Guillermo Del Toro – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Thu, 21 Nov 2024 22:40:37 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Un incontro con l’Altro nella Camargue misteriosa e selvaggia https://www.carmillaonline.com/2023/01/10/un-incontro-con-laltro-nella-camargue-misteriosa-e-selvaggia/ Tue, 10 Jan 2023 21:00:50 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=75513 di Paolo Lago

Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, prefazione di M. Longobardi, trad. it. di R. Pellerino, La Noce d’oro, Rocca di Papa, 2022, pp. 139, euro 16,00.

Alcuni brani di La Bestia del Vacarés, uno straordinario romanzo dello scrittore in lingua occitana Joseph D’Arbaud (1847-1950), uscito nel 1926, erano stati tradotti in italiano da Monica Longobardi nel suo “Viaggio in Occitania” del 2019. Adesso possiamo leggerlo per la prima volta in versione integrale grazie alla bella traduzione di Rosella Pellerino, uscita recentemente per La Noce d’oro con una prefazione della stessa [...]]]> di Paolo Lago

Joseph d’Arbaud, La Bestia del Vacarés, prefazione di M. Longobardi, trad. it. di R. Pellerino, La Noce d’oro, Rocca di Papa, 2022, pp. 139, euro 16,00.

Alcuni brani di La Bestia del Vacarés, uno straordinario romanzo dello scrittore in lingua occitana Joseph D’Arbaud (1847-1950), uscito nel 1926, erano stati tradotti in italiano da Monica Longobardi nel suo “Viaggio in Occitania” del 2019. Adesso possiamo leggerlo per la prima volta in versione integrale grazie alla bella traduzione di Rosella Pellerino, uscita recentemente per La Noce d’oro con una prefazione della stessa Longobardi. Come Pellerino osserva in una “nota alla traduzione”, è necessario restituire una dignità perduta all’occitano, ormai trasformatasi in “patois”, in una “lingua minoritaria di Francia”. Se la letteratura occitana medievale è divenuta da molto tempo un importante oggetto di studio anche in Italia, nell’ambito della Filologia romanza, quella moderna e contemporanea è rimasta pressoché sconosciuta. Ecco perché – continua la traduttrice – “quando una lingua è in pericolo, anche il compito del traduttore assume un ruolo cruciale di testimonianza e di responsabilità”.

Il romanzo di Joseph d’Arbaud è la storia di un incontro che – come sottolinea Longobardi nella prefazione – “fa tremar le vene e i polsi”. Si tratta di un incontro con l’Altro, con un’alterità selvaggia e sconosciuta, emersa da un mai sopito sostrato pagano. Siamo nella Camargue del Quattrocento e la narrazione in prima persona, per mezzo dell’espediente letterario del manoscritto ritrovato, è affidata al “gardian” (il guardiano di una mandria di tori e di cavalli) Jaume Roubaud, un solitario mandriano che percorre notte e giorno quei misteriosi territori alle foci del Rodano sospesi fra acqua e terra. Mentre vaga nelle campagne cavalcando il suo cavallo Clar-de-Luno, Jaume incontra un misterioso essere selvatico, una incarnazione del dio Pan, dagli “occhi feroci in cui ardeva una fiamma velata di tristezza che il mio sguardo a malapena riusciva a sostenere”. Se dapprima il mandriano, di cultura cristiana, lo scambia per un’apparizione diabolica, la creatura comincia a parlare dicendo di non essere un demonio e di appartenere ad un’altra cultura, quella pagana, estremamente più arcaica e sconosciuta nella Camargue medievale dominata dall’Inquisizione. Ormai vecchio e stanco, il “semidio” ha trovato un po’ di pace in quel territorio e in esso ha potuto riconoscere “quella vastità sacra nella quale un tempo mi compiacevo a esercitare la mia giovane forza, quando signoreggiavo, padrone del silenzio e delle ore, maestro di quel canto sterminato che dagli insetti della piana sale verso le stelle, riecheggia e risuona nei gorghi dell’immensità”.

La “Bestia” incontrata da Jaume Roubaud non è un’apparizione terribile e misteriosa come quella che Arthur Machen rappresenta nel suo racconto Il grande dio Pan (The Great God Pan, 1894), una terribile divinità pagana rivestita di orrore che conduce alla pazzia. Si tratta, invece, di un essere stanco e decrepito che implora aiuto e pietà, ergendosi a difensore di una natura selvaggia che sta per essere violata dall’uomo. Come un’antica divinità che si credeva spazzata via dall’avvento del cristianesimo, la “Bestia” ricompare sulla terra per riprendersi, forse per l’ultima volta, l’antico dominio sul regno animale. In un rituale notturno ed oscuro cui Jaume assiste con orrore, il misterioso essere, suonando un flauto, riesce a domare e controllare tutti i tori selvaggi della Camargue. E Jaume si porta dentro di sé l’orribile segreto: sia questa scena notturna che la presenza stessa della “Bestia”. Dopo aver visto il misterioso essere, il personaggio appare preda di un contagio di natura quasi dionisiaca: è spesso attanagliato dalla febbre e i suoi giorni sono dominati dall’angoscia. Ma, come già accennato, la “Bestia” non è un personaggio dalle connotazioni negative: vecchio, stanco e affamato, chiede aiuto al mandriano. Jaume, allora, mosso da pietà, lascerà spesso appeso al ramo di un albero un sacco con delle provviste. È così che si instaura una sorta di “amicizia” tra il decrepito semidio e l’umano: non a caso, ad aiutare l’essere pagano e primordiale è chiamato un mandriano, un uomo che vive a stretto contatto con la natura e con l’universo animale e selvatico. Nonostante la vicinanza e l’amicizia, essendo venuto a contatto con un’alterità assoluta, Jaume viene contagiato da una misteriosa malattia, un po’ come il protagonista del racconto di Daphne Du Maurier intitolato Non dopo mezzanotte (Not after Midnight, 1971), il quale appare preda di un misterioso male contratto dopo essersi avvicinato ad un universo arcaico e pagano nell’isola di Creta. Infatti, “dal giorno in cui non ho potuto resistere alla sua miseria, in cui l’ho aiutato, in cui ho visto davanti ai miei occhi scorrere sul volto lacrime d’uomo, malgrado una repulsione, un orrore di cui, a tratti, non ho il controllo, porto la sua amicizia come un male nel mio sangue”.

Jaume entra in contatto con un essere che appare come un incrocio tra umano, animale e divino, espressione di un’animalità dalle connotazioni demoniche e sovversive. Se guardiamo all’incontro tra il mandriano e la “Bestia” con uno sguardo ecocritico, ecco che possiamo intravedere nel misterioso essere quasi una sorta di arcaico guardiano di un “grande paese selvaggio” – come scrive Longobardi nella prefazione – “insidiato dal disincanto della modernità”. Anche se la storia si ambienta nel 1400, nella figura della “Bestia” decrepita e invecchiata, scacciata dalla presenza umana, possiamo quasi scorgere una rappresentazione metaforica della Camargue contemporanea dell’autore, inserita in un processo di sempre maggiore antropizzazione che giunge fino ai giorni nostri. Quando Jaume entra in contatto con la “Bestia” stabilendo una sinergia con essa, abbandona, per certi aspetti, il suo sistema di riferimento antropocentrico basato su divieti e tabù anche di ordine religioso. Infatti, come nota Serenella Iovino nel suo saggio dal titolo Ecologia letteraria, quando viene abbandonato un sistema di riferimento antropocentrico, la rappresentazione letteraria dell’animale può rimandare a un senso del sacro di fronte al quale l’essere umano è messo radicalmente alla prova. Esito di tale prova è una trascendenza “sovversiva” che spinge a ripensare la stessa immagine dell’umano.

L’Altro, la creatura semidivina con cui Jaume entra in contatto, appare come una vittima del progresso e dell’antropizzazione: Jaume sceglie alla fine di non rivelare a nessuno la presenza del misterioso essere per preservarne intatta l’incolumità. Questa figura arcaica e misteriosa, se guardiamo al cinema, non può non farci pensare al fauno del Labirinto del fauno (El laberinto del fauno, 2006) di Guillermo del Toro oppure all’essere acquatico proveniente dall’Amazzonia di La forma dell’acqua (The Shape of Water, 2017) dello stesso del Toro che, raffigurazione di un’alterità assoluta e inquietante (ma naturalmente ‘buona’ e ben disposta nei confronti degli umani), nella Baltimora dei primi anni Sessanta viene imprigionato e sottoposto a crudeli esperimenti da parte di militari e scienziati. La “Bestia” del romanzo di d’Arbaud sarà destinata a sparire nel “Grand Abime”, il grande abisso, una terribile palude, “uno di quegli orrendi pozzi di fango nero dall’imboccatura non troppo ampia, ma talmente traditore che nessuna sonda potrebbe toccarne il fondo”. Nello stesso modo in cui, forse, era emersa, questa presenza ctonia e sovversiva sarà destinata a tornare alla terra tramite interstizi putridi e paludosi. D’altra parte, se ancora guardiamo al cinema, il mostruoso è stato spesso associato all’ambiente della palude, dove la terra inghiotte fin nelle sue insondabili profondità. Basti pensare al classico Il mostro della laguna nera (Creature From the Black Lagoon, 1954) di Jack Arnold, al quale si ispira lo stesso film di Guillermo del Toro, ma anche a una produzione Hammer del 1959 come La mummia (The Mummy, 1959) di Terence Fisher, in cui la mummia, dopo essere emersa da una palude alle porte di Londra (dove il suo sarcofago era stato perduto dal carro che lo trasportava), alla fine si inabisserà proprio in quella stessa palude, sparendo per sempre.

