Günther Anders – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Mon, 07 Apr 2025 20:00:16 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La natura che ci possiede https://www.carmillaonline.com/2023/05/26/la-natura-che-ci-possiede/ Fri, 26 May 2023 20:00:58 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=77407 di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. [...]]]> di Francesca Fiorentin

Enrico Testa, L’erba di nessuno, Einaudi, Torino, 2023, pp. 142, euro 12,50

La terra e la sua vegetazione sono al centro della poetica di Enrico Testa, non come entità distanti, estranee, ma come realtà capaci di attraversarci dentro e di costruire un sesto senso che in noi si fa persona, la sesta persona, quel senso capace di esperire un altro ordine sensoriale rispetto alle sei persone della grammatica, le quali, con le loro declinazioni nelle tre coniugazioni verbali, indicano solo la relazione attiva e passiva con il mondo esterno. Attraverso questo senso percepiamo voci misteriose e viviamo in stretta unione con la natura, in un legame vitale, fatto anche di sentimento. Si tratta certamente di una espansione delle facoltà di percezione, di un ampliamento della capacità di immaginazione. La creazione poetica di E. Testa rappresenta un modo di pensare rivoluzionario perché cambia radicalmente i soliti schemi dell’intelligenza e del sentimento circa la natura, proprio in un tempo in cui il disastro climatico fa prevedere l’estinzione della specie umana, senza che il mondo faccia nulla per evitarla. Al posto di una natura inerte, siamo di fronte a un cosmo e una vita che non lasciano fuori la dimensione dell’ignoto, perché un aspetto inconoscibile delle parole proviene dalla profondità della terra, dai suoi elementi vegetali e inorganici, e suscita una comunicazione “che si sente” e “non si può ripetere”; è proprio questa visione a interessare il poeta, che predilige le persone “vedove della vita”, lepri che scappano e non hanno niente da spartire con chi affronta la vita, con i suoi problemi ordinari, con grinta. Le poesie sono voci che vengono a noi in modo oscuro: “tante voci/notturne in pieno giorno”. Voci ebbre che devono legarsi alla catena materiale del conscio, con la sua grammatica e le sue regole. Vi è una visione della bellezza del linguaggio come mondo sonoro, di voci e di muto, ancora prima di essere vergato sul foglio: “A me piace sentire le cose cantare”.

Il linguaggio della memoria e la voce come suono si materializzano in segni, ma prima della lettera scritta vi fu il refuso, il sussurro, la parola orale involontaria e inconscia, appartenenti alle voci della terra e a ciò che vive al suo interno. Anche dalle cose emana una eco che filtra non il niente ma “un tiepido soffio”, il soffio di una dirompente dimensione ctonia. Un’energia primordiale che attraversa la persona è quella che gli elementi naturali trasmettono, il contatto con una pietra, ad esempio. Sono, queste, le uniche sensazioni positive della vita, tangibili ma non esprimibili.

Lo stato esistenziale desiderato del poeta è quello di “essere invisibile nel completo anonimato”, “fuori dalla vita”, “solo di fronte al mio io”, in uno “stato provvisorio di esilio”, “in una soglia notturna d’elisio”. Uno stato di abbandono se consideriamo l’abbandono come distacco dalla vita laboriosa del mondo. Quasi ogni poesia contiene figure del mondo vegetale e di animali, soprattutto di volatili. Vivere in sordina vuol dire vivere come cuciti dietro il risvolto di un arazzo, nascosti e poggiati a qualcosa di materiale. Ma legare la propria vita al futuro dei figli, all’umanità in generale, considerando la casa come vita che continua, può essere pericoloso: una poesia (La caduta del cielo) mostra, in una sorta di allucinazione, come il peso dei morti fa sprofondare nel più profondo della terra i loro corpi, inghiottendo anche la casa costruita sopra, in una specie di implosione. Possiamo morire in qualsiasi momento, e conosciamo la morte solo attraverso il volto dei morti, il loro accumulo nella terra.

Vivere “fuori dalla vita” vuol dire vivere come cuciti dentro la terra, come radici di alberi o come rocce, dove un mondo di solitudine e di silenzio vive in pace. Come un cupo e scuro pino da pece, albero molto resistente al fuoco e al vento, impermeabile alla pioggia, è il poeta: estraneo agli eventi esteriori. Della terra siamo prigionieri, come le sterne che salgono e scendono continuamente al mare. A volte succede che nella solitudine senza gente, i passi diventino la trama sotterranea delle radici, e la lingua madre, la lingua dei primi rudimenti diventa viva e ci parla. Il sole che rende viva la terra sorride per lei, per le gemme di aprile, e l’aria è abitata da suoi propri sogni che vengono a noi la notte.

