Golfo Persico – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il nuovo disordine mondiale / 25: Fratture della guerra estesa https://www.carmillaonline.com/2024/04/15/il-nuovo-disordine-mondiale-25-fratture-della-guerra-estesa/ Mon, 15 Apr 2024 20:00:13 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=81870 di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e [...]]]> di Sandro Moiso

«Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, pp. 170, 18 euro

«Grand Continent» è una rivista online consacrata alla geopolitica, alle questioni europee e giuridiche e al dibattito intellettuale con lo scopo di “costruire un dibattito strategico, politico e intellettuale”. Nata nell’aprile 2019, è pubblicata dal Groupe d’études géopolitiques, associazione indipendente fondata presso l’École normale supérieure nel 2017. A partire dal 2021 è integralmente pubblicata in cinque lingue diverse: francese, tedesco, spagnolo, italiano e polacco.

Gli articoli sono scritti da giovani ricercatori e universitari, ma anche da esperti e intellettuali di vario indirizzo, come: Carlo Ginzburg, Henry Kissinger (†), Laurence Boone, Louise Glück, Toni Negri(†), Olga Tokarczuk, Thomas Piketty, Élisabeth Roudinesco e Mario Vargas Llosa .
«Grand Continent» ha animato un ciclo di seminari settimanali presso l’École normale supérieure, nonché un altro di conferenze trasmesse da Parigi in numerose città europee e divenuto un libro, Une certaine idée de l’Europe, pubblicato dall’editore Flammarion nel 2019 (con scritti di Patrick Boucheron, Antonio Negri, Thomas Piketty, Myriam Revault d’Allonnes e Elisabeth Roudinesco). Gli articoli della rivista sono stati ripresi in numerosi quotidiani e media internazionali.

Fratture della guerra estesa è il secondo volume cartaceo di «Grand Continent», il primo pubblicato anche in italiano. Uscito per la LUISS University Press, pur presentando contenuti per molti punti di vista ampiamente discutibili, si rivela comunque di grande interesse per chiunque voglia affrontare i problemi connessi all’attuale età della guerra e della crisi dell’ordine occidentale del mondo seguito sia alla fine della guerra fredda e alla fine dell’URSS che alla successiva crisi apertasi con la fine della globalizzazione o, almeno, di ciò che l’Occidente intendeva come tale.

Il titolo della rivista rinvia al Grande Continente, intendendo con questa definizione l’Europa nella sua possibile concezione francese (sottintendente per questo una grandeur che viene estesa all’intera politica continentale), sia nelle sue scelte economiche che politiche e strategico-militari.
Il contenuto, in questo numero, è ancora incentrato sulla guerra in Ucraina, essendo uscito, in Italia, proprio nel mese di ottobre 2024, a ridosso dell’azione militare di Hamas e delle sue conseguenze politiche, militari e umanitarie. Ma pur mantenendo il baricentro sulla frontiera orientale d’Europa, allarga comunque lo sguardo al rapporto tra guerra, tecnica, tecnologia e tecnocrazia (si vedano gli articoli da pagina 69 alla 113) e alla dottrina della “guerra ecologica” con gli articoli compresi tra pagina 117 e pagina 154.

Un panorama della guerra che viene oppure, a seconda dei punti di vista, che è già in atto che pone comunque al centro, fin dall’introduzione di Gilles Gressani e Mathéo Malik, il progressivo spostamento della centralità politica, militare ed economica dall’Occidente, e in particolare dall’Europa, ad altre aree, non solo geografiche.

Tra la pandemia e l’esplosione delle rivalità geopolitiche, un ordine è crollato; dal lento muoversi delle placche tettoniche, un nuovo mondo emerge, senza che si possa ancora definire la sua forma. Interregno: intervallo di tempo fra la morte, l’abdicazione, la deposizione di un re, o altro sovrano, e l’elezione o la proclamazione del successore. Periodo di vacanza, di passaggio, di transizione, di crisi. Interruzione di durata variabile. Tendenze di un mondo in profonda ristrutturazione, che però non siamo in grado di descrivere, trasformare o fermare1.