L’incontro con l’Altro cui assistiamo in La Bestia del Vacarés avviene entro un contesto dalle tonalità languide e sfumate, un paesaggio tratteggiato con tinte intrise di vera poesia. Il mandriano Jaume vive in solitudine, affidandosi ai ritmi della natura e al succedersi delle stagioni, scrutando l’arrivo del mistral, tenendo conto dell’accorciarsi o dell’allungarsi delle giornate, ascoltando il rumore del mare agitato e i fruscii delle bestie nella natura. A sera si ritira nella sua povera abitazione e si sfama con misere e semplici cibarie riscaldandosi al focolare. E, soprattutto, scrive: è tramite la scrittura vergata sul suo diario che Jaume si trasforma in personaggio letterario; è dalla sua penna che, affidandosi all’espediente del manoscritto ritrovato, d’Arbaud fa scaturire la sua storia intrisa di un sottile e lancinante mistero. Una scrittura che testimonia il perpetuarsi della vocazione ‘sovversiva’ del personaggio: la sua volontà, cioè, nonostante la probabile sparizione definitiva dell’essere (Jaume vede inghiottito dalla palude una specie di tronco dalle fattezze umane), di “cercare e cercare ancora, senza scoramento né fatica”. Cercare la “Bestia”, certo, ma cercare anche un’immagine ed un’essenza ‘altra’ che lo ha fatto uscire da sé stesso, che ha scardinato in lui la sua visione antropocentrica e che, tramite un contagio dionisiaco, lo ha fatto guardare al di là, verso un senso di empatia nei confronti dell’alterità più assoluta.

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Un sopramorto molto indie https://www.carmillaonline.com/2016/09/23/un-sopramorto-indie/ Thu, 22 Sep 2016 22:01:48 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=33262 di Jack Baldrus

rollinsHe never died, di Jason Krawczyk

In questa epoca di omologazione, per cui i cinema diventano dei fast-food multimediali che proiettano gli stessi film, diventa sempre più difficile vedere le opere che viaggiano fuori dai circuiti dominanti. “Pellicole” prodotte e distribuite da indipendenti non vengono considerate dai padroni del doppio conglomerato distribuzione/sale, che propongono (impongono?) i blockbuster, i cartoni animati, le commedie. Il resto del mondo, per loro, non esiste.

Ma sono loro? Oppure sono i gusti del pubblico ad essere omologati, per cui certe pellicole non hanno riscontro e [...]]]> di Jack Baldrus

rollinsHe never died, di Jason Krawczyk

In questa epoca di omologazione, per cui i cinema diventano dei fast-food multimediali che proiettano gli stessi film, diventa sempre più difficile vedere le opere che viaggiano fuori dai circuiti dominanti. “Pellicole” prodotte e distribuite da indipendenti non vengono considerate dai padroni del doppio conglomerato distribuzione/sale, che propongono (impongono?) i blockbuster, i cartoni animati, le commedie. Il resto del mondo, per loro, non esiste.

Ma sono loro? Oppure sono i gusti del pubblico ad essere omologati, per cui certe pellicole non hanno riscontro e le sale vanno semideserte? Non accade lo stesso nell’editoria? Le librerie indipendenti scompaiono, sostituite da store/fast-food (di nuovo!), dove hanno visibilità i prodotti degli editori-padroni, perché tanto le edizioni indie non vendono. Qualcuno sostiene che la gente vuole vedere sempre gli stessi film, leggere gli stessi libri, ascoltare la stessa musica, in una sorta di coazione ossessiva a ripetere influenzata dal marketing. Per cui i produttori/editori si adeguano. Non si capisce di chi è “la colpa”. Ma forse la colpa esiste in sé, e siamo tutti degli accusati di qualcosa, a nostra insaputa, proprio come Josef K. de Il processo?

Ma lasciamo perdere queste considerazioni abbastanza deprimenti e occupiamoci di uno di questi prodotti che stentano a circolare nei territori colonizzati, per esseri visibili solo nelle piccole nicchie lasciate libere da Indipendence day, L’era glaciale & C, o in streaming, oppure in “scaricamenti” più o meno legittimi.

Una premessa: la sterminata produzione di vampiri è ovviamente dominata dall’iconografia classica, che deriva dal famoso romanzo di Bram Stoker, l’eroe negativo pallido come il marmo, coi canini sporgenti, che teme la luce e il crocefisso, che si può uccidere solo con un paletto nel cuore, seduttivo, letale, intrigante. Questo modello ha avuto infinite varianti, ma resta sempre attivo il fascino del non-morto coi superpoteri, bello, inaccessibile, notturno, diabolico. Il fascino imperituro del male, l’attrazione fatale dell’angelo della morte.

Queste varianti moderne hanno trovato la loro apoteosi nei vampiri fighetti middle-class di Twilight, oppure nei simil-cartoons della saga (abbastanza interessante) di Blade, nel cult-cool Intervista col vampiro, nel pre-pulp Dal tramonto all’alba (e successiva serie televisiva, sempre curata da Rodriguez), e così via, fino alla rarefazione artistica del metafisico-decadence Solo gli amanti sopravvivono di Jarmush.

Ma esiste anche un altro filone, dove il vampirismo è rappresentato come un’orrida forma di parassitismo, del tutto priva di fascino: la serie The Strain, di Guillermo del Toro, che segue la trilogia letteraria Nocturna (La progenie, La caduta, Notte eterna), dove i nostri amici sono dei mostri orripilanti, lerci, zombies, brulicanti di vermi che corrono sottopelle. Niente camicie bianche da macchiare col sangue delle vittime, niente luci-spot sui volti pallidi e bellissimi, ma solo vomito e ribrezzo.

Il film di cui parliamo si inserisce in un ulteriore filone, dove i vampiri hanno perso l’alone fascinoso patinato, ma restano comunque degli esseri devastanti seminatori di morte, come “umani” normali che amano quella vita che non possono godere fino in fondo, perché sono sottratti al dualismo vita-morte, che pagano con la condanna del loro status di assassini coatti. Amano, provano pietà, cercano l’amicizia, anche se sono obbligati a uccidere. E’ la loro natura. Il tutto senza canini e facce di marmo. Un esempio di ottima a fattura è lo svedese Lasciami entrare, storia di amicizia infantile in un desolato quartiere di Stoccolma tra un bambino e una vampirella sua coetanea, che lo aiuta a riscattarsi dalle angherie di bulli che lo tormentano, in un crescendo di amore e morte, con un ritmo e un’estetica che sono l’antitesi di certi horror patinati americani.

rollins2Possiamo dire che He never died (2014) si inserisce in questo stile. Diciamo che potremmo anche configurarlo come un ulteriore capitolo dell’epica creata dalla nostra compianta Chiara Palazzolo, con la trilogia dei Sopramorti (Non mi uccidere, Strappami il cuore, Ti porterò nel sangue).
Per una parte della storia non ci sono indizi per iscrivere il protagonista nell’elite dei Sopramorti. E’ depresso, sotto le righe, non fa nulla (anche se notiamo che ha una valigia zeppa di soldi) a parte dormire, guardare la tv e soprattutto giocare a bingo in una chiesa. Se parla lo fa sottovoce, oppure per monosillabi. Non reagisce agli stimoli, non è interessato a nulla. Misteri nascosti ne ha, lo sappiamo, compra un misterioso pacchetto che mette subito in frigo, ogni tanto guarda degli oggetti strani, nasconde qualche segreto. Proprio il protagonista, Jack, costituisce uno degli elementi “forti” del film. Henry Rollins è stato uno dei principali animatori del punk californiano come front-man del mitico gruppo Black Flag, poi scrittore, conduttore radiofonico e televisivo, attore, perfomer di spoken-word. Qui fornisce una interpretazione magnetica, carica della sua storia personale epica-underground, di chi non ha molto da scherzare né da scazzare, di chi non ha mai vissuto di rendita (quando lo fotografai, col gruppo Rollins Band, lavorava sodo per montare e smontare le attrezzature del concerto, col suo fisicaccio da energumeno tatuato).
La sua vita piatta, fatta di poche cose dai colori smorti, subisce una scarica da taser quando compare sua figlia (quante ne avrà avute? Sappiamo che il suo personaggio è antichissimo, addirittura ha un capitolo nella Bibbia), che non conosce, che gli rinfaccia di essere un padre assente. La figlia è qualcosa di vitale, di “caldo”, che perfora lo smalto gelido della sua esistenza inutile. Poi la ragazza viene rapita da una banda criminale, con la quale Jack ha dei rapporti d’affari (questa è una parte leggermente caotica, ma è ininfluente nella densità dell’opera), e allora parte la rinascita della belva. Esplode la natura dormiente del sopramorto. Niente canini affilati, niente pallore mortale, ma Jack è comunque invulnerabile, ultra forte, sanguinario e pure cannibale, una creatura feroce che sbrana le vittime, con immagini horror anche piuttosto rivoltanti, come quando taglia il dito di un tipo che ha appena straziato per portarselo come snack (e quando lo mastica, crocchiante come una barretta alla nocciola, lo stomaco dello spettatore ha una contrazione…). Ma l’horror non è anche schifo, non è fuoriuscita di frattaglie e di umori? Fa parte delle pulsioni adolescenziali, la fase del corpo che si modifica, che si contorce, e la mente lo segue con la curiosità per le interiora, le viscere, il sangue, le ossa. Per cui noi, che amiamo ancora l’horror, perché ci tiriamo dietro echi post-adolescenziali, accettiamo volentieri la smorfia rivoltante, il brivido dello squartamento e della decapitazione.

Così Jack-Rollins, il mattatore assoluto assoluto del film, è indifferente alle pallottole, non ci risparmia qualche performance comica molto rollinsiana, come quando si estrae dalla fronte una pallottola con un paio di pinze da lavoro, tra le esclamazioni inorridite di una cameriera che lo ama segretamente (diciamo che lo amava, prima di scoprire la sua vera natura), perché “poi la carne si rimargina e allora mi viene il mal di testa”, in un crescendo di violenza che esplode in una discreta catarsi con un massacro rispettabile.

