graphic album – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 26 Apr 2025 20:00:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Guarda il cielo. Intervista con Matteo Fortuna https://www.carmillaonline.com/2025/04/26/guarda-il-cielo-intervista-con-matteo-fortuna/ Sat, 26 Apr 2025 05:00:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=88066 di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani [...]]]> di Vittorio Benzi e Domenico Gallo

Guarda il cielo è un fumetto realizzato da Matteo Fortuna e Simona Binni, e pubblicato da Tunuè. Il 26 aprile del 1945 a Lonigo, in provincia di Vicenza, il nonno di Matteo Fortuna, Giuseppe Fortuna, viene fucilato da un gruppo di tedeschi in fuga. L’Atlante delle stragi nazifasciste lo censisce con queste parole: “Fortuna Giuseppe, fu Emilio e Nogara Assunta, coniugato con Silvagni Letizia, padre di due figli, nato a Lonigo, di anni 32, sfolato da Genova, partigiano.” Era un partigiano appartenente alla brigata Garibaldi Martiti di Grancona.

Giuseppe Fortuna è uno dei tanti tra partigiani e semplici cittadini falciata dalla rabbiosa ritirata tedesca e per mano dei fascisti, ormai in preda all’isteria e terrorizzati dal dover rendere conto delle loro azioni criminali. In realtà quasi nessuno pagò per quei delitti e per le stragi.

Il resoconto storico dell’episodio raccontato nel fumetto del nipote Matteo si trova, per esempio, nell’Atlante delle stragi nazifasciste.

Cominciamo con un testo tratto da Guarda il cielo, sono le ultime parole che Giuseppe Fortuna rivolge alla moglie: “Si dice sempre che l’unica cosa certa è la morte. Ma sai come la penso, che l’unica cosa certa è la vita. Fino a che viviamo, dobbiamo farlo nel modo giusto. Le azioni contano”.
E siccome le azioni contano, Matteo Fortuna, a un certo momento ha sentito il bisogno di compiere un’azione importante che era rimasta, forse a lungo, tra i suoi desideri. Qualcosa di intimo che riguarda la storia della sua famiglia. Vuoi dirci di che cosa si tratta e anche quando e perché hai sentito l’esigenza di raccontare questa storia?

Siete partiti da una parte importante del fumetto che riflette il mio modo di pensare. Spesso sono stato “accusato” di essere il classico uomo di poche parole e quindi, negli anni, mi sono sforzato di parlare un po’ di più con familiari, figli, amici; però continuo a pensare che le azioni e l’esempio siano quello che conta veramente. Quindi credo che la citazione che avete riportato mi rispecchi particolarmente, oltre al fatto che mi piacciono i detti popolari, come quello richiamato in questo testo.
Questa storia ce l’ho sempre avuta dentro. Mio nonno ha compiuto un’azione eroica che gli è costata la vita e, dal mio punto di vista, è stata una spinta per cercare di comportarmi in maniera coerente con il suo esempio. Della guerra, del fascismo e dell’antifascismo, per tanti anni non se ne è più parlato e, secondo me, era un bene; non se ne parlava più perché non si sentiva la necessità di farlo, perché certe conquiste erano date per assodate. Ultimamente purtroppo il fascismo è stato sdoganato e se ne parla come di un’idea politica normale; cosa che mi fa rabbrividire. Si suscitano reazioni simili al tifo da stadio, senza approfondire e, soprattutto, senza considerare che dietro a quelle idee ci sono stati tanti morti, che è quello che veramente conta.
Quindi ho pensato fosse il momento di mettere su carta questa storia, innanzitutto per la mia famiglia, poi anche per vedere se potesse interessare altre persone.
Abbiamo iniziato a lavorarci due anni fa con Simona Binni e, una volta finita, l’editore Tenué ha giustamente deciso di fare uscire il fumetto per il 25 Aprile. In questi due anni, invece di diminuire, problematiche e polemiche sul fascismo e l’antifascismo si sono ulteriormente accese. Questo per me non è un bene.
Il 25 Aprile era una festa gioiosa, festeggiata da tutti, mentre oggi è fonte di polemiche e scontro, perché è stata messa in discussione.

 Nello scrivere la tua storia avevi in mente un target di pubblico particolare, per esempio i ragazzi, e questo è in qualche modo in relazione alla scelta di fare un fumetto, anziché scrivere un romanzo? Com’è nata è nata questa idea?

Inizialmente non doveva essere un fumetto. Quando ho fatto le prime ricerche pensavo al classico romanzo, poi ho cominciato a pensare la storia come per immagini, quasi come un film. Per esempio, quando mio nonno cita all’inizio l’altro detto popolare, che in punto di morte ti passa tutta la vita davanti, io ho immaginato che mio nonno invece nei suoi occhi abbia visto il futuro. E per rappresentare questo vedevo una macchina da presa che faceva lo zoom sui suoi occhi e al loro interno scorrevano le immagini della sua famiglia dopo la sua morte. In quel momento ho capito che dovevo usare le immagini e siccome i soldi per fare un film non li avrei mai avuti, ho optato per il fumetto.
Ho la fortuna di avere un cugino che è del mestiere, Stefano Piccoli, in passato molto attivo come disegnatore, adesso più come organizzatore di eventi, come ARF, un importante festival del fumetto. Mi ha presentato Simona Binni, che inizialmente avrebbe dovuto occuparsi solo di adattare il soggetto al fumetto, poi però l’ho convinta a disegnare la parte di storia che riguarda il viaggio di mio padre negli anni ’70, senza i flashback; poi, piano piano, ne è rimasta sempre più coinvolta e alla fine ha disegnato sia la seconda parte, con gli avvenimenti del 1945, sia i flashback della prima parte. Alla fine ho convinto anche mio cugino a mettere le mani sui disegni, occupandosi in prima persona della postfazione a fumetti, che si affianca a quella classica testuale dello storico Carlo Greppi.

