (il gruppo rifiuta di fare 45 giri) che li hanno portati ai vertici delle classifiche: giusto il terzo, meno rock blues e più folk, non ha raccolto consensi unanimi, ma la perfetta sintesi fra la musa elettrica e quella acustica sta per arrivare, a novembre, con il IV (quello di Starway to Heaven per intenderci) di cui il quartetto ha già in serbo ricche anticipazioni live. La stampa italiana, evidenziando la sua incompetenza musicale e la totale estraneità rispetto alla cultura del rock, li etichetta concordemente nei titoli di cronaca come “i successori dei Beatles”.

 Il pubblico che si prepara ad assediare il Vigorelli è fin troppo variegato. Prima i regolarmente paganti: innocue famiglie borghesi spesso in compagnia di bambini e adolescenti, interessate al Cantagiro e del tutto ignare dei Led Zeppelin; pubblico giovanile tranquillo o quasi, ansioso di ascoltare i Led Zeppelin ma insofferente al Cantagiro. Poi i non paganti che tenteranno di forzare gli ingressi: autoriduttori, divisi in quelli politicizzati che rivendicano musica gratis per tutti e semplici portoghesi che vogliono imbucarsi al concerto; militanti di estrema sinistra, non necessariamente autoriduttori ma intenzionati a fare casino sfruttando l’importanza dell’evento per avere una risonanza mediatica sulle loro rivendicazioni politiche; fasci infiltrati, anche loro lì per fare casino e sabotare i “capelloni”.  A chiudere in bellezza oltre 2500 sbirri in tenuta antisommossa. Una polveriera in attesa di scoppiare.

Rossi ben descrive l’escalation degli eventi. Apre Gianni Morandi accolto da gran parte del pubblico con fischi e lanci di ortaggi: tenta con ammirevole coraggio una svolta, a modo suo, verso l’engagement, cantando la versione italiana di Here’s To You di Joan Baez, ma una lattina lo coglie dritto in faccia ed è costretto a ritirarsi praticamente in lacrime (il contraccolpo sarà duro: abbandonerà le scene per più di cinque anni, andando a studiare contrabbasso al conservatorio…). Stessa sorte per i Vianella (Wilma Goich ed Edoardo Vianello: non sono più i tempi dei Watussi…). Lucio Dalla e Milva, meno impavidi, si rifiutano di uscire e, alla romana, “se danno”. Lo stesso Radaelli interviene e saggiamente manda fuori i New Trolls. Il gruppo progressive genovese, per quanto molto lontano dai Led Zeppelin, viene accolto con rispetto: è pur sempre una band rock, non canta canzonette, possiede solide capacità strumentali ed ha appena varato un best seller come Concerto Grosso per i New Trolls, innesto rock-barocco, un po’ pretenzioso ma bello, su musiche di Luis Enriquez Bacalov, che viene eseguito quasi per intero nell’attenzione generale del pubblico e degli stessi componenti dei Led Zeppelin che hanno ormai raggiunto il retropalco perché chiamati a cominciare il loro numero un’ora prima del previsto. La buona accoglienza riservata ai New Trolls dimostra come l’avversione degli spettatori sia indirizzata unicamente verso i cantanti “leggeri”, melodici e antiquati che usurpano le scene italiane da troppo tempo.

Nel frattempo gli autoriduttori stanno premendo sugli ingressi e le camionette della polizia che presidiano tutta la zona cominciano a concentrarsi nei punti di accesso. I primi candelotti già piovono nelle strade circostanti, dove si stanno raccogliendo gruppi di manifestanti intenzionati a farsi sentire ma non a forzare le porte del Vigorelli: per il momento i fumi che invadono il velodromo sono solo quelli, ancora contenuti, provenienti dall’esterno.

Arriva finalmente l’ora dei Led Zeppelin che – mentre la situazione rapidamente degenera e scariche sempre più nutrite di candelotti lacrimogeni vengono sparati dalle “forze dell’ordine” a parabola anche oltre le aperture dei tetti, direttamente dentro il velodromo e addirittura sul palco – avranno la professionalità di reggere per ben 50 minuti: la scaletta comprende Immigrant Song in medley con Mr. You’re a Better Man Than I degli Yardbirds, il gruppo precedente di Jimmy Page, Heartbraker, Since I’ve Been Lovin’ You, l’allora ancora inedita Black Dog, Dazed and Confused, Whole Lotta Love. Robert Plant invita più volte alla calma, e scherza col pubblico invitandolo a soffiare tutti insieme per allontanare il gas che sta progressivamente invadendo la scena: presto però i colpi di tosse gli impediranno di cantare mentre con gli occhi accecati e lacrimanti i ragazzi del dirigibile vedranno il pubblico, passato dall’entusiasmo al terrore, invadere di corsa il palcoscenico e venir loro addosso. Hanno chiuso tutte le uscite e l’unica via di fuga passa per il palco e per i camerini. Soccorsa dal promoter e dai roadies la band si rifugia in uno sgabuzzino mentre la marea umana infuria calpestando e distruggendo strumenti e impianto sonoro. Non stupisce che l’esperienza, a posteriori, li abbia determinati ad un’unica, drastica conclusione: “Mai più in Italia”.

Per pura fortuna comunque non ci scappa il morto. Un carabiniere perde un occhio per una sassata, decine di feriti e contusi su entrambi i fronti, quasi un centinaio di fermi e di arresti. Decine di milioni di danni agli edifici del Vigorelli. Anche Radaelli dovrà rimborsare i Led Zeppelin – il cui ingaggio già gli è costato un occhio della testa – svuotando paurosamente il suo nutrito portafoglio e il Cantagiro stesso subisce un colpo mortale: sopravviverà ancora in sordina fino al 1974 per scomparire del tutto, almeno nella forma classica. Si è davvero consumata un’epoca.

