Hamas – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 E allora Hamas? La violenza degli oppressi e i dilemmi della sinistra occidentale https://www.carmillaonline.com/2024/08/02/e-allora-hamas-la-violenza-degli-oppressi-e-i-dilemmi-della-sinistra-occidentale/ Fri, 02 Aug 2024 04:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=83501 di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza [...]]]> di Fabio Ciabatti

Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 95, € 12,00. 

La violenza è l’unico modo per affermare la propria umanità da parte di chi subisce una brutale oppressione. Inutile fare appello alla sua essenza umana astratta, sferrare un pugno al volto del suo carnefice è l’unico mezzo per riacquisire la propria dignità. La violenza repressiva è la negazione dell’uguaglianza e quindi dell’umanità stessa. La violenza vendicatrice, all’opposto, crea uguaglianza, ma questa è soltanto negativa, un’uguaglianza nella sofferenza. Per questo, non bisogna mai dimenticarlo, uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria. Credo che questo sia un buon punto di partenza per chi vuole esprimere la doverosa e piena solidarietà con la lotta del popolo palestinese mantenendo allo stesso tempo uno sguardo lucido sulle posizioni in campo.
Queste considerazioni sulla violenza si possono trovare nel pamphlet Gaza davanti alla storia di Enzo Traverso, sebbene non appartengano direttamente all’autore che le riprende da Jean Améry, un sopravvissuto ai campi di sterminio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di riflessioni che partono proprio dalla condizione dei prigionieri nei lager nazisti. Se qualcuno si scandalizzasse per il paragone tra i palestinesi perseguitati dal colonialismo sionista e gli ebrei vittime del genocidio hitleriano si deve notare che è lo stesso Améry che, riflettendo sugli scritti di Fanon, accosta “l’oppresso, il colonizzato, il detenuto del campo di concentramento, forse anche lo schiavo salariato sudamericano” nelle sue considerazioni sulla violenza.1

Il rovesciamento tra la vittima di ieri e il carnefice di oggi non è l’unica inversione di cui prende atto Traverso riflettendo sulla tragedia di Gaza. Definire i palestinesi come “animali umani” (come ha fatto ultimamente il ministro della difesa israeliano Gallant) o “scarafaggi drogati dentro una bottiglia” (come fece nel 1983 dal capo di stato maggiore dell’esercito Eitan) rimanda immediatamente a stereotipi antisemiti importati in Medio Oriente. Questi “animali umani” che sgusciano fuori dai tunnel per colpire un esercito di occupazione, inoltre, non possono che evocare la tragica lotta degli ebrei nel ghetto di Varsavia nel 1943. La parte più estremista dell’attuale governo di Netanyahu, in aggiunta, apprezza esplicitamente la formula di “spazio vitale” israeliano applicata all’intera Palestina storica. Un apprezzamento che dimentica come questo concetto nasce per opera dei pangermanisti che consideravano le frontiere stabilite dal diritto internazionale come pure astrazioni, rivelatrici di un pensiero disincarnato di marca ebraica. Infine, sono proprio gli antisemiti dichiarati di ieri ad essere i più pronti a denunciare il presunto razzismo antiebraico di chi si oppone al sionismo (salvo continuare a coltivare in segreto i loro vecchi e osceni sentimenti, come ha mostrato l’inchiesta di Fanpage).
Va bene, si dirà, queste sono sottigliezze intellettuali, mentre l’azione di Hamas è stata cosa ben più concreta. Si sarebbe trattato di un’azione terroristica, di più, di un pogrom, figlio di una concezione fondamentalista e, al fondo, antisemita dell’organizzazione palestinese. Di fronte a queste accuse, bisogna osservare che l’attacco di Hamas non può essere definito un pogrom, se le parole devono avere un significato determinato. Perché Hamas non è al potere in uno stato in cui gli ebrei sono una minoranza oppressa, come nella Russia zarista. È evidente che l’utilizzo del termine pogrom serve solo a marchiare l’organizzazione islamica con lo stigma dell’antisemitismo.
Ma si può parlare di terrorismo? Traverso sostiene di sì perché l’attacco di Hamas aveva l’esplicito intento di rovesciare sulla popolazione israeliana il terrore vissuto per decenni dai palestinesi. Per questo motivo non esita a condannare questa azione. Lo ripete più volte. L’oppressione subita non giustifica l’eccidio di civili innocenti così come “la profonda paura esistenziale” degli ebrei, che nasce dalla lunga storia dell’antisemitismo culminata nella Shoah, non rende Israele ontologicamente innocente. 

Eppure, non si può assolutamente parlare di ragioni opposte ed equivalenti. È vero che quelle dei palestinesi e degli israeliani, come sostiene Edward Said citato da Traverso, sono memorie incrociate che si ignorano e si negano a vicenda: la prima è incentrata su una vicenda storica fatta di espropriazione, sradicamento, espulsione dalla propria terra, occupazione e privazione dei propri diritti; la seconda sulla conquista dell’indipendenza, sulla riappropriazione di una terra cui si avrebbe diritto per decreto biblico e sul riscatto da parte di un popolo di vittime. Ma da queste memorie opposte nascono azioni che, ripetiamolo insieme allo storico italiano, non possono essere considerate equivalenti: l’esistenza di un esercito di occupazione è in sé condannabile, mentre le azioni della resistenza sono di per sé legittime, anche quando sono violente, salvo poter essere criticate per gli specifici mezzi che di volta in volta sono utilizzati.
Il fatto è che la questione della violenza degli oppressi e degli sfruttati è oramai diventata un tabù e fa bene Traverso a richiamarla in tutta la sua crudezza.

Decenni di politiche memoriali focalizzate quasi esclusivamente sulla sofferenza delle vittime, tese a presentare la causa degli oppressi come trionfo dell’innocenza, hanno eclissato una realtà che appariva ovvia in altri tempi. Gli oppressi si ribellano ricorrendo alla violenza e la loro violenza non è bella né idilliaca, talvolta è anzi raccapricciante.2

È falso pensare che i movimenti di liberazione e il terrorismo siano due fenomeni privi di relazioni. Per quanto deplorevole, sostiene Traverso, l’uccisione di civili è sempre stata l’arma dei deboli nelle guerre asimmetriche: questo è stato vero per il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, per i vietcong in Vietnam, per l’African National Congress di Mandela in Sud Africa, per l’OLP di Arafat prima degli accordi di Oslo e anche per l’organizzazione ebraica Irgun prima della nascita di Israele.
Marco Revelli, recensendo il testo di Traverso, ha negato l’analogia tra questi esempi storici e l’attacco di Hamas perché in quest’ultimo ci sarebbe qualcosa che va oltre il massacro di civili innocenti: c’è la ricerca consapevole della rappresaglia indiscriminata di Israele contro la stessa gente di Gaza, la deliberata provocazione del martirio di massa come strumento di propaganda e di proselitismo.3 La questione è certamente importante, ma nel testo di Traverso si risponde in anticipo a questa obiezione. L’autore di Gaza davanti alla storia cita infatti Giorgio Bocca il quale, affrontando il tema del terrorismo della lotta partigiana in Italia contro i nazi-fascisti, parla di “un atto di moralità rivoluzionaria” finalizzato a provocare e inasprire il terrorismo dell’occupante. Si tratta, sostiene ancora Bocca, di “autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglie per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell’odio. E una pedagogia impietosa una lezione feroce”.4 

Insomma, è necessario abbandonare le ingenue illusioni in cui la sinistra occidentale si culla troppo facilmente:

La linea di demarcazione tra il terrorista e il combattente non è sempre chiara; le due figure si sovrappongono. L’immagine sublime del combattente come eroe immacolato è un mito; quella stereotipata del terrorista come bruto, fanatico, esaltato e crudele, inebriato dalla hybris della morte e del sangue, è altrettanto falsa.5

L’immagine di Hamas come un esercito di belve assetate di sangue contrapposto alla visione dello stato di Israele come un’isola democratica in mezzo all’oceano oscurantista del mondo arabo fa parte di un arsenale ideologico che attinge a piene mani all’orientalismo di cui ci parla Edward Said, sempre citato da Traverso. I suoi assiomi, storicamente essenziali per l’autodefinizione dell’Occidente in contrapposizione all’Oriente, sono rimasti i medesimi: civiltà contro barbarie, progresso contro arretratezza, illuminismo contro oscurantismo. La cosa singolare è che gli ebrei per secoli hanno rappresentato l’Oriente interno nel mondo Europeo. Con la fondazione dello stato di Israele hanno invece attraversato la “linea del colore”: sono diventati bianchi (compresi gli israeliani di provenienza non occidentale, di cui è stato di fatto cancellata la storia) in contrapposizione al mondo musulmano che, a seguito delle dinamiche migratorie, è diventato il nemico interno (oltre che esterno) per eccellenza, oggetto di razzismo sistemico. L’immaginaria dicotomia ontologica istituita dall’orientalismo, aggiunge però Traverso, oggi muta di segno: se nel XIX secolo l’Occidente pretendeva di diffondere la civiltà attraverso le sue conquiste, oggi si sente una fortezza assediata. E per questo diventa più feroce, fino al punto di non farsi scrupolo di perpetrare un genocidio trasmesso in diretta attraverso la TV e i social. 

L’utilizzo del concetto di genocidio è fonte di infinite polemiche, anche nella sinistra radicale. Traverso, sulla base della definizione della Convenzione sulla prevenzione e repressione del crimine di genocidio del 1948 e della sentenze della Corte internazionale di giustizia dello scorso gennaio, sostiene che è pienamente legittimo. Personalmente ritengo questo dibattito un po’ stucchevole, a maggior ragione dopo le ultime catastrofiche previsioni della rivista The Lancet (che ovviamente non possono essere prese in considerazione da Traverso): tenendo conto dei morti accertati fino all’inizio di luglio 2024 e delle immani e deliberate distruzioni di tutte le infrastrutture civili di Gaza, si può stimare, prudenzialmente, che ci saranno fino a 186.000 decessi dovuti direttamente e indirettamente alla guerra, pari al 7,9% della popolazione della Striscia.
Per evitare inutili polemiche si può aggiungere che 
lo sterminio dei palestinesi non è un obiettivo in sé per Israele perché il fine ultimo dello Stato ebraico è la pulizia etnica della Palestina storica. C’è dunque una differenza significativo rispetto a quanto avvenne agli ebrei sotto la Germania nazista. Ma, è questo il punto messo in evidenza da Traverso, occorre superare un immaginario popolare per il quale un genocidio “deve assomigliare all’Olocausto per meritare questo titolo”. Diversi possono essere i mezzi (proiettili, camere a gas, machete, carestie provocate o non contrastate, bombardamenti sistematici pianificati dall’intelligenza artificiale) e gli obiettivi (sterminio con motivazioni razziali, conquista e sottomissione, sostituzione di una popolazione autoctona). Nel caso specifico, non essendoci le condizioni concrete per un esodo di massa forzato della popolazione, sia per la resistenza palestinese sia per l’ovvia indisponibilità degli stati limitrofi, la pulizia etnica, se perseguita fino in fondo, tende inesorabilmente a trasformarsi in un genocidio.

Seppur ammettiamo la possibilità di un esito estremo delle azioni belliche di Israele, non dobbiamo comunque riconoscere che il massacro di Gaza è una guerra riparatrice di fronte all’improvvisa apparizione del male, alla fulminea esplosione di odio rappresentata dall’attacco del 7 ottobre? Insomma, per quanto terribile sia la risposta dello stato ebraico non siamo di fronte a una colpa che si configura al massimo come eccesso di difesa? La cattiva coscienza dell’Occidente qui si esprime qui alla massima potenza. Il 7 ottobre, qualsiasi cosa si pensi della legittimità dei mezzi utilizzati da Hamas,  è “una tragedia metodicamente preparata da chi vorrebbe oggi indossare i panni della vittima”6 ci dice Traverso snocciolando i dati di una triste contabilità che non può lasciare adito a dubbi: tra il 2008 e il 6 ottobre 2023 l’esercito israeliano ha ucciso più di 6.300 palestinesi, di cui oltre 5.000 a Gaza, ferendone 158.440, mentre le vittime israeliane delle azioni di Hamas e altri gruppi palestinesi sono state 310 e i feriti 6.460; nel solo 2023, fino al 6 ottobre, Tsahal aveva ucciso aveva ucciso 248 palestinesi nei territori occupati e ne aveva arrestati 5.200.
E non è tutto. Ci sono altri numeri che smascherano l’ipocrisia di chi oggi, dopo anni di oblio, torna a parlare della soluzione a due stati per il cosiddetto conflitto israelo-palestinese: “Dopo l’annessione di Gerusalemme, in cui sono stati trasferiti almeno 200.000 coloni, l’insediamento di altri 500.000 in Cisgiordania e la distruzione di Gaza, l’ipotesi di due stati è diventata oggettivamente impossibile”.7 Questi dati testimoniano in modo incontrovertibile che Israele ha sistematicamente boicottato gli accordi di Oslo che avrebbero dovuto portare alla creazione dello stato palestinese con l’obiettivo di affossare per sempre le rivendicazioni dei palestinesi. 

Ma quali sono queste rivendicazioni? From the river to the sea Palestine will be free recita uno dei più famosi slogan che i media mainstream si ostinano a considerare antisemita perché alluderebbe a una cacciata degli ebrei dal loro stato. E se il suo significato fosse completamente diverso? Se esso ci prospettasse l’idea di un unico stato laico e binazionale, in grado di garantire a tutti i cittadini ebrei e palestinesi uguali diritti, come sosteneva vent’anni fa Edward Said? Un’idea che certamente non era il solo a sostenere. 

Il progetto di uno stato federale binazionale è stato a lungo quello dell’OLP e di una corrente della sinistra israeliana antisionista, il Matspen. Prima della nascita di Israele, esso era al centro di un movimento allora conosciuto come ‘sionismo culturale’.8

Oggi questa prospettiva appare quanto mai lontana. Eppure, sostiene Traverso, rimane più credibile della ipotesi, strumentalmente resuscitata dai paesi occidentali, dei due stati che, a parte il suo esplicito rifiuto da parte di una recente risoluzione del parlamento israeliano, richiederebbe una pulizia etnica incrociata dei rispettivi territori. “La storia è fatta di pregiudizi che vengono abbandonati e che a posteriori appaiono come stupidi anacronismi. A volte le tragedie servono ad aprire nuovi orizzonti”9, commenta Traverso facendo appello a una buona dose di ottimismo della volontà. 

Avviandoci alle conclusioni, bisogna ammettere senza ipocrisie che in mancanza dell’attacco del 7 ottobre il progetto di cancellare la questione palestinese dall’agenda internazionale attraverso la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i paesi arabi sarebbe andato avanti senza particolari ostacoli. Una circostanza che impedisce di sottovalutare il ruolo di Hamas, nonostante tutte le riserve che si possono avere nei confronti dell’organizzazione islamica.

Il massacro del 7 ottobre va condannato e l’ideologia fondamentalista dei suoi esecutori può certamente essere criticata, ma negare l’appartenenza di Hamas alla resistenza palestinese invocando la sua natura terroristica non è serio ne utile.10

In sede di commento, bisogna notare che Hamas non è solo parte della resistenza. Come afferma perentoriamente Jodi Dean in un articolo che le è costato il sollevamento dai suoi compiti di insegnamento nei democratici Stati Uniti:La lotta per la liberazione palestinese oggi è guidata dal Movimento di Resistenza Islamico — Hamas. Hamas è sostenuto dall’intera sinistra palestinese organizzata”.11 In realtà, per quanto se ne possa capire dall’esterno, la situazione della sinistra sembra più articolata. Quel che si può dire con ragionevole certezza e che, nell’ambito delle formazioni progressiste palestinesi, esiste una parte che “si schiera con le forze islamiche sul piano della resistenza condivisa all’anticolonialismo, ma prende le distanze sul piano dell’agenda sociale, come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP)”.12 Si tratta di una posizione che appare basata sulla convinzione che per competere con gli islamisti occorre farlo nella resistenza. Non chiamandosene fuori. E dunque insieme ad Hamas che oggi è l’organizzazione militarmente e politicamente più forte. Un ragionamento che potrebbe far pensare ai comunisti iraniani che nel 1979 parteciparono attivamente alla rivoluzione in Persia per poi essere massacrati dalle forze di Khomeini. Un precedente storico che non è destinato per necessità a ripetersi, ma che rappresenta un monito da tenere in dovuta considerazione.

Queste riflessioni sono veramente troppo parziali per ambire a chiudere il discorso. Vogliono piuttosto mettere in luce quali sono i problemi che abbiamo di fronte. E forse, da un punto di vista concettuale, il problema più grosso oggi è rappresentato dal fatto che la crisi dell’egemonia occidentale ci costringe a rivedere molte delle nostre posizioni. Il socialismo, la laicità, l’universalismo umanista ecc. entravano nelle lotte dei popoli colonizzati al seguito delle merci e ai capitali che invadevano le loro terre. Sembra che oramai l’Occidente abbia molto di meno da offrire sia sul piano delle idee che su quello materiale. Franz Fanon, in una fase storica molto diversa da quella attuale, ammoniva i popoli in lotta contro il colonialismo che il nazionalismo “se non si trasforma molto rapidamente in coscienza politica e sociale, in umanesimo, porta a un vicolo cieco”.13 Possiamo ancora considerare attuale questo avvertimento? Di certo, se esso deve valere ancora oggi, abbiamo bisogno di un umanesimo e di una coscienza politico-sociale ben più articolate di quanto abbiamo pensato in passato, capaci di accogliere la complessità di un mondo che oramai presenta differenti e divergenti configurazioni spazio-temporali dello sviluppo capitalistico.  Anche se questa complessità più che una forma di multipolarismo oggi produce una sorta di caos sistemico foriero di foschi scenari bellici.
E tutto quanto detto vale a maggior ragione in Palestina se vogliamo arrivare a una qualche soluzione che eviti esiti terrificanti come pulizia etnica e genocidio. La resistenza armata dei palestinesi è un passaggio ineludibile in questo processo. Ma non bisogna mai dimenticare che uno dei compiti più difficili è trasformare la violenza sterile e vendicativa in violenza liberatoria e rivoluzionaria.  