Alla fine di questo film americano-canadese, ben fatto, originale, un po’ underground anni ’80, usciamo dalla sala (oppure, più probabilmente, ci alziamo dal computer), soddisfatti, divertiti, con quel senso di gratitudine, oggi abbastanza raro, che proviamo quando un libro, o un film, ci strappano dalla noia ormai entropica delle “opere” così inutili, così uguali, che ci sommergono nel tempo sospeso di questo presente che sembra eterno, immutabile, proprio come la vita sopramorta di Jack.

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Nemico (e) immaginario. L’Umano e l’Alieno https://www.carmillaonline.com/2016/08/16/nemico-immaginario-nemico-allo-schermo-lumano-lalieno/ Tue, 16 Aug 2016 21:30:47 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29821 di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di [...]]]> di Gioacchino Toni

crazies-romero-Passando in rassegna la cinematografia di fantascienza americana si può notare come la minaccia, anche quando proviene da mondi lontani o da strane creature, in molti casi è l’uomo ad averla, più o meno direttamente, ispirata o causata. A volte l’essere umano è indicato come motivo del male comparendo come figura di potere malvagia e megalomane, in altre occasioni è per causa umana che qualche strano essere, non di rado mutato geneticamente a causa di esperimenti bellici, semina morte e distruzione. Che si tratti di virus letali, di catastrofi ambientali, di mutazioni genetiche, a ben guardare, secondo tanta fantascienza, l’uomo pare rappresentare la vera minaccia per l’intero pianeta ed, in alcuni casi, anche per altri mondi. Per certi versi anche la figura dell’alieno finisce per parlare dell’essere umano, visto che su tale figura, frequentemente utilizzata per esorcizzare l’ignoto, vengono spesso proiettare le peggiori caratteristiche dell’umanità.

Nelle pellicole in cui è l’uomo ad essere indicato come responsabile dei disastri non di rado viene messa sotto accusa l’intera specie umana, quasi fosse affetta da una colpa da cui non può liberarsi. Altre volte i film mostrano come le colpe siano sì umane ma riconducibili alla sete di potere ed alla ricerca del profitto ad ogni costo di quanti, per raggiungere i propri scopi, non esitano a distruggere ed uccidere. In questo secondo caso l’accusato, più che l’intera specie umana, è specificatamente l’essere umano che fa dello sfruttamento nei confronti dei suoi simili e dell’intero universo la propria ragione di vita.

Ricorrendo al saggio di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie. O come riflettere attraverso l’orrore (Minesis, 2014), abiamo analizzato [su Carmilla], attraverso la metafora dello zombie, le pulsioni autodistruttive dell’essere umano incapace di sognare un mondo migliore. In un secondo scritto [su Carmilla] abbiamo fatto riferimento al testo di Roberto Giacomelli, Nemici dell’America, nemici dell’umanità. Il “nemico” nel cinema fantascientifico americano (Sovera Edizioni, 2014) a proposito delle modalità con cui il cinema fantascientifico ha dato immagine ai nemici dell’America. Riprendiamo ora il discorso proprio a partire da questo ultimo volume che, nella sua seconda parte, focalizza l’attenzione sulle figure dell’Umano e dell’Alieno proposte della science fiction statunitense. Occorre ribadire quanto sottolineato nel precedente scritto a proposito dell’impossibilità di essere esaustivi nel passare in rassegna un genere che conta una produzione davvero sterminata. Detto ciò, in tale volume, le denunce delle responsabilità dell’essere umano espresse dalla fantascienza cinematografica vengono analizzate a partire da opere che affrontano le minacce atomiche. Questo filone, secondo l’autore, può dirsi iniziare nei primi anni ’50 con lungometraggi come Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20,000 Fathoms, Eugène Lourié, 1953) ed Il continente scomparso (Lost Continent, Sam Newfield, 1951). In entrambi i casi il mostro è prodotto dagli esperimenti nucleari umani. Qualche anno dopo Il mostro del pianeta perduto (Day the World Ended, Roger Corman, 1955) mette in scena l’umanità sopravvissuta alla catastrofe atomica, costretta a fare i conti anche con i suoi effetti a lungo termine. È comunque nella seconda metà degli anni ’50 che proliferano film popolati da “mostri atomici”, come ad esempio il giapponese Godzilla (Gojira, Ishiro Honda, 1954) che apre la strada a numerose produzioni nipponiche ed americane ad esso ispirate.

Nel caso di Assalto alla Terra (Them!, Gordon Douglas, 1954) il terrore è seminato da formiche rese giganti dagli esperimenti statunitensi effettuati in attesa di “fare sul serio” ad Hiroshima e Nagasaki ed il film termina lasciando inquietanti interrogativi circa la nuova era aperta dallo scoppio dell’atomica. Tra i monster movie passati in rassegna dal saggio abbiamo: Tarantola (Tarantula, Jack Arnold, 1955), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, Robert Gordon, 1955), La mantide omicida (The Deadly Mantis, Nathan Juran, 1957), L’assalto dei granchi giganti (Attack of the Crab Monsters, Roger Corman, 1957) ed alcune opere del prolifico Bert I. Gordon, come I giganti invadono la terra (The Amazing Colossal Man, Bert I. Gordon, 1957). In questo ultimo film è un colonnello contaminato da una bomba al plutonio a subire la mutazione che lo trasforma in un gigante, come a dire, suggerisce Giacomelli, che è l’uomo il vero mostro da temere. La massima concentrazione di monster movie si raggiunge nel 1957, poi sarà la volta delle invasioni aliene. «Si parte dunque da una paura generata dalle potenzialità espresse o virtualmente esprimibili dall’armamentario nucleare delle due superpotenze e si giunge al timore per le possibilità di un’invasione sovietica» (p. 66).

Alien-1Al mostro generato da un uso scriteriato della scienza si inizia a preferire una più generalizzata azione negativa dell’uomo sulla natura che, non di rado, pare ribellarsi contro colui che l’ha a lungo violentata. L’essere umano si trova improvvisamente in balia di una natura che, inspiegabilmente, lo attacca, come accade, ad esempio, in Frogs (id., George McCowan, 1972), Long Weekend (id., Colin Eggleston, 1978) e Fase IV – Distruzione Terra (Phase IV, Saul Bass, 1973). Tra i film che si concentrano sulle recenti ansie ecologiche, il volume si sofferma su E venne il giorno (The Happening, M. Night Shyamalan, 2008). In questo caso è direttamente l’uomo ad essere carnefice di se stesso: senza alcun motivo spiegabile le persone si bloccano, divengono apatiche e pongono fine alla propria esistenza. Sul versante della denuncia ecologista viene analizzato il film Isolation – La fattoria del terrore (Isolation, Bill O’Brien, 2005) ove vengono fatti riferimenti alla BSE che, nel mondo reale, ha colpito interi allevamenti di bovini. Anche in questo caso è l’uomo ad aver prodotto il disastro. Epidemie causate dall’essere umano si trovano anche in Dead Meat (id., Conor McMahon, 2005) e The Mad (id., John kalangis, 2007). Nel caso di Mimic (id., Guillermo Del toro, 1997), invece, evidenzia Giacomelli, è la stessa scienza al nobile servizio dell’uomo, nel suo tentativo di debellare malattie, che sfugge di mano e determina la catastrofe. Nel volume non mancano di essere analizzate opere in cui l’uomo risveglia creature preistoriche, come accade in Jurassik Park (id., Steven Spielberg, 1992) ed in diversi altri film.

Uno dei filoni più interessanti riguarda il timore del contagio. Virus ed armi batteriologiche sono presenti in diverse opere cinematografiche, a partire da quello che nel volume è considerato l’antesignano del genere: Satan Bug (The Satan Bug, John Sturges, 1964). In questo film sono ravvisabili alcuni elementi ricorrenti in tanta produzione focalizzata sul contagio: «la paura paranoica per un killer invisibile e […] la mancanza di fiducia verso il governo» (p. 82). Nel caso specifico il nemico «vuole distruggere al fine di evitare la distruzione, punire chi è intenzionato a muovere guerra in un atto di denuncia estrema» (p. 83).
Il contagio torna anche ne L’esercito delle 12 scimmie (12 Monkeys, Terry Gilliam, 1995) ed in Virus letale (Outbreak, William Petersen, 1995). In questo ultimo caso ad essere messi sotto accusa sono gli stessi governanti che, pur avendo a disposizione un antidoto per risolvere le cose, preferiscono nasconderne l’esistenza e conservare il virus e l’antidoto in vista di un loro impiego bellico. La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, George A. Romero, 1973), può invece essere indicato come vertice del cinema virologico di denuncia. «Romero attacca la politica, il governo e l’esercito con l’anarchico entusiasmo che ha spesso contraddistinto il suo cinema ed esplicitando il suo disappunto e la sua sfiducia verso chi tiene le redini del Paese» (p. 85). In film come questo le colpe non vengono attribuite genericamente “all’essere umano” od alla malvagità di un qualche megalomane o folle, ma, piuttosto, vengono addebitate in maniera specifica all’establishment. L’opera di Romero ispira numerose pellicole, oltre ad un remake del 2010 ad opera di Brek Eisner.

Giacomelli dedica spazio anche al ruolo svolto dal romanzo I Am Legend (1954) di Richard Matheson nell’ispirare alcuni espliciti adattamenti cinematografici ed una lunga serie di opere. Nel romanzo, realizzato in clima da Guerra Fredda, viene narrato di come il contesto post-atomico abbia talmente trasformato il pianeta che è l’essere umano stesso, nel suo essere divenuto minoritario in mondo popolato da vampiri, ad essere “il diverso”. La prospettiva si è pertanto ribaltata: sono i vampiri a temere l’essere umano ed a comportarsi nei suoi confronti di conseguenza, cioè esattamente come si comporta solitamente l’uomo di fronte ai diversi da sé. Nel saggio vengono segnalati come adattamenti cinematografici del romanzo, con differenziati livelli di aderenza ad esso, i film L’ultimo uomo della terra (The Last Man on the Earth, Sidney Salkow, 1964), 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Omega Man, Boris Segal, 1971) ed Io sono leggenda (I Am Legend, Francis Lawrence, 2007).