Dobbiamo pensare la condizione di separazione dal mondo come una condizione di lavoro della fantasia, ben descritta da una poesia in cui il poeta immagina, al mattino, di essere come un merlo zoppo che vaga nell’orto e di cantare sotto la sua pianta preferita. Benedetto è l’abbandono che è capace di stordire in una estasi di bellezza, come il profumo dei fiori di narciso.

Oppressive sono le immagini della vita terrena: un grand Hotel dalle finestre che sono lastre di vetro non apribili; l’esumazione di cadaveri nel cimitero; i morti che appaiono nel sonno operosi e attivi come erano in vita.
La morte dovrebbe essere un salto verso un altro cielo, che non ci limiti a ritornare a terra per cercare il cibo, in una terra dove ogni pezzetto è accaparrato dalla proprietà privata ai fini della grande produzione, impoverito dallo sfruttamento intensivo delle coltivazioni o della pesca. Sarebbe bello un volo in una terra, verso un’erba di nessuno. Quando un uccello muore, sembra che voli in picchiata, come precipitando in un altro cielo: è così che la morte dovrebbe essere nel suo significato. Anche gli oggetti vivono una sorta di morte, quando non esiste più l’ambiente a cui appartenevano. Se vi siete fermati a osservare oggetti d’infanzia o di parenti non più viventi, noterete come una tristezza in essi, vi accorgerete che gli oggetti e le persone sembrano condividere lo stesso desiderio di oblio nel viaggio del tempo che corre, in un credo comune: “parole carezze cenere”, dopo la vita sia l’oblio di quello che un tempo fu.

Non si può trovare nella scrittura un luogo in cui trovare riparo per il proprio essere. Non siamo noi a decidere dove andare, prevalgono i rovi da evitare, nella vita come nella scrittura.
Il distacco del poeta dal mondo ha anche un aspetto teologico, vi è un vissuto di lontananza di Dio, una disperazione che ha una certa somiglianza con quella di Giobbe, una disperata empietà: da una parte vi sono accuse di essere da Lui abbandonato e nello stesso tempo vi sono invocazioni di carezze. Dio è un “superbo bugiardo”, “un brigante di strada”. Al “Dio ignoto” chiede però una carezza, perché forse è “il mio solo compagno”, e al “mio grande nemico” dice: “non sparire!”. Dio ha un volto così muto da essere accecante. Ci viene in mente G. Anders quando affermava che “la disperata empietà è meglio della virtù che non dispera mai”.

La vita, nel migliore dei casi, è “serena infelicità” che trova riparo nell’ombra, o guarda “l’esterno dall’interno”, come fanno le piante. Esiste una forma di gioia, ma è esuberanza che prende senza motivo. L’autore cerca un luogo dove nascondersi dal mondo, dove non vi sia il controllo sulla nostra mente. La comunicazione digitale ci ha addomesticato a non dire niente se non un “tritume di parole, albume della voce”. La voce come albume, viscida appiccicosa e incolore, insapore, è la voce filtrata dallo schermo, inautentica e spettrale.

La vita è schiacciata da una pena tremenda, la distruzione e la corruzione di tutte le cose. La vita umana è la stessa identica vita di un dente di leone, “una vita plebea”, che viene “calpestato sui crocevia”, strappato dalle persone per il gioco di soffiarci sopra, e “la fine indecifrabile, nel vento”. Variando dei brani originali di F. Nietzsche, l’autore scrive:

“Sono facile alle lacrime in questi giorni e talmente irritabile verso l’umanità da aver sempre bisogno di medicine. Mi servono per contrastare il veleno che mi hanno inoculato: la sdegnosa indifferenza altrui mi ha spinto al disprezzo di me stesso e io non ho la forza per sopportarlo. La gente si stupisce del mio volto: sembra quello di chi è appena arrivato da un paese dove non abita nessuno. […]. Nelle mie notti in bianco vado a fondo e getto dal bordo del letto lo scandaglio nelle acque nere della coscienza. Per scovare un’aurora, per afferrare le mie idee: uccelli – gufo aquila allodola picchio – in volo. Non ho però nessuno con cui parlare. Sono stanche le stelle. Nel mio cielo, sono solo. Totalmente solo. E così! Arrivederci!”