Sono contento di aver fatto un fumetto; penso che questa forma d’arte e di comunicazione meriti di essere valorizzata più ancora di quanto non lo sia già stata. Mi piace anche chiamarlo fumetto rispetto a graphic novel perché con i fumetti ci sono cresciuto.

Il target per cui ho pensato la storia è più adulto di quello dei ragazzi, diciamo “young adult”, poi quando ho cominciato a farlo girare nella cerchia di amici con figli più giovani ho notato che prendeva parecchio anche loro. Penso che possa essere letto a partire dai 10 anni, mi piacerebbe presentarlo nelle scuole; con Carlo Greppi abbiamo già programmato una presentazione al Salone del Libro di Torino in un evento dedicato agli studenti.

Tuo nonno ha sacrificato la propria giovane vita, per questo il tuo papà praticamente non lo ha neppure conosciuto. È stato difficile ricostruire la vicenda del nonno, dal punto di vista pratico ed emotivo? Quello che racconti è tutto vero o c’è qualcosa di immaginato?

La parte ambientata nel 1945 si basa su alcuni racconti familiari e, soprattutto, su due documenti storici che raccontano la liberazione di Lonigo, avvenuta il 26 e 27 aprile 1945. Mio nonno venne fucilato il 26 di aprile. Io e Simona siamo stati molto attenti a rispettare la vicenda storica il più fedelmente possibile, senza introdurre elementi di fantasia, anche per rispetto della memoria dei parenti ancora in vita di quelli che sono stati uccisi con mio nonno, di cui abbiamo riportato soltanto i nomi. Per questo motivo la parte dedicata allo scontro a fuoco, che avremmo potuto dettagliare e animare maggiormente, abbiamo preferito descriverla limitandoci ai tratti essenziali.

Invece la prima parte della storia, quella del viaggio di mio padre da Genova verso Lonigo, è immaginaria. Mi sono figurato mio padre che, nel 1975, nel trentesimo anniversario della Liberazione, tornasse al paese per commemorare suo padre e posare un fiore sotto la lapide che ricorda lui e gli altri che sono stati uccisi. Allora aveva più o meno la stessa età in cui era stato ucciso mio nonno, e si trovava in una analoga situazione famigliare, con due figli, io e mia sorella eravamo già nati, come lo erano lui e il fratello nel 1945.

Per descrivere quel viaggio abbiamo usato la tecnica del flashback, ma quei racconti sono veri. Due me li ha riportati mia nonna, uno mio zio, un altro proviene da altre persone. A parte quello del sogno di mio padre, un’idea di Simona chiaramente immaginata, sono tutti veri al cento per cento.

Anche il riferimento alla canzone si basa su una verità storica. Mio nonno materno mi cantava una canzoncina di Fred Buscaglione, allora ho immaginato che anche mio nonno paterno avesse fatto lo stesso con i suoi bambini. In quei tempi era in voga Maramao perché sei morto? di Mario Panzeri, che fu sospettata, e a ragione, di essere una presa in giro del potere fascista, in riferimento alla morte di Costanzo Ciano, consuocero di Mussolini.

La collaborazione con la disegnatrice Simona Binni ci sembra abbia raggiunto un notevole equilibrio tra testi, disegni e colori. Comunica positività e serenità, pur nella tragicità della situazione. Com’è stato esordire come soggettista e sceneggiatore di un fumetto? Qual è stato il tuo rapporto con Simona e come vi siete organizzati tra voi? 

Io e Simona lavoravamo via WhatsApp, ci scambiavamo messaggi per ricostruire tutti i dettagli in modo più veritiero possibile. Per partire le ho dato le fotografie di famiglia. Mio padre e mio nonno si somigliavano e lei ha creato dei volti così veritieri che ormai il volto che ricordo di mio padre è stato quasi sostituito da quello che ha disegnato lei. Poi ha fatto un lavoro di ricerca sugli abiti e su molti altri dettagli. Per esempio, il colore e la maniglia interna del Maggiolone su cui viaggia mio papà nel fumetto corrispondono proprio a quelli dell’auto che aveva.

Questo lavoro meticoloso di Simona ha portato molto realismo in ogni tavola.
Nella postfazione illustrata, mio cugino Stefano Piccoli ha usato le foto che gli avevo mandato per creare visivamente l’effetto dello sguardo sul futuro di mio nonno. Non potendole inserire nell’occhio, come avevo immaginato di fare con lo zoom di una cinepresa, le ha fatte fluire visivamente dal grammofono che suona.

Ci sono stati fumetti, film o narrativa che hanno influenzato la tua scrittura?

Nessuna in particolare, anche se certamente l’insieme delle tante letture che ho fatto hanno determinato qualche scelta. Il flashback è usuale quando si ricostruiscono storie del passato, così come quella dei giovani che vanno alla ricerca di chi ha vissuto determinati eventi per farseli raccontare. Paco Roca ha utilizzato entrambe le tecniche ne I solchi del destino, ambientato tra il presente e gli anni della guerra civile spagnola. C’è stato un momento in cui la Tenué pensava di commissionare la copertina a Paco Roca, ma quella disegnata da Simona era talmente bella e significativa che poi non se ne è fatto nulla. Se ci fate caso la posizione di mio nonno in copertina che guarda il cielo sognante è la stessa usata nel disegno che ritrae quando viene ucciso. Poi c’è il gioco di ombre generato dalla luce che filtra tra i rami e le foglie, il particolare delle scarpe tolte che fanno capire che lui camminava scalzo sull’erba. Tutti elementi che contribuiscono a definire il personaggio e denotano una grande sensibilità.