Negli ultimi decenni la tematica virologica è stata al centro di un rinnovato interesse e tra i tanti titoli ad essa ispirati il volume indica I figli degli uomini (Children of Men, Alfonso Cuaròn, 2006), Carriers – Contagio letale (Carriers, David e Alex Pastor, 2009) e Blindness – Cecità (Blindness, Fernando Meirelles, 2008). Ne I figli degli uomini, film di produzione anglo-americana, tratto da un romanzo di P.D. James, l’infertilità dilagante tra l’umanità sta condannando l’essere umano alla scomparsa. «Il mondo sembra distrutto dalle guerre e dall’intolleranza, azioni violente di morte e segregazione si abbattono sulle comunità di extracomunitari clandestini, deportati […] in zone flagellate dalle rivolte e immerse nelle macerie di una civiltà che ormai rimane un ricordo […] Il futuro dell’umanità è affidato a un’extracomunitaria ed è garantito da un uomo disilluso e un ex hippie» (p. 93). Da tale pellicola emerge una visione decisamente anti-sistemica che punta il dito verso un sistema politico e sociale non poi così dissimile dal nostro. Restando su pellicole recenti, il libro si sofferma su Contagion (id., Steven Soderbergh, 2011), film in cui l’epidemia ha origine in un allevamento suino; non a caso il film esce pochi anni dopo il dilagare, nel 2009, fuori dallo schermo, della cosiddetta “febbre suina”. In questo lungometraggio le ragioni che determinano il virus restano sconosciute mentre l’interesse della pellicola si concentra da una parte sui tentativi dei potenti di accaparrarsi i vaccini e, dall’altra, su chi, accusando il carattere classista dell’accesso ai farmaci, propone le sue dubbie cure omeopatiche come alternativa all’industria farmaceutica.

Altro filone particolarmente denso di opere è quello delle macchine ribelli all’uomo. Quando nei film di fantascienza si affrontano le macchine, non è difficile finire per parlare di robot e quando ciò accade è quasi d’obbligo riferirsi alle “Tre leggi della robotica” di Isaac Asimov. Nel film Io, Robot (I, Robot, Alex Proyas, 2004) la vicenda narrata prende inizio proprio dall’infrazione della Prima delle tre leggi, visto che un robot ha ucciso un essere umano. Il film focalizza la vicenda attorno al tema della tecnologia nemica dell’uomo aprendo a riflessioni circa la possibilità che la macchina possa trasgredire all’essere umano. Tale questione la si ritrova in numerosissime pellicole, come, ad esempio, Eagle Eye (id., D.J. Caruso, 2008), film in cui un computer progettato per garantire la sicurezza nazionale, eseguendo alla lettera il compito, finisce col prendere di mira i vertici stessi degli Stati Uniti perché su di loro cadono le responsabilità della messa in pericolo del Paese. Non a caso il film esce sul finire del secondo mandato presidenziale di George W. Bush. Celebre precedente di computer che smette di obbedire agli ordini umani lo abbiamo in 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, Stanley Kubrick, 1968), film, derivato dal racconto La sentinella (1948) di Arthur C. Clarke, che ispirerà numerose produzioni cinematografiche

giacomelli_nemici_americaMacchine sfuggite all’uomo si trovano anche in Pianeta Rosso (Red Planet, Antony Hoffman, 2000) e Wargames – Giochi di guerra (Wargames, John Badham, 1983) ma è su Blade Runner (id., Ridley Scott, 1982), e relative appendici, ed Il mondo dei replicanti (The Surrogates, Jonathan Mostow, 2009) che il saggio concentra la sua attenzione: dal replicante oppresso che chiede conto al suo creatore/oppressore, all’uomo apatico che vive per procura attraverso suoi sostituti. «Blade Runner e Il mondo dei replicanti rappresentano l’alfa e l’omega di un ideale continuum temporale dedicato ai robot antropomorfi: macchine ostili nel primo caso, utili completamenti dell’uomo nel secondo, che però ne diventano possessori piuttosto che posseduti» (p. 105).
Altre pellicole analizzate dal saggio riguardano la lunga serie inaugurata da Terminator (The Terminator, James Cameron, 1984): «L’intelligenza artificiale che sta alla base di Terminator può essere considerata come la concretizzazione del sogno di tutte le macchine ribelli della fantascienza cinematografica, l’omega della storia dell’uomo sulla Terra che ha portato a compimento i piani diversamente elaborati dai cervelli elettronici di Wargames, Io, Robot e Eagle Eye. Ma a differenza di questi Skynet […] uccide perché vuole farlo, è l’incarnazione del male, la condanna dell’umanità in quanto tale e non per i suoi errori. O meglio, l’errore dell’uomo è programmare una macchina per scopi bellici, dotando così il suo futuro nemico di tutte le armi necessarie a distruggerlo» (pp. 108-109). Tra i film che mettono in scena mondi popolati da robot, non poteva che essere affrontata dallo studioso anche la serie, che conta ormai diverse pellicole, iniziata con RoboCop (id., Paul Verhoeven, 1987).

I robot possono anche essere costruiti per il divertimento degli esserei umani ed, a tal proposito, l’autore inizia inevitabilmente da Il mondo dei robot (Westworld, Michael Crichton, 1973), ove in un parco giochi popolato da robot a cui gli uomini si divertono a dare la caccia, per qualche oscuro guasto, viene a darsi un capovolgimento dei ruoli e l’uomo da cacciatore si trova ad essere preda. In La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, Bryan Forbes, 1975), tratto dal romanzo di Ira Levin del 1972, invece, i robot assoggettati all’essere umano rappresentano il riscatto del maschio nei confronti delle rivendicazioni femministe: a Stepford gli uomini sostituiscono le proprie mogli con robot servizievoli che ne riproducono le fattezze fisiche e non si può non notare come l’acconciatura di queste donne-robot richiami gli anni ’50, un’epoca in cui le donne ancora “sapevano stare al loro posto”. Al film si ispireranno alcune produzioni cinematografiche ed una serie televisiva. Anche i giocattoli sviluppati a partire da tecnologie militari possono sfuggire di mano; è il caso di Evolver (id., Mark Rosman, 1995) e Small Soldiers (id., Joe Dante, 1998).

Tante pellicole fantascientifiche denunciano l’asservimento dell’essere umano alla tecnologia che, creata per essere sfruttata, tende a trasformarsi in sfruttatrice del suo creatore. Nel caso di Matrix (The Matrix, Andy e Larry Wachowski, 2003) e Matrix Revolutions (id., 2003), secondo Giacomelli, si giunge alla summa «del tema delle macchine ribelli, un mondo immaginario in cui l’uomo non solo è schiavo delle macchine, ma rappresenta la loro fonte di nutrimento […] Ma la cosa più inquietante dell’universo creato dai Wachowski è l’illusione: tutti gli uomini, mentre alimentano le macchine con le loro energie, si trovano in uno stato di sospensione mentale e credono di vivere nella normalità quotidiana di un XX secolo ormai passato. La Matrice crea una gigantesca illusione collettiva, un mondo reale per la mente umana ma in verità del tutto artificiale che tiene a bada l’essere umano mentre funge da pasto per le macchine» (p. 116). E tale mondo in cui l’uomo è sfruttato ed è inconsapevole di esserlo, suggerisce lo studioso, è stato prodotto dall’essere umano. Come a dire: l’uomo si guardi da se stesso anziché andare a cercare nemici di comodo.

La figura dell’alieno, si diceva in apertura, è frequentemente utilizzata al fine di proiettare su di essa le caratteristiche meno nobili dell’umanità. Alieno è chi è diverso rispetto all’ambiente od al contesto sociale in cui si viene a trovare. Nella figura dell’alieno abbiamo, in definitiva, “lo straniero” che, anche quando riesce (più o meno volontariamente) ad “integrarsi”, difficilmente può scalare gerarchie sociali: «lo straniero per il sentire comune è principalmente l’alieno ostile, colui che arriva senza aver ricevuto il permesso e mette in atto un’opera di colonizzazione diretta all’annullamento della cultura originaria, alla schiavizzazione mentale e fisica degli autoctoni» (p. 118). Insomma, l’extra-terrestre e l’extra-comunitario, nella percezione comune, hanno diversi punti di contatto.

Nel cinema di fantascienza l’alieno ha frequentemente rappresentato il nemico del momento; spesso giunge sulla terra furtivamente per poi dare il via ad un vero e proprio processo di contaminazione e/o di sostituzione avendo come finalità la conquista. L’invasione degli ultracorpi (Invasion of the Body Snatchers, Don Siegel, 1956) rappresenta un modello ripreso da diversi film, tra questi Terrore dallo spazio profondo (Invasion of the Body Snatchers, Philip Kaufman, 1978) ed Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers, Abel Ferrara, 1993). Come i film citati, anche Il terrore della sesta luna (The Puppet Masters, Stuart Orme, 1994), derivato dall’omonimo romanzo del 1951 di Robert A. Heinlein, mostra un’umanità asservita alla minaccia aliena, tematica che torna anche in The Faculty (id., Robert Rodriguez, 1998) in cui è molto evidente la questione dello straniero emarginato che riesce a socializzare soltanto con altri tipi di figure aliene ed in questa situazione «il nemico è tale perché si sente inadatto al luogo che lo ospita» (p. 124). Occorre sottolineare come il film sviluppi anche una riflessone sui pericoli dell’omologazione.

