Guattari – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Al ladro! Anarchismo e filosofia di Catherine Malabou https://www.carmillaonline.com/2024/04/08/81947/ Mon, 08 Apr 2024 18:30:56 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81947 Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la [...]]]> Elèuthera, Milano 2024, 374 pagine, 23 euro

di Marc Tibaldi

Non è un libro per gli anarchici, è per tutti, proprio perché segnala spie d’allarme, nodi da sciogliere, connessioni necessarie, che possono servire a ogni individuo o gruppo sociale che voglia agire in maniera efficace nella realtà. Qual è il nocciolo duro dell’anarchismo politico? L’anarchismo condivide con altri pensieri politici concetti, tensioni, pratiche: solidarietà, mutuo appoggio, autogestione, federalismo, non sono patrimonio esclusivo del movimento che fa riferimento a pensatori quali Proudhon, Bakunin, Kropotkin, Malatesta, Goldman, eccetera. Quello che invece è peculiarità del solo anarchismo è la messa in discussione, la negazione, di ogni autorità, potere, dominio (su differenze e analogie tra questi concetti è ancora dirimente il saggio di Amedeo Bertolo, pubblicato nel 1983 e disponibile in “Anarchici e orgogliosi di esserlo”, Elèuthera: “Il dominio è possesso privilegiato del potere. I detentori del dominio si riservano il controllo del processo di produzione di socialità, espropriandone gli altri”). Ora, si può deridere questa idea come sogno utopico, chi invece vuole ragionare in maniera non banale, senza ripetere gli errori del passato, è obbligato a prenderla in considerazione.

Come fa questo libro che inizia con una definizione precisa dei termini “anarchia” e “anarchismo” e della loro storia, e una panoramica delle questioni politiche contemporanee che rendono necessario un ripensamento di questi termini e del loro potenziale emancipatorio. Malabou presenta la riflessione di alcuni filosofi proprio sulla questione del potere. “La mia analisi del dominio si concentra su sei pensatori cruciali per la filosofia contemporanea che hanno posto l’anarchia al centro della loro riflessione smarcandosi però dal suo esito, l’anarchismo politico. Ed è questo che accomuna l’anarchismo ontologico di Schürmann, la responsabilità anarchica di Lévinas, la decostruzione di Derrida, l’anarcheologia di Foucault, il potere destituente di Agamben e l’uguaglianza radicale di Rancière: l’aver attribuito all’anarchia filosofica un valore determinante, senza tuttavia giungere a destituire una volta per tutte il principio archico”, scrive l’autrice.

Malabou si chiede perché alcuni dei filosofi radicali del Novecento abbiano sviluppato concezioni forti di anarchia stando ben attenti a non dichiararsi anarchici, “rubando” – da qui il titolo – suggestioni e stimoli, spesso senza dichiararlo esplicitamente, al movimento ribelle nato tra la rivoluzione francese e i movimenti socialisti e di classe dell’Ottocento. Sembra quasi che l’anarchismo sia qualcosa di inconfessabile, qualcosa da occultare anche quando gli si ruba l’essenziale: la critica del dominio e della logica di governo. Questa dissociazione viene analizzata assieme alla rimozione di quello che è il nocciolo duro dell’anarchismo: la praticabilità politica dell’assenza di governo. Sebbene questi filosofi abbiano tutti concorso a smantellare il principio archico (il principio del dominio), nondimeno hanno costruito il loro discorso, nascondendo lo scippo da cui deriva e rifiutandone gli esiti.

Destituzione del paradigma archico, sì, decostruzione del dominio, sì, ma effettiva possibilità che gli uomini possano vivere senza essere governati né governare, no. Ma è appunto qui che il paradigma archico si riattiva, in questa incapacità di abbandonare l’ambito del governabile e di accedere invece allo spazio del non-governabile, ovvero del radicalmente altro, del radicalmente estraneo al rapporto comando/obbedienza.

Come ha tentato di fare l’anarchismo storico. Sostenere che l’anarchismo possa continuare a essere un movimento in continua trasformazione, che sappia trasformarsi e includere nuovi e vivaci contributi è probabilmente una – seppur ammirabile – scontata dichiarazione di volontà. Anche André Breton, che qualche stimolo all’anarchismo classico lo aveva offerto, sosteneva che il “suo” surrealismo sarebbe stato capace di inglobare in sé ogni movimento più emancipatore, ma poi non seppe vedere, anzi contrastò, la novità del situazionismo. Insomma, facile a dirsi, meno a farsi.