Ovviamente la stampa si dividerà nei giorni successivi in due netti fronti avversi. I “moderati”, Corriere della sera, Il Giorno, La Notte, L’Avvenire, La Stampa, Domenica del Corriere, sosterranno la linea della provocazione deliberata ad opera di gruppuscoli eversivi intenzionati, con il pretesto dell’evento musicale, a scatenare la guerriglia urbana attaccando le forze di polizia che non hanno potuto evitare di reagire. I giornali di sinistra, Lotta Continua, Il Manifesto, L’Unità, accuseranno invece la polizia di aver volutamente scatenato un attacco rivolto contro pacifici manifestanti fuori dal Vigorelli e contro il pubblico inerme all’interno. Come sempre la verità sta probabilmente nel mezzo: la manifestazione non fu davvero così pacifica perché qualche razzo antigrandine e qualche molotov venne lanciata contro i celerini anche dalle barricate dei difensori. Più attendibile forse la stampa musicale estera o quella italiana non schierata apertamente su una precisa linea politica, come Ciao 2001, che raccogliendo anche la testimonianza diretta degli stessi Led Zeppelin, imputava la colpa del tralignare nel caos di una situazione all’inizio ancora gestibile, alla polizia che per contenere poche decine di autoriduttori si era lanciata in una serie esagerata di brutali cariche e in un lancio inutile e spropositato di candelotti lacrimogeni: “Erano quei tipi in uniforme che non avevano capito un cazzo di quel che stava accadendo ! Quindicimila persone che cercano disperate una via d’uscita per via dei gas lacrimogeni e quegli sbirri non lo capiscono!” dirà Robert Plant.

L’incombere degli anni di piombo a venire già si profila in queste asimmetrie fra azione e reazione, un copione già scritto che, ben più amaramente, un’intera generazione avrebbe presto  interpretato in un ruolo o nell’altro: i fatti del Vigorelli, come ben evidenzia il libro, ne sono infausta metafora e prefigurazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Dama Clarìda, Ancilla Metalli e la Commedia https://www.carmillaonline.com/2021/02/01/dama-clarida-ancilla-metalli-e-la-commedia/ Mon, 01 Feb 2021 21:52:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=64764 di Franco Pezzini

Chiara Daino – Marcello Ferrau, Metalli Commedia (nuova edizione), pp. 207, Formato Kindle, Amazon 2019.

Immagino che quando iniziò a circolare Gargantua e Pantagruel non sia mancata qualche irritazione: tra maschere, Dive Bottiglie e salsicce volanti, davanti a una serie di categorie e singoli personaggi il sospetto (fondato o meno) di ritrovarsi satireggiati deve aver colto più di un lettore illustre. François Rabelais sia sempre benedetto: sulla scorta di una tradizione nobilissima (pensiamo ad Aristofane, a Petronio, al Seneca della Zucchificazione del Divo Claudio) questo nostro zio matto tranquillizza il [...]]]> di Franco Pezzini

Chiara Daino – Marcello Ferrau, Metalli Commedia (nuova edizione), pp. 207, Formato Kindle, Amazon 2019.

Immagino che quando iniziò a circolare Gargantua e Pantagruel non sia mancata qualche irritazione: tra maschere, Dive Bottiglie e salsicce volanti, davanti a una serie di categorie e singoli personaggi il sospetto (fondato o meno) di ritrovarsi satireggiati deve aver colto più di un lettore illustre. François Rabelais sia sempre benedetto: sulla scorta di una tradizione nobilissima (pensiamo ad Aristofane, a Petronio, al Seneca della Zucchificazione del Divo Claudio) questo nostro zio matto tranquillizza il mondo moderno sul fatto che un testo possa essere satirico, umoristico e magari con pagine – si passi il termine tecnico – di supercazzola, ma insieme autenticamente letterario.

Rabelais scrive in prosa. Ma questa beffarda licenza d’irridere può riguardare anche la poesia? Non si vede perché no. E un esempio a noi contemporaneo viene offerto da un testo di notevole interesse stilistico, pirotecnicamente satirico e tale anche da irritare (in modo fondato o meno, non importa, perché la gente sa essere suscettibile) grandi ego che se ne ritengano interpellati.

Articolata in varie parti – tre cantiche di cinque canti su Inferno, Purgatorio e Paradiso, più Olimpo e Multiverso, a suggerire una cosmologia un po’ diversa da quella del padre Dante oggetto quest’anno di celebrazioni rintuzzate dal covid – l’opera rappresenta un esilarante controcanto alla Commedia: il che non ne costituisce, in sé, il vero punto di forza. Calchi parodici alla Commedia non sono certo mancati nel tempo, compresi richiami felici, colti e letterariamente controllati (basti pensare al recentissimo Nel girone dei bestemmiatori di Alberto Prunetti, Laterza 2020). A colpire anzitutto in Metalli Commedia sono semmai due aspetti formali, cioè la qualità alta, letteraria dell’impasto dei versi – non puramente parodici, ma satirici in senso proprio – e la puntuale, coltissima annotazione, che sopravanza per mole il testo stesso a illuminare scelte linguistiche e ortografiche, ammiccamenti e calembour.

Ad incipit d’Inferno ci viene chiarito:

 

Incomincia la Comedìa di Dama Clarìda, Ancilla Metalli, ne la quale tratta de le pene e punimenti, de’ vizi e de’ valori – delli Umani che popolano li Tre Regni dell’Arte. Lo Canto Primo de la prima parte – la quale si chiama Inferno – è lo Tartaro nel qual l’Auttore si trovò gittato nello momento stesso in cui principiò sua carriera scrittoria. Questo canto tratta di come l’Auttore trovò Alice Cooper, il quale la fece sicura del cammino attraverso orrorosi Letterati e malefici Poetanti.

 

Il che già spiega qualcosa. E principia:

 

Nel mezzo del gran sol (1) di Satriani (2)

mi (3) ritrovai per caso tra poeti

che non vi so dir le lagne immani

 

né lo girar di gonadi per vieti

ch’imposer alla scura mia scrittura

di ferro – in quel mollo di profeti.