Procedere dal buio verso un buio più profondo, non verso la chiarità, vuol dire dimenticare la vita, e questo non è un male, perché “la vita è l’invenzione meglio riuscita del diavolo”; gli affetti una promessa di amore non mantenuta.
L’erba di nessuno è una risorsa improduttiva; un luogo non privatizzato e non soggetto a un valore di mercato della quale all’inizio dell’età moderna in Inghilterra l’economia si era appropria indebitamente, creando delle recinzioni, le enclosures.

Era, la terra di nessuno, la risorsa di sostentamento e di sicurezza per chi viveva prima che nascessero le enclosures, recinzioni che dividevano la classe dei proprietari terrieri da chi non aveva terra e quindi separavano il mondo in ricchi e poveri.
Senza nominare i processi economici dell’economia di mercato, il poeta scrive:

finita quella su cui si può vantare
qualche diritto
di consuetudine o di proprietà
s’incomincia a tagliare
l’erba di nessuno.
La falce passa veloce
sulle ripe scoscese,
nei fossati umidi di guazza
anche ad agosto,
sui muri delle lunari
piramidi azteche dei monti.
L’esile pianta di una terrazza
e la sua tenera malva
sono una riga lontana
tra cielo e mare.
Qui pietra su pietra
e poco prato:
i pruni graffiano le mani.
Ma nessun filo, stelo o stecco
Deve andare perduto.
Tutto serve
per sfamare bestie e cristiani
– per dare fiato
a questo dolore muto

Bisognerebbe invece dare tributi e nutrimenti alla terra: il poeta, tagliandosi un dito, è orgoglioso che il suo sangue sia finito in terra. L’erba di nessuno è anche la vita in uno stato di concentrazione e solitudine, destinata purtroppo a essere continuamente interrotta dalle sollecitazioni che vengono dal mondo: innanzi tutto quella di inserirsi nella sfera sociale e nelle relazioni del consorzio umano. Lo stato di solitudine e di silenzio significa trovarsi soli in quello che si fa senza distrazione alcuna; una elevata forma di concentrazione in cui la mente fa tabula rasa del mondo: vera e propria meditazione spirituale che rappresenta una pace interiore estatica.

 

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L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale https://www.carmillaonline.com/2023/05/10/lesperienza-umana-nellepoca-dellintelligenza-artificiale/ Wed, 10 May 2023 20:00:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=76777 di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto [...]]]> di Gioacchino Toni

Adriano Pessina, L’essere altrove. L’esperienza umana nell’epoca dell’intelligenza artificiale, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 126, € 12.00

Che ci si preoccupi di come sfruttare al meglio la tecnica dal punto di vista del profitto, che si cerchino in essa inediti ampliamenti della dimensione umana, che vi si individuino modalità di semplificazione dell’esistenza o che ci si interroghi su quanto si sia da essa posseduti, è indubbia la rilevanza che ha assunto la “questione della tecnica” nel dibattito degli ultimi decenni.

Evitando tanto approcci che guardano alla tecnologia in maniera apocalittica, quanto quelli votati ad acritici entusiasmi nei suoi confronti, il saggio di Pessina assume la prospettiva del fruitore delle nuove tecnologie indagandone in particolare l’esperienza “dell’essere altrove”. Non si tratta di documentare cosa gli esseri umani possano fare con le tecnologie e cosa queste facciano degli umani, quanto piuttosto di riflettere su come l’“esperienza dell’io” si dia ai nostri giorni in una situazione in cui si intrecciano “presenza” e “assenza”.

L’attuale contesto storico vede infatti l’esperienza degli individui fare i conti con l’irruzione di ciò che è altrove rispetto all’immediato dell’esperienza così come la si vive all’interno dei confini spazio-temporali della biosfera. Occorre perciò pensarsi anche dentro quel nuovo spazio di comunicazioni e relazioni creato dalle Tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), chiamato infosfera. «Pensare a ciò che facciamo richiede, oggi, di comprendere meglio anche ciò che le ICT fanno della e nella nostra esperienza» (p. 14). Tale contesto tecnologico, insieme a questioni di natura economica, sociale, politica, implica anche questioni di carattere antropologico che per certi versi riscrivono la stessa rappresentazione dell’essere umano.

Riprendendo alcune considerazioni di Hannah Arendt (The Human Condition, 1958) circa l’insoddisfazione dell’essere umano nei confronti della propria condizione originaria, Pessina riflettere sul diffondersi del convincimento che il naturale imperfetto possa trovare un suo modello nell’artificiale.