Con La cosa (The Thing, John Carpenter, 1982), film derivato da un racconto di John W. Campbell Jr. del 1948, l’alieno si smaterializza grazie al suo essere in grado di assumere le sembianze degli esseri con cui entra in contatto. «La “cosa” è il simbolo assoluto della paranoia e del conflitto uomo-uomo; assumendo le sembianze degli uomini che popolano la stazione di ricerca, l’alieno diffonde un senso di inaffidabilità su ogni essere vivente che si trova nei paraggi […] L’alieno di Carpenter rappresenta la negazione dell’umanità intesa sia come forma corporea che incarnazione di sentimenti ed emotività. La “cosa” è il mostro che si annida in ogni persona […] è la disgregazione dei rapporti umani» (p 131). Già nei primi anni ’50 il racconto di Campbell è alla base della pellicola La cosa da un altro mondo (The Thing from Another World, Christian Nyby, 1951) mentre, dopo la versione di Carpenter del 1982, viene realizzato il prequel dal medesimo titolo: La cosa (The Thing, Matthijs van Heijningen, 2011). In quest’ultima pellicola l’alieno palesa la sua pericolosità in quanto straniero e, non a caso, con tale smania di evidenziare i propositi minacciosi insiti proprio nel suo essere straniero, il film non può che terminare con l’esaltazione della potenza americana.

Signs (id., M. Night Shyamalan, 2002) ed Altered – Terrore nello spazio profondo (Altered, Eduardo Sanchez, 2006), sono citati dal volume come esempi di invasioni aliene alla conquista della Terra in cui l’ignoto impaurisce e da meta da conquistare diviene minaccia da cui fuggire. «L’umano e l’alieno in Altered si compensano, due facce della stessa medaglia arrugginita in cui l’offesa è l’unica forma di comunicazione possibile tra le due razze» (p. 137). L’obiettivo dell’extraterrestre non è la distruzione dell’essere umano ma la sua resa in schiavitù.

Essi vivono (They Live, John Carpenter, 1988), liberamente ispirato ad un racconto di Ray Nelson, viene considerato da Giacomelli il manifesto della critica all’America degli anni ’80. «Carpenter è fortemente critico verso una società votata all’apparenza e plagiata dai mezzi di comunicazione. Lo stile di vita occidentale è indotto dalle alte sfere della società, dal mondo del consumo, che riesce a controllare i comportamenti delle masse installando gusti e mode […] Chi non può permettersi di seguire le mode è un emarginato, ma allo stesso tempo può conquistare la facoltà di scoprire la verità […] Alieni che fanno del business il personale raggio distruttore di coscienze e che sono minacciati da un semplice operaio […] che nel sacrificio finale riesce a rivelare al mondo intero la vera natura degli impostori, risvegliando le coscienze» (p. 138). La modificazione della realtà e la manipolazione dell’identità rappresentano il filo conduttore di Dark City (id., Alex Proyas, 1998) che mette in scena alieni che si mescolano alla popolazione riscrivendone le storie ed il futuro. Sia nel film di Carpenter che in quello di Proyas non manca chi decide di porre fine al proprio stato di schiavitù.

L’invasione dei mostri verdi (The Day of the Triffids, Steve Sekely, 1963) ed Evolution (id., Ivan Reitman, 2001), vengono presentati dal saggio come esempi di film – il secondo con tono decisamente grottesco – in cui l’eliminazione dell’umanità, presentata come parassita che distrugge la natura, può dare alla Terra una vita migliore. Qualche pagina del volume è inevitabilmente dedicata anche alla serie che si origina dal film Blob – Fluido mortale (The Blob, Irvin S. Yeaworth Jr., 1958), con inevitabile sequel, Beware the Blob! (id., Larry Hagman 1972), ed un remake, Il fluido che uccide (The Blob, Chuck Russell, 1988), in cui viene suggerita la possibilità di un uso bellico dell’organismo extraterrestre.

HRG_252Alien (id., Ridley Scott, 1979) è «uno dei film che ha rivoluzionato la concezione di alieno al cinema trasformando l’essere antropomorfo con intenzioni di conquista in un mostro ferino che uccide come un animale selvatico messo alle strette» (p. 143). Il film del 1979 origina diverse pellicole, tra queste si possono contare, ad oggi, almeno tre sequel ed un prequel del primo lungometraggio. Nella serie inaugurata da Predator (id., John McTierman, 1987), entra in scena una specie aliena che ama cacciare prede in tutto l’universo, uomo compreso. «Il predator presenta un vero e proprio codice comportamentale che lo allontana sostanzialmente dal prototipo dell’alien: non più animale feroce e distruttivo che uccide per istinto, ma un essere senziente che seguire regole ben precise, ha dei sentimenti e un codice guerriero. Da una parte la furia distruttiva e irrazionale, dall’altra la spinta motivazionale e l’intelligenza» (p. 145). Il cinema non ha resistito a mettere a confronto le due specie in Alien vs. Predator (id., Paul W. S. Anderson, 2004) ed inevitabile sequel.

Nel volume sono messe a confronto due pellicole di metà anni ’90 in cui gli extraterrestri vengono presentanti particolarmente spietati e distruttivi: Independence Day (id., Roland Emmerich, 1996), un’apologia della Nazione e dell’americano qualunque in cui gli alieni si mostrano brutali macchine da guerra, e Mars Attacks! (id., Tim Burton, 1996), ove gli invasori appaiono compiaciuti dei disastri che commettono. «Se il film di Burton condivide con quello di Emmerich una razza di alieni tra i più cattivi mai apparsi sul grande schermo, al contrario porta in scena un’umanità gretta e meschina che merita la fine a cui sta andando incontro» (p. 151).

Giacomelli individua tra il 2010 ed il 2013 un periodo assai fertile per la messa in scena sul grande schermo di bellicosi invasori alieni. Se film come Skyline (id., Strause Bros, 2010) e World Invasion (Battle: Los Angeles, Jonathan Liebesman, 2010) non mancano di richiamare i nemici mediorientali, vi sono anche produzioni in cui prevale l’autoironia e la parodia, come Battleship (id., Peter Berg, 2012), od opere ove si danno alleanze tra ex-nemici ora uniti contro il nemico comune, come avviene in Pacific Rim (id., Guillermo Del Toro, 2013), film che, mescolando generi ed immaginari dei due paesi, mostra USA e Giappone fronteggiare, uniti, giganteschi mostri, oppure L’ora nera (The Dark Hour, Chris Gorak, 2011), ove l’alleanza è tra americani e russi.

In alcune pellicole gli alieni si mostrano del tutto pacifici nei confronti dell’essere umano. A tal proposito il saggio cita Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind, Steven Spielberg, 1977), E.T. – L’extraterrestre (E.T.: The Extra-Terrestrail, Steven Spielberg, 1982) e Cocoon – L’energia dell’universo (Cocoon, Ron Howard, 1985), con relativo sequel. Alieni amici dell’uomo si trovano anche in opere meno recenti, come ad esempio Ultimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), film che denuncia l’assurdità della guerra proprio nel periodo in cui si è da poco concluso il Secondo conflitto mondiale e nell’aria si percepisce la possibilità di un conflitto tra le superpotenze.

Anche la questione dell’integrazione aliena è affrontata dal cinema fantascientifico. Riguardo a ciò Giacomelli indica, ad esempio, Men in Black (id., Barry Sonnenfeld, 1997), con relativi sequel, film che, attraverso un registro da commedia d’azione, mostra «l’alieno impegnato a integrarsi nella società che lo ospita […] Ci sono gli immigrati regolari, lavoratori retti e responsabili, integrati con gli uomini fin da tempo e magari con la possibilità di far carriera. Poi ci sono i criminali, clandestini dediti a traffici illegali, rapine e piani terroristici. Il mondo extraterrestre è costruito sul riflesso di quello terrestre» (pp. 166-167). In tale opera l’alieno ha sembianze umane perché il governo preferisce nascondere agli umani la presenza extraterrestre. In Alien Nation (id., Graham Baker, 1988), altra pellicola che si concentra sulle questioni della tolleranza e del razzismo, si assiste “all’invasione” di profughi alieni in fuga da un regime dittatoriale e, seppure in maggioranza si tratti di “alieni perbene”, non mancano “malintenzionati”. In District 9 (id., Neill Blomkamp, 2009) è di scena l’insofferenza tra umani ed alieni e, anche in questo caso, la narrazione si focalizza sull’intolleranza e la xenofobia. Il film simpatizza per gli alieni che, respinti dai terrestri, sono costretti a prendere atto della mancanza di volontà di integrazione da parte degli esserei umani ed a lasciare la Terra. In Starman (id., John Carpenter, 1984) l’alieno in fuga si sostituisce all’essere umano ma non perché mosso da velleità di conquista, anzi, si rivela la parte migliore di un’umanità gretta e meschina del tutto disinteressata ad approfittare dell’occasione di confrontarsi con “lo straniero”, l’alieno, appunto.

L’umanità messa in scena da molti film di genere fantascientifico si manifesta davvero come una brutta specie ma, al suo interno, megalomani, potenti e sfruttatori appaiono decisamente peggiori degli altri. Visto che alieni ed umani finiscono per essere gli uni la proiezione degli altri, sarebbe il caso di individuare attentamente i  nemici, dentro e fuori dallo schermo.