Il surrealismo è morto come movimento. Come sono morti tutti i movimenti, anche per l’anarchismo sarà così, infatti solo una convinzione religiosa (o identitaria, come direbbe Laplantine) potrebbe pensare il contrario. E anarchia e religione non sono mai andati molto d’accordo, si sa. L’importante è quello che lasciano in eredità per le lotte, quello che germoglierà dalle loro provocazioni a pensare e ad agire.

Si può notare in questo volume l’assenza di altri filosofi o pensatori che hanno sviluppato parte delle proprie teorie da intuizioni anarchiche. Ricordiamo almeno Paul K. Feyerabend, che in Contro il metodo coniò il concetto di anarchismo epistemologico (“giocare la partita della Ragione allo scopo di minare l’autorità della Ragione”, senza alcun metodo precostituito), o Elias Canetti, che in Massa e potere sviluppa una critica incessante al concetto di comando (“chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina”). Si potrebbe andare avanti fino ad arrivare almeno a Dominio e sottomissione di Remo Bodei, singolare panoramica a partire dalla tradizione antica della schiavitù, che arriva al preoccupante uso dell’intelligenza artificiale. E – a proposito di “non detti” – come dimenticare altri classici del Novecento che si sostanziano di intuizioni anarchiche, dalla nozione di totalitarismo di Hannah Arendt, alla messa in discussione del principio identitario di Judith Butler e Francois Laplantine, all’immanenza an-archica del Mille piani di Deleuze e Guattari. Contributi a cui i movimenti libertari e antagonisti non possono rinunciare. Invece, nel saggio della filosofa allieva di Derrida, la mancanza di riferimenti al pensiero di Noam Chomsky è certo conseguenza della sua impostazione decostruttivista, ma rivela anche una difficoltà di confronto fra pensieri contemporanei.

Ma torniamo al testo di Malbou. Definendo il “paradigma archico”, il libro cerca di contribuire a un anarchismo che presupponga una rinnovata interrogazione del suo significato originario – l’assenza di governo – alla luce di letture dei filosofi che analizza. Il caos non è necessariamente dove ci si aspetta che sia. Il buon senso statale e il perbenismo vorrebbero che l’anarchia fosse sinonimo di disordine e l’anarchismo un’ideologia che nel peggiore dei casi è sinonimo di terrorismo e nel migliore di un dolce sogno a occhi aperti. Seguendo l’esempio dei pensatori anarchici, Malabou sostiene invece che il caos è inscritto nel potere statale. Lo abbiamo visto negli ultimi anni con la gestione della crisi sanitaria legata alla pandemia e con lo stato di degrado del sistema sanitario pubblico. Questo collasso è in gran parte il risultato dello smantellamento dello stato sociale sulla scia del neoliberismo, che ora è diventato ultraliberismo, ma anche del fatto che le organizzazioni gerarchiche esautorano la base della società, rendendola così permanentemente fragile.

Malabou si interroga anche su una coesistenza, fonte di confusione, tra quello che chiama anarchismo di fatto, che mira a eliminare lo Stato in una prospettiva individualista e privatistica, sinonimo di deregolamentazione estrema (uberizzazione) e capitalismo libertario, e quello che definisce anarchismo di coscienza, che percepisce attraverso esperimenti di auto-organizzazione come gli Zad (zone da difendere) o il movimento dei Gilet Gialli. Qui la nozione di classe, pur da ripensare e ridefinire, viste le mutazioni sociali ed economiche, è necessaria per chiarire ogni possibilità di confusione tra l’anarcocapitalismo e le tendenze libertarie dei movimenti di protesta degli ultimi anni. “L’ibrida combinazione di violenza governativa e illimitata uberizzazione della vita” appare sempre più egemonica. E, ovunque, le strutture di dominio, plurali e multiformi, sembrano irrigidirsi ancora di più.