E’ una considerazione concisa e importante allo stesso tempo, quella appena citata. Una considerazione che riguarda l’ordine imperiale e geopolitico del mondo, in sempre più rapida trasformazione. Una considerazione in cui l’unico elemento assente è quello della lotta di classe che, comunque, tarda ancora a manifestarsi nelle forme e modalità ritenute canoniche. Motivo per cui, esattamente come per l’ordine geopolitico e imperiale messo in crisi, anche tanta Sinistra, sia istituzionale che (pretesa) radicale o antagonista, si è trovata impreparata, sorpresa e confusa una volta messa di fronte alla guerra. Fino al punto di schierarsi apertamente, e senza alcuna capacità previsionale, con uno dei fronti in lotta.

Ecco allora che la rivista qui recensita, che pure tifa per una delle parti già coinvolte nella lotta “dinastica”, in corso su scala planetaria da tempo, ma esplosa davanti a tutti a partire dall’invasione russa dell’Ucraina, ovvero per l’Europa così come fino ad ora ha voluto fingere di rappresentarsi, può costituire un utile punto di riferimento per una riflessione che voglia escludere qualsiasi complottismo o interpretazione ideologizzata a proposito del nuovo disordine mondiale.

Nuovo disordine mondiale in cui tutti gli attori statali, economici e militari, pur fingendo grande unità di intenti con i presunti vicini e alleati, giocano in realtà per se stessi. In una partita il cui disordine aumenta man mano che tutte le regole precedentemente stabilite dal Risiko occidentale vengono abbandonate, tradite o ridefinite da ogni giocatore senza accordo alcuno con tutti gli altri players. Si tratti di Unione Europea, di NATO o di Brics (solo per sintetizzare in poche sigle), nessuno sembra davvero affidarsi totalmente agli alleati. In particolare nei confronti di quelli occidentali ed europei. Come si sottolinea ancora nell’introduzione:

Nella guerra che oppone la Russia all’Ucraina, i tre quarti della popolazione mondiale scelgono di non scegliere. Il non allineamento resta una leva potente per difendere i propri interessi. Dall’India di Modi al Brasile di Lula, passando per l’Indonesia di Jokowi o per le potenze del Golfo, delle nuove potenze geopolitiche formulano nuove priorità. Hanno dei mezzi, delle ambizioni a volte immense. Sfrutteranno tutte le estensioni della guerra per guadagnare il riconoscimento dei loro interessi. Utilizzeranno anche dei “modelli di crescita elaborati nel secolo scorso, in particolare la politica industriale e il capitalismo politico”. Bisogna studiarli da vicino per capire la loro forza di attrazione sul resto del mondo, ai danni di un continente ancora una volta traumatizzato, finalmente – e definitivamente? – provincializzato2.

E tutto ciò, che non può far altro che acuire il disordine e farlo precipitare in una guerra “grande” che già non si sa più se sia la Terza o la Quarta guerra mondiale e che più che essere la manifestazione di un “piano” o di più “piani” organizzati, è invece quella di una confusione generale di intenti e obbiettivi che non coincidono affatto, ma che confliggono tra di loro, anche all’interno dei maggiori paesi coinvolti.

Si badi, per esempio, alle esternazioni di Macron sulla volontà di inviare truppe in Ucraina: è forse un tentativo di compattare la Nazione in vista di un nuovo ruolo geopolitico della Francia oppure quello di mostrare che la grandeur della stessa (vecchio sogno di De Gaulle) potrebbe sostituirsi alla presenza americana, soprattutto dal punto di vista militare in Europa, dopo le dichiarazioni di disimpegno del tutt’altro che pacifista Trump in caso di vittoria di quest’ultimo alle prossime elezioni presidenziali?

Oppure è una sfida al Regno Unito e alla Germania sul piano militare e politico per chi davvero, in Europa, dovrà portare i pantaloni “mimetici” in casa? E tutte queste possibili considerazioni come possono condurre ad un reale impegno militare comune europeo e ad una centralizzazione del comando della forze armate dei paesi della UE?

Senza contare l’eterna conflittualità con l’italietta dei piani Mattei e dei sotterfugi per rimanere nell’Africa Sub-sahariana a discapito della presenza politica e militare francese nella stessa area. Oggi resa ancor più critica dopo la vittoria elettorale in Senegal di una fazione politica a lungo perseguitata da un Presidente particolarmente fedele all’Occidente e alla Francia.