  1. Cfr. Enzo Traverso, Gaza davanti alla storia, Editori Laterza, 2024, pp. 64-65. 

  2. Ivi, p. 65. 

  3. Marco Revelli, Traverso, Gaza davanti alla storia,
    https://www.doppiozero.com/traverso-gaza-davanti-alla-storia. 

  4. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, 1966, p. 135. 

  5. E. Traverso, Gaza davanti alla storia, cit. p. 70. 

  6. Ivi, p. 13. 

  7. Ivi. p. 82-83. 

  8. Ivi, p. 88-89. 

  9. Ivi, p. 88. 

  10. Ivi, p. 72. 

  11. Jodi Dean, Palestine speaks for everyone,
    https://www.versobooks.com/blogs/news/palestine-speaks-for-everyone.  

  12. Abdaljawad Omar, La questione di Hamas e la sinistra
    https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/28323-algamica-la-questione-palestinese-oggi-e-la-crisi-della-sinistra-occidentale.html

  13. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007. p.137. 

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Il nuovo disordine mondiale / 23: Israele perduta tra le sue guerre https://www.carmillaonline.com/2023/11/01/il-nuovo-disordine-mondiale-23-le-guerre-perdute-di-israele/ Wed, 01 Nov 2023 21:00:30 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79758 di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e [...]]]> di Sandro Moiso

Il comportamento dell’attuale governo di Israele rischia di essere il peggior nemico degli ebrei. (Primo Levi- intervista a «la Repubblica», 24 settembre 1982)

Ieri Israele ha perso la guerra. (Domenico Quirico, «La Stampa», 31 ottobre 2023)

Come ha annotato in una singola frase Domenico Quirico, essenziale come sempre, si può affermare che ciò che covava tra le fiamme e sotto le ceneri ancora ardenti del conflitto a Gaza ieri è balzato agli occhi di tutti. Soprattutto di una comunità mediatica che, nonostante le intimidazioni, le fake news, i divieti e le deformazioni di parte governativa israeliana, e filo-occidentale più in generale, non ha potuto fare a meno di notare che in quei 76 secondi di messaggio, filmato e trasmesso da Hamas il 30 ottobre dall’inferno di Gaza, le parole e l’urlo di Danielle Aloni, la donna presa in ostaggio insieme alla figlia di sei anni durante l’incursione del 7 ottobre, segnano una definitiva rottura di fiducia tra gli ebrei di Israele e l’attuale capo del governo Benyamin Netanyahu, la sua conduzione di una guerra scellerata e la pericolosità di una politica di occupazione coloniale sempre più genocidaria e arrogante. Ma non solo.

L’urlo di Danielle, insieme ai sondaggi che rivelano come un israeliano su due sia contrario all’operazione di terra a Gaza1, rivela una frattura più profonda. Quella che formalmente ha iniziato a manifestarsi da tempo con le dimostrazioni di piazza contro il governo Netanyahu, ma che da tempo una parte della comunità ebraica denunciava e continua a denunciare, dentro e fuori le mura del ghetto dorato di Israele.

Anche se, soprattutto qui nell’Italietta dell’opportunismo e del fascismo sempre strisciante e servile e del razzismo d’accatto, i media mainstream continuano ad usare termini bellicosi e insultanti nei confronti della comunità arabo-palestinese che da 75 anni rivendica il diritto al governo della propria terra senza imposizioni coloniali di alcun genere, esiste una storia di riflessioni sul destino di Israele e le sue origini provenienti proprio dall’interno del mondo e della cultura ebraica. Motivo per cui, qui di seguito, si cercherà di delineare ciò che Domenico Quirico ha sintetizzato nell’epigrafe posta in apertura di questo articolo attraverso le parole di storici, politici e filosofi di origine ebraica. Rimuovendo quindi quella stupida affermazione di “principio” secondo cui qualsiasi protesta o condanna anti-sionista va accomunata immediatamente all’anti-semitismo.

Come ricorda in uno dei suoi testi più importanti uno degli storici israeliani che da decenni si battono per una revisione della storiografia dello Stato di Israele e sull’uso mitopoietico della Shoa, senza negarla ma inserendola in un contesto non più metafisico (il male assoluto), ma incastonato in un quadro storico e culturale, oltre che sociale ben più complesso:

Nel 1938, con la ribellione araba contro il Mandato sullo sfondo, David Ben-Gurion dichiarò:
«Quando diciamo che gli arabi sono gli aggressori e noi quelli che si difendono, diciamo solo una mezza verità. Per quanto riguarda la sicurezza e la vita, noi siamo quelli che si difendono… Ma questa lotta è solo un aspetto del conflitto, che nella sua essenza è politico. E politicamente noi siamo gli aggressori, loro quelli che si difendono».
Ben-Gurion aveva ragione, naturalmente. Il sionismo era colonizzatore ed espansionista, sia in quanto movimento sia in quanto ideologia2.

Il mito del diritto al rientro degli Ebrei nei loro “millenari” territori d’origine, negando successivamente quello dei Palestinesi espulsi con la Nabka seguita alla dichiarazione dello Stato di Israele, si fondava sull’opera di un ebreo austriaco, giornalista, laico e privo della conoscenza della lingua ebraica, Theodor Herzl (1860- 1904), che a seguito dell’affaire Dreyfus (1894-95) di fatto inventò il movimento politico sionista.

Egli riassunse il suo punto di vista in un pamphlet profetico-programmatico di 30.000 parole: Der Judeenstaat (Lo Stato ebraico), pubblicato nel 1896, col sottotitolo Un moderno tentativo di soluzione della questione ebraica. […] Uno Stato siffatto avrebbe potuto essere utile alle grandi potenze sia in quanto «avamposto contro la barbarie», sia in quanto avrebbe risolto il problema della convivenza tra ebrei e gentili3.

I discorsi che abbiamo sentito negli ultimi giorni, ma anche negli anni precedenti, sulla barbarie di Hamas è dunque l’ultima manifestazione di una concezione razzista che il sionismo, non soltanto nel suo intimo, ha sempre portato con sé. Talvolta travestito sotto le spoglie del miglior utilizzo del territorio oppure sotto l’abito militare violento della rimozione e stermino dei “barbari”, ogni qualvolta questi osassero alzare la testa per non accettare una condizione schiavile a cui i colonizzatori li volevano ridurre e mantenere. E’evidente che una constatazione del genere ricorda una storia secolare di oppressione e sfruttamento coloniale non soltanto in Palestina (tutto sommato abbastanza recente), ma in ogni angolo del mondo in cui, a partire dal XV secolo, le potenze coloniali europee hanno fatto sentire il rombo dei loro cannoni e lo schioccare della frusta ai popoli sottomessi degli altri continenti.

Uno schiavismo, che come ricordava già Marx, non aveva nulla a che fare con quello delle società antiche, ma che ha costituito uno degli assi portanti del capitalismo, fin dalle sue origini. Uno schiavismo che sta alla base dei campi di concentramento usati dall’Uomo bianco in Sud Africa, in Nord America, in Australia, in India e successivamente qui in Europa con i lager e il gulag.

A testimonianza di ciò, occorre qui ricordare quanto scrisse Primo Levi, a proposito dell’intimo rapporto che legava l’industria pesante tedesca con l’amministrazione dei Lager, collegando per questo motivo i lager non alla metafisica del “male assoluto”, ma alla logica spietata dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale4.

Non era certo un caso che per gli enormi stabilimenti della Buna fosse stata scelta come sede proprio la zona di Auschwitz. Si trattava di un ritorno all’economia faraonica e ad un tempo di una saggia decisione pianificatrice: era palesemente opportuno che le grandi opere e i campi di schiavi si trovassero fianco a fianco.
I campi non erano dunque un fenomeno marginale e accessorio: l’industria bellica tedesca si fondava su di essi; erano un’istituzione fondamentale dell’Europa fascistizzata, e da parte delle autorità naziste non si faceva mistero che il sistema sarebbe stato conservato, e anzi esteso e perfezionato, nel caso di una vittoria dell’Asse5.

Come si è affermato prima, le osservazioni e le note di Primo Levi rimettono sui giusti binari della Storia il tema della Shoa e dell’antisemitismo, liberandolo dai miti giustificazionisti dello stato di Israele per integrarlo all’interno dello sviluppo delle forme concentrazionarie che hanno reso possibile l’espandersi dello sfruttamento capitalistico, dal Panopticon di Bentham agli istituti carcerari privati americani di oggi, nati proprio come investimenti per l’utilizzo di manodopera a basso costo6.

Aggiungeva, però, poi ancora Levi:

Ora, il fascismo non vinse: fu spazzato, in Italia e in Germania, dalla guerra che esso stesso aveva voluto [e] il mondo […] provò sollievo al pensiero che il Lager era morto, che si trattava di un mostro appartenente al passato, di una convulsione tragica ma unica […]. E’ passato un quarto di secolo, e oggi ci guardiamo intorno, e vediamo con inquietudine che forse quel sollievo era stato prematuro […] ci sono campi di concentramento in Grecia, Unione Sovietica, in Vietnam e in Brasile. Esistono, quasi in ogni paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza. Soprattutto non è morto il fascismo: consolidato in alcuni paesi, in cauta attesa di rivincita in altri, non ha cessato di promettere al mondo un Ordine Nuovo7.

Non ha smesso di promettere la vittoria del bene contro l’”asse del male” e dei valori occidentali su quelli dei “barbari”. Trasferendosi talvolta là dove, invece, avrebbe formalmente dovuto essere escluso. Come sottolinearono allarmati, in una lettera al New York Times del 2 dicembre 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt.

Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut)8, un partito politico che nell’organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. È stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina.
L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli Stati Uniti è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservatori americani. […]
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
[…] All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla comunità ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo9.

Giudizio rafforzato da quanto dichiarato 34 anni dopo da Primo Levi in un’intervista rilasciata a Giampaolo Pansa a seguito del massacro di palestinesi avvenuto all’epoca a Sabra e Chatila in Libano.

Per Begin «fascista» è una definizione che accetto. Credo che lo stesso Begin non la rifiuterebbe. E’ stato allievo di Jabotinski: costui era l’ala destra del sionismo, si proclamava fascista, era uno degli interlocutori di Mussolini. Sì, Begin è stato suo allievo […] Begin sta in piedi soprattutto con i voti dei giovani e degli immigrati recenti, cioè non dei profughi dell’Europa Orientale, bensì di quegli ebrei che vengono dai paesi del Medio Oriente o che sono nati in Israele. E’ tutta gente che nutre una forte animosità nei confronti degli Stati vicini, dai quali spesso provengono, e ciò, in una certa misura, spiega questa guerra e quel che è avvenuto durante la guerra. La mia condanna comunque è totale10.

Secondo Hannah Arendt (1906-1975), storica e filosofa ebreo-tedesca e una dei più influenti teorici politici del XX secolo, uno «Stato ebraico» non si sarebbe limitato a distruggere l’entità palestinese, come già aveva denunciato nella lettera citata prima, ma si sarebbe rivelato pregiudiziale per la stessa comunità ebraica di Palestina. Uno Stato-nazione che traeva la propria legittimità da una potenza straniera e lontana era, a suo avviso, foriero di sicuro disastro.

Il nazionalismo è piuttosto nefasto quando s’appoggia unicamente alla forza bruta della nazione. Un nazionalismo che riconosce la necessità di dipendere dalla forza di una nazione straniera è ancora peggiore. E’ questo il destino incombente sul nazionalismo ebraico e sul progettato Stato ebraico, inevitabilmente circondato da Stati Arabi e popolazioni arabe. Persino una maggioranza di ebrei in Palestina – anzi, perfino il trasferimento di tutti gli arabi di Palestina, come i revisionisti [sionisti] richiedono apertamente – non cambierebbe, nella sostanza, una situazione in cui gli ebrei devono, nello stesso tempo, chiedere la protezione di una potenza estera contro i loro vicini e pervenire a un accordo efficace con loro. […] se i sionisti continueranno a ignorare i popoli del Mediterraneo e a guardare unicamente alle grandi potenze lontane, finiranno coll’apparire strumenti o agenti di interessi estranei e ostili. Gli ebrei che conoscono la loro storia dovrebbero rendersi conto che una situazione del genere condurrebbe inevitabilmente a una nuova ondata di odio anti-ebraico, l’anti-semitismo di domani11.

Ma i nemici non sarebbero stati soltanto fuori dalla comunità ebraica, visto che la stessa Arendt avrebbe in seguito manifestato i suoi timori per le critiche e minacce ricevute a seguito della pubblicazione del suo reportage sul processo Eichmann tenutosi in Israele (La banalità del male, Feltrinelli 1964).

Coloro che sono dalla mia parte mi scrivono lettere private, ma nessuno più osa farle circolare in pubblico. E con ragione: sarebbe estremamente pericoloso, poiché un’intera e assai ben organizzata muta [mob] di cani rabbiosi si scaglia subito su chiunque osi fiatare. Insomma siamo al punto in cui ciascuno crede in quello in cui tutti credono: in vita nostra abbiamo spesso vissuto questa esperienza12.

Basti pensare all’omicidio di Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano favorevole alla pace di Oslo, assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo.
Oppure a quegli storici israeliani come Benny Morris, Ilan Pappe, Norman Finkelstein, Tom Segev, Shlomo Sand che per le loro ricostruzioni obiettive della storia dello stato di Israele e della cacciata dei palestinesi con la Nabka oppure per la critica dell’uso esagerato e ideologico della Shoa per giustificare i crimini contro i palestinesi, sono stati criticati, minacciati e perseguitati e, in alcuni casi (Finkelstein, figlio di sopravvissuti ai lager), costretti a recarsi in esilio all’estero a causa degli attentati subiti.

La violenza contro i Palestinesi si è dunque sempre accompagnata, in Israele alla violenza e alla repressione contro il dissenso interno. Fino a oggi, fino a quel video di cui si è parlato in apertura che è stato censurato dai canali televisivi israeliani in nome dell’unità e della sicurezza nazionale. Secondo Michel Warschawski, (figlio di un rabbino, nato in Francia nel 1949, trasferitosi ancor sedicenne a Gerusalemme e fondatore del movimento anti-sionista Alternative Information Center fin dal 1984):

Per giustificare dinanzi l’opinione pubblica locale e internazionale la violenza nei confronti dei civili, è indispensabile «decivilizzare» tale popolazione. Di qui l’uso sistematico, nei territori palestinesi occupati del concetto di terrorismo: la sanguinosa repressione di una popolazione è mascherata sotto il nome di «guerra contro il terrorismo». Non sono più donne e bambini che vengono dilaniati dalle bombe a frammentazione; non sono più intere famiglie che lo stato d’assedio condanna alla miseria e talvolta alla morte per fame: sono dei terroristi. Anche il concetto di guerra ha la sua importanza: lascia intendere che, di fronte alla quinta potenza militare del mondo, non c’è una popolazione civile, ma un’altra forza militare, e che ciò giustifica l’uso di carri armati, di elicotteri da combattimento e di aerei da caccia. […] è l’intera società palestinese che diventa il nemico; è essa che bisogna sradicare «come un cancro», come dirà un comandante in capo dell’esercito, Moshe Yaalon. […] Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni civili e militari, nessun segno di capitolazione è vista. La determinazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni. […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti ad ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore13.

Aggiungendo una considerazione proprio sulla condizione reale di Israele:

Per ironia della storia, il sionismo che voleva far cadere le mura del ghetto ha creato il più grande ghetto della storia ebraica, un ghetto super-armato, certo e capace di estendere in permanenza il suo territorio, ma pur sempre un ghetto, ripiegato su se stesso e convinto che, al di fuori delle sue mura c’è la giungla, un mondo radicalmente e irrimediabilmente antisemita che non ha altro obiettivo che quello di distruggere l’esistenza degli ebrei, Nel Medio Oriente e su tutta la Terra14.

E sottolineando all’epoca, ancora a proposito degli accordi di pace di Oslo, che:

nel corso dei sette anni di «processo di pace», i palestinesi hanno assistito a una creazione di più del 40 per cento della colonizzazione ebraica su terre dalle quali Israele si era impegnato a ritirarsi entro cinque anni […] il periodo di Oslo è quello del più classico rapporto coloniale nei confronti degli autoctoni: favori, creazione di una classe di intermediari per gestire la vita quotidiana della popolazione occupata, polizia indigena per mantenere l’ordine15.

Ricostruzione di una situazione in cui, più che la crescita o meno di Hamas tra una popolazione che ancora a settembre di quest’anno, secondo un sondaggio, riteneva per il 53% che solo la lotta armata possa condurre alla formazione di uno Stato palestinese contro un 20% ancora convinto dell’utilità di quegli accordi, si è oggi resa evidente agli occhi di tutti la perdita di consenso dell’Autorità palestinese. Probabilmente per essere stata la “migliore” interprete, insieme a i suoi ormai corrotti leader, di quella ipotesi di accordo.

Il misto di nazionalismo offensivo e di vittimismo provoca all’interno della società israeliana una violenza che non è facile misurare dall’esterno. Eppure basta ascoltare le trasmissioni dei dibattiti alla Knesset per rendersene conto: [dove] si fa a gara a chi presenta il progetto di legge più drastico non solo contro i «terroristi» ma contro ogni forma di dissidenza in Israele. La Corte suprema e i media, ma spesso anche la polizia e la Procura16, pur facendo parte delle strutture di polizia o militari., vengono regolarmente denunciati come anti-ebraici, e persino come «mafia di sinistra». […] La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha , fra l’altro, come obiettivo la rovina del popolo di Israele.
[…] Questa scelta rischia, d’altro canto, di trascinare nella tormenta una parte importante delle comunità ebraiche sparse nel mondo. Il comportamento di Israele sulla scena internazionale rende odioso lo Stato ebraico in ogni parte del mondo, senza parlare dei pretesti forniti agli antisemiti di ogni sorta […] L’identificazione incondizionata, nel Nordamerica e in Europa, dei dirigenti delle comunità ebraiche con Israele rischia di avere conseguenze fatali per le comunità che essi pretendono di rappresentare. […] Nella catastrofe che si preannuncia, i portavoce spesso autoproclamati delle comunità ebraiche sparse nel mondo avranno anch’essi la loro parte di responsabilità. Anziché utilizzare l’esperienza accumulata in secoli di vita diasporica per mettere in guardia il giovane Stato ebraico, sono affascinati dalla forza. dall’immagine del parà ebreo che sa essere altrettanto brutale del legionario francese e del marine americano. Godono vedendo degli ebrei che, una volta tanto, non sono esclusi dal diritto, ma hanno finalmente l’occasione di escludere il diritto dalla loro esistenza17.