 

Con congrue note:

 

(1) Nel mezzo del gran sol: a metà dell’assolo [solo] di chitarra. Dicesi assolo di chitarra la parte solistica destinata ai virtuosismi; tale parte varia dai cinque minuti ai cinque mesi. Valga anche per: a metà del giro di sol. A livello temporale, con gran sol l’Autore intende il Sole di Mezzanotte. È presente anche un riferimento al romanzo di Karl Bruckner Il gran sole di Hiroshima che descrive la storia di Sadako, una bambina giapponese sopravvissuta all’esplosione nucleare di Hiroshima – riferimento che, tranne l’Autore e i lettori italiani di Bruckner, nessuno altro avrebbe colto. E ancora: Guido d’Arezzo utilizzò la prima strofa di un Inno liturgico per ricavare i nomi latini delle 6 note dell’esacordo e «SOLve polluti» [libera dal peccato] è, quindi, verso di spettanza che si lega all’incipit. Da ultimo: la notazione anglofona, come quella greca antica, utilizza le lettere dell’alfabeto – e il Sol è indicato con la G [mio Geniale Lettore, se lo preciso – credimi – esista un perché! Pazienta: lo capirai tra due note]

(2) Satriani: Joe Satriani, chitarrista statunitense di origini italiane, ideatore del G3 [acronimo di Guitar Three], progetto che si propone di unire «i tre più grandi chitarristi del mondo» per realizzare una serie di concerti-evento. Con il nome G3, Satriani organizza una serie di tour, accompagnandosi, di palco in palco, con una diversa coppia di virtuosi della chitarra [Guitar Hero]. Con Satriani si esibirono, nel G3 del 1996, Steve Vai e Eric Johnson, affiancati negli anni successivi da altri musicisti del calibro di Robert Fripp, Paul Gilbert, Yngwie Malmsteen, John Petrucci, …

(3) Mi: il verso in cui Guido d’Arezzo cifra la nota Mi è «MIra gestorum» [meraviglia delle imprese]. La notazione anglofona indica la nota Mi con la lettera E. Combinando, quindi, il Sol con il Mi, per la notazione anglofona si otterrà: GE, la targa che sigla la città di Genova. Quel Mi, infatti, è riferito all’Autore Genovese che narra il novello dantesco viaggio, in prima persona. Tale Autore Genovese, accusato di essere poco chiaro, cercherà di chiarire con le note – e poi di chiarire le note che avrebbero dovuto chiarire il testo. L’Autore Genovese, non volendo essere l’Anonimo Genovese bis, si firma alla nota numero 3: Chiara Daino, l’Autore, nasce a Genova il 5/3/1981.

 

Non si dica insomma che l’autrice non si prende le proprie responsabilità.

Chiara Daino, in arte Dama, alterna negli anni produzione autoriale e attività attoriale. La sua natura poliedrica è segnata dalla musica e dai suoi trascorsi di cantante Heavy Metal. Tra le pubblicazioni, il bellissimo e terribile, meraviglioso e straziato Siamo Soli [Morirò a Parigi] (Zona Editrice, 2013, romanzo alla Perec), di lucidità abbacinante e dai mille giochi linguistici a esplorare sentimenti esplosi o esausti, a dar colpi d’ala e svolte vertiginose ai discorsi via via inanellati – il ruolo dello scrittore, l’amore e il sesso, il rapporto con la speranza, stanchezze e battaglie – e il godibilissimo l’Eretista (Sigismundus Editrice, 2011, romanzo). E poi La Merca (Fara Editore, 2006; Amazon, 2019, romanzo) e Siete Dei (Il Leggio Editrice, 2016, racconti); appunto questo Metalli Commedia varato con il sodale Marcello Ferrau (apparso inizialmente per Thauma Edizioni, 2010, ne arriva ora un’edizione rinnovata); Virus 71 (Aìsara Edizioni, 2010; Amazon, 2020; poesia) e parecchio altro, di varia ampiezza. Tra le raccolte antologiche: Bastarde senza gloria (Sartoria Utopia Ed., 2013, poesia); Storie di cibo, racconti di vita (è  coautrice di milAnoressica con Lello Voce, Skira Editore, 2012, drammaturgia). Ha recitato suoi testi in diversi festival nazionali e internazionali e partecipato a diversi poetry slam nazionali, vincendo il Monza Poetry Slam 2010 (Apocalissi quotidiane). Dalla sua collaborazione con l’artista Antonio Minerba nacque il volume sinestetico Atti Intimi (Chiaredizioni, 2018, pittura e poesia, ita/esp). Dopo alcune esperienze come Direttore di collana (Il Leggio Editrice; Thauma Edizioni), attualmente lavora free lance nell’editoria. Forte di un senso rigoroso della metrica – rime comprese – e insieme di un gusto carrolliano per il gioco di parole, coltissima, non timida nel provocare e nel rispondere, Chiara Daino riesce a rendere di spessore letterario ciò che in altre mani rischierebbe di risultare un semplice gioco parodico.

Se poi, in una pirotecnia d’invenzioni surreali, a guidare la Nostra come Virgilio fa con Dante è appunto Alice Cooper, che la salva mentre viene cazziata da Manzoni (“Viva lo Renzo e la nota zimarra / Memento mori, voi bruti borchiati”), capiamo che gli esiti saranno un po’ diversi da quelli del poema-matrice. In effetti il testo può leggersi fin nelle sue pieghe più nascoste come una colta, articolata celebrazione del metal e della sua storia nel corso degli anni: le note permettono di mappare un itinerario attraverso il genere, chiariscono ai non edotti la presenza puntuale di richiami a quell’autore o a quel pezzo, giocano costruendo immagini visionarie. L’autopresentazione di Virgilio/Alice Cooper è da antologia:

 

«Vade retro! Bigotta co’prurìti,

vade retro: fermo, vetusta bocca!

I’son l’Alice ch’elogia la potta

e’l pitone sul bavero – arrocca.

Mai la mia vista dal pianto è rotta:

I’son l’Alice che scuole conclude;

son io – in testa – nella dura lotta».