Ridurre il tutto al conflitto per il petrolio sarebbe enormemente fuorviante. Certo il conflitto per l’oro nero insanguina il pianeta fin dalla prima guerra mondiale ed è giunto, oggi, fin davanti alle spiagge di Gaza, ma sottolineare un unico movente per il disordine che attanaglia il pianeta, nelle sue forme più sanguinarie e distruttive, è davvero troppo riduttivo e fuorviante. Tenendo anche conto del fatto che, come si segnala ancora nella stessa introduzione: «L’importazione di chip da parte della Cina – 260 miliardi di dollari nel 2017, anno dei primi passi di Xi a Davos – è stata di gran lunga superiore alle esportazioni di petrolio dell’Arabia Saudita o all’export di automobili della Germania. Le somme che la Cina spende ogni anno per l’acquisto di chip sono superiori a quelle dell’intero commercio globale di aerei. Nessun prodotto è più importante dei semiconduttori nel commercio mondiale»3.

Pertanto, ancora solo a titolo d’esempio, la questione Taiwan va ben al di là del semplice interesse “nazionalistico” poiché, come ormai tutti dovrebbero sapere, l’isola rivendicata dalla Cina è il primo produttore mondiale di circuiti integrati. Settore, quest’ultimo, rispetto cui Pechino sta cercando di raggiungere una posizione di autonomia sia attraverso il controllo delle cosiddette “terre rare” necessarie per la produzione degli stessi, e del settore informatico ed elettronico più in generale, sia attraverso ciò che Xi definì proprio nel 2017 come l’”assalto ai valichi” ovvero al monopolio o ai monopoli della produzione dei semiconduttori, particolarmente importanti ormai anche dal punto di vista militare in un contesto in cui la Cina cerca da anni, in parte riuscendoci, di superare le forze armate americane sul piano dell’ammodernamento e nell’utilizzo dell’AI.

Se l’unico obiettivo della Cina fosse quello di giocare un ruolo maggiore in questo ecosistema (il settore dei semiconduttori – NdR), le sue ambizioni avrebbero potuto essere soddisfatte. Ma Pechino non sta cercando una posizione migliore in un sistema dominato da Washington e dai suoi alleati. L’invito di Xi a “prendere d’assalto le fortificazioni” non è una richiesta di una quota di mercato leggermente più alta. L’ambizione è diversa: si tratta di ricreare interamente l’industria globale dei semiconduttori, non di integrarsi al suo interno […] E’ una visone economica rivoluzionaria, con il potenziale di trasformare profondamente l’economia globale e i suoi flussi commerciali […] E non sono solo i profitti della Silicon Valley a essere minacciati: se lo sforzo cinese verso l’autosufficienza nei semiconduttori avrà successo, i suoi vicini, le cui economie dipendono per lo più dalle esportazioni, ne risentiranno ancora di più […] La posta in gioco è il più fitto insieme di catene di approvvigionamento e flussi commerciali del mondo, le filiere dell’elettronica che hanno sostenuto la crescita economica e la stabilità politica dell’Asia nell’ultimo mezzo secolo […] Nemmeno un populista come Trump avrebbe potuto immaginare una revisone più radicale dell’economia globale4.

Ma, ancora una volta, questo è solo uno degli elementi di confronto e conflitto, sospeso tra l’economico e il militare, che agitano le acque, non solo del Mar Rosso o del Golfo Persico. Motivo per cui, anche se per le ragioni precedentemente esposte, «Grand Continent» non poteva ancora parlarne, un ultimo sguardo, e forse anche qualcosa di più, va concesso a quanto sta capitando a Gaza e dintorni. A partire dall’ambigua posizione statunitense nei confronti di Isarele e del conflitto e ai massacri condotti nella striscia. Posizione che, con l’astensione (e non il veto) sulla mozione approvata dal consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il 25 marzo, più che dimostrare una ben organizzata strategia statunitense del Medio Oriente dimostra invece come il percorso ambiguo e altalenante sia dovuto più a indecisioni e debolezze, sia nei confronti di un elettorato interno stanco di Biden che di un mastino come Netanyahu che, nel suo disperato attaccamento al potere, morde la mano del suo attuale “padrone” sperando nell’arrivo, a novembre, di un altro meglio disposto (per ora soltanto a parole), più che a un ben mirato piano di controllo delle contraddizioni dell’area.

In un contesto in cui, sia con un presidente democratico che repubblicano, gli Stati Uniti dovranno tenere sempre più conto delle tendenze centrifughe degli alleati arabi e, allo stesso tempo, della sempre più forte presenza economica e diplomatica cinese nell’area del Golfo. Con un progressivo allontanamento da Israele come unico garante degli interessi americani nell’area medesima.