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Dove la terra scotta: intervista a Mauro Gervasini https://www.carmillaonline.com/2016/03/24/29105/ Thu, 24 Mar 2016 21:01:57 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29105 di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto? Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel [...]]]> di Dziga Cacace

Mauro Gervasini, amico e collaboratore di Carmilla, dirige dal 2013 FilmTV, l’unico settimanale italiano che si occupi esclusivamente di cinema. Abbiamo parlato con lui dello stato attuale della settima arte.

d_Ra8LXN_400x400Partiamo con un argomento che a Carmilla sta molto a cuore: esiste ancora un cinema di genere o ormai s’è rimescolato tutto?
Esiste, ma il problema è che – specialmente nel cinema americano – alcuni generi sono stati fagocitati dalla tivù. Pensa al noir poliziesco o a quello che un tempo si chiamava “Serie B”, cioè quel cinema col coltello tra i denti, fatto con budget risicati ma che era la palestra e il luogo della sperimentazione per un sacco di registi… ecco, quello oggi lo trovi nelle serie televisive, meno sul grande schermo.
Per il poliziesco il problema è cominciato negli anni Ottanta. Se penso a cos’è stato il poliziesco negli anni Settanta, c’è da mettersi le mani nei capelli. Vale anche per la fantascienza… forse l’unico genere cinematografico che può permettersi qualche sperimentazione è l’horror, che ha un andamento ciclico: l’horror estremo intanto non può andare in televisione. Poi in questi anni c’è stato un boom di certo horror francese, titoli come Martyrs, a Frontiere(s), tutti film abbastanza tosti… e devo dire che mi capita ogni anno – soprattutto grazie al festival di Torino – di vedere due o tre film horror che mi fanno alzare un sopracciglio… penso a Babadook o allo strepitoso It Follows, grandissimo.
Essendo un genere antitelevisivo, ecco, l’horror resiste. Certo, poi in tivù ci sono The Walking Dead o The Strain di Guillermo Del Toro, ma questo mi pare un genere che ha ancora cartucce da sparare e che non è stato ancora dissanguato. In crisi, invece, è – come dicevo – il poliziesco americano. Per fortuna che c’è ancora il noir francese, che ha una sua dignità e distinzione rispetto al genere televisivo. Un film come Le resistance de l’air è un ottimo polar, fatto e finito.
Il problema vero è che Hollywood lavora moltissimo sui brand consolidati. Adesso avremo un nuovo Alien. Una saga che ha 35 anni… cosa si può aggiungere di nuovo, a quel film?

Dicevi della tivù: ecco, possiamo considerare le serie televisive una nuova forma di racconto cinematografico?
Assolutamente no! Sono una cosa diversa, e vanno valutata per quel che sono: un campo da gioco differente con linguaggio e regole differenti. Ce ne sono di strepitose e anche di bruttissime ma insomma reputo fuorviante e anche un po’ pretestuoso questo dibattito sulle serie che stanno soppiantando il cinema.
C’è piuttosto un discorso da fare sul cinema americano che sta vivendo una profonda crisi identitaria, dovuta appunto al fatto che molti generi che erano tipicamente hollywoodiani sono stati demandati a una produzione di tipo televisivo, ma questo è ben diverso dal dire che le serie tv sono il nuovo cinema.

Presenza di ganci narrativi a profusione, trame orizzontali distese, ritmo continuo… la tivù sta cambiando comunque il linguaggio a cui siamo abituati? E cambierà anche come raccontare sul grande schermo?
I linguaggi sono diversi ma naturalmente si compenetrano e dal punto di vista narrativo ci sono stati sicuramente nuovi stimoli. Più che altro sono e saranno una componente sperimentale. Perché le serie hanno nella sceneggiatura il vero punto di forza.
Prendiamo i Soprano – la serie che io ho preferito: ricordo delle sequenze strepitose, ma è il testo la cosa più sconvolgente, l’elaborazione narrativa… Se vogliamo da questo punto di vista c’è un rapporto molto stretto tra cinema e tv, e penso al lavoro di Aaron Sorkin, però qual è la differenza? Nelle serie di David Chase ogni puntata viene diretta da un regista diverso, ma la serie rimane di David Chase.
The Social Network e Steve Jobs, sono due film interamente scritti da Aaron Sorkin ma il primo, girato da David Fincher, è un gran film, mentre il secondo asseconda in modo più fedele Sorkin e dal punto di vista cinematografico è molto meno interessante.

Anche dall’altra parte dello schermo sta cambiando la percezione: si vedono sempre più film in televisione, sul computer, sui tablet. Come crescono le nuove generazioni di spettatori?
Allora, bisogna stare attenti ai luoghi comuni: la maggior parte degli spettatori che si recano al cinema, in sala, ha meno di 25 anni. Il vero problema è la generazione dai 40 anni in su, che si è impigrita.
Il pubblico di massa più giovane comporta anche il successo di un cinema tagliato su quel gusto. Fa fatica il cinema più classico, più adulto e che magari ha una seconda vita in sale d’essai, nei cineforum… la filiera è lunga, per fortuna.
18655Il consumo su piccolo schermo ha certamente portato a una minore attenzione a quello su schermo grande ma è un problema antico. Da spettatore, io ricordo molto di più un film visto al cinema di uno in tivù, ed è raro che mi appassioni a un film visto in televisione – a meno che non sia un classico che magari non posso rivedere su grande schermo, con rammarico.
Ti faccio un esempio: Dove la terra scotta, è un cinemascope di Anthony Mann del 1958. L’ho visto su un 32” con un dvd che rispettava la ratio, un’ottima edizione. Ecco: è un capolavoro di cui mi rimarrà però il dispiacere di non averlo visto proiettato.
Prendi poi l’ultimo Tarantino: è un 70 mm – che non è un formato, attenzione – e se non lo vedi nelle condizioni giuste perdi tutto il lavoro sulla profondità che quella definizione consente…

Come ha reagito il cinema italiano in questi ultimi anni: la crisi ha attivato energie? O date mazzate finali?
Allora: nel 2013 ho fatto un gioco in cui ho chiamato i lettori di FilmTv a votare il loro film italiano preferito dal 2000 in poi. Poi ho ripetuto questo gioco negli anni successivi su altri temi, ma la partecipazione sul cinema italiano è stata veramente straordinaria. Attenzione: chiedevo non solo un voto, serviva anche un testo breve. Il film più votato dei primi 12 anni del secolo è stato Le conseguenze dell’amore di Sorrentino, del 2004; il secondo più votato è stato Pane e tulipani di Soldini, del 2001, con uno scarto veramente minimo. Guarda caso film d’inizio millennio. Pochissimi i film recenti. Forse non rappresenta nulla ma credo che il cinema italiano abbia avuto una forte crisi nei primi anni del Duemila, crisi da cui credo stiamo uscendo solo adesso. C’è grande fermento e disordine. Si continua a fare cinema d’autore e negli ultimi 3, 4 anni, un documentario come Sacro GRA ha incassato più di un milione di euro. Ha vinto a Venezia, certo, ma non è così automatico che questo significhi incassi sicuri. E, ripeto, è un documentario.
Il giovane favoloso, su Leopardi, ha avuto un successo di pubblico inatteso per un film con quella difficoltà, se vuoi.
E secondo me c’è un fermento anche nel cinema più popolare. Penso a Smetto quando voglio, che è una commedia intelligente lontano dalla piattezza di altre commedie banali, piatte. Sono segnali disordinati, frammentati – quest’anno ci sono le sorprese di Lo chiamavano Jeeg Robot o Perfetti sconosciuti – ma, forse anche grazie al successo internazionale di film come La grande Bellezza, c’è finalmente un’attenzione diversa nei confronti del nostro cinema.

FilmTv 2013-39Senti, come sei arrivato alla direzione di FilmTV?
Io ho collaborato a FilmTV nelle sue varie fasi, dal 1998: ero un collaboratore con intensità variabile! Poi tre anni fa mi hanno fatto la proposta di diventare direttore e mi sono resettato nei confronti del giornale: ho dovuto reinventarmi perché la responsabilità e le mansioni sono chiaramente diverse.

E lo hai cambiato molto, FilmTV?
L’ho cambiato, sì. Il mandato era di non stravolgerlo: FilmTV vive di uno zoccolo duro molto fedele, affezionato e consolidato che non avrebbe apprezzato delle rivoluzioni strutturali esagerate, per cui l’ho cambiato un po’ secondo i miei gusti e la mia idea di giornale. Credo anche di averlo semplificato, spero nella migliore accezione del termine.
Noi purtroppo non riusciamo a fare abbonamenti fisici, solo digitali – in crescita, molto – comunque vendiamo tra le venti e le venticinquemila copie settimanali, certificate ADS.

Il web è pieno di appassionati che scrivono di cinema: questi contributi influiscono sul lavoro critico più ufficiale?
Io li chiamo – rubando la definizione a qualcuno che non ricordo! – i cosiddetti saccopelisti della critica, nel senso che purtroppo hanno contribuito a rendere meno autorevole chi scrive di cinema e non lo fa solo a scopo informativo ma anche per fare analisi e critica. Purtroppo è diventata dominante soltanto la cosiddetta “critica impressionista” con questa brevità imposta dai social network, magari con toni accesi, ed è la morte del ragionamento.
Dire se un film sembra bello o sembra brutto è veramente il campo della soggettività più assoluta. Più che critici si diventa tifosi: pensa a La grande bellezza, che sui social è stato visto – e commentato – come una partita di calcio…

Mi stai facendo venire grandi sensi di colpa per le cose che pubblico su Carmilla!
Ah ah! È colpa del Cacace!

Ultima cosa: per una serata ideale, cosa ti regali al cinema?
Ah, non si scappa: I cancelli del cielo… ma oggi voglio consigliare Dove la terra scotta di Mann: recuperatelo, è fantastico!