Nel testo e nei disegni ci sono diversi passaggi molto molto incisivi. Uno su tutti, l’incipit: “Dicono che quando stai per morire, in un istante ti passa tutta la vita davanti agli occhi… Bé… A me non è successo. Perché io ho visto il futuro”.  Un motivo che ritorna nel titolo Guarda il cielo e nei riquadri del finale. A noi sembra rappresenti l’essenza della rivolta di quella generazione, attraverso scelte etiche e coraggiose in cui le persone si sono sacrificate per gli altri. Dalle migliaia di singole scelte personali di solidarietà e coraggio, alimentate dal desiderio di un futuro di libertà e giustizia, di fatto sono nate la Repubblica Italiana e la Costituzione. Da quello che hai potuto ricostruire della vicenda di tuo nonno, secondo te quanta consapevolezza c’era nella sua generazione che quello che stavano facendo era qualcosa di così importante? Pensi che avessero una reale coscienza politica?

Non lo so, io credo che la maggior parte dei partigiani fosse animata da un impeto più che dalla consapevolezza, che in qualcuno sicuramente c’era, ma in molti penso si sia sviluppata successivamente. Io penso che quando senti di essere nel giusto puoi compiere un gesto che influenza gli altri e questi a loro volta altri ancora. I gesti non sono mai isolati; ho letto che il 70% delle pallottole usate nelle fucilazioni contro i civili e gli antifascisti non andarono a segno. Non è facile essere “buoni”, ma forse nemmeno essere “cattivi”.

Nella storia mio nonno colpisce con un pugno un ufficiale nazista, lo fanno prigioniero, insieme ad altri, ma non infieriscono su di lui e lo liberano; ed è proprio quello stesso nazista che finirà poi per catturarlo e per fucilarlo. Oggi, probabilmente, i ragazzi questo gesto non lo capirebbero, penserebbero che mio nonno, se lo avesse ammazzato, sarebbe sopravvissuto; lo giudicherebbero un ingenuo.
Ma i fatti si devono approfondire e serve spiegarli bene. Non infierendo sui vinti la cosa gli si è ritorta contro, ma lui è rimasto fedele al suo ideale di giustizia e di non violenza, e questo era per lui il messaggio più importante da tramandare. Dobbiamo aiutare i giovani a capire, a contestualizzare, anche per interpretare quello che succede oggi, come la tragedia in Palestina. Parlando di consapevolezza, questo è il tipo di consapevolezza che i giovani devono costruire e penso che le immagini di un fumetto possano essere utili.

Durante la guerra, a parte una componente di antifascisti che appartenevano ai partiti clandestini, si è unita la gente che non ne voleva più sapere della guerra e del Regime. Oltre ai partigiani che combattevano, esisteva un antifascismo diffuso costituito da atteggiamenti di rifiuto, di non collaborazione con il fascismo, che aiutava i partigiani e che praticava forme diffuse di disobbedienza. Atteggiamenti e piccole azioni che, progressivamente, iniziarono a essere praticate collettivamente e a livello di massa. La Resistenza è stata anche questo. Il libro di Claudio Pavone, Una guerra civile, parla di questo clima diffuso di antifascismo. Un sentimento di odio nei loro confronti che i fascisti sentivano, e forse per questo hanno compiuto violenze e stragi inutili durante la ritirata, tante soprattutto in Veneto, come nella storia di tuo nonno.

Carlo Greppi la chiama “ritirata aggressiva”. Da quello che ho potuto ricostruire, in quelle zone del Veneto non c’era stata un grande organizzazione, è stato un moto spontaneo.

Possiamo chiamare memoria la ricostruzione e la divulgazione delle singole vicende degli antifascisti. Ci sono moltissime pubblicazioni in Italia di piccoli editori o autofinanziate dalle associazioni o dalle famiglie. Migliaia di singole biografie che, dopo 80 anni, rischiano di scomparire per fare largo a una storia ufficiale spesso ambigua e opportunistica. Come pensi che questa memoria frammentata e diffusa, di cui Guarda il cielo da oggi fa parte, possa comporsi e diventare la storia della Resistenza italiana?

Intanto io penso sempre che il pluralismo delle informazioni sia indispensabile, non è così esatto che la storia la fa chi vince, diciamo che la scrive chi vince. Quindi è importante che restino le memorie scritte, non standardizzate. Greppi fa proprio quello di cui avete chiesto; in un suo libro parla dalle piccole storie singole che, raccolte insieme, fanno la Storia, e questo concetto lo cita anche nella postfazione. La postfazione è molto bella, si capisce che è sentita e immagino che il fumetto gli sia piaciuto, con la sua autorevolezza ci ha dato una consacrazione. Greppi è uno storico importante con posizioni che oggi vengono definite coraggiose, perché, tornando a quello che dicevamo all’inizio, oggi per affrontare certe tematiche occorre essere coraggiosi. Solo vent’anni fa non era così…


Oggi c’è la tendenza da parte della storiografia fascista di prendere singoli episodi decontestualizzati, privi di analisi numeriche, e di farne il paradigma di tutto un periodo, di un evento grande come la Resistenza e l’antifascismo. Al contrario l’episodio che vide protagonista tuo nonno non fu un caso “strano”; episodi analoghi ce ne furono tantissimi, sia di persone prese per la strada e torturate o uccise, come la ragazza con la bicicletta di Guarda il cielo, sia di gesti di coraggio come quello di tuo nonno. Recuperarne e preservarne la memoria è importantissimo.