 

Dove le citazioni di I never cry, School’s Out e di un verso di Unholy War si accompagna al ricordo del pitone vivo con cui il Nostro si accompagnava sul palco. Il ricorso a un lessico alto e a formule espressive nobili con improvvise irruzioni di popolarismi accompagna lo sberleffo dei versi che s’incalzano, di grande suggestione: dalla “morchia degli incompetenti” (“Quei che sempre, pur valendo ‘na sega / si son detti, senza veri talenti, / trecazziemezzo – sovr’ogne collega”), si passa ad altre, tra incontri beffardi, menzioni eccellenti (da Carducci e Montale a Tim Burton, al titano Carmelo Bene alla band Grindcore/Goregrind/Death Metal dei Carcass, Mustaine dei Megadeth e Dave Lombardo il Batterista per antonomasia, De Sanctis e il purista Basilio Puoti, Diamanda Galás, Lello Voce e Paolo Poli,  Ozzy Osbourne …) e sassolini tolti trucemente dalle scarpe in un “immane scontro tra li Metallari e li Arcadi”. Se il primo canto dell’Inferno chiude qui con “e caddi come corpo sbronzo cade”, i giochi di parole sono continui (“«Noi al pogo! Voi al rogo!»”, l’Ostilnovo come versione metallara del Dolce Stil Novo con manifesto la canzone Fuckin’ Hostile dei Pantera, l’iscrizione su un amplificatore

 

PER ME SI VA NELLO METALLO ARDENTE,

PER ME SI VA NELL’ETTERNO POGARE,

PER ME SI VA TRA LA BORCHIATA GENTE.

 

L’ALTO FATTOR MI RESE VALVOLARE,

FECEMI POI L’EFFETTO IN DISTORSIONE,

E’L SOMMO VOLUME PER TEMPESTARE.

 

FRONTE ME FUOCA MASSIMA FUNZIONE;

SÓNO LO MURO DEL SÒNO L’ALTARE

REGIO SON FREGIO DI STROMENTAZIONE,

 

l’incontro con la “mignatta frotta” cioè il gruppo dei parassiti eccetera). Assistendo alla punizione di coloro che praticano l’Arte per hobby scimmiottando spocchiosi chi vi ha consacrato la vita,

 

Credendo I’fosse musa e Alice un bardo,

quel gruppo di fellon ci dileggiava

ma tosto li gelammo con lo sguardo:

 

«ferisce più la borchia che la clava!»

gridai, puntando al più grosso di loro,

e il Duca le sue nocche preparava;

 

di pianti avria causato nuovo coro,

ma pria che ognun di quei mettesse strillo,

di schianto li travolse come toro

 

un’Alfa Romeo guidata da Pier Paolo Pasolini, e da cui scende anche Marilyn Manson –

 

figure entrambe lor provocatorie

che abuso avean subito l’un e l’altro

da chi ricamò su lor – troppe storie

per concentrar su quelli l’attenzione

per farne due realtà – espiatorie.

 

Il canto V gioca su suggestioni futuriste nel presentare il rombo nell’aria che annuncia il passaggio al “regno secondo”, il Purgatorio: a custodire il passaggio è Marinetti. Nello spazio che qui si apre “si purgano li commessi peccati contro natura Metallica e si fortificano li spirti. Qui sono quelli che sperano di venire – quando che sia – a la beata Metallitudo” e Alice Cooper affida l’autrice a un nuovo compagno di cammino, Bruce Dickinson, non solo voce degli Iron Maiden, ma – è bene ricordare – “sceneggiatore, conduttore radiofonico, scrittore, pilota civile di linea”, schermidore, oltretutto plurilaureato (in Letteratura e Storia), “praticamente – un supereroe!”.

Ovviamente avrebbe poco senso in questa sede sgranare analiticamente tutta la pirotecnia di trovate del testo, fino al Paradiso e oltre – Olimpo celebra una serie di figure eminenti, Multiverso,

 

un tale mondo ch′è piano e ch′è flesso

e′l cui Vero nome è incontroverso

e d′ora′n poi sarà Disco Compatto,

un mondo ch′in un e nell′altro verso

girotonda, e che posa a contatto

su di quattro Mamuthones di immensa

mole ritti sopr′un fluttuante Gatto

 

richiama la cosmogonia di Terry Pratchett, inventore del Mondo Disco (con un cicinin di sardo in omaggio al coautore Ferrau, sostituendo agli elefanti, in assonanza coi mammuth, le maschere Mamuthones dell’isola). Né è possibile soffermarsi qui sulle divertentissime scene di sesso che coinvolgono lo stesso padre Dante, “dedito a sua Nova Vita”: più interessante in questa sede è riflettere quale sia lo statuto di un tale sberleffo. Che palesemente non si esaurisce nella parodia da liceali ben preparati (con quanto di sovraccarico ormonale riguarda quell’età, e dunque via col sesso): anche a prescindere dalla rutilante fantasia di contenuti, la costruzione linguistica di Metalli Commedia denuncia un tenore formale estremamente controllato, persino nel ricorso a espressioni popolari e magari turpiloquenti. Per non parlare del tenore delle note, in numero di 727, con richiami sparigliati su tutti livelli della cultura, alta come bassa. Caratteristiche che rimandano, come detto, al resto della produzione di Chiara Daino, scintillante di cultura e intelligenza (e qui assecondata dal coautore). A colpire è la qualità dei giochi di parole, modulanti un intero linguaggio: ma, di nuovo, da qui siamo partiti. Mentre merita soffermarsi su due aspetti.

Anzitutto il testo è una grande dichiarazione d’amore per il Metal, di cui esplora la produzione con l’enciclopedismo di una storia del genere vista dall’Italia: un modo originalissimo, visionario e rigoroso per affrontare a tutto campo musicisti, band e loro produzione. Nulla insomma di “facile” o banale, ma un’operazione sottile sotto la maschera del gioco spudorato.