L’idea che il dato, il naturale sia pensabile come imperfetto rispetto al prodotto, all’artificiale che ne diventano, per così dire, la misura, non è affatto estranea ai progetti dell’altra rivoluzione, non più biologica, ma digitale, oggi impegnata a creare un mondo artificiale in cui imparare a esistere nel mondo reale, secondo i progetti dell’intelligenza artificiale e del cosiddetto Metaverso (p. 17).

A partire dalle riflessioni di Günther Anders (Die Antiquiertheit des Menschen, 1956) che vedono nel “dislivello” tra condizione umana e potenza degli artefatti tecnologici la perdita di senso dell’umano, Pessina si domanda, a proposito dell’esperienza tecnologica, se ai giorni nostri il “dislivello” più problematico non sia piuttosto di tipo sociale, relativo cioè al possesso delle tecnologie (avere o meno l’ultimo modello di smartphone, disporre delle applicazioni più avanzate, di una connessione veloce ecc.).

Il panorama digitale contemporaneo ripropone con forza la questione del «rapporto tra la realtà e l’immagine che la rappresenta, tra le parole e le cose, ma anche tra somiglianza e similitudine» (p. 29) posto con grande consapevolezza dal pittore surrealista belga René Magritte in diverse sue opere a partire dal celebre La Trahison des Images (1929), dipinto su cui riflette il filosofo francese Michel Foucault.

L’importanza attribuita alla vista […] è sicuramente dettata dal fatto che sembra eliminare la distanza fisica tra noi e le varie forme del reale, ma è solo in base a precomprensioni culturali che possiamo trasformare l’analogia tra il vedere e il conoscere nel primato della vista. L’inganno è sempre facilitato da ogni riduzione delle fonti del conoscere e dalla nostra volontà di giungere, anche per scopi pratici, a rapide conclusioni. La tecnologia, del resto, è velocità e come tale non ci aiuta a prendere tempo per valutare (p. 31).

Da tali considerazioni deriva la necessità di «passare dall’immediatezza della percezione visiva e della conoscenza che ne segue – che fa sempre riferimento a ciò che appare – alla riflessione» (p. 31).

La forza persuasiva delle moderne Tecnologie dell’informazione e della comunicazione raggiunge probabilmente il suo culmine nella loro proposta di ambienti digitali e virtuali in cui si simula un’efficace esperienza plurisensoriale. Al fine di sviluppare un atteggiamento critico nei confronti di tali tecnologie, sottolinea Pessina, occorre «comprendere e tentare di approfondire quali esperienze e conoscenze si stanno facendo “realmente” quando siamo “altrove”, mentalmente o, come nel caso delle esperienze del virtuale, sensorialmente» (p. 32).

Con la televisione, suggerisce Anders, le tecnologie introducono nell’esperienza umana immagini rimandanti a fatti ed eventi che si collocano in un “altrove” rispetto allo spazio-tempo in cui queste vengono fruite ma queste non possono essere indicate come “rappresentazione”, se con tale termine si intende indicarne la funzione di “simulazione”. Chiaramente le immagini che compaiono sugli schermi hanno una differente ricaduta sul nostro vissuto a seconda che siano interpretate come “fatti” o come “rappresentazioni”, come contenuti “documentari” o di “finzione”.

A proposito dello spettatore posto di fronte alle trasmissioni televisive Anders puntualizza come gli avvenimenti che compaiono sullo schermo siano al tempo stesso “presenti” e “assenti”, “reali” e “apparenti”, come si trattasse di “fantasmi”, nel senso che l’esperienza individuale partecipa di qualcosa che pur non essendo “presente materialmente” è però in sé “reale”, si trova “altrove” rispetto allo spazio-tempo fisico vissuto dal fruitore ma influisce a livello sensoriale, cognitivo ed emotivo, su di esso.

Le tecnologie allargano decisamente la sfera delle esperienze cognitive, emotive e sensoriali ma ne modificano il significato originario. Di fatto manca un linguaggio adeguato a definire le esperienze portate dalle nuove tecnologie; se da un lato non si può infatti ricorrere al termine “rappresentazione”, dall’altro la nozione di “fantasma” a cui ricorre Anders appare poco intuitiva e rischia di produrre fraintendimenti.

L’individuo ha l’impressione di poter governare le “presenze” offerte dalle nuove tecnologie ma si scontra con una “passività costitutiva” che non è venuta meno con la svolta digitale; le architetture tecnologiche con cui interagisce non sono di certo neutre.