I miei figli non sapevano niente della storia del loro bisnonno, io stesso non ne parlai mai con mio padre e con mio zio. Ma forse si tende a parlare con i nipoti più che con i figli.

Non so se hai letto la storia a fumetti di Paco Roca L’abisso dell’oblio, pubblicato in Italia da Tunuè, che racconta la vicenda delle fosse comuni in cui finirono gli antifascisti in Spagna. Il fumetto racconta una storia familiare e la ricerca dei corpi da identificare, usando l’analisi genetica, per restituirli alle famiglie. In Spagna è un progetto finanziato dallo Stato nell’ambito della Legge della Memoria. Credi che anche in Italia, come è stato il caso di tuo nonno, si debba procedere al recupero dei corpi e alla loro identificazione?

Credo che in Italia non succederà mai. Mio nonno stesso è stato sepolto in una fossa comune. Ho letto anch’io il libro di Paco Roca, molto recentemente. In Spagna c’è una sensibilità maggiore e una cultura cristiana un po’ più viva. Per me non è un grande problema che non ci sia la tomba di mio nonno, va bene anche la lapide che è stata posta a Lonigo, e quella di Villa Scassi a Genova, nel quartiere di Sampierdarena. Per mia nonna invece fu una cosa drammatica non sapere dove andare a pregare. Paco racconta molto bene questo sentimento degli anziani che indirizzano le ricerche, perché hanno ancora la memoria di quello che avvenne. Da noi non credo che succederà.

Abbiamo cominciato parlando di azioni che contano, ci avviamo a concludere e vorremmo tornare su questo punto. Tu hai lanciato un laboratorio veramente unico, CDM LAB, Il laboratorio delle ‘azioni buone’. Progetti concreti per un futuro migliore. Vuoi parlarcene?

Io mi occupo di shipping, la mia agenzia marittima si chiama CDM, che è l’acronimo di Crêuza de mä, la canzone di Fabrizio De André. Poi ho una squadra di calcio a cinque, CDM Futsal, anche quella una soddisfazione. Però la mia formazione è di altra natura, sono laureato in lettere a indirizzo storico medievale. Così in quest’ultimo periodo ho voluto dar sfogo un po’ anche al mio lato umanistico e umano e abbiamo fondato il CDM LAB, dove in realtà LAB sta per Le Azione Buone, non per laboratorio. Cerchiamo di proporre aspetti positivi della vita, un’informazione un po’ più “lenta”, gentilezza nel modo di porsi, ottimismo, uno sguardo su ciò che si può fare per migliorare quello che ci sta intorno. Abbiamo tanti progetti, il più importante è il nostro podcast L’ottimista cosmico, dove abbiamo avuto tanti ospiti, tra cui Vinicio Capossela. Mi fa piacere ricordare lui in particolare, sia perché ha letto il fumetto e mi ha lasciato un messaggio bellissimo che tengo per me, sia perché la sua canzone Staffette in bicicletta, mi piace pensare che parli anche della ragazza in bicicletta catturata dai nazisti nella mia storia. Che Maria fosse effettivamente una staffetta partigiana non lo sappiamo con certezza e quindi nel fumetto non lo diciamo, ma la canzone di Vinicio mi ha suggerito questa suggestione.
Sempre con il CDM LAB ogni lunedì facciamo il TG delle belle notizie. Ci occupiamo anche di cortometraggi: siamo coproduttori di un cortometraggio su Sandro Pertini, che uscirà a breve, e stiamo ultimando le riprese un altro cortometraggio su un episodio del giovane Don Andrea Gallo durante la Resistenza, scritto da me ed Edoardo Fantini, con la partecipazione di Bruno Morchio. S’intitola Il giovane Gallo.
CDM LAB è coproduttore anche del fumetto e i diritti d’autore andranno a finanziare un progetto che sponsorizziamo per la piantumazione di alberi nel centro storico di Genova. Perché si parla tanto di “green” e non c’è niente di più verde degli alberi.

Quando si scrive una storia resta tua fino al momento in cui la pubblichi, poi diventa patrimonio collettivo, a maggior ragione se intorno a un tema così importante, forse mai quanto oggi attuale, come la Resistenza.  Come ti senti rispetto a questo e quali sono le tue aspettative? Ti senti appagato per aver compiuto qualcosa che desideravi scrivere oppure questo è un punto di partenza?

Sto scrivendo una storia nuova, legata più alla mia professione nello shipping e ai miei viaggi. Poi c’è un’altra storia che spero di realizzare di nuovo con Simona. Ci sarà un seguito, l’idea è di continuare a proporre una visione positiva sul futuro.

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Il graphic novel tra Maus, Jimmy Corrigan, Sandman e Zerocalcare https://www.carmillaonline.com/2017/10/18/graphic-novel-maus-jimmy-corrigan-sandman-zerocalcare/ Tue, 17 Oct 2017 22:01:02 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=39863 di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre [...]]]> di Gioacchino Toni

Punto d’incontro tra romanzo e fumetto, il graphic novel ha conosciuto negli ultimi tre decenni uno sviluppo importante ed a questo particolare media verbovisivo Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia hanno dedicato il libro Che cos’è il graphic novel (Carocci editore, 2017).