In fin dei conti la confusione israeliana nell’azione a Gaza è lo specchio della confusione americana e occidentale in genere. Confusione che, attualmente, è in grado di garantire soltanto il diffondersi di un paesaggio di rovine da Gaza City a Kiev e Belgorod senza altra prospettiva del protrarsi e l’inasprirsi di una guerra che, in assenza di una diversa azione delle classi meno abbienti contro la stessa, seguirà il suo corso fino all’estensione di un panorama di rovine su scala planetaria e da cui uscirà, forse, un nuovo sovrano.

In questo senso le riflessioni e i contributi contenuti nella rivista in questione possono essere di stimolo anche per un lavoro politico che non sia soltanto di passiva accettazione dell’esistente o, al contrario, di interpretazione inutilmente e dannosamente ideologica degli avvenimenti e dei cambiamenti politici, militari ed economici attualmente in corso.


  1. G. Gressani e M. Malik, Introduzione a «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, LUISS University Press, Roma 2023, p. 8.  

  2. G. Gressani, M. Malik, op. cit., p. 11.  

  3. G.Gressani e M. Malik, op. cit., p.12.  

  4. C. Miller, Da Taiwan al metaverso: infrastrutture dell’iperguerra in «Grand Continent», Fratture della guerra estesa. Dall’Ucraina al metaverso, op. cit., pp.94-95.  

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La bomba iraniana https://www.carmillaonline.com/2015/04/06/la-bomba-iraniana/ Mon, 06 Apr 2015 19:57:00 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21799 di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità. La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da [...]]]> di Sandro Moiso

iran 1 Rovesciando la locuzione latina “Si vis pacem, para bellum”, si potrebbe affermare che se si vuole la guerra occorre parlare di pace. Apparentemente un paradosso, come il primo tra l’altro, ma contenente, alla luce del recente accordo di Losanna con l’Iran, un cospicuo nucleo di verità.
La bomba iraniana cui fa riferimento il titolo, infatti, non è quella atomica presunta, vera o anche solamente possibile legata alla realizzazione o meno del programma nucleare iraniano, quanto piuttosto quella rappresentata dal ritorno sulla scena politica, economica e militare internazionale dell’Iran e del formale riconoscimento della sua importanza da parte dei maggiori paesi occidentali.

Che questo fosse già inscritto negli avvenimenti degli ultimi anni e, in particolare, degli ultimi mesi, a seguito del riacquistato ruolo di interlocutore politico e militare dell’Iran e degli sciiti in Iraq e nello scontro con lo Stato Islamico di Abū Bakr al-Baġdādī, non poteva e non può lasciare spazio ad alcuna ombra di dubbio, ma l’accordo raggiunto nei primi giorni di aprile, e che andrà definitivamente confermato a giugno, apre la porta ad una serie di interrogativi di carattere geopolitico, economico e militare riguardanti gli sviluppi possibili dei rapporti tra mire imperialistiche, nazioni e classi nel quadro mediorientale.

E’ chiaro, intanto, che intorno al tavolo delle trattative non erano presenti soltanto i rappresentanti degli Stati Uniti e dei paesi dell’Europa Occidentale, ma anche i fantasmi del mai sopito antagonismo di Israele e dei Paesi del Golfo, e dell’Arabia Saudita in particolare, nei confronti della Repubblica islamica Iraniana.1 Tutti motivati da interessi parzialmente diversi e solo in superficie pienamente convergenti i primi, ma anche profondamente collegati tra di loro quelli dei secondi, almeno in questa fase. Ma proviamo a capire perché.

L’Iran è stato per secoli un fattore determinante per le politiche imperiali, statuali ed economiche di quell’area strategica che va dal Medio Oriente all’area transcaucasica fino all’Asia Centrale e dal Golfo Persico all’Oceano Indiano. Uno dei quadranti più importanti dal punto di vista geopolitico dello scacchiere mondiale. L’impero persiano aveva infatti costruito su quell’area, che arrivò per un certo periodo fino al Mediterraneo, la più grande realtà statuale dell’antichità prima dell’impero romano.