Se poi pensiamo a come i cosiddetti “social” tendano a farci inserire nelle comunicazioni dei vari utenti, facendoci credere di “partecipare” alle loro esperienze, ci rendiamo conto di come la dilatazione delle “immagini” del mondo e della “realtà” portino con sé, in modo paradossale, una specie di radicale impoverimento dell’esperienza in prima persona singolare, di quell’esperienza diretta, non mediata da altri punti di vista umani, che pure continuiamo a vivere (pp. 39-40).

Se tutto diviene informazione, se corpo vissuto e corpo conosciuto, corpo visto e corpo toccato diventano indistinguibili, allora «scompare anche la differenza tra una realtà presente e attuale e una realtà non attuale ma presente sui nostri schermi solo grazie al primato del “visivo”» (p. 40).

Il modello dell’apprendimento e dell’emancipazione, nell’epoca della tecnologia, sembra, allora, invertire il processo indicato da Platone. Se si vuole conoscere e comprendere la realtà non si deve dare le spalle al gran teatro del mondo che appare sugli schermi ma, al contrario, occorre voltare lo sguardo dalla realtà immediata e cercare nella rete la conferma della sua stessa consistenza, del suo significato (p. 44).

Tanto nel mito platonico, quanto in quello tecnologico, sottolinea Pessina, il mondo delle immagini si trasforma nel “tradimento delle immagini” soltanto se si espelle dall’esperienza cognitiva ogni livello riflessivo.

Nell’era digitale il server è “altrove” rispetto all’apparecchiatura tecnologica utilizzata, “altrove” sono gli eventuali interlocutori con cui si può interagire e “altrove” sono le fonti dei contenuti di cui si fruisce. Nell’immergersi mentalmente in un contesto sensoriale isolante (online), si resta con il corpo senziente in un luogo determinato (offline). «Essere qui e altrove, occupare, con il nostro corpo, un luogo fisico determinato ed essere, con la mente, altrove, è un’esperienza tutt’altro che insolita per gli esseri umani: forse ne è, addirittura, il carattere distintivo. Trascendere l’immediato è, infatti, l’originaria esperienza del pensare, dell’immaginare e del fantasticare» (p. 59).

L’epoca ipertecnologica contemporanea, sottolinea Pessina, appare fortemente votata alla disincarnazione dell’umano.

L’epoca della disincarnazione è un’epoca nuova, in cui diventa sempre più difficile la semantica del dolore, della sofferenza, della gioia e della solitudine creativa: difficile, ma sempre presente, perché l’esistenza non si annulla nelle sue rappresentazioni. L’epoca della disincarnazione rende fluide le comprensioni identitarie e sembra far perdere il senso del tragico, che appartiene alla problematizzazione dell’esistere e del suo senso ultimo. Se l’Incarnazione si inscrive nella logica della speranza e della salvezza, quella della disincarnazione si presenta con le vesti dell’efficienza e della soluzione. Le intelligenze umane esprimono la complessità dell’esistenza corporea, che deve confrontarsi con la contingenza che si annuncia sempre dentro la temporalità di tutte le esperienze personali, individuali; l’intelligenza artificiale, invece, esprime la possibilità della semplificazione e dell’individuazione delle risposte univoche a tutte le domande e le esigenze che possono essere tradotte in una universalità formale (p. 122).

L’indifferenza contemporanea nei confronti delle originarie e radicali questioni filosofiche e teologiche non deriverebbe dal suo essere disincantata, ma dal suo essere disincarnata, dunque «non più capace di cogliere il senso del nascere e del morire, segni di quella contingenza che pone la questione della radicale contraddizione tra la fine e i fini che l’essere umano pone. L’introduzione, nella storia umana, della figura pratica e teorica della disincarnazione conferma il potere, per così dire, retroattivo che le nuove tecnologie hanno non solo sulla vita dell’uomo, ma anche sulla sua autorappresentazione» (p. 123).

Se il processo di “familiarizzazione” della tecnologia ha finito per integrarla nei vissuti e nelle abitudini della vita quotidiana, occorrerebbe però, sottolinea lo studioso, «un ridimensionamento delle sue promesse e delle sue funzioni. Cercare nella rete ciò che non possiamo trovare nella realtà e viceversa, modulare la realtà in funzione della rete e delle nuove tecnologie, comporta decisamente una perdita di realismo. Ma anche una perdita di carne e di incanto, e forse di umanità» (p. 123). Una tale riflessione sull’esperienza umana nell’epoca tecnologica permette di approfondire cosa si ritenga esservi di “originale” e di “irriducibile” nell’umanità. Se davvero si vuole “restare umani” tale riflessione risulta imprescindibile.