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Divine divane visioni (Urlando furioso 04/05) – 55 https://www.carmillaonline.com/2013/11/07/divine-divane-visioni-urlando-furioso-0405-55/ Thu, 07 Nov 2013 22:41:22 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=10525 di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987 La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto [...]]]> di Dziga Cacace

Altro non sa, quell’uomo qualunque che è il vostro papà

ddv5501536 – Scomodo revisionismo per Frantic, di Roman Polanski, USA 1987
La memoria fa brutti scherzi e la nostalgia ci fa idealizzare tutto quanto sia legato alla nostra gioventù. Frantic era un film che, all’epoca, aveva goduto di grande stima critica e di pubblico. Io me lo ricordavo bello, “classico”, comunque movimentato, con delle idee. Tanto che me lo sono procurato di nuovo: una sorta di “usato sicuro” da vedere in attesa dell’arrivo della piccina, con la gravidanza di Barbara ormai in scadenza. E invece rivisto adesso, diciott’anni dopo la prima volta, è uno dei thriller più lenti della storia dei film lenti, con una partenza con retromarcia e freno a mano che mi ha fatto visualizzare i miei testicoli in un tino mentre Emmanuelle Seigner me li schiaccia allegramente. È tutto artificioso e il film decolla solo dopo un’oretta di lamentele mie e della compagna, quasi dovessimo digerire un montone crudo. Ma non si trova mai il ritmo giusto: quello che un tempo si poteva ritenere sapiente costruzione oggi risulta solo inutile inasprimento della pena. Un film invecchiato malissimo che si porta dietro come una zavorra tutta la paccottiglia degli anni Ottanta (le capigliature, la fotografia iperrealista, la musica finta e pure Grace Jones…). Harrison Ford è un bambascione poco a suo agio nel ruolo drammatico; la Seigner ha un faccione da adolescente e una sola espressione (che evidentemente ha convinto ben bene Polanski: i registi che fan recitare le fidanzate son sempre forieri di catastrofi interpretative). Plot dalla semplicità irritante, complicato da un sacco di fregnacce, altro che Hitchcock. Colonna sonora sintetica di Morricone e montaggio avaro e retrò. Grande delusione: Frantic mi ha sfranto le palle, altroché. (Dvd; 17/4/05)

BIP! Breve interludio paterno (in qualche maniera, un film)
Siccome questo è un cinediario – che un attore abbastanza noto di cui non voglio fare il nome ha definito “la più grande innovazione critica degli ultimi vent’anni” – non posso che burocraticamente informarvi che l’attesa è finita e lunedì 25 aprile, giorno della Liberazione, alle 3 e 07 è arrivata Sofia. E ho visto tutto: un piccolo Gollum antifascista che non piangeva. Barbara stava benissimo, io distrutto. E per aderire agli stereotipi di tante brutte pellicole ho ripreso a fumare.

ddv5502537 – Il liberatorio Soul to Soul di Denis Sanders, USA 1971
Non vedo film da un sacco di tempo, ma con buoni motivi, come potrete immaginare. Sofia è un bombardone da 3 chili e mezzo che frigna, mangia, caga e dorme. È tenera e calda e le si perdona tutto. Quando sentivo gli altri genitori dirmi che, con un neonato, diventava tutto impossibile (un cinema, un libro, un disco) pensavo che mancassero di buona volontà. E invece i poveretti qualche ragione l’avevano. Leggiucchio qui e là, ma film, ahimé, è durissima. Due ore di libertà e la disponibilità mentale per concedersi una proiezione sembrano traguardi irraggiungibili. In più la nuova casa è semivuota e non possediamo ancora un divano, elemento d’arredo deputato allo svacco più atroce e all’assunzione di qualunque tavanata televisiva, tipo un film da venerdì sera su Italia1. Urgono però le consegne dei pezzi per le mie gloriose collaborazioni editoriali, ergo mi scoppio felice un dvd musicale, questo Soul to Soul di cui segue arguta e stringata recensione per i tipi di Rodeo. “Un paese africano, il Ghana, fresco d’indipendenza e orgoglioso, e dei musicisti afroamericani alla ricerca delle proprie radici. Nasce così uno di quei concerti epocali, Soul to Soul, dove neanche i protagonisti si rendono conto dell’importanza dell’evento. Ce lo ricorda un fantastico Dvd, prezioso documento perché in diretta, non ricostruzione a posteriori. È tutto naif in maniera commovente, il film e il concerto di Accra, in riva all’oceano, e non si sente la consueta puzza di business o carità pelosa. L’incontro fra due culture (ormai) estranee e unite solo dal ritmo, produce momenti umani e musicali emozionanti e inattesi: Ike e Tina seducono, Wilson Pickett trascina, Santana travolge e il pianista soul jazz Les McCann conquista tutti jammando sul palco con un giovane stregone locale. L’Africa giovane e curiosa, i neri americani alla ricerca di un’identità, senza la spocchia del primo mondo: tutti uniti in una danza sfrenata per un film mai retorico, coloratissimo, da ballare. Nero è il velluto della notte, ed è bellissimo. Extra sfiziosi, parecchi commenti, bonus tracks e anche il cd con la colonna sonora. Cosa volete di più?”. Aggiungo che Ike e Tina erano due burini mica da ridere, però clamorosi, con le sensuali Ikettes di contorno. Lui freddo band leader, con un vibrato chitarristico da brivido, lei una panterona sensuale. Grandiosissimo Santana, ma lo so inconsciamente dal 1970, quando mio padre comprò Abraxas e le note vibranti di Black Magic Woman mi entrarono in zucca. Eccezionali le voci di Mavis Staples e di Les McCann e trascinante il groove di Pickett, con africani che zompano sul palco e inventano lo stage-diving almeno vent’anni prima dei biancuzzi punk. Film veramente emozionante. In modo distratto, ma non senza esserne colpevolmente intrigato, ho pure visto Signs a brandelli, in passaggio Rai. Costruito da Shyamalan con la consueta furbizia, merita una visione completa per una più seria trattazione, anche perché se l’avessi visto in condizioni normali, cioè senza un sonno boia e il cervello in pappa, l’avrei valutato una grossa cazzata. Perché è una grossa cazzata. Ma siccome dopo agosto smetto di imbrattare fogli elettronici con recensioni che nessuno legge, dubito che i posteri sapranno quali rivoluzionarie idee ho elaborato su extraterrestri, cerchi nel grano, credulità popolare e altro. Sappiate solo che il film mi ha divertito e che non siamo mai stati sulla Luna. Oh yeah. (Dvd; 19/5/05)

ddv5503538 – Red, White and Blues del solito incompetente, USA 2003
Sulla carta, il Dvd merita e non me lo faccio sfuggire: l’evoluzione del blues britannico, attraverso interviste ai protagonisti. Dimenticata in America, la musica popolare nera venne adottata da una schiera di giovanotti britannici che la fecero diventare l’idioma musicale delle masse mondiali e la riportarono a casa, regalando qualche anno di gloria agli anziani bluesmen originali. Non mi spaventa che il regista sia quel deficiente di Mike Figgis, già responsabile dell’immondo Via da Las Vegas, ma sbaglio, perché una grande storia e l’opportunità di farsela raccontare da chi l’ha scritta, vengono buttate nel cesso con puntuale incapacità. Non c’è un’organizzazione di racconto coerente, ci si perde in inessenziali e puntigliose spigolature e si dimentica la trama generale. Come per il Wenders di The Soul of a Man, anche questo capitolo di The Blues, il progetto voluto e prodotto da Scorsese, è insoddisfacente per manifesta ignoranza dell’autore. Ne viene fuori un documentario che di televisivo ha la banalità, lo scarso approfondimento e la cattiva (ed eterogenea) qualità delle riprese ed è un delitto, perché buttare via le testimonianze di Eric Clapton, John Mayall, Steve Winwood, Peter Green e tanti altri è proprio da stronzi, stronzi grossi e grassi. Ci sono lampi isolati, dovuti alla genialità di chi risponde, ma perlopiù le domande sono sbagliate, oziose, che non centrano il cuore delle questioni, mancando di prospettiva storica. Ancora una volta del blues non viene trasmesso il calore, il dolore, l’intensità erotica, il divertimento, l’ironia. Niente. In mezzo a tanto spreco, la ripresa di diverse session con Tom Jones (eh!?), Lulu (EH!?) e Van Morrison (mah) che producono esecuzioni un po’ ingessate, sicuramente meno interessanti delle esecuzioni di prima generazione (nere) e di seconda (bianche e britanniche). Unica consolazione musicale l’accompagnamento della terrificante chitarra del sessantenne Jeff Beck, un giovinotto che dimostra quanto il blues possa avere un futuro se solo si decide di rimescolare le carte. Non bastasse il contenuto del film, i sottotitoli italiani sono obbligatori (hard subtitles, mi dicono, bella stupidaggine) e densi di strafalcioni che denunciano la totale incapacità dei curatori. Buona parte degli extra, inoltre, (con quell’impunito di Figgis protagonista) sono in 16/9 NON anamorfizzati, per cui Jeff Beck e tutto il cast sembrano usciti da un quadro di Munch. Una bella porcata di Dvd, insomma. Ma Scorsese avrà mai visto Mississippi Blues di Tavernier? Umile, faticoso e intensissimo, realizzato viaggiando nel sud degli States, mica rimanendo col culo posato. Bah! Ma succedono anche cose peggiori: il 22 maggio, con questi occhi, ho visto Mal batterista e cantante di Smoke On the Water nel “Meglio di Buona Domenica”. Con lui anche Dino e altre due cariatidi di cui non so e non voglio sapere il nome. (Dvd; 25/5/05)