Però c’è un secondo e più rilevante aspetto. La suggestione del Metallo, di tutto un immaginario anche visivo – borchie, chiodi… e loro forgia – richiama efficacemente quell’eminente tipo di forgia che riguarda la lingua, le parole. Comprese le parole della poesia, a partire dall’etimologia di ποιέω come produrre, fare, creare. Il linguaggio a colpi di metrica e rime di questo testo – così come quello in prosa di altri testi di Daino – si presenta proprio come risultato felice, convincente, di una tensione che non ha nulla di certo sperimentalismo espressivo ormai logoro: una lingua ironica, colta ma aperta anche ai registri più popolari, pronta a intercettare idee e significati (saldature, assonanze, giochi di parole) con la forza visiva e ritmica di chi di musica si occupa non accidentalmente. In un’epoca di abbrutimento linguistico come la nostra, per mille motivi di cui i social echeggiano, la scoperta di quest’autrice per me è avvenuta tramite i suoi post su Facebook politi come assaggi di Zibaldone, irridenti, provocatori. Nel lavoro controllatissimo di lima con cui incalza una fantasia alla Alice (in Wonderland non meno che all’Alice Cooper), nel nesso con passioni serissime su cui ha costruito la vita, nello stesso sberleffo rabelaisiano del giocare coi pesi massimi della cultura, mi sento di dire – pronto ad affrontare l’ordalia, come il Brancaleone di Monicelli, con la colomba in mano – che Chiara Daino fa della poesia autentica.

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Living Colour: Shade https://www.carmillaonline.com/2017/10/26/living-colour-shade/ Thu, 26 Oct 2017 21:00:46 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=41278 di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro. Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente. Poi nel settore “Black music”, zero. Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour. Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop. Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà. È il 1989 e vi dipingo il quadro: [...]]]> di Dziga Cacace

La commessa non ha voglia di star lì, è chiaro.
Io ho scartabellato nel settore “hard and heavy” e niente.
Poi nel settore “Black music”, zero.
Allora ho provato a dirle il nome del gruppo: Living Colour.
Lei ha un lampo: “Ah, quei negri!”. E mi tira fuori Vivid dal cassone del pop.
Vai a capire i meccanismi per cui un disco come questo sia finito in mezzo al pop. Forse in ragione del video di Glamour Boys, chissà.
È il 1989 e vi dipingo il quadro: non ho neanche vent’anni, ascolto un sacco di musica, tengo a distanza il metal ma ho una passionaccia per l’hard rock. Una trasgressione controllata, diciamo, borghese: partendo dai suoni nobili dei Cream e di Hendrix sono arrivato ai Thin Lizzy e agli UFO passando per Deep Purple e Led Zeppelin e altre band ancora.
E poi mi piace anche la musica nera, chiaramente. Molto.
Riguardo la politica ho lo stesso caos mentale in testa: grandi rivendicazioni in una confusione dove si mescolano echi passati e istanze attuali.
È in questo nebbione che un bel giorno, scanalando, su VideoMusic – la mai troppo rimpianta VideoMusic, casereccia ed originale molto più della futura MTV – mi capita tra capo e collo un video coloratissimo dove quattro neri pestano come maniscalchi, tra immagini di Martin Luther King, Kennedy e Mussolini.
Aspetta aspetta: mmh, curiosi.
Non c’era la Rete per andare a farsi un’idea o YouTube per rivedersi il video.
No, bisognava aspettare e incrociare le dita che ripassasse il video o magari beccare l’articolo giusto sul giornale – sicuramente all’epoca – giusto: il Mucchio Selvaggio. E allora scopro che esiste un quartetto di neri che picchia duro, che mette in musica rivendicazioni artistiche (e in fondo perché i neri non dovrebbero suonare hard rock?) e politiche, e che è prodotto e distribuito da una major.
E vai di acquisto di Vivid, acquisto che, allora, era un atto di fede: compravi un disco e ti doveva bastare per un po’: erano 15mila lire, 15 sacchi sudati facendo il baby sitter o il cameriere. Trovai solo una musicassetta, mezzo alquanto infelice per certi versi e felicissimo per altri: l’ascolto in una sequenza definita ti costringeva ancor più del vinile (dove le divisioni tra pezzi erano leggibili) a seguire il discorso dell’artista. Era un percorso obbligato e l’album andava assunto nella sua interezza, non per brani.
E questo era un album di debutto eccezionale, sponsorizzato da Mick Jagger e subito amato da critica e pubblico.
Come definirlo? Hard rock con venature funky e noise, echi di Hendrix e James Brown, accenni di hip hop e una produzione scintillante e levigata che esaltava i ritornelli pop. Mettiamoci una voce calda e suadente ma capace di urlare e una chitarra istrionica che poteva accarezzarti con arpeggi alla Curtis Mayfield e sfregiarti con contorsioni metalliche. E poi i testi: i Living Colour accedono ai piani alti della classifica di Billboard (il disco sarà due volte platino, raggiungendo il sesto posto) cantando di diritti negati, razzismo, homeless, fiducia cieca nei leader, consapevolezza nera e privilegio bianco, disoccupazione e yuppies plastificati.
Vernon Reid, chitarrista e leader della band, è cresciuto tra musica pop, Stax, il funk rock di Sly Stone, ovviamente Hendrix ma anche tanto jazz, da quello classico fino a Eric Dolphy e il Coltrane più cosmico, arrivando ai Defunkt.
Le sue linee chitarristiche sono un flusso di coscienza, come il dripping di un Jackson Pollock sulla tela imbastita dalla batteria potentissima di Will Calhoun e dal basso di Muzz Skillings, e in questo turbinio senti il groove micidiale dei Parliament, ma anche il punk dei Gang of Four e dei Clash, l’eredità del CBGB e il sound metropolitano dei Talking Heads.
Vengo conquistato in pieno e da lì rimango innamorato perso di quel sound e di quel discorso. Son venuti altri album, sempre riusciti e premiati dalla critica ma meno facili per il grande pubblico. Dopo l’acclamato Time’s Up (1991) e il durissimo e inesorabile Stain (1993, col nuovo bassista virtuoso, Doug Wimbish) la band scompare dalla luce dei riflettori: la democrazia interna ha portato all’implosione.
Seguono anni di silenzio fino a un insperato ritorno nel 2003, con Collideoscope, album che riprende un discorso effettivamente lasciato a metà.
All’epoca scrivevo per Rolling Stone e mi arriva la proposta di intervistare Reid. Un po’ per il mio inglese, un po’ per la mancanza di tempo, un po’ perché il compito mi sembra richieda una maggiore preparazione, lascio stare, ma vedo finalmente i Living Colour dal vivo, a Trezzo. Sono sotto il palco e quando i musicisti accedono direttamente dal camerino penso a un effetto speciale, vedendo la nube che li precede. Errore: ganja pura che ci stordisce e inebria durante un concerto fenomenale, cominciato con Back in Black degli AC/DC e punteggiato da tutti i pezzi fondamentali della band, oltre a una durissima Seven Nation Army dei White Stripes, qui da noi non ancora coro da stadio.
Dopo un album interlocutorio del 2009 (The Chair in the Doorway), il silenzio, interrotto l’anno passato da un singolo, una cover di Notorious BIG, Who Shot Ya, tristemente emblematica.
E finalmente, dopo tanta attesa, a settembre 2017 arriva il nuovo album, Shade.
Che è una badilata nei denti, con la chitarra spigolosa di Reid che detta ancora legge, e basso e batteria che hanno un piglio che non trovereste in tante band di biancuzzi arrabbiati. All’attacco crunchy dei Metallica si sovrappone la sinuosità di un Prince (e tantissimo altro ancora, ovviamente), cadenzando il clangore della rabbia di una battaglia per la dignità e il rispetto che sembrava fuori tempo trent’anni fa e che oggi è più rilevante ancora, mannaggia.
L’album – va detto – non è facile, né radiofonico. Qui non c’è nulla di danzereccio, al limite il groove leggero della cover di Inner City Blues, ennesimo omaggio (a Marvin Gaye) che dà le coordinate del lavoro, così come la giustamente trasfigurata Preachin’ Blues di Robert Johnson. Del resto Corey Glover da anni andava annunciando un disco blues. Solo che qui il blues è riletto secondo la lingua arroventata di questi cinquantenni incazzati: non aspettatevi le classiche dodici battute o shuffle allegrotti. Del blues c’è lo spirito, i testi amari aggiornati alla situazione del terzo millennio, c’è l’ossessività ritmica e l’incessante lavoro delle chitarre che non si vergognano di prendersi lo spazio per dei (misurati) assoli, eloquenti nell’esprimere rabbia e dolore.
È stata un’attesa ben ripagata, insomma. E quanto è commovente, dopo anni di lavorazione, trovare un disco eccezionale quando non esistono più i negozi dove venderlo?