“Paradigma archico” è dunque il nome di una “struttura che, agli albori della tradizione di pensiero occidentale, lega insieme sovranità statale e governo”. Non può esistere uno Stato senza governo, né un sovrano che si sottragga alla logica principale del governo: quella del comando e dell’obbedienza. È la logica di un certo modo di agire e di intendere l’azione, una logica egemonica che affonda le sue radici nel pensiero greco, in particolare aristotelico. All’origine della filosofia politica, come della stessa storia dello Stato, il comando riesce a fondare la sua logica solo se viene preso per un inizio: per l’origine vera e affermata, la prima, che a sua volta permette di giustificare la sua eminenza gerarchica. Come se ci fossero sempre stati ordini ed esecutori obbedienti. È stato Aristotele”, ci ricorda Malabou, attingendo alle analisi di Schürmann, che “fondando in un’unità indissolubile i due significati di inizio e di comando”, il concetto di archè, parola greca che significa “principio”, ha avviato il pensiero in tutte le sue dimensioni – logiche, ontologiche e politiche – sulla strada da cui non riusciamo ancora a districarci. Malabou: “l’anarchia perseguita l’archè non appena emerge, come la sua mancanza di necessità”. L’anarchia è l’assenza di principio, l’impossibile unione di principio e comando. L’ordine pratico, politico, statale è solo contingente: il paradigma archico è contingente, soggetto a un inizio storico che non può essere giustificato. Ha potuto aver inizio solo dominando e solo allora è stato in grado, con il pretesto di governare, di trasformare gli esseri non governabili in soggetti governabili.

Il non-governabile è diverso dal governo. Non è la sua inversione, il suo riflesso negativo. Non può essere amministrato, controllato o governato. L’anarchia, l’ingovernabile, assume spesso il volto della vita, ad esempio della vita animale: non si governa un animale, lo si domina. Allo stesso modo, il filosofo cinico, dice Malabou, attingendo alla potente interpretazione dell’ultima opera di Foucault, “è quell’uomo che non è disobbediente: ha ‘qualcosa in lui [che] è assolutamente estraneo all’ordine gerarchico’. E quel ‘qualcosa’ è la vita. Niente di meno della vita”.

Dovremmo dire che l’anarchia, e quindi l’ingovernabile, è la vita? Non esattamente: è ciò che, nella vita, testimonia un’alterità originale e irriducibile al paradigma archico. L’errore dell’anarchismo storico è quindi quello di aver fatto dell’anarchia un principio. Se l’anarchia non è un principio, è un punto di esteriorità, di alterità: il supporto da cui è concepibile un fuori, che sfugge alla circolarità infinita del governabile e dell’ingovernabile. È la Terra, o la vita, alla luce delle attuali questioni ecologiche: non possiamo governare la Terra, né la vita animale, né la vita vegetale. In questo senso, Malabou sostiene che “l’anarchismo deve costantemente testimoniare la sua realtà. Deve accettare che la sua dimensione incredibile – per la coscienza comune come per la coscienza filosofica – non potrà mai essere dissipata dal fatto, dall’attualità degli avvenimenti”. Un’idea inesauribile.

La società anarchica, che deve costantemente reinventarsi per sfuggire alla sclerosi, sembra impensabile, irrappresentabile. Ma, soprattutto, rimane l’oggetto di una preoccupazione viscerale, “l’identità dell’anarchismo e l’esperienza traumatica”, riassume Malabou. Rinunciare al governo significa accettare senza garanzie la “plasticità dell’essere anarchico” e l’imprevedibilità della vita, che duemila anni di pensiero politico hanno ribadito come necessaria per arginare la marea di impulsi morbosi e distruttivi. Nessun filosofo ha preso sul serio la possibilità che la vita senza governo possa svolgersi non come auto-annullamento ma come spontaneo “mutuo soccorso”, per citare Kropotkin. Ci vuole coraggio per fare il passo in più che Malabou ci invita a fare: il passo verso una società fondata sul “rifiuto di qualsiasi ordine” – che, forse, sta già bussando alla porta.

Dopo la lettura del libro, per iniziare un dibattito, si potrebbe rilanciare con un aspetto che
Malabou volutamente non prende in considerazione: la prassi, l’azione. L’anarchismo
infatti non è solo analisi e riflessione sui sistemi di dominanza, ma ribellione ad essi. Anzi
è proprio il confronto tra pensiero e azione che può dare nuovi frutti concettuali e nuove
pratiche di lotta.

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Lo sguardo non banale della follia https://www.carmillaonline.com/2018/05/12/lo-sguardo-non-banale-della-follia/ Sat, 12 May 2018 21:23:23 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45533 di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta [...]]]> di Paolo Lago

Charles Folie e Iuri Lombardi, Il Vice Presidente venne dopo sette secondi (racconti), 96, rue de-La-Fontaine Edizioni, Torino, 2016, pp. 136, € 12,00.