ddv5504539 – L’Odissea di Franco Rossi e di noi italiani, Italia/Francia/Repubblica Federale Tedesca 1969
Ulisse manca da casina da vent’anni e Penelope è insidiata dai Proci, una torma di sibaritici fannulloni che pretende il trono di Itaca, nonché il fringe benefit della regina chiavabile. Telemaco non ci sta e va a cercare il padre che nel frattempo approda nella terra dei Feaci dove lo accoglie la futura signora Starr, Barbara Bach nella parte di Nausicaa. Ulisse le racconta dei sette anni prigioniero di Calipso, ninfa niente male che se lo deve essere succhiato come un’ostrica. Infine l’ha lasciato libero e dopo 17 giorni di mare aperto eccolo arrivare alla corte di Alcinoo. Ogni sera Ulisse si accende come un televisore e racconta le sue vicissitudini, tra le quali: la cortese visita al monocolo Polifemo (diretta da Mario Bava), il canto per niente melodioso delle sirene, l’episodio acido della visita a Eolo (conciato come un personaggio di Star Trek), la cattività in mano alla maga Circe, la discesa nell’Ade per ascoltare Tiresia (episodio francamente mortale). Alla fine Ulisse ottiene un passaggio a Itaca e lì si compie la vendetta, tremenda vendetta. Beh, che l’Odissea fosse un buon testo, non ci piove. La regia complessiva è perfetta, sobria e poetica nella sua semplicità, lavorando molto per allusioni, senza grandi effettacci. Lo sceneggiato inizia lentamente, poi prende più ritmo ed è bellissimo, con un passo composto che non conosciamo più, abituati a stacchi di montaggio continui e a narrazioni compresse ed ellittiche. Difeso da Atena e odiato da Poseidone cui ha ciecato il figlio ciclope, Ulisse rappresenta l’irriducibile ansia dell’uomo di conoscere, scoprire, imparare, sfidando il volere degli dèi. L’eroe ha la faccia da Cutugno di Bekim Fehmiu di cui, da bambino, mi colpiva che fosse apolide. Penelope ha il volto severo di Irene Papas mentre gli altri sono illustri sconosciuti, ma dai volti incisivi, tant’è che li ricordavo quasi trent’anni dopo. Musiche talvolta psichedeliche, più spesso minacciose, ed efficaci scenografie barbariche: credo che una visione dell’Odissea con additivi chimici potrebbe regalare intense sensazioni, altro che canna e Teletubbies. La nostra visione, tra pappe, sonni interrotti e altro, s’è spalmata in un arco di tempo imbarazzante, proseguendo fino a luglio. Nel frattempo abbiamo visto anche altre cose, come l’italico film horror del referendum sull’aberrante Legge 40, quando tre quarti del popolo italiano ha preferito occuparsi d’altro. Le votazioni si sono strategicamente tenute il week end in cui finivano le scuole con i bravi papà e mammà – improvvisamente cattolici – che friggevano dall’ansia di scappare dalle città. Per lenire l’incazzatura, abbiamo anche visto pezzi sparsi dell’immortale Fantozzi contro tutti (la sempre clamorosa scena della coppa Cobram, con il rag. Ugo che prende “la bomba”); Straziami ma di baci saziami con Tognazzi sordomuto; il lercio e notevole telefilm The Shield, che sembra un Ellroy girato Dogma-style e infine Dillo con parole mie, un incredibile film di Luchetti, senza trama, con attori inconsistenti e poco simpatici e situazioni e battute da far tremare i polsi. Chissà perché. (Vhs originale; giugno e luglio 2005)

ddv5505541 – La strana coppia di Gene Saks, USA 1968 e l’inutile Live8
Serve un’abulica domenica di luglio per rivedere un film così, la cui prima volta si perde nella notte dei tempi: 1983 (credo), con zia Luisa. Mi era piaciuto tantissimo e oggi metto alla prova la memoria. Tratto da un’opera teatrale di Neil Simon, la regia s’impegna poco a rendere originale la messa in scena e tantissime volte c’è la fastidiosa impressione della quarta parete, quella invisibile che divide palco da spettatori. Ciò detto, il testo alterna momenti clamorosi ad altri più mosci, ma le interpretazioni eccezionali fanno brillare anche i dialoghi meno incisivi. Oscar (Matthau) è un divorziato impenitente, disordinato, infantile, cinico e casinista. Condivide con altri amici la passione per il poker, ma una sera all’appello manca Felix (Lemmon), il preciso, rigoroso, maniacale, ordinatissimo Felix. Praticamente il cagacazzo universale. Dopo dodici anni s’è lasciato con la moglie ed è una tragedia. È talmente in stato confusionario che non riesce neppure a suicidarsi ed emergono tutte le sue nevrosi e allergie, la borsite, la sinusite, gli spasmi nervosi al collo, tic assortiti e pure il colpo della strega. Com’è ovvio finisce a casa del diametralmente opposto Oscar. I due caratteri cozzeranno mettendo a repentaglio l’amicizia, ma in un finale agrodolce ci sarà un’inaspettata ricomposizione del conflitto. La partenza è strepitosa, sorretta anche dai caratteristi di contorno. Un diluvio di battute e situazioni che, man mano, va scemando: quando la strana coppia convive suona tutto già un po’ anticipato e si ride di meno. La vicenda diventa statica e si arriva al finale un po’ stracchi. Succede anche nelle migliori commedie, ma non importa. Avevo voglia di farmi due risate e La strana coppia ha assolto il compito, complice anche Sofia dormiente per l’esatta durata del film. Ieri biblica diretta tivù su RaiTre, divisa tra i palchi di Londra, Roma e delle altre città coinvolte in Live8, l’evento organizzato da Bob Geldof vent’anni dopo Live Aid. Una veejay esornativa continuava a chiamare il concerto LaivOtto “perché siamo in Italia”. Seee, buonanotte: semmai VivOtto, babbea. Poi, posto che i destinatari della beneficenza sembravano i cantanti che ingombravano il palco di Roma (di fronte a un pubblico immoto) l’impressione è che il concerto capitolino sia stato un pianto, con pochissimi artisti capaci d’inventarsi qualcosa d’originale. Che nel finale fossero assieme Zero, la Pausini e Baglioni la dice lunga (con Zero che invocava “non dimenticateci!”: e come sarebbe possibile? Avrò gli incubi per qualche lustro). A Londra ho visto degli Who potenti e dei Pink Floyd magari non in forma eccelsa (la voce di Waters era dylaniata) ma comunque emozionanti. Hanno detto che risuoneranno assieme per la pace tra Israele e Palestina. Probabile come un ritorno sulle scene di Lucio Battisti. A Toronto, poi, hanno suonato anche i Deep Purple ma nessuno s’è degnato di farmeli vedere. In compenso ho ascoltato tanti giovanotti inglesi e americani osannati dai media come nuovi rocker: dei finti ribelli vestiti per benino che mi hanno fatto sinceramente cagare a spruzzo. Il concerto doveva muovere le coscienze e ricordare ai signori della guerra riuniti al G8 che c’è un mondo intero a guardarli: eh, paura. (Diretta RaiUno; 3/7/05)

ddv5506543 – Bastardi Compagni di scuola di Carlo Verdone, Italia 1988
Vent’anni dopo la maturità, una festa che riunisce tutti i compagni di classe di un liceo romano. C’è chi è invecchiato male tanto da essere irriconoscibile, c’è chi ha fatto i soldi (onestamente o meno) e chi si arrangia con mille mestieri, c’è chi lavora e chi fa il politicante. E poi c’è il Patata, il povero Verdone prof di liceo privato, ossessionato da moglie buzzicona e volgarissima e innamorato di una sua studentessa ingenua. Fin troppo. E poi un finto paralitico, una madre sola, una psicanalista stufa di psicanalisi. Due storie mi sembrano più deboli (quella della Giorgi e Natoli e quella del breve incontro dei due che si amano da sempre), ma l’impianto generale e le singole caratterizzazioni sono riusciti. Soprattutto c’è una sana cattiveria. I Compagni di scuola sono carogne, falliti, egoisti e invidiosi e ne viene fuori il film di Verdone meno piacione: amaro, feroce, senza calamenti di braghe o strizzamenti d’occhio al pubblico. Aiutato in sceneggiatura da Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, si compone un ritratto generazionale quasi livoroso in cui si fanno i conti con i merdosi anni Ottanta, senza il qualunquismo con sospensione di giudizio (che è implicita adesione) dei Vanzina. Buona commedia, dài. Intanto, dopo aver scatenato una guerra mondiale per il petrolio George W. Bush ha la faccia da culo di presentarsi al G8 dicendo che adesso bisogna tornare a investire sulle risorse energetiche alternative: il nucleare! Come al solito siamo antiamericani noi, eh, non coglione lui. (Diretta RaiDue; 5/7/05)

ddv5507545 – L’affilato Blade II di Guillermo Del Toro, USA 2002
Inchiodato dall’evidenza dei programmi televisivi sui quotidiani e dalla precisa richiesta di Barbara, non mi resta che sciropparmi questo horror immaginifico in cui Wesley Snipes interpreta con marmorea convinzione un mezzo vampiro che sa riconoscere i quasi suoi simili e coltiva l’hobby d’incenerirli. Lo chiamano “il diurno”, come un volgare albergo a ore, perché non soffre la luce solare. Al limite Blade ha una sete bestia di sangue, ma sa controllarsi. O quasi. Si parte salvando Kris Kristofferson, l’uomo che ha scritto Me & Bobby McGee, prigioniero dei succhiasangue e forse vampirizzato lui stesso. Blade dovrebbe ucciderlo ma ci pensa un po’, se no il film dura 15 minuti, e infatti il vecchio Kris sta benone. E allora quale avventura aspetta il tagliente supereroe? I vampiri gli chiedono di aiutarli contro altri vampiri, ma andati a male e ben peggio di loro. Ma sotto c’è qualche intrigo e il capo dei ciucciaplasma, tal Damaskino, non la conta giusta. Tra lame d’argento, trecce d’aglio e ferali raggi di sole, andrà a finire con un intrigo degno del rapporto edipico tra la Morte Nera e Luke Skywalker, per intenderci. Sembra un videogioco, ma con qualche bella svisata ironica. Non conosco il fumetto, ma il film è godibile, decisamente superiore al primo episodio. Passando ad argomenti frivoli: non aprite quel La Porta! Grazie a Blob scopro che Gabriele è vivo e lotta con noi. Non sono più aduso al palinsesto notturno e avevo perso da molto tempo le tracce del nostro eroe fulminato. Blob me lo fa vedere in forma clamorosa, con giacchetta di pelle nera manco fosse Bono, che sproloquia di Platone, Aristotele, Ibn Arabi, Averroé e Avicenna. Un grande. Ma adesso a fare i bagagli, ché tra due giorni portiamo Sofia nel posto più bello del mondo, Champoluc. (Diretta su Italia1; 28/7/05)

Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni

(Continua – 55)

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