Quello del graphic novel è un linguaggio che i due studiosi definiscono “vecchio-nuovo”; vecchio perché riprende le tecniche del fumetto introdotte tra il XVIII ed il XIV secolo da artisti come Wiliams Hogarth e Richard Felton Outcault e nuovo in quanto «il romanzo grafico è in grado di superare i fumetti tradizionali in profondità e sottigliezza: oltre a muoversi in ambiti creativi e forme estetiche assai differenti, esso può riutilizzare format discorsivi quali la biografia, l’autobiografia, l’indagine giornalistica e il reportage storico-cronachistico, il cosiddetto graphic-journalism» (p. 8).

Nel saggio di Calabrese e Zagaglia vengono passati in rassegna gli elementi semiotici che distinguono il graphic novel tanto dalle immagini fisse che dalle narrazioni verbali, visto che questo particolare linguaggio verbovisivo si presenta come un sistema semiotico caratterizzato dalla multimodalità (parole/immagini) e dalla simultaneità (con il tempo codificato secondo un “sistema spazio-topico”). Dal momento che su questa parte del volume ci siamo soffermati in un intervento pubblicato recentemente dalla rivista «Il Pickwick» [qua], dedichiamo questo scritto alla parte del saggio di Calabrese e Zagaglia che ripercorre, sin dalla nascita, alcune tappe importanti della storia della narrazione grafica con particolare attenzione ad alcuni rilevanti case study.

Il termine graphic novel viene introdotto sia per indicare una modalità testuale diversa rispetto a quella del fumetto che per presentare il prodotto come forma letteraria complessa indirizzata ad un lettore tendenzialmente adulto. I confini delineati da questa etichetta restano decisamente incerti: si tratta di un libro figurativo che racconta una storia lunga o diverse storie brevi, che ricorre ad una modalità seriale o autoconclusa, che generalmente rispetta le convenzioni tipiche del fumetto o veicola istanze autobiografiche, storiche, giornalistiche ecc. Secondo alcuni studiosi il termine viene coniato da Richard Kyle attorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento per divenire d’uso alla fine del decennio successivo, ma è a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta che il termine ha iniziato ad indicare una tipologia testuale precisa e non più esperimenti editoriali frammentati ed estemporanei.

Inevitabilmente occorre partire dal fumetto, che secondo diversi studiosi prende vita negli anni Trenta dell’Ottocento e si sviluppa con la pubblicazione delle vignette nelle edizioni domenicali dei quotidiani americani. È soltanto a partire dagli anni Trenta del Novecento che i comic books permettono ai fumetti di essere commercializzati e distribuiti al di fuori dei quotidiani, prima per pubblicizzare altri prodotti, poi in maniera del tutto autonoma con protagonisti eroi e supereroi. «Con i supereroi degli anni Trenta e Quaranta, in inquietante simultaneità con l’imporsi delle dittature in alcuni paesi occidentali, il fumetto conosce grande fortuna e si espande sia come numero di lettori, sia per elaborazione di sottogeneri narrativi, sino a divenire un simbolo della nascente potenza culturale degli Stati Uniti» (p. 13).

Con gli anni Cinquanta e l’inizio della Guerra Fredda i supereroi risultano inadatti a “risolvere” la mutata situazione ed il clima politico-culturale nordamericano tende ad indicare nel fumetto uno strumento di corruzione morale, oltre che di scarso rilievo culturale. Nel 1954 in America entra in vigore il Comix Code, un vero e proprio codice di censura che proibisce, tra le altre cose, la rappresentazione della violenza e del sesso, la presenza di alcolici e tabacco e, soprattutto, vieta di criticare o irridere le autorità. Ad essere preso di mira, sottolineano Calabrese e Zagaglia, è specialmente il codice iconico, per la sua immediatezza ed a fare le spese di questa regolamentazione sono soprattutto le narrazioni gialle o horror anche se, nonostante le censure, negli anni Cinquanta non mancano produzioni interessanti, come nel caso della rivista satirico-demenziale “Mad” creata nel 1952 dal fumettista Harvey Kurtzman o di Master Race di Bernie Krigstein che nel 1955 affronta il tema dei campi di sterminio.

Nei primi anni Sessanta rinascono i fumetti di supereroi uscendo dal mero ambito adolescenziale e venendo a contatto con il mondo della pop art. Con il 1968 nasce anche il fumetto underground ed autori come Robert Crumb, Eric Stanton e Gilbert Shelton non mancano di realizzare opere satiriche, sessualmente più audaci, con riferimenti autobiografici e con una smaccata presenza di critica politica. Tali trasformazioni contribuiscono all’avvicinano del fumetto alla narrativa romanzesca.

Anche in Europa si danno importanti novità: sul finire degli anni Sessanta escono in Italia opere come Una ballata del mare salato (1967) di Hugo Pratt e Poema a fumetti (1969) di Dino Buzzati, mentre in Francia e in Belgio si pubblicano riviste destinate a restare nella storia come “Pilote” (dal 1959) e “Á Suivre” (dal 1978). Se l’ondata innovativa degli anni Sessanta tende a perdere slancio verso l’inzio degli anni Ottanta, insieme all’assopirsi delle spinte controculturali nel clima genereale del rappel à l’ordre, occorre evidenziare che si aprono comunque nuove strade soprattutto grazie a pratiche di autoproduzione.

È in questo periodo che le nuove narrazioni visive iniziano ad essere indicate come illustrated novel, graphic album, comic novel e graphic novel. Tra i primi autori del nuovo genere debbono essere ricordati illustratori inglesi come Alan Moore, Neil Gaiman, Warren Ellis e Grant Morrison. I due studiosi sottolineano anche l’importanza della rivista “Raw”, fondata nel 1980 da Art Spiegelman e Françoise Mouly, che nel corso di un decennio lancia in ambito statunitense autori come Charles Burns, Robert Crumb e Chris Ware. Nel corso degli anni Novanta il graphic novel definisce meglio alcune sue caratteristiche che lo differenziano sempre più dal fumetto tradizionale, e conquista un suo spazio editoriale e distributivo.