Ora se per l’italietta post-risorgimentale, mussoliniana e democristiana il Mare Nostrum ha sempre rappresentato un illusorio e pericoloso richiamo alla potenza del passato, proviamo ad immaginare quanto quell’antica funzione unificatrice di popoli possa essere rimasta impressa nel genoma della nazione persiana. Unita al fatto che alcuni di quei popoli che la fondarono nel mondo antico, in particolare i Parti, risultarono a lungo invincibili anche per grandi potenze successive come quella romana ad Occidente e quella dell’impero cinese ad Oriente.

Ruolo millenario, interrotto e ripreso più volte tra invasioni e guerre che sottomisero momentaneamente o percorsero il territorio iraniano, che lo Scià Mohammad Reza Pahlavi non dimenticò di sottolineare con le celebrazioni organizzate a ridosso di quella rivoluzione detta khomeynista che l’avrebbe rovesciato nell’inverno tra il 1978 e il 1979, dopo decenni di repressione sanguinosa di qualsiasi opposizione seguita al colpo di stato che nel 1953 aveva allontanato dal potere e condannato Mohammad Mossadeq, colpevole del primo tentativo di nazionalizzazione del petrolio iraniano e di democratizzazione della monarchia Pahlavi, istituita nel 1925 da Reza Khan padre di Mohammad Reza.

Monarchia che avrebbe costituito per decenni il vero architrave della strategia anglo-americana in quella parte del mondo: a cavallo tra il petrolio mediorientale e l’odiata Unione Sovietica. Architrave che la rivoluzione khomeynista fece saltare, contribuendo a spingere sempre di più Stati Uniti e Israele gli uni nelle braccia dell’altro e viceversa. E qui sta proprio uno dei motivi più profondi dell’attrito tra le due potenze locali: due architravi nello steso spazio non possono esserci. O l’uno, Israele, oppure l’altro, l’Iran.

Anche se occorre dire che nella strategia americana è intuibile il solito divide et impera su cui l’egemonia statunitense cerca ancora di basare il proprio potere, in diverse aree del globo, nell’epoca del suo tramonto. Controbilanciando le sempre più esose richieste di fedeltà alla causa sionista provenienti dal governo di Israele con la riapertura del dialogo con il “demonio” iraniano.
Così che le roboanti dichiarazioni anti-israeliane dei governanti di Teheran finiscono col rispecchiare le stesse ragioni profonde delle paure e dell’allarmistica propaganda anti-iraniana di Benjamin Netanyahu. Mentre non è nemmeno escluso che la partecipazione delle armi iraniane al conflitto con l’Is sia visto dalla diplomazia della Casa Bianca come una ripetizione del conflitto tra l’Iraq di Saddam e l’Iran dell’ayatollah Khomeyni che, negli anni ottanta, dissanguò l’allora appena nata Repubblica Islamica.

Difficilmente però i governanti iraniani e la borghesia “liberale”, che abbiamo visto festosamente manifestare in questi giorni nelle strade del paese, si lascerebbero coinvolgere in un conflitto ai propri confini senza esser sicuri di portare a casa un risultato. Magari non solo militare, ma anche diplomatico ed economico, come sembra essere l’attuale accordo raggiunto tra i 5 + 1 di Losanna. Anche se, tra il 1980 e il 1988, la fedeltà delle Forze Armate e il rinnovato spirito nazionale2 permisero all’Iran di tener testa all’aggressione di un Iraq armato e finanziato dagli Stati Uniti (dopo il disastroso tentativo di liberazione degli ostaggi americani dell’ambasciata di Teheran messo in atto dal presidente Jimmy Carter), dall’Egitto, dai Paesi del Golfo Persico, dall’Unione Sovietica e dai Paesi del Patto di Varsavia, dalla Francia, dal Regno Unito, dalla Germania, dal Brasile e dalla Repubblica Popolare Cinese (che vendeva però armi anche all’Iran).

Unica e autentica rivoluzione nazionale democratica avvenuta in tutta l’area,3 la rivoluzione khomeynista sembrò condividere, almeno in parte, il destino e l’involuzione della rivoluzione russa (anch’essa nazionale e democratica ancor prima che proletaria) del 1917. Vittoria rapida degli insorti, caduta del regime autoritario precedente, scatenamento di una guerra internazionale contro la neonata repubblica, morte del leader (Lenin nel 1924, nel caso della Russia, e Khomeyni nel 1989, nel caso dell’Iran), restrizione delle libertà democratiche per far fronte alle difficoltà economiche e all’inevitabile risistemazione politico-economica del paese.