E’ giunto però il momento di interrompere questa lunga carrellata di giudizi e previsioni sull’azione e il destino dello Stato ebraico in rapporto alla condizione dei Palestinesi e degli interessi “reali” delle comunità ebraiche sia al suo interno che nella diaspora; constatando come tutto quanto è avvenuto dal 7 ottobre in avanti fosse ampiamente prevedibile, se soltanto i governi israeliani e, in particolare, quello di estrema destra di Benyamin Netanyahu, avessero voluto dare ascolto, ancor prima che al Mossad o allo Shin Bet, all’esperienza, alla cultura e alla riflessione di tanti che invece, seppur in misura diversa, sono stati osteggiati, colpiti, insultati all’interno della stessa Israele e dai suoi falsi alleati dei paesi occidentali. I quali ultimi, pur portando il vero fardello storico della Shoa, preferiscono ancora discolparsi appoggiandone qualsiasi sciagurata avventura militare.

Avventura, quest’ultima, destinata comunque a schiantarsi contro un mondo che, nel bene e nel male, sta manifestando sempre più il bisogno di allontanarsi dal modello culturale e politico occidentale. Certo non in nome di valori rivoluzionari e anzi, spesso, in nome di valori tradizionali, patriarcali e autoritari certamente non condivisibili da chi milita ancora nelle forze che intendono rovesciare, una volta per tutte, l’attuale modo di produzione e le sue distinzioni, ormai insopportabili, di classe, religione, “razza” e genere. Troppo spesso mascherate dietro a fumosi discorsi sui diritti, le libertà e la democrazia.

Modo di produzione, caratterizzato da contraddizioni, oltre che di classe, interimperialistiche di carattere geopolitico ed economico, che nel Medio Oriente, nel ruolo coloniale di Israele e nella questione palestinese trovano ancora uno degli snodi più importanti, esplosivi e fragili. Come ben dimostra il fatto che mentre in Ucraina gli Stati Uniti, pur in guerra, hanno potuto far combattere altri eserciti e popoli in nome dei loro interessi, a ridosso di Gaza, minuscola striscia di terra ma tutt’altro che insignificante politicamente, hanno dovuto muovere portaerei, soldati, aerei e sistemi balistici. Esponendosi in prima persona, ma anche cercando opportunisticamente di mascherare i propri interessi imperiali dietro un volto umanitario.

La colpa di Netanyahu, nei confronti degli alleati-padroni, è così quella di aver costretto il gigante americano a mostrare, in maniera confusa, le proprie carte, che sono sempre le stesse, sia nelle mani di Biden che di un presidente repubblicano: America First!
Questo ha indebolito ulteriormente Netanyahu, poiché gli Stati Uniti non potranno appoggiarlo apertamente fino in fondo e potrebbero anche abbandonarlo al suo destino, insieme a quello degli ebrei di Israele.

Molte cose si stanno muovendo nel mondo e non solo per responsabilità di Putin, Netanyahu, Zelensky, Hamas e tanti altri villain proposti in continuazione dai media occidentali come nemici o amici (sempre inaffidabili) da appoggiare o combattere a seconda del caso. Questa novità inizia a pesare sui rapporti internazionali18, a partire dalle Nazioni Unite fino alle divisioni interne all’Unione europea, ma anche sui popoli coinvolti in guerre sempre più feroci e senza altri sbocchi che la distruzione di uno dei contendenti oppure di tutti. Anche questo c’era nell’urlo di Danielle Albani.

Mentre la protervia, l’arroganza e la ferocia contenute nella risposta di Netanyahu durante la conferenza stampa dello stesso giorno non hanno fatto altro che dimostrare la confusione e la debolezza di un governo, di una strategia militare e di un uomo che, puntando tutto su una soluzione militare, hanno già perso. Senza riuscire ad incrinare l’orgoglio di un popolo e la sua capacità di resistere, sostanzialmente, da 75 anni allo stato d’assedio, alle prevaricazioni, alle violenze, ai soprusi, ai sequestri di beni e persone, alle torture praticate nei suoi confronti da ogni governo succedutosi alla Knesset, con la scusa di proteggere efficacemente le comunità ebraiche. Ora quella promessa è venuta meno, nella realtà e nello stesso immaginario degli ebrei di Israele e non basteranno certo le bombe sui campi profughi, sulle donne e sui bambini di Gaza a ristabilire quella fiducia.

Per numerose, già troppo numerose, che siano le perdite palestinesi, Israele ha perso senza aver ancor nemmeno affrontato l’inferno della resistenza in una città distrutta, un assedio il cui eccessivo prolungamento finirebbe con lo scoraggiare più gli assedianti che i difensori di Gaza City oppure la possibile discesa in campo delle milizie di Hezbollah. Che già in passato hanno dimostrato la capacità di di mettere in difficoltà Israele. Con una intensa guerriglia nel Sud del Libano che portò alla ritirata di Israele nel 2000. Oppure nel 2006, quando un’incauta missione di Gerusalemme nel Sud del Libano per liberare due soldati prigionieri si trasformò in 5 settimane di guerra, da cui Israele dovette sottrarsi con un non molto onorevole rapido ritiro.

Terrorismo è un’etichetta che si presta a molte definizioni, ma che, soprattutto, in Occidente serve a designare qualsiasi avversario politico che si opponga all’ordine imperante, anche con l’uso della lotta armata. Prima di Hamas ed Hezbollah sono stati definiti terroristi i combattenti dell’OLP e prima di loro i partigiani italiani (banditen per gli occupanti nazisti e per i fascisti che a loro si appoggiavano), solo per fare degli esempi. Terrorista è chiunque non appartenga all’ordine imperiale del mondo e si rifiuti di essere integrato nello stesso, con l’uso della forza oppure, più semplicemente, si rifiuti di abbandonare la terra su cui è nato e vissuto.

Le forze di sicurezza [israeliane] affermano che la loro azione consiste nel “prevenire il terrore”, ma le testimonianza dei soldati mettono in luce che il termine “prevenzione” è in realtà utilizzato in senso molto esteso, tanto da diventare una parola in codice per intendere qualsiasi tipo di azione offensiva attuata nei Territori. Le dichiarazioni qui raccolte mostrano che una parte significativa delle azioni offensive non mira a prevenire uno specifico atto terroristico, quanto piuttosto a punire, produrre un effetto di deterrenza o a rafforzare il controllo sulla popolazione palestinese. Ma l’espressione “prevenzione del terrore” costituisce una sorta di visto di autorizzazione per qualsiasi azione condotta nei Territori, oscurando la distinzione fra un uso della forza rivolto contro i terroristi e quello che colpisce i civili. La IDF può così giustificare il ricorso a metodi che servono a intimorire e ad opprimere la popolazione in generale19.

Facciamocene una ragione, così come per l’uso del termine anti-semita per chi si oppone al sionismo e al colonialismo israeliano. Siamo in compagnia di Hannah Arendt, Albert Eistein, Primo Levi e Marek Adelman (comandante della resistenza ebraica del ghetto di Varsavia) e tanti altri ebrei che vivono e sono vissuti nella diaspora. Senza sentire il richiamo di uno Stato che più che sforzarsi di esser tale si è trasformato in un ghetto per gli ebrei e per i palestinesi. Che forse un giorno troveranno il modo di liberarsi insieme.

Per ora ci basti registrare ciò che ha affermato un noto giornalista di «Haaretz» e dell’«Economist», Anshel Pfeffer: «Questa è la tragica fine dell’era Netanyahu. E quando dico “fine”, potrebbero passare mesi, forse anche un anno o due. Ma questa è la fine dell’epoca di Netanyahu»20. Prima molto probabilmente, forse ancora prima della fine della guerra in corso. Fatto che lega probabilmente il destino di Bibi a quello di un altro “messianico” difensore dell’umanità e dell’Occidente contro la “barbarie asiatica”: Volodymyr Zelens’kyj21.


  1. cfr. Nadia Boffa, Per ora Netanyahu è messo peggio di Hamas, «Huffington Post» 30 ottobre 2023  

  2. Benny Morris, Vittime. Storia del conflitto arabo-sionista 1881-2001, Rizzoli, Milano 2001, p. 837.  

  3. B. Morris, op.cit., pp. 33-37  

  4. Non a caso, forse, un ex-generale delle SS, che si occupavano della gestione e amministrazione dei campi di concentramento, Reinhard Höhn (1904-2000), sfuggito come tanti altri dirigenti e tecnocrati del Terzo Reich alla “denazificazione” fu il fondatore del primo istituto di formazione al management nella Germania del dopoguerra. Proprio per questo istituto è passata gran parte della dirigenza d’azienda tedesca: 600.000 persone almeno. Cfr. J. Chapoutot, Nazismo e management, Giulio Einaudi Editore, Torino 2021 (ed. originale Gallimard 2020).  

  5. Primo Levi, Prefazione 1972 ai giovani, in P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi scuola, Torin 1972, pp. 5-6.  

  6. cfr. Nils Christie, Il business penitenziario. La via occidentale al Gulag, Elèuthera, Milano 1996.  

  7. P. Levi, Prefazione 1972, cit., pp. 6-7.  

  8. Partito politico da cui deriva e ha le sue radici il partito di Netanyahu, il Likud, fondato nel 1973 proprio da Menachem Begin.  

  9. Albert Einstein e Hannah Arendt (più altri 48 firmatari), lettera al New York Times, 2 dicembre 1948  

  10. P. Levi, «Io, Primo Levi chiedo le dimissioni di Begin», intervista rilasciata a G. Pansa, «la Repubblica» 24 settembre 1982.  

  11. H. Arendt, Zionism Reconsidered ora in Idith Zertal. Israele e la Shoa. La nazione e il culto della tragedia, Einaudi, Torino 2000, p. 165  

  12. Lettera a Karl Jaspers del 20 ottobre 1963 ora in I. Zetal, op. cit., nota 104 a p. 161  

  13. M. Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana , Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 15-49  

  14. M. Warschaski, op. cit., pp. 63-64  

  15. Warschawski, op. cit., pp. 86-90  

  16. Occorrerebbe, forse, analizzare come una serie di successo come Fauda (trasmessa su Netflix), i cui principali attori sono oggi attivi in chiave militare a Gaza, abbia influito sulla formazione di una concezione più dura della funzione della polizia e dei servizi ad essa collegata e nel far ritenere inutile o vile chi non abbia un tale approccio ai problemi inerenti alle condizioni socio-economiche e politiche degli arabi in Palestina  

  17. Ivi, pp. 115-124  

  18. Al di là delle scontate condanne dei bombardamenti israeliani sui campi profughi da parte dei paesi del Golfo, costretti a ciò per non inimicarsi troppo l’opinione pubblica araba, oppure delle minacce provenienti dall’Iran, è da segnalare invece la rottura dei rapporti diplomatici con Israele da parte di vari paesi latino-americani come Cile, Colombia e Bolivia o la condanna della condotta militare israeliana da parte di un paese come il Brasile.  

  19. Premessa a La nostra cruda logica. Testimonianza dei soldati israeliani dai Territori occupati, (a cura di “Breaking the silence”), Donzelli Editore, Roma 2016, p.11.  

  20. A. De Girolamo – E. Catassi, L’ora di Netanyhau è giunta al termine, «Huffington Post» 1 novembre 2023.  

  21. Cfr. qui  

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Il nuovo disordine mondiale / 22: Al di là delle banalità sul “male assoluto”. https://www.carmillaonline.com/2023/10/14/il-nuovo-disordine-mondiale-22-al-di-la-delle-banalita-sul-male-assoluto/ Sat, 14 Oct 2023 20:00:54 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79556 di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco [...]]]> di Sandro Moiso

Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, pp. 260, 22 euro

Mai fu più tempestiva e utile la pubblicazione di un testo, anche se probabilmente è stato il gioco del caso ha far sì che quello di Somdeep Sen, appena edito da Meltemi nella collana Biblioteca/Antropologia, uscisse in contemporanea con uno dei momenti più drammatici, divisivi e, probabilmente, risolutivi dell’infinito conflitto mediorientale legato all’occupazione israeliana dei territori un tempo considerati palestinesi.

Così, mentre la situazione a Gaza sembra precipitare in un buco nero, di cui a pagare le conseguenze saranno nell’immediato i civili palestinesi ma in futuro anche il destino di Israele, diventa quasi indispensabile la lettura di un testo che, indirettamente, serve a smontare quell’immagine di “male assoluto” che oggi i media occidentali embedded tendono a dare di Hamas, rimuovendo i 75 anni di storia trascorsi dalla Nabka (espulsione dei palestinesi dalle loro terre) e le conseguenze che le scelte politiche dello stato colonizzatore e dei suoi alleati hanno avuto anche sulla formazione e il successo dello stesso movimento.

Una rimozione vergognosa della memoria che serve oggi a demonizzare quello che, piaccia o meno, rappresenta in Palestina il maggior movimento di resistenza all’occupazione e alla segregazione dei territori palestinesi e dei loro abitanti originari e, allo stesso tempo, allo sforzo continuativo e collettivo delle potenze occidentali teso alla cancellazione dell’identità palestinese e del diritto all’esistenza di un intero popolo.

Somdeep Sen, di origine indiana e probabilmente proprio per questo non dimentico della storia del colonialismo occidentale e delle sue pretese di egemonia culturale, è diventato Professore associato alla Roskilde University nel 2018, dopo un lungo percorso accademico di ricerca in scienze sociali e politiche tra Stati Uniti, Germania e Danimarca. È coautore di The Palestinian Authority in the West Bank (con M. Pace, 2018) e autore di numerosi articoli su “The Huffington Post”, “open-Democracy” e “London Review of Books” e non può certo essere considerato, come in Italia forse alcuni farebbero, un estremista. Tenuto anche conto che l’opera pubblicata da Meltemi è stata precedentemente edita dalla Cornell University Press di Ithaca (New York) nel 2020.

Certo, l’autore più che ispirarsi genericamente ai post-colonial studies sceglie un preciso riferimento nell’opera, ancora oggi spesso insuperata, di Frantz Fanon e nel fare ciò, è evidente, sceglie, il campo in cui schierarsi. Che non è esattamente quello di Hamas, ma piuttosto quello della causa palestinese in tutte le sue, spesso complesse e contraddittorie, sfaccettature. Nel fare questa scelta egli compie un lavoro non solo sulla Palestina e su Gaza, ma su una vasta mole di esempi riscontrabili negli stati sorti successivamente alla decolonizzazione e all’uso della memoria della lotta contro il colonialismo che in questi è stato fatto, in forme più o meno autentiche oppure più o meno ingannevoli, e della “liberazione” reale oppure soltanto apparente che ne è conseguita.

La panoramica di questi esempi, che vanno dall’India allo Zimbabwe, Sud Africa, Cuba, Tanzania e Kurdistan turco è svolta nel capitolo finale, il settimo, intitolato Della liberazione, ma la parte che più interesserà il lettore, alla luce dei fatti in via di svolgimento a Gaza e in Israele, è sicuramente quella contenuta nei primi sei. Tutti intensamente e vividamente, oltre che lucidamente, dedicati alla Palestina, alla sua eliminazione per opera del colonialismo di insediamento; al post-colonialismo palestinese come eredità degli accordi di Oslo, alla violenza anticoloniale e alla lotta dei palestinesi per la propria esistenza.

E’ soltanto in tale dettagliato complesso di elementi che è possibile inquadrare il ruolo e la funzione di Hamas, cui contribuiscono, all’interno della ricerca, elementi di autentica etnografia raccolti sul campo dall’autore nel corso dei periodi trascorsi nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, in Egitto e in Israele in svariate occasioni tra il 2013 e il 2016. Ed è forse utile partire proprio da una testimonianza che Somdeep Sen utilizza all’inizio del primo capitolo (Decolonizzare la Palestina: premessa) per comprendere lo svolgimento successivo delle analisi.

Non sappiamo cosa accadrà in seguito. La vita è incerta. Non ci è concesso avere progettualità. Qui la gente pensa a breve termine e si preoccupa dei bisogni immediati, non sapendo quale destino incombe sul futuro. Magari il confine verrà chiuso, o magari non otteniamo il visto. Ai palestinesi non è consentito sognare il proprio futuro [Ahmed Yousef, intervista dell’autore, Gaza, maggio 2013]1.

L’affermazione contiene già in sé non soltanto l’emblematica fotografia della condizione “coloniale” vissuta dai palestinesi, ma anche l’enorme distanza che separa il mondo dei “valori” occidentali, ancora troppo spesso sbandierati anche da coloro che con alcuni aspetti della società occidentale si ritengono in conflitto2, da chi non sa neppure come o se ancora vivrà il giorno successivo. Un’enorme distanza di condizioni e aspettative di vita che, disgraziatamente per i partecipanti, si è potuta misurare nell’assalto alla festa musicale, intitolata profeticamente “Mondi paralleli”, il giorno dell’offensiva di Hamas e, molto tempo prima, con quello al Bataclan di Parigi3. Ma prima di proseguire vale ancora la pena di citare qui alcuni ricordi dell’autore.