Calabrese e Zagaglia sottolineano come tale tipo di grafica narrativa abbia uno sviluppo internazionale che tocca, oltre gli Stati Uniti, anche il Sudamerica, l’Europa e l’Estremo Oriente. In Giappone, ad esempio, soprattutto a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, Osamu Tezuka realizza un vero e proprio “cinema di carta” che conduce allo story manga, un racconto a fumetti autoconcluso rivolto ad un pubblico di bambini ed adolescenti.

A partire dalla metà degli anni Cinquanta, in Giappone, un gruppo di nuovi autori inizia a proporre akahon ispirati all’hard boiled e rivolti ad un pubblico adulto che aprono le porte al movimento gegicka, diffuso da riviste come «Kage» e «Machi», che abbandona le semplificazioni e le deformazioni dei manga in favore di uno stile molto più realistico. Se in un primo momento il gegika ha successo tra i giovani lavoratori delle grandi aree industriali scarsamente acculturati, successivamente, a partire dagli anni Sessanta, alcune produzioni gegika si prestano a dare voce alle proteste ed alla critica sociale di studenti, intellettuali ed attivisti politici.

Attorno alla metà degli anni Ottanta il mondo dei fumetti vede l’uscita di alcune opere che ne cambiano la fisionomia. Se per quanto riguarda l’universo dei supereroi la svolta può essere individuata nell’uscita di Watchman (1986-87) di Alan Moore e Dave Gibbson e Batman. Il ritorno del cavaliere oscuro (1986) di Frank Miller, è con Maus (1986) di Art Spiegelman che si assiste alla canonizzazione del genere graphic novel ed alla sua ascesa nell’ambito della cultura letteraria, tanto che nel 1992 l’opera di Spiegelman riceve una menzione speciale da parte del Comitato del Premio Pulitzer.

Maus, comparso la prima volta nel 1972 come short story in un’antologia, poi pubblicato in maniera frammentata da «Raw», viene poi pubblicato in due volumi distribuiti da Pantheon. Il lavoro di Spiegelman è incentrato attorno alla questione della Shoah e presenta due storie che si intrecciano: in una Vladek Spiegelman racconta al figlio, Art Spiegelman stesso, la sua esperienza dell’Olocausto in Polonia, mentre nell’altra storia si narra del rapporto problematico tra i due.

Il primo volume, Mio padre sanguina storia (A Survivor’s Tale. My Father Bleeds History) narra le vicende dei genitori di Art fino alla loro deportazione ad Auschwitz ed introduce i problemi tra padre e figlio. Il secondo volume, intitolato E qui sono cominciati i miei guai (And Here My Troubles Began) narra invece la vita dei genitori di Art all’interno del campo di sterminio e i loro tentativi, una volta sopravvissuti, di ricostruirsi una vita prima in Svezia, poi in America, fino ad un brusco ritorno al presente narrativo.

Secondo Calabrese e Zagaglia la «prima ragione della notorietà di Maus è la complessità del suo impianto narratologico, in grado di mixare simultaneamente più livelli diegetici, moltiplicando il potenziale semantico ed espressivo di ciascuno di essi» (p. 19). In Maus la narrazione comprende due diversi piani temporali e ricorre a due narratori: «gli eventi della Seconda guerra mondiale in Polonia vissuti dal padre si dipanano fianco a fianco, a riquadri alternati, con quelli del 1980 vissuti dal figlio a New York, e la narrazione si sposta in avanti e indietro, con improvvise analessi e prolessi tra la storia intradiegetica della sopravvivenza di Vladek alla persecuzione nazista e i suoi racconti extradiegetici al figlio Art, metanarratore che sutura le due storie e crea Maus. Così il lettore entra in un labirinto degno di un racconto di Borges: Vladek è un narratore verbale intradiegetico, Art agisce sia come narratore extradiegetico del plot all’altezza cronologica del 1980, sia come narratore visivo che assume le narrazioni extra- e intradiegetiche in un blend di potente fascino» (pp. 30-31).

Gli studiosi sottolineano come la narrazione in Maus risulti decisamente complessa ed aperta ad interpretazioni differenti, sulla falsariga dei romanzi modernisti e postmodernisti. «Il metanarratore Art opera su diversi livelli […] e questo raffinato cocktail dei suggerimenti di un narratore onnisciente con le conoscenze del tutto limitate e anguste del personaggio (controfigura del lettore reale) influisce sulla nostra capacità di orientamento […] Questa multimodalità permette ancora una volta la giustapposizione della rappresentazione oggettiva e soggettiva, dell’eterodiegesi e dell’omodiegesi, del passato e del presente, del discorso tra i personaggi e del discorso “interiore” di un personaggio» (p. 31). Inoltre, il confine tra il livello narrativo di Vladek che riguarda la storia della Shoah ed il livello narrativo post-testimoniale di Art, riferito al problema della memoria storica, è offuscato da metalessi visive in cui si miscelano passato e presente.