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Gettare Martin Heidegger giù dalla torre? https://www.carmillaonline.com/2013/08/12/gettare-martin-heidegger-giu-dalla-torre/ Mon, 12 Aug 2013 21:55:13 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=8197 di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel [...]]]> di Girolamo De MicheleHeideggerSS.jpg

[Nella foto, Martin Heidegger è il primo seduto in basso a destra]

Nel 1944, parlando con un’allieva della guerra in corso, Martin Heidegger confessò alla studentessa di credere ormai sconfitta la Germania: «ma per carità», aggiunse, «non ne faccia parola con mia moglie!» Questo aneddoto (del quale sono debitore a Emil Cioran) dà la cifra morale e umana di un pensatore che pretendeva di meditare in modo autentico questioni come la verità e il destino dell’occidente, ma non trova il coraggio dell’autenticità in una banale conversazione privata con la moglie, fervente nazista.

Negli stessi anni, per restare nel campo dell’esistenzialismo, Sartre teneva all’Università corsi il cui contenuto avrebbe potuto costargli la vita (come accadde per Marc Bloch), Camus scriveva sulla rivista partigiana “Combat”, Lévinas e Primo Levi erano in campo di concentramento, Pareyson partecipava alle riunioni clandestine di Giustizia e Libertà, Pietro Chiodi evadeva dalla prigionia, tornava in Italia e riprendeva la via della montagna partigiana, Beckett, che pure era irlandese, si arruolava nella resistenza francese.

Mi è sempre rimasto il dubbio di come il vile Martin abbia annunciato alla consorte teutonica la capitolazione di Berlino e la morte di Hitler: posso immaginarlo uscire di casa in punta di piedi lasciando la radio accesa, e rifugiarsi in quell’angolo dove un contadino dagli occhi (ci mancherebbe!) azzurri, riposandosi con la pipa in bocca, se lo vedeva arrivare ogni giorno, anch’esso armato di pipa e tabacco.heidegger2.jpg Heidegger riteneva che in quei frangenti si raggiungesse la più autentica comunicazione fumando silenziosamente in compagnia: avrà il contadino, sfinito dal lavoro dei campi, pensato lo stesso di quel buffo omino tanto simile a quello della birra Moretti, vestito con assurdi calzoni alla zuava e giacche di taglio settecentesco? Eppure Martin Heidegger è considerato un gigante della filosofia. Intendiamoci: Essere e tempo è un grande libro, soprattutto là dove compie una ricca analisi della condizione umana (nel suo complicato linguaggio: del Dasein, dell’esser-ci) gettata nell’inautenticità, nell’alienazione, nella perdita di senso. Ma quando Jean-Paul Sartre dichiarò, nella conferenza L’esistenzialismo è un umanesimo, di considerarsi allievo dell’Heidegger di quelle pagine, Heidegger stesso gli rispose sprezzantemente rinfacciandogli l’interesse per l’uomo invece che per l’essere in quanto Essere. Il fatto è che ad Heidegger dell’uomo, delle sue sofferenze, del suo corpo, della fatica del lavoro, della differenza tra uomo e donna, in una parola della “condizione umana” per un verso non importava alcunché — come non gli importava nulla del destino degli ebrei e delle altre vittime dei Lager nazisti (l’unico suo accenno alla guerra è in favore dei prigionieri di guerra tedeschi). E per altro verso, il suo pensiero non s’è mai arrischiato in un vero confronto con la realtà. Il suo mondo iniziava e finiva nella sua baita nella Foresta Nera, immersa nel silenzio della tormenta di neve che «tutto nasconde»: è solo in queste condizioni che «l’interrogarsi del filosofo può farsi essenziale».