Dopo Freud – scrive Michel Foucault – la follia è diventata una “prodigiosa riserva di significati”, una lingua che non dice niente proprio perché è dotata di un doppio linguaggio. Condotta al di fuori della reclusione manicomiale, la follia si è insinuata nelle pieghe del discorso, della voce, della parola, fino a divenire negazione della parola stessa. “Amici patetici, che appena mormorate, andate con la lampada spenta e rendete i gioielli. Un nuovo mistero canta nelle vostre ossa. Sviluppate la vostra legittima stranezza”: così suona una frase di René Char citata da Foucault nella prefazione della sua Storia della follia. I personaggi della stupefacente raccolta di racconti, Il vicepresidente venne dopo sette secondi di Charles Folie e di Iuri Lombardi sviluppano la loro legittima stranezza nella forma della narrazione, di una contingenza di situazioni raccontate che si situano come negazione della normale parola, della banalità del discorso, del lato più scontato della voce. Perché, come leggiamo nell’esergo da Flaubert, “in ogni cosa c’è un lato inesplorato” e “la minima cosa contiene un punto d’ignoto”. Probabilmente, riuscendo a guardare con il peculiare punto di vista di questa “follia” “riserva di significati”, si riesce anche ad esplorare i numerosi punti di ignoto ancora presenti nella realtà che ci circonda.

Se la follia è presente persino nel nome francesizzante, pseudonimo di uno degli autori, Carlo Follia (traduzione italiana, appunto, del nome francese) è anche il protagonista di uno dei racconti di Charles Folie, I Cacciatori del Tempo. Follia, “insegnante presso l’asilo nido dell’Ateneo La Sapienza di Roma”, vive sommerso dai libri e si immerge in una lettura tutta personale della Recherche proustiana, avendo forse scoperto il varco verso quel “punto d’ignoto”, verso una lettura non banale della realtà e della letteratura stessa, della narrazione, probabilmente in modo più autentico e misterioso di quanto non facciano i professori universitari che gli affidano i propri figli per recarsi alle lezioni, perduti in vuote e prefabbricate interpretazioni della cultura e dell’arte. Legato all’universo della follia è anche il racconto successivo di Folie, Non voglio morire solo, in cui il folle Flammery, all’interno di una struttura di degenza, ossessionato dalla paura di morire da solo, è forse capito veramente soltanto da Saviers, un altro internato che si crede psichiatra, colui che scavalca le rigide “griglie” psicanalitiche freudiane (per dirla con il Deleuze e Guattari de L’Anti-Edipo) per un approccio più umano e spontaneo con la malattia mentale.

Il racconto che apre la raccolta (e che le dà il titolo), sempre di Charles Folie, mette in scena una situazione dominata da un assurdo straniante: il Vice Presidente Responsabile del Consiglio di Amministrazione di una azienda se ne va in giro in una freddissima giornata di novembre cercando di fare acquisiti con una banconota da cinquecento, unico denaro che ha in tasca. Questo racconto, a mio avviso possiede un’impronta – mi si passi il termine – profondamente ‘marxista’ in quanto si incentra sui meccanismi del potere economico che regolano la società e sui rapporti fra gli individui di diverse classi sociali. Il Vice Presidente è ingessato nella sua immagine di uomo di potere (e di potere economico) per il modo di vestire, per l’arroganza e il cinismo con cui tratta chiunque, ma soprattutto per il suo mettere in mostra continuamente e in maniera quasi feticistica quella famigerata banconota da cinquecento (il tipo di moneta, tra l’altro, non viene mai specificato, ma questo alla fine non conta). L’esposizione spettacolare del potere economico avviene così di fronte a due anziani baristi, a un tassista, a un cameriere-cuoco di un povero ristorante del quartiere operaio, a un albergatore, a un altro barista e a un gruppo di avventori ubriachi. In tutto questo infernale e assurdo rondò, l’autore ripete quasi fino alla nausea il ruolo sociale del protagonista, quella parola “Vice-Presidente”, nauseante di burocrazia e di potere, che finisce per non assumere più nessun significato nel vortice picaresco di incontri e avventure nel quartiere operaio. E non è un caso, credo, che una buona parte delle vicende del racconto si svolga in questa peculiare ambientazione, caratterizzata, ancora una volta marxisticamente, dall’aggettivo “operaio”. Il protagonista si muove all’interno di questa realtà come in un mondo alieno, lontano da sé, un mondo che osserva con uno sguardo distaccato e quasi ‘schifato’. La bravura dell’autore sta nel farci osservare spaccati di mostruosità sia nel protagonista e nella sua classe di appartenenza, vuota e cinica, sia nell’universo proletario e suburbano che il personaggio si ritrova a percorrere, abbandonato a se stesso e attraversato da plaghe irrisolte di crudeltà e di violenza.