Il 23 novembre 2015, il mercato (o shuk) di Mahane Yehuda a Gerusalemme fu scena di un’aggressione all’arma bianca. Le registrazioni della videosorveglianza mostrano due adolescenti palestinesi, Hadil Wajih Awwad, 14 anni, e suo cugino Nurhan Ibrahim Awwad, 16 anni, che cercano di colpire con delle forbici i passanti vicino a una stazione metrotranviaria. La scena ben presto è invasa da uomini armati che per cercare di sedare l’aggressione sparano ripetutamente agli adolescenti, finché questi non si accasciano a terra1. Hadil rimase uccisa, mentre Nurhan venne ferito e poi accusato di tentato omicidio. Successivamente si diffuse la notizia che Hadil era la sorella di Mahmoud Awwad, un giovane a cui un militare dell’IDF (Israel Defense Force) sparò in testa con un proiettile d’acciaio rivestito di gomma durante la protesta del 1 marzo 2013 nel capo profughi di Kalandia. Più tardi quell’anno, Mahmoud morì per i traumi riportati.
Il giorno dell’aggressione che coinvolse i cugini Awwad, stavo conducendo delle interviste a Gerusalemme est. Quando seppi dell’accaduto presi la tranvia verso ovest in direzione di Mahane Yehuda, aspettandomi di trovare sulla scena un’elevata presenza di militari e polizia. Tuttavia, dopo solamente un’ora dall’aggressione, la vita scorreva in maniera normale: la tranvia funzionava regolarmente e il trambusto del mercato si era ristabilito; il luogo dell’aggressione era già stato ripulito, e il marciapiede lavato dal sangue non lasciava traccia di Hadil e Nurhan. Non essendoci nulla da vedere sulla scena, entrai nel mercato e mi sedetti in una caffetteria per riordinare le idee. Lì, origliai la conversazione tra una guida turistica israeliana e il suo cliente, che, apparentemente scosso dall’aggressione, disse: “Ma erano solo ragazzi”. La guida turistica rispose: “Sì. Ma qui la vita funziona così. Questi arabi vengono qui e usano le nostre scuole e i nostri ospedali. Bene, potete usarli. Ma se vieni da me con un coltello, io ti ammazzo”. Notando che il suo cliente non era convinto, aggiunse: “Guardi, è quello che succede sempre. Israele ha attaccato Hamas a Gaza, e loro dicono che una donna incinta è morta. Ma anche una cagna rabbiosa resta incinta, ma non significa che non la uccidiamo”. La guida turistica stava presumibilmente facendo riferimento alla morte di Noor Hassan, che quando venne uccisa durante un attacco aereo israeliano era incinta di cinque mesi .
A quanto pare, per gli uomini armati e la guida turistica presenti al mercato, non vi era dubbio che una morte rapida fosse quello che i giovani aggressori meritassero. Questa impressione fu altrettanto manifesta durante una presunta aggressione all’arma bianca in Cisgiordania, quando il noto colono e politico israeliano Gershon Mesika guidò la sua auto contro la sedicenne Ashraqat Taha Qatnani, prima che venisse uccisa a colpi d’arma da fuoco dai soldati dell’IDF. In maniera disinvolta, Mesika aveva detto: “Non mi fermai a pensare; schiacciai l’acceleratore e mi scagliai contro di lei. La ragazza cadde, e allora i soldati arrivarono e continuarono a sparare finché non la neutralizzarono completamente”4.

Cronaca “in diretta” che non vale a giustificare la violenza contro gli inermi, ma a fotografare una condizione sociale e politica e gli stati d’animo che la determinano. Soprattutto utile per porsi una domanda su chi siano in realtà le “bestie” e gli “animali” con cui tanta stampa italiana e tanti discorsi pubblici di politici israeliani si son riempiti la bocca e i titoli dopo il 7 ottobre. Ispirati da uno sguardo sostanzialmente razzista sugli avversari che hanno osato levare la mano non tanto su civili e militari, ma contro lo stato di Dio di Israele, già frutto di un altro male assoluto, quello della Shoa.

Come afferma Francesca Mannocchi su La Stampa del 15 ottobre:

Il linguaggio disumanizzante arriva dai vertici della leadership israeliana, e non da ora. Nel 2013 Ayelet Shaked, che sarebbe poi diventata ministro della Giustizia, scrisse pubblicamente, che tutti i palestinesi fossero «il nemico», compresi «gli anziani, le donne, tutte le città, tutti i villaggi, le proprietà e le infrastrutture», auspicando che venissero uccise anche le donne che resistevano all’occupazione così che non potessero mettere al mondo «altri piccoli serpenti»5.

Anche se Yahweh non è stato molto citato in questi giorni, quel che permane al fondo del discorso occidentale e sionista è quello assimilato dal discorso sul popolo eletto, oggi integrato dalla arroganza con cui l’Occidente, i suoi dignitari e i suoi pretoriani militari e mediatici si ritengono unici depositari delle democrazia, della libertà e del diritto ovvero del “bene assoluto”. Discorso, quello sul razzismo di fondo che permea la mentalità occidentale suffragandone la “superiorità” e il diritto al dominio dei popoli “selvaggi”, di cui il testo di Sondeep Sen non salva, naturalmente, nulla.

In questo libro, sostengo che la presenza dello Stato di Israele e la natura delle sue imprese nei territori palestinesi costituiscano, per molti aspetti, colonialismo di insediamento. In tal senso, la situazione politica in cui sono destinati a orientarsi i palestinesi, nel complesso, e una fazione come Hamas, nello specifico, non si discosta da quella di altri contesti coloniali. Generalmente, il colonialismo prevede il dominio e la supremazia localizzati di un’entità esogena perennemente capace di “riprodursi in un dato ambiente” (L. Veracini, Settler Colonialism: A Theoretical Overview, Palgrave Macmillan, New York. 2010, pp. 3-4). Come osserva Ania Loomba, il colonialismo non implica solo l’espansione dei “vari poteri europei in Asia, in Africa o nelle Americhe”; la formazione del potere coloniale richiede anche la “scomposizione o ricomposizione” delle comunità già esistenti. Le pratiche di “scomposizione o ricomposizione”, che comprendono “il commercio, il saccheggio, le negoziazioni, la guerra, il genocidio, la schiavitù e le ribellioni” (A. Loomba, Colonialism/Postcolonialism, Routledge, Londra 1998, p.2; tr. it. di F. Neri, Colonialismo/ Postcolonialismo, Meltemi, Roma 2000), hanno parimenti messo in campo forme istituzionalizzate di dominio culturale. Infine, il colonialismo implica la creazione dello “status” (inferiore) dei colonizzati nei discorsi dei colonizzatori […] La verosimile esistenza di istituzioni, pratiche e discorsi di dominio in Palestina mi ha consentito di tracciare dei paralleli tra la condizione palestinese e altri contesti coloniali. Tuttavia[…] il contesto del colonialismo di insediamento si distingue in quanto tali istituzioni, pratiche e discorsi di dominio non sono solamente intesi a stabilire e riprodurre il dominio localizzato dei colonizzatori o a esigere le risorse e il lavoro dei colonizzati, ma la narrazione del colonialismo di insediamento insiste anche sul fatto che gli indigeni non esistono in quanto persone o comunità con un’identità distinta. In Palestina, quindi, i colonizzati si ritrovano a combattere le istituzioni, le pratiche e i discorsi del colonialismo di insediamento che, nel tentativo di concretizzare il mito dell’inesistenza indigena, si sforza di eliminare l’impronta della presenza palestinese in “Terrasanta” (I. Pappe, The Ethnic Cleansing of Palestine, One World, Oxford; tr. it. Di L. Corbetta e A. Tradardi, La pulizia etnica della Palestina, Fazi Editore, Roma 2008)6.

Ecco allora che eliminazione della tradizione e della cultura locale e segregazione ed eliminazione fisica dei popoli colonizzati vanno di pari passo con l’allargarsi degli insediamenti “esogeni”. E’ successo in Africa, dove in Sud Africa fin dalla fine dell’Ottocento si concretizzarono i campi di concentramento che divennero il modello per tutti quelli successivi7, ed è successo in America, sia a Sud che a Nord, dove fino agli anni Sessanta ed oltre ogni immagine cinematografica mirava a rappresentare i popoli nativi in rivolta come demoniaci e intrinsecamente selvaggi e malvagi. Tanto da giustificare il fin troppo celebre motto: il solo indiano buono è quello morto. Oltre al fatto di averne rinchiuso i superstiti in riserve che spesso non costituivano altro che campi di concentramento ante-litteram.

Eppure, eppure…è ancora estremamente utile utilizzare il metodo adottato da Frantz Fanon per distinguere nettamente il mondo dei colonizzatori da quello dei colonizzati, così come fa Somdeep Sen:

questi ultimi vivono in un’area povera, affamata, sovraffollata, carente di infrastrutture e abitazioni permanenti, bisognosa dei servizi più essenziali per un’esistenza dignitosa; di contro, il mondo dei colonizzatori è privilegiato dalla permanenza di pietra, acciaio e strade pavimentate, e i suoi abitanti sono appagati e raramente in cerca di “cose buone” (F. Fanon, The Wretched of the Earth, Grove Press, New York; tr. it. di C. Cignetti, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 6). In mezzo a questi mondi vi è la struttura di oppressione dei colonizzatori – caserme e stazioni di polizia – che parla la lingua della violenza, sorveglia la zona abitata dai colonizzati e assicura che questa rimanga separata e distinta da quella dei colonizzatori. Questa distinzione fanoniana risulta evidente in Israele-Palestina. Per esempio, la ricchezza, le infrastrutture e, in generale, il privilegio materiale che ho riscontrato a Tel Aviv, per dire, è in netto contrasto con la povertà e il sovraffollamento dei campi profughi palestinesi nei territori occupati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Mentre la prima zona simboleggia stabilità, è fatta di pietra e acciaio, ed è effettivamente il luogo di dimora del privilegiato, l’ultima zona non si presta a un’esistenza dignitosa, i suoi residenti sono privi delle comodità più basilari, come acqua pulita ed elettricità, e le loro vite sono caratterizzate da instabilità e incertezza. All’estremità di questi due mondi vi sono passaggi di confine e checkpoint: qui vi risiede la struttura dell’esercito israeliano – veicoli e persone armate – che sorveglia i palestinesi, stempera il loro spirito ribelle e assicura che il mondo dei colonizzati non sconfini in quello del colonizzatore. La violenza anticoloniale palestinese che risponde al divario tra questi due mondi (e realtà) rispecchia la violenza delle frange armate in contesti coloniali (e) rivoluzionari al di là della Palestina. Fanon scrive che la violenza dei colonizzati deve seguire un piano di disordine e rompere le infrastrutture materiali del dominio coloniale (Fanon 2007, p. 3). Sebbene la violenza di Hamas sia materialmente incapace di realizzare questo piano fanoniano, […] esso ambisce a interrompere il dominio coloniale di Israele sui territori palestinesi nella speranza di rendere sempre più arduo continuare a mantenerlo8.

Il 7 ottobre ha infranto le certezze del dominio e, molto probabilmente, i civili di Gaza e forse non soltanto loro, sono destinati a pagare duramente non tanto le uccisioni e le violenze avvenute nei kibbutz e in altri luoghi di Israele, ma l’umiliazione subita dallo Shin Bet, dal Mossad, dall’IDF, Tsahal e Zro’a Ha-Yabasha (il braccio terrestre), che dovrà essere lavata col sangue. Come tutto sommato il massacro di Wounded Knee di un gruppo di Sioux Lakota, nel 1890, portava ancora con sé la vendetta per la sconfitta subita da Custer al Little Bighorn nel 1876.

Come afferma ancora l’autore «essendo tale la “circostanza” politica in cui opera Hamas, è “facile” stabilire la natura anticoloniale della sua lotta armata»9 e proprio per questo ogni azione e iniziativa militare deve essere relegata nel giudizio a puro e semplice atto di terrorismo e barbarie. Anche se quest’ultima è sicuramente comparsa all’interno delle ultime azioni, specialmente nei confronti dei kibbutz più isolati e della festa musicale, ciò non basta a cancellare le responsabilità dei colonizzatori e del governo Netanyahu attualmente in carica, spesso sottolineate anche da giornali israeliani come Haaretz, nell’aver sostenuto e incoraggiato ripetutamente la violazione di tutti gli accordi precedenti da parte dei coloni nell’occupazione di nuove terre già attribuite allo “Stato palestinese”, soprattutto in Cisgiordania e nelle enclave arabe di Israele. Situazione politica aggravata dalla hybris con cui lo stesso non ha dato retta, prima del 7 ottobre, agli avvertimenti lanciati dai servizi egiziani e americani su una possibile e imminente azione palestinese proveniente da Gaza10.

Cosi come appare ipocrita e cinica la finta pietà degli enti internazionali, degli stati europei e degli Stati Uniti per un assedio che non fa altro che amplificare quello continuo a cui la Striscia è stata di fatto sottoposta fin dalla sua fasulla indipendenza in occasione del suo abbandono da parte delle truppe israeliane e la rimozione degli insediamenti dei coloni avvenuta per volere di Ariel Sharon11. “Pietas” dettata più dal timore di un allargamento del conflitto a livello regionale o, addirittura, mondiale cui l’Occidente non si sente preparato; mentre, molto probabilmente, a rallentare l’ingresso delle truppe israeliane nella striscia più che il timore per la sorte degli ostaggi o le preoccupazioni di carattere umanitario per la popolazione palestinese sventolate in sede internazionale, è l’autentico labirinto di rovine e di tunnel sotterranei che possono rendere l’azione militare rischiosa e costosa dal punto di vista delle perdite12.

Il mancato rispetto degli accordi di Oslo e la violazione dei confini di “ghetti” riducendone la superficie e le proprietà in mano ai palestinesi costituisce, però, non soltanto un elemento ulteriore di oppressione e conflitto, ma anche la contraddizione maggiore con cui deve fare i conti Hamas nella sua gestione politico territoriale che deve fingere l’esistenza di uno stato post-coloniale, ossia già liberato, in presenza di una situazione che, grazie ai controlli di Israele su tutti i suoi confini e sui rifornimenti di acqua, elettricità, generi alimentari, benzina, farmaci e quant’altro ancora, resta di fatto ancora coloniale. Fatto che indebolisce qualsiasi autorità chiamata a governare i territori per una serie di ragioni che lo studioso di origine indiana spiega in questo modo:

con postcolonialismo mi riferisco alla specifica natura dell’amministrazione governativa pseudo-statale di Hamas, in quanto continuo a sostenere che l’Autorità palestinese manifesti le patologie dello Stato postcoloniale. Joel Migdal (Strong Societies and Weak States: State-Society Relations and State Capabilities in the Third World, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1988) ritiene che lo Stato postcoloniale, quale nuovo partecipante al sistema internazionale, sia pregiudicato da “forze centrifughe”: che si tratti di una popolazione che non riconosce l’autorità statale, di centri alternativi di potere che mettono in discussione l’élite politica e le istituzioni nella capitale nazionale, o di una territorialità contestata o troppo vasta da mappare e controllare, queste forze sfidano la capacità dello Stato postcoloniale di assicurare la propria riconoscibilità e legittimità in tutto il suo paesaggio demografico.
[…] Dunque, per lo Stato postcoloniale che opera sotto il dominio coloniale – proprio come la sua controparte nel periodo successivo alla colonizzazione – è imperativo esercitare continuamente la sua autorità in modo da rendersi visibile ai cittadini (apolidi). In realtà, lo Stato postcoloniale, che operi prima o dopo la ritirata dei colonizzatori, è in netto contrasto con la sua controparte europea, che gode di un’esistenza consolidata grazie al fatto di essersi integrata nelle vite dei suoi cittadini e di aver reso la sua presenza, proprio come i fiumi e le montagne, tanto naturale quanto la natura stessa (Migadl 1988, pp. 15-16)13.

Situazione vissuta, e accettata, dall’Autorità Nazionale Palestinese che, però, con soddisfazione occidentale e israeliana ha fatto evaporare qualsiasi ipotesi di lotta armata per la liberazione e l’indipendenza dai suoi programmi o almeno da quelli di Abu Mazen, inamovibile e silente anche in questi drammatici frangenti, ma che continua a governare la Cisgiordania, rinviando le normali elezioni politiche da diverso tempo, ben conscia del fatto che nel confronto elettorale oggi Hamas non avrebbe rivali proprio grazie alla corruzione che ha contraddistinto da tempo l’amministrazione del leader ottuagenario e del suo partito.

Secondo Fanon, dinanzi all’esistenza così spaccata dei colonizzati, la violenza anticoloniale non deve limitarsi a distruggere, ma deve anche essere una forza creativa che ripristini le parti spaccate dell’identità dei colonizzati e assicuri che queste affiorino così come contenute nella loro storica indigenità. Nel riconoscere che la violenza anticoloniale sia effettivamente capace di rafforzare la percezione di sé dei colonizzati, Fanon ribadisce che attraverso la violenza della decolonizzazione la nuova persona decolonizzata, disumanizzata sotto la colonizzazione, riacquista la propria umanità. In tal senso, secondo Fanon, la decolonizzazione violenta è un processo formativo, poiché elimina il complesso di inferiorità dei colonizzati, costruisce la coscienza collettiva e li avvia verso una causa nazionale comune (Fanon 2007, p. 50). La mia tesi qui è che anche la natura anticoloniale della violenza di Hamas abbracci questa tattica totalizzante. [Pertanto] ritengo che la violenza di Hamas incarni la fanoniana capacità di ricostituire l’umanità dei colonizzati e di creare un senso d’identità nazionale. Ciò significa che gli atti di violenza anticoloniale dei colonizzati, e le perdite materiali e umane che spesso ne conseguono, raramente rimangono sul piano esperienziale individuale dell’euforia o della tragedia; piuttosto, una volta che gli individui commettono atti di violenza, o subiscono le ripercussioni degli incontri violenti con i colonizzatori, questi trascendono la sfera pubblica, e la collettività rivendica la loro appartenenza alla causa nazionale. Di conseguenza, la violenza diventa un atto di violenza palestinese, la tragedia diventa la tragedia palestinese, e la lotta armata diventa uno strumento per totalizzare la comunità della nazione lungo il percorso della causa nazionale, a dispetto della pretesa dei coloni israeliani che la Palestina e i palestinesi, in realtà, non esistano14.

Lo stato palestinese, ipotizzato dagli accordi di Oslo è dunque una finzione con cui sia Hamas che ANP devono fare i conti, come si è già detto più sopra, anche se da prospettive diverse.

Gli accordi di Oslo hanno avviato e incentivato la postcolonialità, incoraggiando le fazioni palestinesi ad astenersi da una condotta politica anticoloniale e, al contrario, a operare come se i colonizzatori si fossero già ritirati. Questa postcolonialità si concentra a livello istituzionale nell’Autorità palestinese, che si atteggia esattamente a Stato postcoloniale di Palestina in quanto decide della vita politica, economica, sociale e culturale dei palestinesi, nonostante il “vero” Stato
di Palestina sia lontano dal realizzarsi. [Ma] ritengo che Hamas si destreggi grazie al suo duplice ruolo: come movimento di resistenza armato, Hamas esemplifica la reazione a ciò che gli accordi non sono riusciti a fare, ossia costituire lo Stato sovrano di Palestina e smantellare il dominio coloniale sionista; ma, come governo di Gaza, incarna anche la postcolonialità, così come indicata dagli accordi di Oslo, atteggiandosi a Stato postcoloniale e governando la vita e la politica nei territori palestinesi ancora colonizzati15.