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Vic Vergeat story https://www.carmillaonline.com/2013/12/19/vic-vergeat-story/ Thu, 19 Dec 2013 22:06:08 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=11431 di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock. Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia [...]]]> di Filippo Casaccia

vvs01Per diversi anni ho lavorato a un documentario sull’incredibile vicenda musicale di un amico: Vic Vergeat, uno dei migliori chitarristi italiani, sconosciuto ai più ma autentico artista di culto per gli appassionati di rock.
Vic vanta una carriera iniziata negli anni Sessanta e che lo ha portato a suonare in tutta Europa e Stati Uniti, esibendosi per pochi fortunati in un pub o per decine di migliaia di spettatori a tanti festival; ha inciso album con budget milionari e altri a costo zero e venduto comunque parecchie copie della sua non esile discografia. E dovunque abbia suonato – disco, concerto o turno in sala che fosse – ha lasciato il segno, umano e artistico.
Per raccontare la sua storia ho girato assieme al mio collega Riccardo un centinaio di ore di interviste e di concerti, anche se poi la vita ha preso il sopravvento e il documentario non l’abbiamo fatto. Ma la storia c’è e non dipende dal fatto che ci sia sfuggita di mano.
La storia c’è ed è questa, così come me l’ha raccontata il protagonista.

Vittorio Vergeat, di famiglia della Val Vigezzo, nasce nel 1951 a Domodossola e rimane presto folgorato dal rock’n’roll, ottenendo a dieci anni la sua prima chitarra.
È il classico bambino prodigio: ribelle, insofferente alle regole e alla disciplina, ma con le idee chiare su come e cosa suonare. Per tenerlo a freno i genitori lo mandano in collegio, da cui fugge: il suo liceo lo frequenta tra Como e Chiasso (nomen omen) suonando nei beat Black Birds. Dolce Delilah nel 1967 è il battesimo su vinile, che sul retro presenta anche la sua prima composizione, l’ingenua Torna verso il sole che però sfodera un distorsore acidissimo (“Il tecnico del suono, in camice bianco, si lamentava: si è rotto qualcosa!”). All’epoca Vic non è ancora iscritto alla SIAE e la canzone viene accreditata al produttore: “La prima inchiappettata”, termine tecnico conosciuto da molti musicisti.
La “vecchia” musica pop è intanto soppiantata dal rock e il chitarrista studia sui Beatles prima e su Hendrix poi: Jimi rompe ogni schema e il suo strumento lo fa cantare, piangere, urlare. Anche per l’esuberante Vergeat la chitarra diventa un simbolo fallico da masturbare, un corpo femminile da accarezzare e una mitragliatrice da far deflagrare. Lo fa con gli Underground a Lugano, assieme all’uomo orchestra Hunka Munka. Diventano un’attrazione che riempie i locali, al punto che i gestori temono la fuga di Vic, cosa che fa puntualmente, scappando una notte con la sua chitarra e la fidanzatina alla volta di Londra.
Siamo nel 1969 e la capitale britannica è la sua università. Per 7 mesi Vic è tutte le sere prima a mangiare al Ritz – perché è un dandy viziato – e poi al leggendario club Marquee per imparare dai maestri.
vvs02bArmato della sua Les Paul ’58 frequenta gli Hawkwind, un gruppo di storditi profeti dello space rock: “Loro erano drogatissimi e io ero pulito e innocente. Perlomeno ancora!”, e finisce subito, dopo alcuni giorni in sala di registrazione. Il leader Dave Brock oggi nega, ma della sua lucidità di allora francamente dubiterei molto.