Il racconto successivo, firmato dall’altro autore, Iuri Lombardi, e intitolato Iuri dei miracoli, ci conduce all’interno di una dimensione più intimistica e introspettiva. La sapiente e magica scrittura di Lombardi allestisce un ritratto autobiografico in chiave di riflessione sul proprio passato e sulla propria esperienza. Ma la dimensione di realtà che dovrebbe essere sottesa al genere dell’autobiografia viene completamente scardinata da un impianto onirico e visionario. Il sé così raccontato non è immerso nella realtà, ma in una dimensione parallela nella quale si possono scorgere con più chiarezza i lati più inesplorati dell’esistenza. Ancora una volta si distende sul mondo uno sguardo non banale, si apre l’impronta di una follia creativa e immaginifica che prelude a non scontati orizzonti. Con uno stile poetico che mi ha fatto pensare all’Ecce Homo di Nietzsche, Lombardi costruisce un intarsio magico di ricordi, di momenti, di situazioni legati alla figura del sé che sta mettendo in scena e questa figura del sé è costruita mediante un chiaro impianto di formazione. Quasi come un visionario Bildungsroman, profondamente venato di afflati poetici (mi sono venute in mente anche certe composizioni di Dino Campana), il racconto dispiega uno scenario e una ambientazione contemporaneamente reali e fantastici, venati di magia, come le descrizioni della campagna e di una Firenze irretita dal gelo della nevicata dell’85. Numerosi personaggi, accanto alla figura del sé, si avvicendano nelle pagine del racconto e scaturiscono dalla scrittura come tante appendici del paesaggio e dell’ambiente e quasi in sinergia con esso. Ambiente, cose e persone sono l’inequivocabile tessuto ritmico del racconto, un filo che si dipana in immagini che si dipingono di significativa poesia visionaria.

Non meno pervaso di poesia è un altro, interessante racconto di Lombardi presente nella raccolta, Roma, che si apre con l’arrivo di una carovana di giostrai nella campagna romana. Questi ultimi, quasi messi di una follia che nega la banalità della parola in nome di inenarrabili corrispondenze, sono i sovvertitori dell’ordine quotidiano, culturale e sociale, creatori di un nuovo ordine sociale, mentre dintorno il paesaggio si accende di un “barlume di allegria” e di “spensieratezza”. Alfieri di una nuova e visionaria rivolta sociale, come il predicatore friulano Giovanni che si aggira nei dintorni della Capitale, i giostrai sono i ‘nomadi’ giunti da un altrove, sono figure quasi dionisiache che mirano a perturbare l’ordine stanziale della quieta e balzana borghesia, rappresentata dal marchese Annibale De Caro Da Roccasecca e da don Giuseppe, prete del Vaticano, ma anche da Alba Satriani, annoiata signora borghese che cerca conforto fra le braccia dei sottoproletari dai nomi latineggianti di Attilio e Tiberio. Non a caso, i giostrai verranno allontanati, scacciati dalla città (come succede agli indesiderati campi rom nelle nostre città) per essere ricollocati in un luogo lontano, dove, con la loro smagliante ‘diversità, non possono più disturbare la perbenista banalità del quotidiano. Lo stesso Giovanni, “il pazzo saccente, il nuovo messia, fu imprigionato e portato lontano, in una clinica psichiatrica” (stessa sorte era toccata a Dioniso nelle Baccanti di Euripide).

Ma lo sguardo non banale della follia, la “sua prodigiosa riserva di significati” continuerà a scavare la realtà interpretandone i lati inesplorati, come capiamo leggendo gli altri racconti di Lombardi e Folie presenti in Il presidente venne dopo sette secondi. È tempo, quindi, che la mia voce si taccia per poterli direttamente scoprire e leggere, alla scoperta di nuovi, inusitati “punti di ignoto”.

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