Cinico e pavido, Heidegger ha trovato la quadra in una forma di scrittura ed elocuzione filosofica che sempre Cioran, col dono della battuta che gli era proprio, definì «un’escroquerie philosophique»: Heidegger1.jpgogni volta che il suo pensiero tocca qualche punto essenziale, Heidegger se ne esce ingarbugliando il linguaggio. Con Heidegger l’insincerità truffaldina del linguaggio raggiunge livelli che solo Shakespeare aveva saputo toccare col suo Iago (personaggio che peraltro condivide con Heidegger il disprezzo per i “negri”). Facendo strame della sintassi e della filologia, Heidegger mette insieme espressioni la cui apparente profondità è l’effetto prodotto (per parafrasare il suo stesso linguaggio) dal «non-capirci-un’acca come la sua dimensione più propria»: Heidegger non si rivolge a interlocutori, ma ad ascoltatori che davanti al grado zero della significazione (cosa vorrà mai dire che «il niente nientifica»?) sgranano gli occhi, spalancano la bocca e, dopo aver cercato di cavare inutilmente il ragno dal buco, annuiscono gravemente per timore di passare per scemi. Il linguaggio di Heidegger è assertivo, oracolare, mistico: non potrebbe interessargli meno il linguaggio dell’operaio (ricordate il contadino che stava zitto e fumava la pipa?), l’analisi degli atti linguistici quotidiani, gli effetti che si producono nel mondo dando ordini o stipulando convenzioni. Wittgenstein si interrogò sul perché lui, che era architetto, non riusciva a comunicare con gli operai che gli costruivano la casa: si interrogò sui diversi giochi linguistici che denotano diverse condizioni sociali; Heidegger liquida il linguaggio quotidiano come «chiacchiera insignificante». Ma quando Carnap gli svela il giochino, sottoponendo ad analisi logica le sue affermazioni e chiedendogli perché mai «il niente nientifica» dovrebbe avere un senso filosofico e «la pioggia piove» no, Heidegger risponde accusando i neo-positivisti e i logici tutti di «stretta ed intima connessione col comunismo russo», roba che neanche Gasparri!

martin heidegger rundweg.jpg Il linguaggio è «la casa dell’Essere», diceva ad ogni piè sospinto: ma a condizione di accettare il fatto che per parlare dell’Essere ci manca il linguaggio, e dunque possiamo parlarne solo a condizione di non parlarne. La prova? Il fatto che lui stesso non ha terminato di scrivere Essere e tempo per la mancanza di un linguaggio adeguato all’Essere. E se il linguaggio viene meno a lui, non ci sono che due possibilità: o è l’Essere stesso che «si nasconde» (dove? Ma dietro se stesso, che diamine! Che sia il-giocare-a-nascondino la dimensione più autentica dell’Essere?), o è Heidegger che ha mal impostato l’analisi e non ha i mezzi per arrivarci. E allora perché larga parte della filosofia non ha, semplicemente, relegato ai banchi del rigattiere più vicino i libri di Heidegger? Perché l’heideggerismo è un ottimo pretesto per continuare a fare quello che i filosofi, tranne che per una breve parentesi e in modo minoritario, hanno sempre cercato di fare: studiare il mondo invece di impegnarsi a cambiarlo. Heidegger pone problemi seri: l’uomo è sopraffatto dal dominio della tecnica, disorientato dalla crisi della ragione, alienato. Possiamo uscirne? No: la crisi dell’uomo del Novecento è l’esito di qualcosa che è in marcia almeno da tre secoli. La questione della tecnica è in relazione con lo sviluppo della rivoluzione industriale, con quella che un marxista chiamerebbe sussunzione della società sotto il capitale? Per carità!, è tutta colpa di Socrate e Platone, che hanno dato avvio all’oblio della distinzione tra l’Essere e l’essere dell’ente come caratteristica del modo tecnico di pensare. E così, davanti alla crisi degli alloggi che affliggeva la Germania nel dopoguerra, Heidegger si poneva forse il problema della ricostruzione, dell’edilizia popolare, degli sfollati, delle politiche sociali? No: la crisi degli alloggi è solo una manifestazione di una più radicale crisi, quella del «non-sentirsi-a-casa-propria» come la dimensione più autentica dell’esser-ci. L’alienazione non ha una causa storica, sociale (come pensa un marxista), o individuale (come pensa la psicoanalisi): è una dimensione quasi eterna, contro la quale non c’è che da sperare che «dove massimo è il pericolo, là dimora ciò che salva». Cosa vuol dire questa frase? Heidegger non lo sa, ma l’ha detta Friedrich Hölderlin, che è un poeta, e quindi dev’essere sicuramente vera (e chissà cosa avrebbe pensato Hölderlin dei suoi versi usati come bigliettini dei Baci Perugina: non è anche questo un modo tecnico di pensare?). Una volta l’ha ripetuta in parlamento anche Buttiglione: il bello di queste frasi di cui non si capisce il senso è che le si può buttare lì, a caso, come il jolly a scala reale. Del resto siamo nell’età del dominio della tecnica, e «la tecnica non pensa» (come pure non pensano le penne stilografiche, il fiasco del Monopoli e lo stesso Buttiglione: ma questa è un’altra storia, direbbe l’indimenticabile Moustache). Dire che la tecnica non pensa è un ottimo modo per uscire dall’impasse intellettuale di chi non conosce la distinzione tra tecnica e tecnologia, tra tecnica e scienza, e in definitiva crede di sapere tutto delle pretese della tecnica e della scienza, ma poi chiama l’elettricista per farsi cambiar la lampadina.