Visto che il padre di Art racconta un frammento reale della storia della Shoah, Maus potrebbe essere pensato come visual life-narrative, storia orale-grafica; non a caso il primo volume è stato premiato come “biografia”. «In realtà, Maus è domiciliato in uno spazio intergenerico e intersemiotico e la sua stessa ricchezza espressiva dipende radicalmente da questa ontologica, immanente interstizialità: la voce di Vladek domina il testo e, come in ogni storia orale del folklore, solo attraverso la storia personale di Vladek il lettore può comprendere gli eventi storici descritti. L’universale è nel particolare, tanto quanto l’autobiografia si dissolve in una biografia» (p. 32).

Circa il ricorso semiotico agli animali presente in Maus, gli studiosi sottolineano come questo non abbia soltanto lo scopo di teriomorfizzare una società cinica e corrotta ma anche, in modo opposto, di «antropomorfizzare una violenza senza volto e senza ragionevolezza» (p. 34). Se la presenza di uomini teriomorfizzati palesa che ogni rappresentazione visiva è una finzione, ciò, suggeriscono Calabrese e Zagaglia, frantuma «il dogma formale del realismo operando, con gli strumenti semplici di un graphic novel, la complessiva “desantificazione dell’Olocausto” […] Le metafore animali funzionano proprio in virtù delle loro profonde incongruenze, dove i conti semantici sembrano non tornare mai: il lettore tende a dare un’interpretazione generalista di topi come persone, piuttosto che degli ebrei come topi, e ciò accade in quanto uno dei segni distintivi della tradizione animale nei fumetti sembra essere la “curiosa indifferenza verso la natura animale dei personaggi”» (p. 35). Nei fumetti meno dettagliata è la raffigurazione di un personaggio, più ci si apre all’universalità ed all’identificazione empatica dei lettori; la semplicità dei disegni in Maus contribuisce dunque alla “universalizzazione” dei topi.

Con la pubblicazione di Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gamba sulla terra (Jimmy Corrigan, the Smatest Kid on Earth), uscito prima come serial fiction (1993-2000), poi nella versione one-shot (2000), Franklin Christenson Ware, più noto come Chris Ware, si rivolge direttamente ad un pubblico che egli stesso definisce nell’introduzione al volume del 2000, dotato di sufficienti «mezzi per intrattenere un dialogo semantico soddisfacente con il teatro pittografico ivi offerto» (Ware, p. 3, trad. it.).

Il racconto grafico di Ware si presenta indubbiamente di lettura complessa, con un tipo di impaginazione degerarchizzata e labirintica, strutturato secondo un «double plot a sviluppo elicoidale ove si rincorrono due storie ambientate in epoche diverse» (p. 60). La prima storia, ambientata negli anni Ottanta del Novecento, racconta del solitario trentaseienne Jimmi Corrigan che si trova inaspettatamente a dover incontrare il padre mai conosciuto prima, la seconda, ambientata a fine Ottocento, narra invece del rapporto tra il nonno ed il bisnonno di Jimmi. In entrambi i casi si tratta di storie che affrontano il difficile rapporto padre-figlio, «con i padri [che] giocano sempre un ruolo negativo [mentre] i figli incassano passivamente i colpi inferti dal contesto sociale e al tempo stesso vi si mostrano resilienti» (p. 62).

L’impaginazione proposta da Ware risulta decisamente innovativa; la forte regolarità geometrica, infranta dall’introduzione di microvarianti, conferisce alla pagina un aspetto che Calabrese e Zagaglia definiscono «quasi carcerario, claustrale almeno quanto la vita del protagonista […] La direzione abituale di lettura […] è smentita, o almeno sottoposta a forti turbolenze, poiché ciascuna planche si presenta come una combinazione di blocchi quadrangolari, dove l’immagine di grandi dimensioni costituisce un blocco unitario, mentre un mosaico di quattro, sei, otto, dodici piccoli panels ne costituisce un altro» (p. 63). Altra caratteristica importante segnalata dagli studiosi è l’uso della simmetria che viene utilizzata da Ware per enfatizzare le «opposizioni binarie che strutturano l’evoluzione spazio-temporale della storia, come ad esempio interno/esterno, passato/presente, giorno/notte» (p. 63).

Particolarmente interessante risulta l’approfondimento che Calabrese e Zagaglia dedicano al rapporto di Ware con i supereroi della sua infanzia. Secondo i due autori è possibile cogliere un parallelismo parodico tra la figura del supereroe e quella del padre assente; per certi versi Ware ha bisogno di eliminare una volte per tutte la figura del supereroe, propria dei fumetti, per poter dar vita al graphic novel. Si tratterebbe di una rottura necessaria con il mondo dell’infanzia (con i fumetti e con la figura del padre, pur se padre-assente) al fine di poter divenire adulti (dunque, artisticamente, poter entrare nel mondo del graphic novel). Ware, nella sua narrazione grafica, mette in scena il suicidio di un supereroe nell’indifferenza generale con tanto di titolone sul giornale. «Periodizzando i supereroi, il graphic novel diventa […] lo specchio critico del contesto storico-sociale» (p. 66). A questo punto gli studiosi individuano nel kidult il particolare tipo di lettore capace di specchiarsi in tale «labirintica parodia” del fumetto più mainstream» (p. 66).