Come afferma ancora l’autore non è soltanto la religione, così come si vorrebbe far credere in Occidente, a caratterizzare Hamas, anche se questa rappresenta un aspetto tutt’altro che irrlevante nella politica identitaria del movimento; dopotutto, il nome Hamas è l’acronimo di Haraket al-Muqāwamah al-‘Islāmiyyah, ovvero il movimento di resistenza islamica. Risposta identitaria spesso sollecitata dal razzismo di cui si è parlato più sopra, senza dimenticare la definizione che Marx diede della stessa come “sospiro degli oppressi” nella introduzione alla sua Critica della filosofia del diritto di Hegel16 pubblicata negli Annali franco-tedeschi nel 1844.

Tutta la Striscia di Gaza, infatti, divenne un luogo di contraddizioni quando Hamas adottò una duplice modalità di esistenza dopo la storica vittoria alle elezioni del Consiglio legislativo palestinese nel 2006. A seguito dell’inequivocabile trionfo della fazione islamica, Fatah si rifiutò di prendere parte al governo di Hamas, che nel corso della battaglia di Gaza del 2007 consolidò il governo della Striscia, continuando allo stesso tempo a impegnarsi nella resistenza armata17. In tal modo, Hamas oscillava tra le immagini dello Stato postcoloniale e il movimento anticoloniale: in quanto governo della Striscia di Gaza rappresentava un’autorità civile che si atteggiava a futuro Stato palestinese, ma continuando a impegnarsi nella lotta armata riconosceva anche il fatto che la Palestina fosse lontana dall’essere liberata.
I rappresentanti di Hamas che incontrai nella Striscia di Gaza incarnavano regolarmente questa duplice immagine nella loro personalità pubblica. Al nostro incontro al Ministero di affari esteri, il viceministro degli esteri Ghazi Hamad sembrava un rappresentante di Stato: in abito, di spalle agli emblemi pseudo-statali dell’Autorità palestinese, e a fianco della bandiera palestinese, rievocava più la figura di un burocrate che di un fedayeen (combattente della resistenza armata) avvolto nella kefiah, o di uno dei combattenti di al-Qassam che mi ero figurato leggendo della resistenza palestinese18. Tuttavia, nonostante la somiglianza con un burocrate, era altresì veloce a ricorrere al vocabolario della lotta di liberazione. Quando gli chiesi di riflettere sul futuro di Hamas in quanto organizzazione, dichiarò: “Prima di tutto, dobbiamo liberare il territorio. Prima di fare qualsiasi altra cosa, dobbiamo creare un chiaro programma politico di liberazione usarlo per acquisire uno Stato palestinese”19.

Quest’ultima permane la questione di fondo che, tanto con gli accordi di Oslo che con i massacri e la repressione, Israele e i suoi alleati occidentali con il silenzio assenso di tante borghesie arabe non sono riusciti ad eliminare. Hic rhodus hic salta, questo resta il dilemma che invece d’essere stato rimosso è diventato cruciale in questo momento di disordine mondiale e di tendenza alla guerra generalizzata, mentre va ribadito ancora una volta che l’ingresso delle truppe di Israele a Gaza potrebbe rivelarsi come un autentico incubo20. Per comprenderlo a fondo e per comprendere alcuni aspetti dell’autentico “stallo messicano” in cui sono finiti i maggiori attori regionali e internazionali, il lavoro di indagine di Somdeep Sen resta di fondamentale importanza.


  1. Somdeep Sen, Decolonizzare la Palestina. Hamas tra anticolonialismo e postcolonialismo, Meltemi editore, Milano 2023, p. 13  

  2. Si pensi soltanto ai facili compianti sulla mancanza di futuro dei giovani occidentali a causa della crisi ambientale tanto spesso sventolati da Greta Thunberg e dai suoi seguaci. 

  3. Al di là del fatto che non c’è alcunché da rivendicare da una partita doppia che tenga conto dei morti civili, degli stupri o delle violenze sui bambini da una parte e dall’altra, quello che va sottolineato è la doppiezza dei discorsi di governi, come quello attualmente in carica in Italia, che dopo aver criminalizzato i rave per motivi di consenso elettorale, avendo poco altro da promettere ai propri elettori, hanno versato autentiche lacrime di coccodrillo sui giovani morti o rapiti nel deserto. Ancora una volta al fine di demonizzare l’avversario e il suo essere “il male assoluto”.  

  4. Somdeeo Sen, op. cit., secondo capitolo: L’eliminazione della Palestina a opera del colonialismo di insediamento, pp. 41-42.  

  5. F. Mannocchi, Israele, la disumanizzazione del nemico, La Stampa, 15 ottobre 2023  

  6. Somdeep Sen, op. cit., pp. 21-22  

  7. A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri Editore, Torino 1997  

  8. Somdeep Sen, op. cit., pp. 22-23  

  9. Ivi, p. 22  

  10. cfr. D. Frattini, Il Paese volta le spalle a Netanyahu. “Dopo la guerra vada a casa”, Corriere della sera, 14 ottobre 2023 

  11. Lo smantellamento della presenza civile e militare israeliana all’interno di Gaza si basò sul piano di disimpegno, introdotto per la prima volta nel 2003 dal primo ministro israeliano Ariel Sharon, durante la Conferenza di Herzliya, che includeva anche i piani di evacuazione di quattro insediamenti in Cisgiordania. Il piano fu inizialmente approvato dal governo israeliano nel giugno 2004, e poi dalla Knesset a ottobre dello stesso anno. Nell’agosto 2005 il piano di ritirata fu messo a punto e applicato. I coloni israeliani evacuati dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania furono risarciti in base alla legge sulle procedure di risarcimento approvata dalla Knesset nel febbraio 2005. Dato che, al tempo, i coloni israeliani rappresentavano una piccola minoranza nella Striscia di Gaza, questo disimpegno fu presentato dal primo ministro Sharon come un modo per “preservare la maggioranza ebrea” nello Stato di Israele. Tuttavia, nonostante il disimpegno unilaterale ufficiale dalla Striscia di Gaza, le autorità israeliane hanno mantenuto il controllo sui confini di Gaza via aria, terra e mare, e non ultimo per mezzo del continuo assedio dell’exclave costiera.  

  12. “L’obiettivo di sradicare completamente Hamas è estremamente ambizioso e difficilmente raggiungibile” afferma a Huffpost il responsabile Programma Difesa dello IAI, Alessandro Marrone, analizzando gli aspetti tattici dell’operazione di guerra. Parlare di Gaza equivale a parlare di Hamas e viceversa, perché il gruppo islamico controlla politicamente e militarmente la Striscia. “Ha cambiato la sua geografia, costruendo cunicoli, laboratori, vie di fuga, depositi, trappole e vedette che possono rendere molto difficile andare a identificare e colpire i miliziani”. La rete sotterranea è così fitta che la chiamano la metropolitana di Gaza. La conoscenza del territorio è dunque l’arma in più dei fondamentalisti, dato che “la loro capacità militare è fusa con l’urbanistica civile”. Il che comporterebbe un ulteriore problema qualora l’Idf ricevesse l’ordine di entrare. “Ci sono alcuni siti identificati come centri di comando, ma non ci sono ad esempio le caserme”. Quindi si andrà casa per casa, aumentando il rischio di coinvolgere civili.
    “Israele ha la superiorità aerea e negli ultimi giorni ha sganciato più di 6mila bombe e colpito più di 3.800 obiettivi”, continua Marrone. “Ma non è un’azione risolutiva e bisogna vedere se abbia aperto la strada per l’operazione di terra”. L’ultima volta che le truppe israeliane ne hanno condotta una nel cuore della Striscia di Gaza era il 2008, con l’operazione Piombo Fuso, servendosi di forze speciali, artiglieria, droni e, ovviamente, aerei. Ora però “Gaza è più intrinsecamente legata a Hamas”, precisa l’analista che si aspetta “un’operazione molto maggiore rispetto a quella di quindici anni fa, per via dell’attacco subito” il 7 ottobre. Se all’epoca ci vollero quasi trenta giorni, stavolta è previsione pressoché unanime che sarà molto più lunga. “Non si sa quanto, ma lo sarà. Per come è costruita Gaza, è qualcosa che richiede molto tempo anche per una potenza militare come Israele”. Con una conseguenza piuttosto evidente: “Più durerà, più vittime ci saranno, più Hamas potrà radicalizzare il mondo arabo contro Israele. Al contrario, per Israele più sarà lunga e più metterà a dura prova l’opinione pubblica occidentale” in L. Santucci, Un azzardo estremo. Israele pronta a invadere la “metropolitana di Gaza”, Huffington Post, 13 ottobre 2023.  

  13. Somdeep Sen, op. cit., pp. 28-30  

  14. Ivi, pp. 25-26  

  15. Ivi, pp. 36-37  

  16. “La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni”  

  17. La battaglia di Gaza indica il conflitto armato tra Hamas e Fatah che avvenne tra il 10 e il 15 giugno 2007. Le circostanze che portarono a questo conflitto ebbero origine nell’ambito delle regole imposte alla politica palestinese dagli accordi di Oslo.  

  18. Le brigate Izz ad-Din al-Qassam sono l’ala militare di Hamas.  

  19. Somdeep Sen, op. cit., p. 16.  

  20. “Si tratta dell’ingresso di forse 300mila uomini in un’area ristretta coperta dalla grande distruzione che la stessa Israele ha provocato con i bombardamenti aerei delle ultime ore, densa di “nemici” che hanno nelle loro mani i suoi propri ostaggi. Insomma un incubo, come dice anche l’esercito israeliano, che arriva a questo appuntamento ammaccato nella sua reputazione dall’aver subito l’onta dell’attacco imprevisto di Hamas.”, L. Annunziata, L’utopia di una coalizione mondiale a Gaza, nel momento più difficile l’idea per risalire, La Stampa, 14 ottobre 2023.  

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Appunti palestinesi https://www.carmillaonline.com/2021/05/22/sei-appunti-palestinesi/ Sat, 22 May 2021 21:59:33 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66429 di Jack Orlando

1. Israele è uno Stato criminale. Fondato su basi teologiche e tenuto in piedi dal terrore, dal colonialismo e dalla segregazione. Ma questo è noto, sono note le violazioni dei diritti umani, le occupazioni illegali di terre e di case, gli arresti di bambini, le fucilate sui contadini e gli omicidi mirati all’estero. Come non è nuovo che il concetto di guerra sviluppato nelle stanze dell’esercito “di difesa” israeliano non presuppone il coinvolgimento di civili come perdite collaterali, bensì come obbiettivo esplicito per fiaccare, tramite paura e caos, [...]]]> di Jack Orlando

1. Israele è uno Stato criminale. Fondato su basi teologiche e tenuto in piedi dal terrore, dal colonialismo e dalla segregazione. Ma questo è noto, sono note le violazioni dei diritti umani, le occupazioni illegali di terre e di case, gli arresti di bambini, le fucilate sui contadini e gli omicidi mirati all’estero. Come non è nuovo che il concetto di guerra sviluppato nelle stanze dell’esercito “di difesa” israeliano non presuppone il coinvolgimento di civili come perdite collaterali, bensì come obbiettivo esplicito per fiaccare, tramite paura e caos, la resistenza palestinese (ma possiamo immaginare che non si farebbe problemi a bombardare famiglie di innocenti anche all’estero).

Quando si guarda alla forma politica e militare sionista, si guarda all’avanguardia dell’Occidente, laboratorio di governo sociale securitario che combina produzione massiva di consenso con articolati dispositivi di contro-insorgenza e di mobilitazione militare talmente ampia da strabordare oltre ogni confine fino a non poter distinguere più ambito civile da ambito militare.

Bollarlo di nazismo o di barbarie fine a se stessa è solo fuorviante, poiché lo limita ad una situazione di eccezionalità apparentemente irriproducibile, oscurando invece il ruolo oltre che geopolitico, anche laboratoriale strategico: nella questione arabo-israeliana vengono messi a regime e verificati esperimenti di governo propri di un territorio in crisi permanente; che è proprio ciò che l’Occidente ha davanti a sé come prospettiva e da quel laboratorio trae (o meglio, compra) strumenti e lezioni per blindare la sua posizione. Quella che è stata definita più volte democrazia autoritaria ha frequentato parecchie lezioni in ebraico. La questione arabo-israeliana non è qualcosa di altro dall’Europa, è l’eccezione che può serenamente essere norma in un tempo venturo.

2. La violenza che si abbatte ciclicamente sul popolo palestinese non è solo dettata da inimicizia etno-religiosa, fa parte in maniera strutturale della nazione ebraica in quanto potenza di occupazione coloniale; l’intreccio di guerra, politica, nazionalismo e apartheid fa sì che il conflitto sia anche il materiale che stabilizza ed influenza i rapporti politici ed elettorali interni. In questo caso, una manovra che mira a tenere in sella il fragilissimo governo di Netanyahu puntellato dall’estrema destra. Discorso simile vale anche per il campo palestinese, dove la resistenza all’occupazione israeliana è il pane migliore per le ormai decadenti formazioni politiche maggiori, nella contesa per il potere interno, specialmente a ridosso delle elezioni rinviate, dopo quindici anni in cui non si sono tenute, proprio a ridosso dell’esplodere delle ostilità. Ma sotto le contese elettorali esistono le soggettività reali che in questi eventi, volenti o nolenti, precipitano nell’agire collettivo e determinano alle volte, imprevisti cambiamenti di rotta.

3. In uno slogan non freschissimo, ma molto in voga al momento, si dice “non è una guerra, è un genocidio”. In parte è vero, Israele bombarda le case degli innocenti non solo nei momenti caldi, pratica la pulizia etnica quotidianamente espellendo gli arabi dai territori occupati, brutalizzandoli tramite i suoi soldati, relegandoli ai gradini più bassi della scala sociale, impedendone la mobilità e minandone le infrastrutture necessarie alla sopravvivenza sociale; questo è fuor di dubbio. Ma nei giorni attuali, quello a cui si è assistito è effettivamente una guerra, e non perché i generali di Tzahal si siano dati delle regole minime se non di buon cuore almeno di diritto internazionale, ma perché da parte palestinese è scattata una reazione probabilmente non preventivata da alcun attore in campo.

Dopo gli incidenti alla moschea di Al-Aqsa, l’entrata in campo delle brigate Al-Qassam di Hamas e di quelle Al-Quds del Movimento per la Jihad Islamica, ha fatto emergere una potenza di fuoco finora inedita. La mole di ordigni lanciati sulle città israeliane, in grado di forare lo scudo missilistico aereo IronDome, non era mai stata utilizzata e segna un passaggio di fase nelle capacità organizzative e militari delle milizie, così come la precisione d’attacco, puntando a porti, ferrovie e centrali elettriche ha dimostrato una volontà che esula dalle precedenti rappresaglie che disarticolano l’uso dello spazio pubblico israeliano, ma punta a fiaccare ed inibire la capacità di risposta dell’avversario infliggendo danni ampi alle sue infrastrutture.

È una dialettica bellica che, al netto delle lampanti disparità in campo, si muove da pari a pari. Quando i giornali italiani titolano “guerra tra Israele e Hamas” sbagliano. È guerra tra Stato Israeliano e Nazione Palestinese.

4. Secondo motivi differenti e logiche simili, per muovere il conflitto, tanto le forze sioniste che quelle arabe necessitano di un enorme slancio propagandistico per mantenere più ampio e compatto possibile il blocco di consensi.

Con la paranoide logica da assediato portata avanti da Israele per decenni, l’ipotesi bellica è un evento a cui la sua popolazione è perennemente pronta e reattiva, non solo, ne è parte integrante della propria identità collettiva.

Per ragioni diverse, riassumibili in una quotidianità fatta di violenza strutturale, da parte palestinese, l’evento bellico è qualcosa di estremamente familiare ed oltre l’angoscia delle bombe che cadono, esiste probabilmente la consapevolezza che in quel momento la possibilità non sia solo quella di ricevere morte ma anche di darla. Per quanto orribile questo possa sembrare, il grande pensatore martinicano Franz Fanon ha ben insegnato come stia proprio qui la scintilla della liberazione dal giogo coloniale. A Israele serve che i suoi cittadini siano stretti a falange a difesa di se stessi per mantenersi in piedi come potenza, alla Palestina è necessario che i sentimenti di rabbia e frustrazione diventino motore di cambiamento alimentati dal martirio collettivo.

Ed ecco che la guerra è tale non solo perché si stiano confrontando le reciproche forze militari, ma perché ogni uomo o donna (o bambino, come nel caso del recente video di un bambino ebreo di otto anni con un fucile d’assalto a tracolla) che respiri è parte della linea del fronte. I raid aerei e i lanci di razzi sono la parte più visibile di un’inimicizia belligerante che si combatte strada per strada, casa per casa. In questa logica si inscrivono i tumulti che hanno visto i palestinesi scontrarsi con coloni e polizia in ogni città, i rispettivi luoghi di culto assaltati a più riprese, i pogrom antiarabi, i linciaggi di cittadini isolati da parte di gruppi avversari; gli attacchi missilistici da oltre confine per forzare un allargamento del conflitto. Quando l’inimicizia è al suo apice, la regia dello scontro non sta più nelle camere di un quartier generale, ma è polverizzata lungo tutto il campo di battaglia.

Altro che soluzione di “due popoli due stati”, questa è paccottiglia da diplomazia bella e scaduta da un pezzo: questa inimicizia che oggi è al suo picco massimo, resta attiva perennemente come inimicizia assoluta e seppure l’unico sbocco possibile sul lungo termine, nella mente dei generali, è l’eliminazione totale dell’avversario, l’unica soluzione reale (e mai permanente) sarà politica, non in senso diplomatico ma in senso di stabilimento di rinnovati rapporti di forza.

A dispetto delle dichiarazioni dei vari portavoce, questa guerra non la vincerà chi avrà distrutto definitivamente l’altro ma chi avrà conquistato una forza maggiore una volta cessate le ostilità.

5. La mobilitazione generale significa lo sprigionamento di energia sociale, la catalizzazione di processi in nuce o compressi. Ma quando vengono liberate forze di massa, specialmente in momenti critici, è difficile stabilire quanto esse resteranno entro i parametri definiti dall’alto.