In realtà un accenno a ciò che può salvarci Heidegger l’ha fatto trapelare: ormai, dice nell’ultima intervista, «solo un dio ci può salvare». «Un» dio, non «il» dio: forse ce ne sono molti? Possiamo, nel caso, scegliere tra il mitico Thor, Osiride o Zeus? Non è dato saperlo. Ma un filosofo che si affida a un dio non sta tradendo il proprio sapere? Se non è possibile operare per cambiare il mondo, tanto vale, invece di arrischiare la fatica del pensiero, andare in pellegrinaggio a Lourdes o a Pietralcina, o dal mago Otelma — o farsi dire cosa pensare dall’heideggeriano Ratzinger e dalla sua schiera di zelanti ripetitori (che, come la tecnica e il fiasco del Monopoli, non pensano: ascoltano, annuiscono ed eseguono). Se l’autenticità ci è negata per colpa di Platone, che vale condurre una vita autentica, o più modestamente sincera, ma scomoda, in luogo di una vita ipocrita, ma comoda e rassicurante? heidegger.jpg Cosa credete che abbia fatto Heidegger quando dovette scegliere tra l’amore per l’allieva Hannah Arendt e la moglie che non amava, ma alla quale era sposato? Credete che abbia corso il rischio della sincerità verso le proprie passioni? Se il linguaggio non è in grado di rendere conto delle proprie asserzioni e di rispondere delle proprie menzogne, allora sarà lo stesso scrivere bianco piuttosto che nero: cosa molto utile, per un filosofo che dopo essersi esposto «disertando nella prassi» (così disse Heidegger, distintivo nazista al bavero, al disertore Günther Anders) cerca di accreditarsi verso ambienti più moderati, dai quali avere una cattedra, un posto in una rivista, un invito a un convegno. Per prostituirsi intellettualmente con i circoli più reazionari dell’Accademia italiana, magari a ore alterne per salvarsi la coscienza. Heidegger è stato un perfetto trampolino per quei filosofi che in piena Restaurazione, dopo aver millantato di voler cambiare il mondo, sono tornati nello splendido isolamento delle proprie cattedre, per quei nostalgici dello storicismo che avevano tanta voglia di sentirsi dire che se non la Storia o la Provvidenza, ci pensa la storia dell’Essere, insomma il destino, a far sì che il mondo sia come sia, che il mondo non può essere diverso da come già-da-sempre è: al massimo lo si può amministrare un po’ meglio, non criticarlo. Se solo un dio può salvarci, che bisogno c’è di alzarsi alle 4 del mattino per andare a volantinare davanti a una fabbrica? Se la comprensione dell’esser-ci è negata dal nascondimento dell’Essere, perché preoccuparci del fatto che il da del Dasein, cioè banalmente il mondo in cui viviamo, è il mondo costruito dai Signori per lo sfruttamento dei Servi? Perché chiedersi cosa del nostro corpo — la determinazione sessuata, le passioni, i flussi di libido, i desideri, la pluralità delle ragioni, il conflitto permanente tra cuore e ragione — increspa la placida serenità di un pensiero che non si confronta mai col reale e resta sempre a fare il gioco dello specchio con se stesso? Se siamo tutti alienati e non c’è differenza tra la condizione maschile e quella femminile, tra il lavoro e l’ozio, tra il nord e il sud del mondo, perché uscire dai salotti e sporcarsi le mani col mondo?
L’heideggerismo è una sorte di élitaria torre d’avorio i cui occupanti passano il tempo a nientificare il niente, ossia a parlare del nulla: dopo tutto, perché buttarli giù dalla torre? C’è il rischio di ritrovarceli, noi della razza di chi rimane a terra (razza rude e pagana, beninteso), ancora tra i piedi.

Note

(*) Sono debitore, per il titolo, al saggio postumo di Luciano Parinetto Gettare Heidegger.
(**) Dopo la pubblicazione, su Liberazione del 14 agosto 2008, di questo testo, Roberta De Monticelli, che ringrazio per le parole di apprezzamento, mi ha segnalato il suo Contro Heidegger, liberamente scaricabile qui: www.unisr.it/docenti/ricerca/demonticelli/Contro_Heidegger.doc.

Questo testo è stato già pubblicato su Carmilla il 22 settembre 2008

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