Questo parallelo, per quanto possa apparire ad alcuni blasfemo, può servire a comprendere sia le chiusure di spazi democratici all’interno dell’Iran nel corso degli anni successivi, dettate spesso da motivi più politici che religiosi, sia l’uso estenuante di parole d’ordine come quella della “distruzione dello Stato di Israele” sbandierata ai fini del consenso interno, così come già Stalin negli anni trenta aveva costantemente sventolato la bandiera della lotta al capitalismo, sia, last but not least, l’orrore delle petrolmonarchie del Golfo nei confronti di una rivoluzione che per prima aveva aperto la strada alle libere elezioni e ad una maggiore età di 16 anni (solo recentemente portata a 18) in un paese che custodiva e continua a custodire nelle sue viscere le seconda riserva mondiale di petrolio e di gas.

Sì, perché l’altro implacabile avversario dell’Iran è costituito dall’Arabia Saudita e dall’insieme di regimi sunniti del Golfo, unici stati dell’area ad applicare interamente una presunta legge coranica ricca di fustigazioni in pubblico, taglio di teste in piazza e sottomissione totale della donna (al contrario dell’Iran dove negli anni accademici 2005-2006 e 2009- 2010, solo per fare un esempio, il numero di donne iscritte all’Università è stato più alto di quello degli uomini). Terrorizzati anche solo dall’ipotesi di un cambiamento democratico al loro interno e che fingono tuttora di sostenere le sempre presunte primavere arabe affinché gattopardescamente tutto cambi senza cambiare nulla.

Petrolio e rivoluzione nazionale, più che la tradizionale contrapposizione tra sunniti e sciiti, dividono Iran e Arabia Saudita in tutto il quadrante mediorientale: dalla Palestina, al Libano, alla Siria e fino a ciò che resta dell’Iraq. E per capirlo basta guardare ai differenti attori che le due forze contrapposte appoggiano sul campo: i movimenti nazionali di Hamas in Palestina (anche se, guarda caso, sunnita) e Hizbullah in Libano e Siria da parte dell’Iran e la fu al-Qaeda e l’esercito del califfato islamico da parte dei paesi del Golfo in tutti i settori dell’attuale scacchiere di guerre e guerriglie africane e mediorientali.

L’altra grande differenza è che con i suoi 29 milioni di abitanti (di cui alcuni milioni di proletari immigrati dall’estremo oriente) l’Arabia Saudita ha da vendere all’Occidente quasi soltanto il suo petrolio e la promessa dei suoi investimenti nelle economie europee e americane, mentre l’Iran con i suoi 78 milioni di abitanti (che supereranno i 100 nei prossimi decenni) oltre che per le materie prime può costituire un mercato interessante per le merci e i capitali occidentali, a caccia di paesi già industrializzati in cui investire.

E questo è l’altro, e non secondario aspetto, degli accordi di Losanna; quello per cui abbiamo visto sostanzialmente le folle festanti nelle strade di Teheran: la fine dell’embargo e la ripresa dei commerci e dei finanziamenti tra aziende iraniane ed aziende e banche occidentali. La parte dell’accordo, cioè, che forse interessa di più anche agli europei. Non ultima la nostra italietta che dai 7,2 miliardi di euro che aveva di interscambio con quel paese nel 2011 è passata a 1,6 miliardi nel 2014 grazie anche alla politica delle sanzioni.

Da sempre privilegiato, fin dai tempi di Enrico Mattei, nei rapporti commerciali con l’Iran, sia sul piano energetico che militare ed industriale, il nostro paese spera oggi di tornare ad un interscambio valutabile intorno agli 8 miliardi di euro annui. E questo spiega anche bene l’entusiasmo dimostrata dall’ Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, nei confronti del trattato firmato a Losanna.