In entrambi i campi, la risposta compatta alla guerra non risolve le contraddizioni interne a due società in profonda crisi; tutti i giovani palestinesi che hanno preso in mano il fucile e che non sono inquadrati nelle brigate, tutti quelli che si sono scontrati con pietre, lame e fuochi d’artificio, difendono sì la Palestina in quanto identità collettiva, ma non per forza le sue istituzioni riconosciute. Anzi, davanti allo scarso credito di cui godono queste ultime, verrebbe da pensare che in atto, dentro la guerra, sia in gioco anche una rivolta contro lo status quo: liquidare questa mobilitazione totale come solo diretta dall’alto, o solo resistenza anti-israeliana è semplicistico e fallace. C’è la ricerca di un riscatto soggettivo e di uscita da una situazione di invivibilità determinata sì dallo Stato ebraico ma anche da una borghesia compromessa e molle, da una classe politica dedita alla micragnosa amministrazione della miseria e della difesa del piccolo privilegio.

Né il presidente Abbas, né la dirigenza di Hamas o Fatah avrebbero rischiato una escalation militare per difendere la dozzina di case di Sheik Jarrah; verosimilmente più che proteggere le case hanno difeso la propria posizione rincorrendo la fuga in avanti della gioventù palestinese che già da settimane era organizzata nella difesa dagli sfratti e nel confronto con i sempre più frequenti pogrom dei coloni; la rivolta sulle scalinate della moschea di Al Aqsa presa d’assalto dalle truppe di Tzahal non è stato che un eclatante casus belli.

6. Al momento in cui scatta il cessate il fuoco la diplomazia internazionale plaude al ritrovato equilibrio e si appresta ad archiviare dai tg questa ennesima brutta storia in quel del Medio Oriente. Israele celebra la chiusura dell’operazione Guardiano delle Mura come un successo, ma anche in tutti i territori della Palestina si rincorrono le manifestazioni di vittoria e attorno alla moschea di Al-Aqsa scoppiano di nuovo scontri con la polizia israeliana. Di nuovo, come dieci giorni fa. La pace è formale e temporanea, destinata ad infrangersi in una nuova offensiva che è solo questione di tempo.

Intanto nessuna delle due parti è avanzata di un passo, qual è allora la vittoria? Da parte palestinese si celebra una prova di forza inedita per gli ultimi quindici anni. La tornata di quattrocento razzi lanciati prima del cessate il fuoco, aveva tutta l’aria del cannone a salve che saluta un avvenimento importante: una potenza militare con cui si dovrà da ora fare i conti e che si erge a rinnovato scudo del popolo palestinese.

Le milizie ripongono i lanciamissili, ma coloro che invece restano a combattere in strada non è detto che siano disposti a smobilitare. Proseguono i pogrom dei coloni, proseguono quelle ostilità quotidiane che non fanno notizia, ma è possibile che si sia data ora un’accelerazione alle forme di resistenza e di contrattacco che vadano oltre le organizzazioni ufficiali.

È su questo che bisogna ora focalizzare l’attenzione: che la Terza Intifada, come è stata immediatamente definita dai giornali, sia effettivamente al suo inizio? Inoltre, il timone della resistenza è stato indubbiamente in mano ad Hamas e alla Jihad Islamica e Fatah, nonostante la sua potenza di fuoco, è rimasta in secondo piano tirando fuori le armi solo dopo diversi giorni; si dà allora la possibilità di uno slancio avanti dell’islam politico all’interno di questo passaggio? Ma, soprattutto, quale versione di islam politico (no, non è tutto Isis) si affaccia come vincente agli occhi di una gioventù sul piede di guerra, data anche l’incapacità di presa di parola delle organizzazioni più vicine a una matrice marxista che pure hanno preso parte alle ostilità ma rimanendo sostanzialmente subalterne e senza voce? Il nodo, di difficile scioglimento, non è ovviamente se ci piaccia o meno Hamas piuttosto che Fatah, questa è tifoseria da salotto, ma piuttosto: si dà, anche sotto una cornice islamica, un possibile spazio di ricomposizione e di conflitto con cui si riesca a dialogare e che sappia offrire un avanzamento ed un riferimento anticoloniale alle popolazioni mediorientali, nel cui immaginario la Palestina è un riferimento potente, nonché a quelle occidentali le cui organizzazioni antagoniste hanno da tempo abbandonato un punto di vista internazionale che non sia di mera solidarietà o snobismo intellettuale? Oppure le rive del Giordano vedranno semplicemente la rabbia e le istanze di liberazione assorbite in un ennesimo quadro jhiadista ancora senza rivali in quanto ad egemonia culturale?

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Venerdì di sangue in Palestina https://www.carmillaonline.com/2018/03/31/venerdi-sangue-palestina/ Sat, 31 Mar 2018 19:00:55 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=44700 [Venerdì 30 marzo sotto gli occhi del mondo intero e nell’imbarazzo delle Nazioni Unite, sempre pronte a recepire le direttive americane per le operazioni di polizia internazionale ma incapaci di porre freno alle violenze di Israele, si è consumata una delle stragi più feroci e premeditate della storia di una terra che da settant’anni è stata usurpata e strappata ai suoi legittimi abitanti. Il fascismo israeliano, già denunciato da numerosi intellettuali di origine ebraica come Hannah Arendt e Albert Einstein fin da una lettera inviata al New York Times il 4 dicembre 1948*, [...]]]> [Venerdì 30 marzo sotto gli occhi del mondo intero e nell’imbarazzo delle Nazioni Unite, sempre pronte a recepire le direttive americane per le operazioni di polizia internazionale ma incapaci di porre freno alle violenze di Israele, si è consumata una delle stragi più feroci e premeditate della storia di una terra che da settant’anni è stata usurpata e strappata ai suoi legittimi abitanti. Il fascismo israeliano, già denunciato da numerosi intellettuali di origine ebraica come Hannah Arendt e Albert Einstein fin da una lettera inviata al New York Times il 4 dicembre 1948*, ha mostrato ancora una volta il suo ghigno perverso. Per questo motivo riceviamo e volentieri pubblichiamo un resoconto scritto a caldo sui fatti di Gaza. S.M.]

30 Marzo: Giornata della Terra e dell’inscindibile Diritto al Ritorno.
E’ finita in un bagno di sangue la manifestazione pacifica della Giornata della Terra, per ricordare i sei palestinesi uccisi il 30 marzo 1976 da militari israeliani durante una manifestazione in Galilea che si opponeva al furto di altra terra da destinare alla comunità ebraica. L’ iniziativa di ieri e’ una delle azioni promosse dal Comitato della Grande Marcia del Ritorno a cui aderiscono tutti i partiti palestinesi, Hamas, Almubadara, Fatah, Fronte di Liberazione della Palestina, sostenitori di Dahlan e gruppi di giovani Palestinesi. Quella di ieri e’ stata una manifestazione partecipata, circa 30.000 persone, che ha visto famiglie raggiungere con ogni mezzo, bus, carretti, motorette, auto private le cinque diverse località di concentramento nella Striscia di Gaza: Abu Safia, Malka nord, Al Burei centro, Khoza’a e Al Shoka sud.
In ogni punto di ritrovo, a 300 metri dalla “buffer zone”, sono state organizzate tendopoli. Israele, per voce del ministro della difesa Avigdor ‎Lieberman aveva preannunciato il pugno duro contro l’iniziativa, descrivendola come un piano del movimento islamico Hamas per invadere ed occupare le ‎comunità ebraiche a ridosso della Striscia di Gaza. In realtà tutte le formazioni ‎politiche palestinesi, laiche, di sinistra, e religiose, hanno aderito all’iniziativa. A fronte del “pericolo proclamato”, Lieberman aveva promesso cecchini e gas lacrimogeni per fermare i manifestanti che si fossero spinti sotto i reticolati o vicino alle ‎torrette militari.

Dopo le ore 18 di ieri la liberta’ di uccidere israeliana e’ andata oltre, dal Ministero della Salute di Gaza riferiscono che nell’area a nord della Striscia, le forze armate israeliane hanno aperto il fuoco con artiglieria pesante causando la morte di 2 persone e diversi feriti. Abbiamo visto ragazzi, famiglie disarmate che con coraggio sfidavano l’occupante israeliano, quattordicesima forza armata mondiale. A fine giornata i dati ufficiale dal Ministero della Salute di Gaza riportano: 16 martiri, 1.415 feriti, alcuni di questi versano in gravi condizioni. Di questi 1.010 sono stati ricoverati negli ospedali pubblici della striscia di Gaza: 831 sono adulti e 179 bambini; 973 maschi e 37 femmine. Gli altri 405 feriti hanno ricevuto cure presso Centri di assistenza sanitaria. I feriti ricoverati hanno riportato per la maggior parte ferite da arma da fuoco alla testa, al viso, ai genitali e alle gambe. Una volontà chiara, gia’ denunciata in passato, quella di uccidere o di rendere disabili bambini, uomini e donne. Da parte israeliana nessun ferito.

I manifestanti sono stati aggrediti dall’esercito israeliano con un uso massiccio di armi di “controllo della folla” quali i gas lacrimogeni; sono piovuti sulla gente da un’altezza tra i 10/20 metri sganciati da mini-droni in un numero di almeno 8 lacrimogeni per volta. Munizioni vere e proiettili di gomma, colpi d’artiglieria. Le ambulanza del Ministero della Salute di Gaza, della Mezza Luna Rossa Palestinese, del Palestinian Medical Relief hanno soccorso senza tregua i feriti trasportandone anche due nella stessa ambulanza.

Una prima e veloce valutazione sulle ferite riportate poi i più gravi venivano riferiti allo Shifa Hospital, gli altri per la maggior parte colpiti dagli effetti dei gas lacrimogeni assistiti presso i centri di primo intervento allestiti in prossimità delle tendopoli. Non e’ dato conoscere con esattezza quali prodotti chimici vengano utilizzati con i gas lacrimogeni, ma hanno preoccupato i medici le reazioni accusate dai colpiti che riferivano vomito, rash cutaneo, dolori alla muscolatura, bruciore agli occhi e difficoltà respiratorie ed in molti casi la somministrazione di ossigeno non e’ stata sufficiente e si e’ reso necessario intervenire con farmaci broncodilatatori. Come noto l’utilizzo di armi indiscriminate e’ in violazione delle Convenzioni di Ginevra e dell’Aja che ne impediscono l’uso, in particolare contro i civili.
I medici dei dodici ospedali pubblici della striscia di Gaza hanno affrontato, non con poche difficoltà, le diverse situazioni di emergenza anche per la mancanza di farmaci e materiale sanitario per interventi chirurgici, a causa dell’assedio.

Disperdere la folla di donne, uomini e bambini con l’uso delle armi non e’ difficile, ma per togliere ai palestinesi la volontà di lottare per la loro terra e per il diritto al ritorno, ci vuole ben altro che l’uso delle armi. Oggi come ieri, dal 1948 al 2018, passando per i massacri della popolazione di Gaza sotto assedio del 2006, 2008, 2012, 2014, siamo ancora, in lutto. Non sembrerebbe interessata la politica internazionale alla questione palestinese, basta leggere la reazione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che dopo i fatti del 30 marzo si è riunito d’urgenza per discutere . Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha chiesto “un’indagine indipendente e trasparente”; il Consiglio ha espresso rammarico per la perdita di vite umane evidenziando la necessità di rivitalizzare gli sforzi di pace, auspicando “moderazione” da entrambe le parti, ma nessuna condanna nei confronti di Israele.

Le iniziative promosse dal Comitato per la Grande Marcia del Ritorno, diritto al ritorno sancito dalla risoluzione 194 dell’ONU, che nell’art.11 indica esplicitamente il ritorno dei palestinesi nelle case e città della Palestina, proseguiranno per sei settimane fino al 15 maggio giornata della Nakba, catastrofe. Tale giornata ricorda che nel 1948 750.000 palestinesi furono cacciati dalla loro terra e dalle loro case, all’epoca circa 1 milione e 900 mila abitavano la Palestina. Un’operazione di pulizia etnica che e’ costata la vita a 15.000 palestinesi, mentre 530 villaggi e città furono cancellati. Tale operazione coincise con la nascita di Israele, quale stato nazione ebraica, secondo le aspirazioni del movimento sionista, un processo di colonialismo d’insediamento tutt’ora in corso. Un “progetto di sostituzione e cancellazione progressiva mediante l’espulsione della popolazione nativa e politiche genocide, sostituita da una popolazione di coloni che gradualmente acquista una condizione demografica maggioritaria e si normalizza non più come settler, ma come indigeni”.1

Uno stato, quello di Israele, non per tutti i cittadini, nato sulle deportazione, lo sterminio di migliaia di palestinesi, l’esclusione degli arabi palestinesi nel corso degli anni e finalizzato a sostenere l’immigrazione “standardizzata” degli ebrei.
La ‘Grande Marcia del Ritorno’ iniziata nel giorno in cui i palestinesi celebrano la ‘Giornata della Terra’ ha anche quale obiettivo quello di denunciare l’assedio attuato da Israele sulla popolazione che vive nella striscia di Gaza, 2.000.000 di persone di cui il 56% sono bambini/e. Una lotta per riaffermare il diritto all’autodeterminazione che per i palestinesi implica il diritto inalienabile di tornare alle loro case e proprietà da cui sono stati cacciati con la forza nel 1948.

Daniela, mamma di Simone Camilli, il giornalista/fotoreporter morto a Gaza il 13 agosto 2014 a causa di una bomba inesplosa, a commento della violenza israeliana contro donne, uomini e bambini nel corso della manifestazione per la Giornata della Terra ha scritto: è la loro paura di fronte al coraggio e la speranza.

31 marzo 2018
Giuditta Brattini

*N.B.
Il testo della lettera è leggibile qui


  1. Studi prevalenti nei Paesi post coloniali (v. Lorenzo Veracini, The Other Shift: Settler Colonialism, Israel and the occupation, JPS 2013)  

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Verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi https://www.carmillaonline.com/2015/11/25/verra-lislam-e-avra-i-tuoi-occhi/ Wed, 25 Nov 2015 21:00:26 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=26759 di Rinaldo Capra

verrà l'islam La comunicazione di tutti i media – TV, social, stampa, Radio, ecc.- dopo il 14 Novembre è straordinariamente uniforme, monolitica: è un atto di guerra. Lo scontro è di civiltà, e la compassione caritatevole, la solidarietà umana è a senso unico, nessun dubbio e nessuna incertezza. Per i militanti della guerra all’Islam l’identità è tutto, e non esitano ad arruolare tutta la comunicazione di massa per sfruttare e all’occorrenza falsificare ogni singola fotografia, ogni singolo video, ogni singola testimonianza. Per la “nostra” comunicazione occidentale l’identità nazionale, cristiana, “democratica” lo è altrettanto. Prima di tutto scontro di [...]]]> di Rinaldo Capra

verrà l'islam La comunicazione di tutti i media – TV, social, stampa, Radio, ecc.- dopo il 14 Novembre è straordinariamente uniforme, monolitica: è un atto di guerra. Lo scontro è di civiltà, e la compassione caritatevole, la solidarietà umana è a senso unico, nessun dubbio e nessuna incertezza. Per i militanti della guerra all’Islam l’identità è tutto, e non esitano ad arruolare tutta la comunicazione di massa per sfruttare e all’occorrenza falsificare ogni singola fotografia, ogni singolo video, ogni singola testimonianza. Per la “nostra” comunicazione occidentale l’identità nazionale, cristiana, “democratica” lo è altrettanto. Prima di tutto scontro di immagine identitaria dunque.

Non c’è giornalista o testata che non celebri l’orrendo rituale della reiterazione dell’orrore e della paura senza soluzione di continuità e indifferente al senso del limite. Video bui, mossi e con spari scorrono inarrestabili in tutte le Tv e nei siti dei quotidiani, fotografie di dettagli raccapriccianti, racconti e testimonianze raccolte mentre il testimone ferito sta entrando in sala operatoria ci vogliono inchiodare alle nostre responsabilità civili: siamo in guerra e tutti, ma proprio tutti la dobbiamo combattere senza riserve e senza pietà e, citando Hollande: Trionferemo.
Si perché sarà comunque un trionfo, comunque vada a finire per le nazioni i occidentali sarà un trionfo di immagine e di convenienza, ma soprattutto di pacificazione sociale.
Tutti gli interessi capitalistici sono stati tutelati.

La macchina di distruzione della coscienza e di amplificazione della paura è a tutto vapore. Ormai non c’è più nessun distinguo, non importa se è Isis, Al Qaeda, Hamas o altro, comunque è sempre Islam e tanto basta. E la guerra che scatena è barbarica: mutilazioni, uccisioni a sangue freddo e stragi di inermi, addirittura praticate a volte da cittadini europei, anche se di pelle scura e mussulmani, che ascoltavano Hi-pop e avevano l’iPad. Ma ogni guerra è per definizione barbarica. E in Iraq, Afghanistan, Libia, Siria, ecc. ne sanno qualcosa, è il loro pane quotidiano la barbarie della “guerra di civiltà”.

La nostra politica, le nostre autorità ora cercano di convincerci scatenare una guerra, in nome di una generica avversione alla guerra, per la difesa di questa democrazia e di questo sistema sociale ed economico. Vogliono che siamo noi a invocarla e ci stanno riuscendo. Facciamo la guerra perché non vogliamo la guerra. Del resto siamo tutti pacifisti, ma se vogliamo continuare a esserlo non possiamo farla fare tutta solo a Salvini e alla Meloni questa guerra.

L’urlo della comunicazione di massa, che si alza imperioso e prepotente da parte del potere costituito, dei giornalisti e dei portavoce dei partiti di sinistra e di destra è uno solo: verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi. Tutti siamo in pericolo, perché noi, quelli civili e buoni, quelli che esportano democrazia e ricchezza, siamo il bersaglio predestinato. E non c’è angolo al mondo dove l’Islam non ci possa colpire: al cinema, al bar, nell’hotel, a teatro, dappertutto e con più efficacia e ferocia di tutti i missili terra-aria e terra-terra e tutte le diavolerie elettronico-guerriere che la nostra tecnologia ha saputo costruire. L’elenco delle procedure da attuare è sciorinato come una lista della spesa, fatta di intelligence, corpi speciali e piani di guerra. Nessuno vuole rimanere indietro in questa corsa a occupare i posti buoni, perché il bottino sarà ottimo e non è il caso di andare tanto per il sottile.
Verrà l’Islam e avrà i tuoi occhi.