Vergeat torna a casa nell’ottobre 1970, in Italia, e assieme alla sezione ritmica della cult band psichedelica Brainticket (Cosimo Lampis alla batteria e Werner Fröhlich al basso, due mastini) forma i Toad, che registrano il primo omonimo album due mesi dopo, a Londra. Suonano spesso in Svizzera, anche al festival di Montreux (nel gennaio 1971) dove in diretta televisiva Vic rompe tre volte le corde della sua chitarra… In Italia le date sono invece sporadiche (lo Space Electronic a Firenze, il Piper a Roma, ovviamente a Domodossola) e la band “frontaliera” viene – e verrà sempre – equivocata come esclusivamente elvetica, con conseguente poca considerazione. Sbagliando.

vvs02Grazie anche al lavoro del sound engineer Martin Birch (mastermind produttivo di Deep Purple, Iron Maiden, Blue Oyster Cult, Rainbow, Whitesnake e tanti altri), il primo disco è bello e inventivo, con la Firebird straripante del leader in evidenza, e si muove con originalità tra le coordinate stabilite da Grand Funk Railroad e Led Zeppelin. Il cantante Benji Jaeger si chiama fuori frustrato (“Non si divertiva molto quando improvvisavo per quindici minuti. E quindici minuti era un assolino!”) e i Toad diventano un power trio che nel 1972 sforna il perfetto Tomorrow Blue, capolavoro riconosciuto hard rock e progressive, dove l’ascendenza heavy blues è stemperata nella capacità melodica di Vic e dalla varietà di ritmi e atmosfere, aggiungendo alla ricetta anche un violino indemoniato.
I Toad partecipano ai classici raduni italiani dell’epoca (Palermo Pop Festival nell’agosto 1971, assieme a Black Sabbath e Colosseum; Villa Pamphili a Roma, nel 1972) ma i grandi riconoscimenti li hanno in Francia, Germania e Svizzera, con buoni riscontri di vendite – specialmente con il singolo Stay! – accolte con tipica spocchia giovanile: “Quando eravamo tra i primi in classifica ero incazzato nero! Volevo essere il 33!”.
Succede anche di aprire per i Deep Purple o per i Genesis in un tour francese (e in questo caso di diventare dopo alcune date gli headliner), ma il momento non viene sfruttato. Il gruppo si prende una pausa e Vergeat va a vivere a Roma.

vvs03In attesa di realizzare un album solista, presta la sua chitarra alla RCA (facendo turni per Renato Zero e Morricone) e si butta in grandi jam, complice l’amicizia con i membri del Rovescio della Medaglia. Addirittura interpreta un cantastorie hippie nella truffaldina riedizione di uno spaghetti-western, Sparate a vista a Killer Kid, anonima pellicola jugoslava e tedesca di metà anni Sessanta con l’unico merito di avere come protagonista secondario Mario Girotti. Che a inizio Settanta diventa Terence Hill e sfonda grazie ai film di Trinità… e allora vai di riciclo. Ma il pubblico – non sembra senza motivi – non abbocca.
Nel 1974, mentre tutto il rock commerciale si divarica e va verso l’hard o il pop e finisce quella magia per cui si poteva suonare tutto, Vic diventa l’unico biancuzzo in una scatenata band soul nera, quella di Wess, gli Airedales: è il suo master in una piccola facoltà.
Dopo Dreams, un disco di rock’n’roll a nome Toad, gradevole ma un po’ sfocato e che non ha alcun riscontro commerciale, Vic torna a Londra in piena esplosione punk e collabora con Pete Sinfield (già paroliere di Emerson Lake and Palmer e della Premiata Forneria Marconi), con Mitch Mitchell (il batterista della Experience di Hendrix) e John Giblin (bassista sessionman extraordinaire, avrebbe poi suonato con Peter Gabriel, Paul McCartney e i Simple Minds). Non ne viene fuori nulla.

vvs04Si torna sulla strada ancora con i Toad che dal vivo sono un calderone ribollente, dove confluiscono blues, hard e funk, in naturale combustione. Una scelta musicale istintiva che il business (a differenza del pubblico dei concerti) non capisce e non asseconda. I manager vogliono un Vic guitar hero, truce, tutto pelle e borchie e la Capitol prova a lanciarlo sul mercato statunitense con un’immagine tamarrissima. Lo cura Dieter Dirks, deus ex machina del successo degli Scorpions, e Vergat (come viene rinominato per facilitare la pronuncia yankee, roba da chiodi) pubblica un album, Down to the Bone, dalla terribile copertina metallara: “Mi chiedevano di fare la faccia cattiva, sul palco o davanti ai fotografi…”. La cosa pare funzionare (il disco entra nella classifica di Billboard) e in realtà sotto la scorza della produzione c’è la consueta varietà di generi, spaziando dal boogie al funky al soul. Seguono diverse date in giro per gli USA, aprendo per Nazareth, Scorpions, Rory Gallagher e Joe Perry Project (del chitarrista degli Aerosmith), ma Vic è una rockstar irrisolta e non è il tipo che la manda a dire. E così, all’interno delle major losangeline, diventa il musicista genialoide da tenere a distanza, da trattare con le pinze perché poco controllabile. La sua sezione ritmica diventerà multimilionaria nei Ratt, gruppaccio hair metal, mentre il nuovo album solista, Weapon of Love, non esce, dopo epocali scazzi col produttore.