Follow the money! E prima o poi troverete anche la guerra perché, se la prima e fin troppo essenziale sintesi finora qui esposta dovesse rivelarsi vera, è chiaro che tutto ciò non potrà far altro che aumentare, invece che contribuire a far diminuire, la conflittualità nell’area mediorientale e nord africana. Rafforzando da un lato i tentativi arabo-sauditi ed israeliani di limitare, se non distruggere, la rinnovata potenza iraniana e dall’altro fornendo ottimi motivi per il rinnovato orgoglio nazionale e per il programma di trasformazione socio-economica e politica dello stesso scacchiere necessario al rafforzamento della società, dell’economia e dell’industria iraniane.

iran 2 La rinnovata spinta iraniana potrebbe essere il motore di una modernizzazione dell’area che avrebbe nella Palestina rifondata, in Libano, nella vicina Siria e in Iraq una base per una diversa distribuzione di poteri e compiti economici. Soltanto per fare un esempio: l’Iran ha ancora oggi un 23% della popolazione impegnata nell’agricoltura, la quale soffre, come del resto gran parte della società iraniana, a causa della scarsità di risorse idriche; in un paese in cui il 65% del territorio è considerato arido, il 20% semi-arido e solamente il 25 % è considerato arabile, mentre per il resto è composto da zone desertiche o da aree montuose. Proviamo quindi ad immaginare cosa possono rappresentare per l’Iran le acque della Mesopotamia e delle alture del Golan. Ma qui si torna, obbligatoriamente, al conflitto con Israele e alla costante caccia a nuove risorse idriche messa in atto dallo stato sionista. Fin dai tempi della Nabka, ovvero della cacciata dei palestinesi dalle loro terre.

In tutta l’area le ferite dei trattati successivi alla fine del primo conflitto mondiale sono ancora aperte: territoriali, etniche, economiche e sociali. Le frasi fatte e i facili slogan non basteranno certo a dirimere tanti e tali problemi e contrasti, tanto meno le dichiarazioni di principio, le dichiarazioni di intenti oppure le fin troppo facili contrapposizioni religiose e culturali. Mentre i cannoni faranno sentire ancora a lungo e sempre di più la loro voce in tutta l’area. Come già anche nello Yemen sta avvenendo, vedendo contrapposti da un lato i ribelli houthi, filo-iraniani, e dall’altro Egitto ed Arabia Saudita, affiancati da Stati Uniti e formazioni qaediste, a sostegno del governo fantoccio in carica.

Senza poi contare che al quadro fin qui delineato andrebbe ancora aggiunto il ruolo ambiguo della Turchia di Erdogan: giovane potenza industriale che con un numero di abitanti simile a quello dell’Iran mira anch’essa a far rivivere l’antico sogno imperiale ottomano tra regioni caucasiche, Mar Nero, Mediterraneo e gran parte del Vicino Oriente. Potenziale avversario “storico” dell’Iran, il paese dei turcomanni vive però oggi una forte contraddizione politica tra una borghesia dinamica, nazionalista e laica e un governo che fonda la sua forza sugli strati sociali più arretrati della campagna, dei bazar e delle città, sventolando un integralismo che lo spinge poi a sbilanciarsi pericolosamente a favore dello Stato Islamico, senza dichiararlo ma cogliendo in esso un ottimo alleato per liquidare le frange più avanzate della resistenza curda.

Far finta di non vedere o ignorare tutto ciò oppure, peggio ancora, schierarsi con gli imperialismi coinvolti o con i loro rappresentanti costituirebbe un autentico suicidio, non soltanto politico. Per tutti.


  1. Per tranquillizzare i quali il Pentagono ha affermato di aver “potenziato e testato la più grande bomba “bunker buster” del proprio arsenale, capace di colpire barsagli sotterranei o pesantemente difesi, quindi di distruggere o disattivare anche i siti nucleari iraniani più protetti qualora l’accordo sul nucleare con Teheran non venisse rispettato e la Casa Bianca decidesse di intraprendere un’azione militare” (USA, pronta una superbomba se l’accordo con l’Iran fallisse, Repubblica.it, 4 aprile 2015)  

  2. Basato anche su una solida coesione tra le varie etnie, tra le quali la principale è proprio quella persiana con il 65% della popolazione e caratterizzata anche da una quasi totale assenza della divisione in clan e tribù che invece costituisce ancora oggi un aspetto importante di gran parte delle società arabe, se non di tutte  

  3. Occorre tener conto del fatto che i cambiamenti di regime istituzionale avvenuti in Egitto, Libia e Iraq erano stati tutti frutto di colpi di stato militari più che di vere e proprie rivolte di popolo, come invece fu in Iran dove milioni di iraniani lottarono scesero in piazza per anni fino alla definitiva caduta dello Scià nel gennaio del 1979. Paragonabile forse soltanto alla nascita della nazione algerina, ma caratterizzata, quest’ultima da una componente anti-coloniale assente quasi del tutto nel caso dell’Iran.  

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