Leggere così i fatti, manipolandoli attraverso i media, vuol dire rinunciare a fare i conti con la storia della rapacità imperialista degli stati occidentali. Significa liquidare la politica.
Nessuna voce critica si è levata dai partiti, se non in campi marginali. Nessuna voce critica dall’informazione, se non in piccole realtà editoriali. Nessuno ha letto la situazione in senso critico, ma solo in senso spettacolare, granguignolesco e parziale. Certo è difficile con tanti morti sui selciati essere critici ed è più facile lanciare strali in nome di patriottismo, militarismo, e invocare la superiorità culturale ed economica occidentale, che deve governare il mondo. Al massimo un accenno all’instabilità sociale delle banlieu, al disagio dell’integrazione che genera mostri, tutto qui. Ma l’accesso all’informazione obiettiva è sempre negato.

Noi occidentali siamo tutti uguali, non c’è più differenza sociale, culturale, politica e di classe, c’è solo l’appartenenza ai valori occidentali. Liberté, égalité, fraternité, questo sarà il nostro grido. Ma chi più del capitalismo e colonialismo occidentale ha affossato questi principi? Macché ricchi e poveri, barboni e padroni: tutti uguali siamo, indistinti, indifferenti, e l’unica salvezza è rimanere uniti, superare le divisioni ideologiche e fare fronte comune.

In un sol colpo cancelliamo la lotta di classe, l’emancipazione del proletariato, anche di quello cognitivo attuale. Cancelliamo la possibilità di avere ancora un confronto dialettico con la classe politica, cancelliamo la possibilità lottare per una società più giusta. Ci hanno disarmato completamente, chiunque si metterà di traverso e protesterà sarà un disertore. Sarà pace sociale. Sarà disastro sociale. Leggi di Polizia sempre più dure ci vesseranno e impediranno qualsiasi manifestazione antagonista e le pene, già oggi assurdamente dure lo saranno ancora di più, e con il plauso di tutta la società civile: preti, rabbini e intellettuali di sinistra in testa.

Verrà l’Islam per avere i nostri occhi, ma non li troverà. Non li troverà perché se li erano già presi i padroni, le multinazionali, i fascisti, i politici corrotti o insipienti con la complicità della comunicazione di massa. Hanno usato i nostri occhi per creare ad arte una vera nuova Psicopatologia di Massa: la difesa dei “nostri” valori civili.balilla fascismo-2 Del resto anche il fascismo si creò così, anche quello era una Psicopatologia di Massa della quale tutti rimasero vittima e che per un po’ ci affascinò e ci rese tutti fascisti: ricchi e poveri, intellettuali e artisti, proletari e borghesi con le conseguenze note. E ai nostri occhi colmi di dolore e falsità, vittime della persuasione occulta e avida, non rimarrà che l’amarezza di non aver praticato il disincanto nei confronti di un sistema che ci imbroglia, ci violenta e ci perverte nel senso etimologico del termine: ci fa perdere la strada della consapevolezza politica, sociale e di classe.

La sinistra che latita, sempre più vacua, è incapace di leggere ed elaborare l’evoluzione del capitalismo globale e digitale. Ogni giorno è sempre un passo indietro rispetto alla storia e la distanza si moltiplica e diventa incolmabile. Totalmente appiattita e timorosa di questo piano identitario collettivo generato dalla comunicazione di massa, non osa neppure alzare il capino e si accoda. Ha rinunciato alla lotta e celebra vuoti riti autoreferenziali.

Oggi il ruolo centrale dei mezzi d’informazione, è così invadente, ostinato e strumentale che con l’ostensione del dolore degli altri condiziona la pancia del popolo e l’atteggiamento politico generale, anche quello della sinistra. Da una parte crea indifferenza o odio e desiderio di vendetta, e dall’altra sdogana pulsioni di potere abbiette, riscrive la scala dei valori condivisi e nega la pietas agli altri. La continua esibizione di atrocità ha creato un clima favorevole alle forze armate come da decenni non accadeva. A noi rimane l’annichilimento politico, la narcosi sociale e l’incapacità di far politica ogni giorno più. Panorama sconfortante.

Se verrà l’Islam avrà gli occhi dell’Occidente, che già ci ha riconsegnato ai padroni, ai capitalisti, ai nazionalismi e agli imperi.

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La bomba iraniana https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ Mon, 06 Apr 2015 19:57:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21799 di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità. La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da [...]]]> di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.

Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.

E’ chiaro, intanto, che intorno al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica islamica Iraniana.1 Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire perché.

L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale dell’antichità prima dell’impero romano.

Ora se per l’italietta post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.

Ruolo millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979, dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad Reza.

Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica. Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.

Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto. Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.

Difficilmente però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2 permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).

Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3 la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader (Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione politico-economica del paese.

Questo parallelo, per quanto possa apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele” sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di gas.

Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza cambiare nulla.

Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie africane e mediorientali.

L’altra grande differenza è che con i suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni) oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già industrializzati in cui investire.

E questo è l’altro, e non secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè, che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla politica delle sanzioni.

Da sempre privilegiato, fin dai tempi di Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a Losanna.

Follow the money! E prima o poi troverete anche la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere necessario al rafforzamento della società, dell’economia e dell’industria iraniane.

iran 2 La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata dei palestinesi dalle loro terre.

In tutta l’area le ferite dei trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi, filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in carica.

Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le frange più avanzate della resistenza curda.

Far finta di non vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.


  1. Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)  

  2. Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte  

  3. Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.  

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World War Zombie https://www.carmillaonline.com/2014/08/22/world-war-zombie/ Thu, 21 Aug 2014 22:04:33 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16855 di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

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di Sandro Moiso papa1

Ogni volta che vedo un Papa non posso fare a meno di pensare ad una vecchia canzone di Edoardo Bennato: “Affacciati affacciati / coi tuoi gesti larghi / e con i tuoi vestiti bianchi…/ Affacciati affacciati / e facci uno dei tuoi discorsi / sulla pace universale…/ Affacciati affacciati / dicci che va a finire male”. Era il 1975 e uno dei più radicali e sottovalutati cantautori italiani coglieva in pochi versi e con molta ironia la “sostanza” delle comparsate papali: “Affacciati affacciati / non ti stancare…/ tanto sono quasi duemila anni / che stai a guardare...”

Le recenti esternazioni di Papa Francesco pertanto non mi hanno colpito più del dovuto, anche se, a dire il vero, il papa argentino ha avuto il pregio di anticipare almeno una parziale verità, costantemente rimossa dai governi e dai media, soprattutto a casa nostra: la Terza guerra mondiale si avvicina a passi da gigante. Nella più completa incoscienza dei politici, dei popoli e anche, bisogna dirlo forte e chiaro, di vasti settori dell’antagonismo sociale occidentale.

Ora, Papa Francesco non ha fatto una gran scoperta e non è uscito nemmeno troppo dal canone vaticano perché, se proprio si vuol guardare alla situazione internazionale senza preclusioni o bende ideologiche sugli occhi, dentro ai prodromi di un nuovo conflitto mondiale ci stiamo almeno fin dai tempi della prima guerra del Golfo. Dal 1991, da ventitre anni. Eppure, eppure…

Poiché la scuola ha insegnato a tutti che la Seconda Guerra Mondiale si è svolta dal 1939 al 1945, quasi nessuno osa pensare che le campagne africane del Duce, l’espansione giapponese in Estremo Oriente, le annessioni territoriali tedesche, la guerra civile spagnola, le politiche economiche degli stati dopo la Grande Crisi fossero già, di fatto, guerra mondiale. Così come oggi nessuno sembra voler intendere che dalla riunificazione tedesca in avanti, e non soltanto per colpa della Germania, le guerre prima già ampiamente diffuse nel mondo si sono riavvicinate sempre più pericolosamente a quello che era, e per certi fatti rimane, il cuore del capitalismo e, soprattutto, alle aree e alle situazioni irrisolte dei due precedenti conflitti globali.

Oltre a ciò va sottolineato che, da un punto di vista generale, soltanto una certa scarsa conoscenza della storia e dei processi economici reali può far sì che ancora si creda in alcuni ambienti che siano state le manovre keynesiane di intervento statale a far uscire il capitalismo dalla grande crisi degli anni ’30 e non, al contrario, le distruzioni, i massacri e l’intensificazione dello sforzo bellico-economico che lo accompagnò, insieme allo sfruttamento più che intensivo della manodopera dell’industria, coatta e/o schiava durante il conflitto e oltre. Per esempio durante i “gloriosi anni della Ricostruzione” (oggi assai più santificata della Resistenza anti-fascista). guerra_morte

La guerra oggi riparte esattamente da lì, dove il secondo conflitto mondiale l’aveva lasciata. Dai problemi irrisolti di allora (la spartizione territoriale dell’area centro-europea e del Medio Oriente), dalla necessaria ed inevitabile ridistribuzione in ambito imperialista dei ruoli economici e politici oltre che dei mercati (finanziari e commerciali) e delle materie prime (prima tra tutte, come allora, il petrolio). Con alcune aggravanti dovute all’indebolimento storico degli attori principali di allora (USA, Russia, Germania, Gran Bretagna, Francia, Giappone e Italia) e al sorgere di nuovi ed agguerriti competitori economico-militari e diplomatici che al tempo contarono,invece, ben poco (prima di tutto la Cina, seguita però dall’India, dalle monarchie del Golfo, dalla Turchia, dall’Iran e da un sempre più agguerrito, seppur apparentemente defilato, Sud Africa, solo per citarne alcuni).

Ripercorrere ancora una volta, qui, tutti i motivi di conflitto locale dal Nord Africa all’Ucraina sarebbe soltanto un noioso e ripetitivo esercizio scolastico, ma il viaggio del nostro Pinocchio fiorentino in Iraq rende obbligatorie alcune considerazioni legate nello specifico, ancora una volta, al Medio Oriente e al Nord Africa.
E proprio qui su Carmilla si è già accennato in tempi recenti ad un prevedibile e farsesco, oltre che pericoloso, esercizio muscolare di stampo mussoliniano che il governo degli incapaci avrebbe dovuto mettere in atto per far vedere all’Europa e al mondo (oltre che al tremebondo elettorato interno) le proprie capacità di iniziativa.

D’altra parte, dovremmo saperlo bene tutti, le guerre sono spesso state anche delle momentanee uscite di sicurezza per regimi e governi in difficoltà. Naturalmente la nostra genia di incapaci (con una Ministra della Difesa che afferma che uno scontro tra due caccia-bombardieri Tornado in volo si è svolto tutto “rispettando gli standard di sicurezza” e una ministra degli Esteri che parla alle Camere più per convincere se stessa di essere una candidata accettabile per una poltrona europea più che per esporre fatti e propositi dotati di un minimo di coerenza) non poteva far altro che infilarsi, a caccia di onori e gloria, in uno dei peggiori gineprai del pianeta. Quello siro-curdo-iracheno con contorno di jihad islamica finanziata dalle monarchie del Golfo e dall’Arabia Saudita.

Roba che fino ad ora ha fatto tremare i polsi a gente poco pratica di guerra come americani, francesi, inglesi; incapaci di decidere quale scelta possa essere la meno costosa ed errata per l’imperialismo occidentale dopo i clamorosi passi falsi fatti nel corso degli ultimi anni dalla Libia alla Siria ( come ha dovuto velatamente ammettere pochi giorni or sono lo stesso David Cameron).
Continuare a chiudere un occhio sull’invasiva presenza saudita dalla Libia all’Iraq oppure mandare a carte quarantotto gli equilibri raggiunti in quell’area grazie, anche alla spartizione del Kurdistan tra Turchia, Siria, Iraq?
Continuare a trattare come demone l’Iran oppure cogliere l’occasione di attrarlo nei giochi occidentali inimicandosi, però, Israele e Arabia Saudita? E, soprattutto, aprendo una diversa trattativa sul nucleare di Teheran?1
Inviare armi, soldati e ulteriori “aiuti” economici nell’area ( e a fianco di chi poi, visto che fino a qualche mese fa il principale nemico era il regime di Assad in Siria) oppure astenersi pilatescamente ed aspettare di vedere chi potrebbe essere il candidato più forte a cui affidare il governo di una delle aree del pianeta più ricche di petrolio?

Ma, come nella classica barzelletta in cui all’idiota di turno viene detto: “Vai avanti tu che a me vien da ridere”, il Sindaco d’Italia si è fatto perniciosamente avanti e, come per altre mille questioni irrisolte o aggravate dai perentori interventi del suo esecutivo, ha deciso che avrebbe smosso le acque…bisogna fare in fretta! L’Italia, l’Europa, il Mondo ce lo chiedono!!

Mancano solo i milioni di baionette promesse da Mussolini, sostituite però dalle migliaia di kalashnikov sequestrati ad una nave ucraina durante le guerre balcaniche. Come dire: poca spesa, molta resa! annuncio_guerra
E infatti c’è da chiedersi quale sarà la “rendita” a cui mira l’improvvida ed avventuristica uscita del nostro presidente del consiglio. Recuperare in Iraq le forniture di petrolio perse con l’affaire libico? Affermare che la diplomazia italiana, e quindi la Mogherini, è degna di rappresentare gli interessi europei su scala internazionale? Ma, quali sono gli interessi europei? Siamo proprio sicuri che dalla Germania al Regno Unito passando per la Francia gli interessi siano davvero comuni?

Oppure solamente aprire la strada ad un intervento occidentale che, per ragioni di equilibrio interno ed internazionale, Obama può soltanto indicare ma non garantire e definire di più?
Basta guardare ad alcuni dei principali quotidiani nazionali degli ultimi giorni per capire la confusione in cui versa tutta l’iniziativa politica italiana. La Stampa, come al solito filo-israeliana ed imbeccata dai servizi del Mossad, indica nel Qatar il principale finanziatore dello Stato Islamico e per fare ciò ricollega questo sia ai Fratelli Musulmani che ad Hamas, nel tentativo di suggerire una fragile equazione in cui il progetto dei jihadisti siriaco-iracheni è parallelo a quello di Hamas e quindi, quest’ultima formazione politica deve essere bombardata ed annichilita insieme a tutti i Palestinesi, nemici di Israele.2

Posizione il cui primo risultato sembra essere quello delle rivelazioni derivanti dalla desecretazione dei documenti riguardanti i legami e i patti intercorsi tra l’OLP di Arafat, il Sismi e la Dc.3 Una “tempestiva” iniziativa che rompe definitivamente con la tradizione politica seguita per decenni nell’area mediorientale e mediterranea dai governi italiani e che consegna definitivamente ogni iniziativa politica di Roma nelle mani dei servizi anglo-americani ed israeliani.

La Repubblica, invece, tende a cogliere nel coacervo di rivalità e mire espansionistiche, almeno dal punto di vista finanziario, petrolifero ed anti-iraniano, presenti tra gli stati del Golfo (Arabia Saudita e Kuwait in testa) l’origine dell’attuale situazione in Medio Oriente e in Nord Africa ed indica nell’Egitto uno degli “attrattori fatali” degli attuali contrasti. Ma ha almeno il buon gusto di far risalire l’attuale groviglio medio orientale all’arroganza coloniale espressa, dopo il primo conflitto mondiale, dall’Asia Minor Agreement firmato e voluto dal francese Francois Georges-Picot e dall’inglese Mark Sykes che ridisegnò i confini dei territori dell’ex-impero ottomano.4 Mentre uno strano incidente, verificatosi a Parigi nei giorni scorsi e riferito da Repubblica il 18 agosto, sembra avvallare una certa attenzione dei servizi segreti di varie nazioni nei confronti di possibili trame saudite. Infatti un corteo di automobili di un principe saudita è stato attaccato da un commando armato di kalashnikov a Parigi. Non vi sono vittime, ma sono stati rubati almeno 250.000 euro in contanti e documenti definiti “sensibili” dalla polizia francese. Il corteo aveva lasciato l’ambasciata saudita e si stava dirigendo verso l’aeroporto di Le Bourget. Si è trattato, ha riferito una fonte della polizia, di “un modo di agire inusuale e raro. Sicuramente erano ben informati” sulla composizione del corteo e sul contenuto stipato nelle auto che lo formavano.

L’unica cosa certa è che la questione non si risolverà troppo in fretta, che non sarà poco costosa e che chi si sta attualmente precipitando disordinatamente nel centro dell’arena rischia soltanto di anticipare i tempi di apertura delle porte dell’inferno. Sembra rendersene conto perfino Lucia Annunziata che in un recente articolo sull’Huffington Post afferma: “Le decisioni che l’Europa e l’Italia stanno maturando in queste ore contengono un passaggio tremendamente nuovo e definitorio: dare armi ai curdi significa infatti oggi rientrare appieno, sia pur indirettamente per ora, nel conflitto iracheno e mediorientale in generale. Spero che le nostre classi dirigenti vorranno parlarcene senza veli[…] Ma ci diranno tutti loro questa verità? Intervenire in Medio Oriente (e sulla Russia, e in Libia,dove operiamo già con nostre operazioni “segrete”) è più che mai urgente […] Ma sicuramente non rimandabile è un chiarimento con le nostre opinioni pubbliche sulle conseguenze delle decisioni che la classe dirigente sta prendendo“.5

Gli appelli a salvare cristiani e yazidi nascondono soltanto le mire imperialistiche diverse dei vari attori. I civili, ci dispiace ancora una volta per tutte le anime belle che, dalla Serbia all’Afghanistan al Kurdistan di oggi, hanno sempre giustificato come “umanitari” i bombardamenti e gli interventi militari occidentali, non interessano realmente a nessuno. Dalla striscia di Gaza a Mosul, passando attraverso tutta la storia delle guerre del XX e del XXI secolo, nessuno si preoccupa realmente di loro o della loro sorte. Tutti potenziali ostaggi della guerra, degli imperi e degli scoop mediatici.
Perché, oggi, la crisi economica e politica internazionale grida: “Guerra!”
Mentre i nostri politici irresponsabili sanno soltanto rispondere: “E così sia”.

ROUSSEAU - La guerraLa guerra si avvicina a passi da gigante.
Il capitale deve rigenerarsi come un vampiro attraverso le distruzioni, i massacri e le ricostruzioni in grande scala, ma
l’antagonismo di classe non può che avere una posizione anti-imperialista e anti-bellicista.
Ma se ho parlato a lungo delle irresponsabili scelte italiane è soltanto perché il nostro vero nemico è, prima di tutto, qui. In casa.