Tutti gli anni Ottanta passano all’insegna della frenesia tipica dell’artista valvigezzino: diventa padre due volte, si sposa, divorzia, sembra formare un supergruppo con Rick Wakeman e Carl Palmer, ha un nuovo successo in Svizzera con una band pop rock (i Bank, assieme a Hugh Bullen, già bassista di Battisti e Pino Daniele), perde un ingaggio milionario con la MCA e incide con il cantante dei Krokus, Marc Storace, una bella cover di When a Man Loves a Woman. Ma il singolo viene bloccato dalla casa discografica finché lo stesso arrangiamento – come per magia – viene fuori nel successo planetario di Michael Bolton…
Gli anni Novanta vanno però meglio, anche se non nel modo più prevedibile: infatti nel 1993, assieme alla figlia Neve, Vic scrive la sigla di Pingu, un cartone animato elvetico venduto in tutto il mondo: canta David Hasselhoff, il bel tomo di Supercar e Baywatch e la canzoncina ottiene un buon successo. Ma soprattutto Vic riforma i Toad e fa uscire un album intenso e roccioso, Hate to Hate in cui si scaglia contro la guerra in Iraq (ed era solo la prima guerra in Iraq). Torna in tour col suo gruppo storico e poi – come ospite di lusso – assieme a una band svizzera che sta andando benissimo, i Gotthard, partecipando al vendutissimo D-Frosted.

vvs0xNel 1998 incontra Gianna Nannini grazie alla conoscenza comune del manager Peter Zumsteg e con lei scrive parte dell’album Cuore (e anche un’altra sigla che funziona, quella di Lupo Alberto!). Dopo oltre un anno di concerti assieme, Vic decide di dedicarsi di nuovo alla sua carriera solista: nel 2002 licenzia un buon album dal vivo, No compromise, e partecipa anche a due tributi hendrixiani che rilanciano il suo nome tra gli appassionati e i critici.
Qualcosa però si blocca: dopo anni e anni di tentativi, il guerriero è stanco di combattere.
Ed è qui che arrivo io.

Curando da qualche tempo una rubrica per Rolling Stone, chiamo incuriosito una piccola ma agguerrita etichetta discografica di La Spezia, la Akarma, che lo produce e distribuisce. Mi dicono: “Attento! È diffidente coi giornalisti, il Vergeat!”. Gli telefono, ci annusiamo e finiamo a parlare di Mike Bloomfield e Peter Green, due perdenti nella logica mercantile dell’industria musicale, due geni per noi e per tutti quelli che la musica la ascoltano sul serio.
Per capirci al volo: Mike Bloomfield è la chitarra di Highway 61 Revisited di Bob Dylan mentre Peter Green è il fondatore dei Fleetwood Mac, prima che abbandonassero il blues per tirare dune di coca su per il naso… Due musicisti che hanno saputo mettere in musica con sincerità estrema tutta la loro ansia e difficoltà di vivere, senza mai sembrare dei semplici imitatori della tradizione black.

Vic accetta che lo intervisti e vado a trovarlo a casa sua, a Domodossola. E scopro che se gli piacciono i beautiful losers come Green e Bloomfield, allo stesso modo non ama chi è riuscito ad avere un successo trasversale, come Prince o Springsteen, per esempio.
vvs05La sua storia è decisamente interessante: come ha fatto uno così, mostruosamente dotato in termini compositivi, esecutivi e spettacolari, a non avere avuto un riconoscimento unanime?
Perché, tutte le volte che il successo sembrava dietro l’angolo, qualcosa s’è messo di traverso?
Con il mio collega Riccardo decidiamo di realizzare subito un dvd-concerto, a budget zero e con attrezzature di fortuna. E ci viene anche molto bene: Live at Music Village ottiene recensioni positive in modo imbarazzante, però la distribuzione è difficoltosa se non nulla e il dvd rimane una chicca per appassionati.

Negli anni di frequentazione che seguono vediamo Vic suonare a festival e feste di piazza, in pub, teatri e (letteralmente, in esibizioni sempre clamorose) per la strada, acustico ed elettrico, al Blue Note di Milano come all’Hard Rock Cafè di Mosca. Sempre a fianco del pazientissimo e talentuoso bassista Michi e con amici vecchi e nuovi (Mel Collins, Franz Di Cioccio e Patrick Djivas, tra le collaborazioni più recenti), inseguendo ogni volta progetti artistici inediti, talvolta strampalati, più spesso generosamente incoscienti.
Cosa abbiamo capito di lui? Vic ha una voce chitarristica unica, non fa prove (“Un pittore dipinge la tela una volta sola, no?”) e improvvisa sempre la scaletta del concerto (facendoci impazzire quando si tratta di filmarlo). Consulta gli I-Ching, odia il calcio ma tifa Valentino Rossi peggio di uno hooligan; dimentica ovunque occhiali e cellulare, non sopporta Emilio Fede e le zanzare, gli piacciono il Tenente Colombo, il vino rosé e la sua Ducati è sempre l’ultimo e più prezioso modello esistente (adesso è una Panigale R, in recente sostituzione di una Desmo 16). E poi Vic fa esattamente quello che non bisognerebbe fare quando si suona la chitarra. Cioè: arti marziali e roccia…
È un vanitoso (con un gusto sartoriale tutto suo), un pasticcione e un lamentoso, è logorroico e “tra l’altro” è la sua formula per allargare all’infinito ogni discorso. È idealistico e incoerente, sicurissimo fino al momento in cui non cambia idea. Lo sa e non può farci niente. Perché è vero e non sa mentire, nel bene e nel male.

vvs06Il documentario che volevamo dedicargli non ha trovato committenti: le case discografiche non avevano più un euro e la sua storia, per me paradigmatica di un mondo che sta scomparendo, non sembrava interessare nessuno.
Però quella che mi era sembrata una carriera senza la fortuna che meritava, oggi la vedo in modo molto differente e mi pare che contino di più i risultati ottenuti di quelli che si poteva sognare di realizzare. Del resto Vic è stato ambizioso, sí, ma mai abbastanza da dover accettare delle imposizioni: dopo una partenza fulmicotonica a neanche vent’anni, è come se avesse attuato una lenta ritirata dalle trappole e dalla fatica dello stardom, che può vincolare a una formula e diventare un obbligo. Non senza qualche legittima frustrazione, è ovvio, ma il successo di questo ragazzino di sessant’anni, oggi, sono la moglie Carmen, i figli e i tantissimi amici, la musica che ha scritto e la gioia che regala ogni volta che imbraccia una chitarra.
E non è poco.

Da ascoltare
Toad – Toad (1971)
Toad – Tomorrow Blue (1972)
Vic Vergeat – No Compromise (Live, 2002)
Vic Vergeat – Just the Two of Us (acustico, 2011)
Vic Vergeat – Live (acustico, 2012)

Da vedere
Vic Vergeat Band – Live at Music Village (2006)

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