In effetti, stando alle indagini effettuate in diversi paesi europei, mente il lettore-tipo di romanzi è soprattutto di genere femminile e di età compresa tra i trenta ed i cinquantaquattro anni, quello di graphic novel è invece in maggioranza di genere maschile e di età compresa tra i quattordici ed i ventiquattro anni. Si tratta dunque un soggetto «in fase di formazione permanente, che alimenta la propria Bildung attraverso porzioni massicce di visual storytelling. Proprio come la ricezione del romanzo settecentesco rifletteva le ansie del ceto medio, i graphic novel rivelano oggi i bisogni dei kidults e le loro ansie predittive circa un futuro sempre più impredicabile, irretito solamente da progetti a tempo determinato: narrazioni adatte ai tempi labili e a spazi empatici, fatte per rappresentare individualità uniche, ciò che spiega l’ambientazione realistica degli intrecci, l’attualità dei temi e la loro rilevanza storica […] Le peripezie vissute dai protagonisti diventano agli occhi dei kidults una parabola, un momento di passaggio da cui si esce trasformati, dove il fatto eccezionale di cui l’intreccio parla diventerà il momento in cui prende corpo una nuova identità” (p. 93). Non è un caso, fanno notare i due studiosi, che l’eroe del graphic novel non si trovi mai alla fine della storia nella medesima condizione esistenziale del punto di partenza.

Eliminati dalle storie i supereroi tradizionali, i protagonisti di graphic novel come Jimmy Corrigan errano alla ricerca di una collocazione all’interno di un mondo instabile e precario «in cui lo stato di crisi sembra essere il centro propulsivo dell’esistenza» (p. 67). È dunque con tale retorica del fallimento che il graphic novel, secondo Calabrese e Zagaglia, ha surclassato, almeno dal punto di vista qualitativo, il fumetto e, soprattutto, pare essersi conquistato un futuro tutto da scrivere e disegnare.

The Sandman (1988-96) di Neil Gaiman è da molti considerato una pietra miliare nella costituzione del graphic novel; si tratta di una delle pubblicazioni degli anni Novanta del Novecento che maggiormente ha contribuito a trasformare il formato della pubblicazione e l’estetica della narrazione grafica allontanandola dal fumetto tradizionale.

Ad essere ripreso in questo caso è proprio un supereroe, seppur minore, degli anni Quaranta del Novecento, dotato della facoltà di entrare nei sogni degli individui per poi proteggere i bambini dagli incubi. Gaiman trasforma il personaggio totalmente; il suo «Sandman viola le regole relativamente a ciò che rende un personaggio popolare nel settore dei fumetti dominato dai supereroi. Invece di criminali da combattere e vite da salvare, la preoccupazione del protagonista è quella di mantenere “The Dreaming”, ossia l’infinito orizzonte psichico in costante cambiamento che visitiamo ogni notte durante il sonno […] Tutto ruota intorno alla lenta trasformazione psicologica del protagonista: Sandman è la personificazione dei sogni e delle storie, un essere metafisico che ha pieno governo sulla vita dell’umanità. Egli è originariamente presente come un essere immortale: lui e i suoi fratelli creature divine immortali che si chiamano Destino, Morte, Distruzione, Desiderio, Disperazione e Delirio – sono i sette Eterni che incarnano e regolano l’esistenza umana» (p. 85).

In Sandman si rintracciano due livelli narrativi: uno è riconducibile alle diverse storie indipendenti derivate dalle pubblicazioni mensili, e l’altro sembra ricombinare le diverse storie in un unico grande affresco del personaggio. Si tratta comunque di una narrazione non lineare che salta avanti e indietro nel tempo a velocità diverse. «Tematicamente, Sandman si focalizza sull’idea di cambiamento e dell’inevitabile necessità di adattarsi alle trasformazioni dai contesti storico-ambientali, tanto che le arcature narrative della prima serie muovono da un Sandman riluttante alla metamorfosi e bisognoso di apprendere l’arte dell’adattamento; passo dopo passo si trova di fronte a esperienze che sconvolgono le sue certezze e lo conducono a rompere le sue abitudini, sino a mettere in discussione le proprie decisioni passate e le proprie credenze» (pp. 86-87).

Uno dei fenomeni più rilevanti degli ultimi tempi nell’ambito della narrazione grafica è sicuramente quello di Zerocalcare (Michele Rech), autore che, formatosi nell’ambito dell’autoproduzione grafica, nell’ambiente dei centri sociali romani, nel 2012 pubblica prima l’albo La profezia dell’armadillo, poi il graphic novel Un polpo alla gola, ottenendo, in entrambi i casi, un notevole successo.

«Zerocalcare può essere definito il primo fenomeno di una cultura giovanile italiana degli anni Dieci del nuovo millennio, capace di raggiungere un pubblico vasto ed eterogeneo ricorrendo ad un linguaggio inventato, uno slang giovanile romanesco postdialettale, che ricorda la lingua meticcia anglo-polacca di Vladek in Maus. Manifesto di una cultura pop che sa rappresentare un’ampia fascia di lettori e lettrici, l’abilità di Zerocalcare è quella di fotografare la condizione giovanile in cui i lettori si immedesimano totalmente: nelle storie di Zerocalcare è rappresentata la quotidianità di un trentenne contemporaneo, disoccupato, nevrotico e cinico, che viene messo alla prova e fallisce regolarmente affidandosi però a una coscienza ironica» (p. 132). Il protagonista di questi graphic novel è lo stesso Zerocalcare che si presenta, sostengono i due studiosi, come una sorta di hikikimori nostrano ed il punto di forza dell’autore sarebbe da ricercarsi soprattutto nel forte rapporto con i lettori.

Kobane Calling si proietta al vertice delle classifiche dei libri di fiction più venduti «anche se paradossalmente ciò avviene con un testo di graphic journalism declinato in prima persona e a focalizzazione interna, per cui la realtà di Kobane è restituita attraverso gli occhi, le nevrosi, i dubbi e le difficoltà oggettive del protagonista-autore. Per questo, il graphic reportage alterna vignette dal realismo quasi documentario a passaggi “cartoonati” per rendere al meglio l’iperrealismo della situazione» (pp. 132-133).

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