Una classe dirigente acefala, in grado soltanto di straparlare tenendo le mani in tasca e di cercare di trarre profitto dalle sofferenze altrui, sia che si tratti di lavoratori, giovani e pensionati italiani soffocati dalla crisi, sia che si tratti dei palestinesi o dei popoli soffocati dalle guerre, dai nazionalismi e dalle religioni in ogni parte del mondo.

La guerra potrebbe servire a prolungare ancora una volta (altro che keynesismo!) la vita di un morto vivente chiamato capitale. Trasformiamola, con le nostre lotte, in una guerra contro gli zombie del profitto e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di una classe su un’altra e di alcune nazioni (qualsiasi esse siano) su tutte le altre. Fino alla loro definitiva scomparsa dagli orizzonti futuri della specie.


  1. cfr.Iraq, Iran: “Pronti ad agire contro Isis in cambio di progressi sul nucleare”, Huffington Post 21 agosto 2014  

  2. Maurizio Molinari, Ecco chi finanzia il califfato del terrore, La Stampa 21 agosto 2014  

  3. Andrea Palladino, Si apre una breccia nel muro di gomma. I rapporti inconfessabili tra palestinesi e Sismi, L’Espresso 21 agosto 2014  

  4. Bernardo Valli, L’inganno feroce del califfato, La Repubblica 21 agosto 2014  

  5. Lucia Annunziata, Dare armi ai curdi è un’operazione militare, parliamone senza ipocrisia, Huffington Post 19 agosto 2014  

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Chi vince e chi perde a Gaza https://www.carmillaonline.com/2014/08/01/vince-perde-gaza/ Fri, 01 Aug 2014 21:40:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16523 di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome. A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del [...]]]> di Sandro Moiso

gazaE’ sicuramente difficile da fare in momenti in cui l’orrore e la rabbia per il massacro dei palestinesi rischiano di prendere il sopravvento sulla riflessione, ma occorre mantenere il necessario distacco dall’immanenza degli eventi per poter meglio comprenderli ed inquadrarli nel loro reale contesto storico e politico.

A Gaza si combatte e si muore non solo perché il popolo palestinese possa affermare il proprio diritto all’esistenza e a quella di uno stato degno di questo nome.
A Gaza non agiscono soltanto lo stato fascista di Israele e i rappresentanti del sionismo più aggressivo.
A Gaza non si può guardare soltanto con gli occhi dell’umanitarismo becero del cattolicesimo e del generico pacifismo.
A Gaza si sta giocando una partita mondiale.

Partita che si è aperta ormai da molti anni e che, con buona pace di chi predicava circa vent’anni fa la fine della storia, vede venire al pettine tutti i nodi della storia del novecento e della crisi del dominio occidentale (economico, politico e militare) sul globo.
Gli Stati Uniti non sono più credibili e l’Europa Unita è un puro concetto filosofico di scarso valore ed entrambe questa realtà non hanno più la forza di risolvere le crisi internazionali. Né con la diplomazia, né e tanto meno con gli eserciti.

Su questo non c’è alcun motivo per versare lacrime, come alcuni infausti democratici ed intellettuali più sinistri che di sinistra, vorrebbero forse fare.
Il capitalismo e l’imperialismo occidentali stanno declinando rapidamente dopo essersi illusi di aver sconfitto la lotta di classe e dei popoli soltanto perché alcune sigle e definizioni sono scomparse essendo diventate obsolete e prive di significati reali.

Ma la lotta di classe, all’interno di un sistema diviso ed organizzato per trarre profitto dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non può scomparire. Così come non possono sparire a comando, e nemmeno in seguito alla più terribile repressione, le richieste dei popoli oppressi di veder riconosciuti i propri diritti inalienabili. Poiché, in ultima analisi, la lotta di classe e l’anti-imperialismo non sono soltanto patrimonio del marxismo, del comunismo o dell’anarchismo, ma delle contraddizioni reali, radicate nella storia e nell’economia del sistema mondo.

Allo stesso tempo le contraddizioni del dominio e della spartizione imperialistica del globo stanno venendo a galla. In maniera sempre più evidente e proprio grazie all’indebolimento, non solo di immagine, dell’imperialismo occidentale.
Costretto ormai a delegare, anche contro voglia, ad altri il proprio ruolo di controllore planetario.
Il falso trionfo del 1989 mostra ora le sue drammatiche conseguenze e la spartizione del mondo tra due sole superpotenze è stata sostituita da un intricatissimo gioco di grandi e medie potenze locali con aspirazioni planetarie.

Ma tagliamo subito la testa al toro: oggi a Gaza non sta vincendo Israele.
Come già non aveva vinto nella guerra libanese del 2006, condotta con lo stesso dispiegamento di forze, mezzi e violenza distruttiva. Anzi, l’immagine dello stato ebraico ha iniziato a sfaldarsi anche là dove, per esempio presso l’opinione pubblica americana, era sempre risultata più convincente e vincente.

Non vince l’ebraismo che, sempre di più, viene accomunato alla responsabilità dei massacri perpetrati in Palestina, nonostante le voci critiche nei confronti del sionismo armato israeliano che provengono, sempre più numerose, dall’ambito della comunità ebraica internazionale e anche, seppure in maniera minore, dall’interno della stessa Israele.

Nel corso degli anni il governo sionista ha spinto il paese tra le braccia dei peggiori avversari e dei più acerrimi nemici dell’ebraismo: le destre di governo occidentali (dal Partito Repubblicano negli USA a Forza Italia qui da noi) e l’Arabia Saudita. Nemica di ogni emancipazione sociale, politica e nazionale in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa e, soprattutto, dell’Iran.

Ne abbiamo già parlato altre volte su Carmilla: non si può capire cosa è avvenuto in Nord Africa e Medio Oriente, dalla caduta del regime di Gheddafi alla guerra in Siria e fino all’attuale “califfato iracheno”, se non si considera l’azione lenta ed inesorabile dell’Arabia Saudita e di alcuni suoi concorrenti degli Emirati per accaparrarsi le riserve petrolifere dell’area e il controllo politico e militare delle aree geografiche interessate

Infatti tra i vincitori dell’attuale scontro a Gaza vanno annoverati, in primo luogo, i sauditi.
Dalla Libia alla Siria, giù forse fino al Mali e alla Nigeria, le milizie integraliste che si scontrano tra di loro e con i rimasugli del potere statale superstite, lo fanno in nome dell’Arabia Saudita e del Qatar ovvero del petrolio. Occorre dirlo: Al Qaeda di Osama Bin Laden era al confronto una sorta di internazionale progressista, con l’idea di rovesciare il regime saudita, nazionalizzarne le risorse e le ricchezze e non abbandonare, almeno a parole, i vari popoli in lotta al loro destino.

Il progetto visionario, e per molti versi reazionario di Bin Laden, era, nonostante tutto, altra cosa da quello che si sta realizzando tra Iraq e Siria. Da quest’ultimo e dalle milizie jihadiste presenti in Libia e Siria non è mai giunta nemmeno una voce a difesa dei palestinesi. Anzi nei primi giorni del dramma si è cercato di distrarre l’attenzione degli arabi da Gaza attraverso la distruzione della moschea e del mausoleo di Giona.

Certo se si segue con attenzione lo sviluppo degli avvenimenti dal 2010 in avanti ci si accorge che lentamente ed inesorabilmente le milizie jihadiste si sono progressivamente impegnate, non solo nelle aree petrolifere del continente africano e del Medio Oriente, a coinvolgere in uno scontro militare senza fine tutte quelle forze che, in un conflitto locale o allargato, avrebbero potuto prestare il loro appoggio all’Iran: Hezbollah, Siria e Hamas.

L’obiettivo di indebolire i potenziali alleati del principale nemico comune di Israele e Arabia Saudita è stato infatti raggiunto con l’aggravante, se vogliamo così dire, di aver diviso tra di loro anche alcune di queste forze. Per esempio proprio Hamas e Fratelli musulmani che dopo aver preso le distanze, in maniera opportunistica e becera, dal regime di Assad, sperando in un riconoscimento occidentale, si sono trovati poi alla mercé del colpo di stato militare egiziano (di cui il principale sponsor è stata proprio il capitale saudita) e dell’attacco israeliano (con poco o nessun appoggio militare dai cugini di Hezbollah, già fin troppo impegnati sul fronte siriano).

Cosa quest’ultima che ha spinto e spinge i militanti di Hamas ad intensificare l’azione di “bombardamento” del territorio israeliano per dimostrare la propria esistenza in vita.
Certo la resistenza dei militanti del suo braccio militare ha dell’eroico e il fatto stesso che Israele abbia dovuto richiamare altri 16.000 riservisti, facendo arrivare a quasi 100.000 i militari impegnati nell’operazione di invasione e controllo territoriale della striscia di Gaza, lo dimostra.

D’altra parte fino ad ora le truppe di terra sono state maggiormente impegnate nelle aree agricole e più scoperte della Striscia. Le aree urbane possono essere devastate , distrutte e massacrate, ma difficilmente conquistate come dimostra tutta la storia del ‘900 da Leningrado a Varsavia fino a Grozny. Le vittime dell’esercito di Israele aumenterebbero in maniera sproporzionata e il costo potrebbe risultare troppo alto anche per i più famigerati sostenitori israeliani dell’operazione.

Ma, nonostante ciò e a differenza di Hezbollah nel 2006, molto probabilmente anche Hamas non risulterà nel novero dei vincitori di questo conflitto: troppi morti e troppi sacrifici costerà il tutto ai Palestinesi di Gaza e questo sicuramente significherà un indebolimento delle sue posizioni, politiche e militari.
Mentre l’ipocrisia pacifista ed umanitaria che finge ancora che si possano fare guerre senza coinvolgere i civili e le strutture pubbliche (scuole, ospedali, abitazioni civili, infrastrutture di vario genere) nella distruzione, raggiungerà sicuramente il risultato di confondere ulteriormente le idee sul conflitto e sulle sue cause.

ONU, Ban Ki Moon, Obama, democratici di sinistra e di vario genere, pacifisti cattolici e mille altri pensano che sia possibile limitare i danni, pur mantenendosi equidistanti e riconoscendo il diritto all’autodifesa di Israele. Stupidi, arroganti e ignoranti che pensano, con parole di cordoglio, di nascondere che ogni difesa non può essere che attacco e che, nel caso di Israele, tale difesa può usufruire di mezzi di offesa straordinariamente efficaci e distruttivi.

Dimenticano, tutti e senza distinzione, che già nel 1921 proprio un teorico italiano, Giulio Douhet, nel suo testo “Il dominio dell’aria” (poi divenuto a livello internazionale una vera bibbia della guerra aerea) teorizzava l’uso dell’arma aerea come strumento di distruzione totale delle infrastrutture economiche e civili e di vero e proprio terrorismo nei confronti della popolazione soggetta ai bombardamenti. Infatti l’aviazione militare, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale e dal Vietnam all’Iraq e a Gaza non è stata mai utilizzata per la guerra intelligente (che già di per sé costituisce un curioso ossimoro), ma solo e sempre in chiave terroristica.

Scoprirlo ogni volta, con pianti e strepiti istituzionali e privi di conseguenze, è assolutamente ridicolo e fuorviante. La guerra è la guerra ed è diritto degli oppressi denunciarlo ed opporsi ad essa con ogni mezzo necessario. Altrimenti si rischia di tornare ancora una volta a giustificarla sotto forma di “operazioni di polizia” oppure di “pacificazione” oppure, ancora, con le mille altre formule elaborate dall’opportunismo immarcescibile nel corso degli anni.

Israele, l’abbiamo già detto, anche se dovesse radere al suolo la striscia di Gaza e massacrare tutti i suoi abitanti non vincerà mai questa guerra. Non solo per l’immagine, ma anche perché attraverso di essa e, soprattutto, con una possibile futura guerra all’Iran si sarà totalmente messa nelle mani dei suoi peggiori nemici/amici. Prima di tutto l’Arabia Saudita che, quando avrà acquisito il controllo di quasi tutte le aree petrolifere più importanti dell’Africa e del Medio Oriente avrà buon gioco a ricattare gli USA e ad utilizzare i regimi jihadisti e califfati vari contro Israele stessa.

Nel disastro del Medio Oriente, dopo aver distrutto i movimenti classisti e laici e gli stati nazionali nati da moti anti-coloniali, gli occidentali non hanno più che una carta: la forza militare di Israele.
Dopo aver alimentato il mostro integralista pur di troncare qualsiasi appartenenza di classe e dichiaratamente anti-imperialista dei movimenti in Africa del Nord e Medio Oriente oggi scoprono che dal califfato islamico iracheno e siriano, giù fino alla Palestina, passando per il Libano, e fino a gran parte dell’Africa essi hanno coltivato, da un lato, forze incontrollabili legate agli interessi e agli investimenti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi e dall’altra, e questa la cosa più interessante per l’antagonismo sociale, dei momentanei contenitori per una rabbia che non può più essere ulteriormente compressa.

Una rabbia che affonda le sue radici nelle contraddizioni di classe e nella miseria, ma anche, e forse soprattutto, in quelle ridicole divisioni territoriali legate agli interessi, prima, europei e, poi, americani che, a partite dalla spartizione dell’impero ottomano, dopo la prima guerra mondiale, e dalla dichiarazione Balfour del 1917 hanno riempito il Medio Oriente di linee di confine verticali ed orizzontali che non hanno mai tenuto conto delle reali esigenze dei popoli coinvolti. Come già il Congresso di Berlino del 1885 aveva fatto con il continente africano.

Lasciamo pure piangere i filistei, soprattutto di sinistra, sugli orrori della guerra. Lasciamoli scoprire che ad ogni tornata di guerra l’antisionismo si trasforma, troppo spesso, nel più bieco e volgare antisemitismo. Lasciamoli credere che il sionismo sia divenuta l’unica espressione possibile dell’ebraismo. Tutti uniti nel dire che non è più possibile schierarsi in questo conflitto, ma lasciateli perdere perché sono già politicamente e socialmente morti.

Tutti i nodi stanno venendo al pettine e l’Occidente è debole come non mai. Mickey Mouse Obama ne è la migliore esemplificazione. E tutti, ma proprio tutti, corrono a mettersi al riparo delle bombe israeliane, sperando che queste li salvino un giorno da ben altri missili sparati contro di loro e da ben altri conflitti, militari e di classe.

Ma i calcoli degli “occidentalisti”, quelli che sventolano in questo contesto le bandiere della democrazia greca, del femminismo di facciata e del cristianesimo di papa Francesco, sono errati e nascondono solo il vuoto politico, esattamente come i discorsi del bulletto di Firenze, e la paura. Di perdere. Tutto.

Anni fa, quando cominciarono le guerre afgane, chi scrive ebbe modo di affermare che la potenza militare statunitense si sarebbe rivelata un colosso d’argilla nei confronti dei combattenti che portavano solo sandali ai piedi e un kalashnikov a tracolla. Mi sembra che nulla abbia contraddetto quella affermazione. Anzi.
Oggi a Gaza è lo stesso. Gli israeliani potranno uccidere migliaia di palestinesi: combattenti, donne e bambini. Ma non vinceranno mai.

La specie nel suo insieme vuole continuare a vivere e non potrà sopportare in eterno una suddivisione dei beni, dei territori e delle risorse che implica una condanna alla miseria e alla morte per miliardi di individui da Sud a Nord e da Est a Ovest.
Nelle sue sempre più spaventose convulsioni il modo di produzione capitalistico, soprattutto qui in Occidente, non ha più altre risposte che la repressione, lo strozzinaggio finanziario e i bombardamenti. Così oggi, non solo per scelta ma neanche solo per necessità, siamo tutti Palestinesi davanti alle forze del capitale.
Ma alla fine la risposta di “quei piccoli uomini e di quelle piccole donne”, di cui ha parlato recentemente Valerio Evangelisti in un articolo, “chiamati a compiti molto più grandi di loro e delle loro capacità”, sarà adeguata e giustificata e ne decreterà la fine insieme a quella di tutti i suoi servi.

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Moni Ovadia: perché Israele non vuole la pace https://www.carmillaonline.com/2014/07/24/moni-ovadia-perche-israele-non-vuole-pace/ Thu, 24 Jul 2014 01:14:56 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=16421 da Libera TV

MoniOvadiaE’ superfluo dire quale sia la posizione di Carmilla sul massacro che sta avvenendo nella Striscia di Gaza. La si può arguire dai numerosi articoli che abbiamo dedicato in passato alla questione palestinese. Preferiamo lasciare la parola a Moni Ovadia, che è sicuramente colui che meglio ha fatto conoscere in Italia la cultura ebraica.

Dal canto nostro ci limitiamo a ricordare l’ordine degli eventi, che i media stanno stravolgendo astutamente: 1) tre giovani coloni israeliani sono rapiti e uccisi, e il governo israeliano accusa Hamas, che nega; 2) l’aviazione israeliana comincia a bombardare la Striscia di Gaza; 3) [...]]]> da Libera TV

MoniOvadiaE’ superfluo dire quale sia la posizione di Carmilla sul massacro che sta avvenendo nella Striscia di Gaza. La si può arguire dai numerosi articoli che abbiamo dedicato in passato alla questione palestinese. Preferiamo lasciare la parola a Moni Ovadia, che è sicuramente colui che meglio ha fatto conoscere in Italia la cultura ebraica.

Dal canto nostro ci limitiamo a ricordare l’ordine degli eventi, che i media stanno stravolgendo astutamente: 1) tre giovani coloni israeliani sono rapiti e uccisi, e il governo israeliano accusa Hamas, che nega; 2) l’aviazione israeliana comincia a bombardare la Striscia di Gaza; 3) a quel punto Hamas e altri gruppi palestinesi cominciano a lanciare missili su Israele; 4) gli israeliani intensificano i bombardamenti fino al livello attuale, causando stragi di civili di ogni sesso ed età.

Ricostruita la cronologia, gli alibi “difensivi” cadono come pere cotte. Nella storia, chi ha iniziato una guerra ha sempre detto che si stava difendendo da qualcosa.

Detto ciò, ecco il video dell’intervento di Ovadia, tratto da Libera TV:

 

 

 

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