Golem – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 11 Apr 2025 20:00:20 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 5 https://www.carmillaonline.com/2024/12/14/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-5/ Sat, 14 Dec 2024 21:00:28 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85708 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (II)

Ormai – siamo circa a metà del romanzo – il lettore ha (o dovrebbe aver) capito che ci troviamo in una delle grandi fantasie romanzesche dell’Occidente moderno sul tema del Doppio, mixata con robuste dosi di spunti modernistici (la “coscienza”/vita interiore, inconscio e subconscio, il sogno, il rimosso, un protagonista più o meno malato o pasticcione in balia degli eventi), una certa quantità di suggestioni esoteriche – ma soprattutto mistiche, nel recupero un po’ sincretico di varie tradizioni, compresa quella spirituale della kabbalah – e di critica di costume coi soliti bersagli di Meyrink. Quest’ultimo aspetto troverà sviluppo soprattutto nelle seconda parte che ci avviamo ad affrontare – con critiche e satira durissimi sulle agenzie di ordine pubblico, il potere, le istituzioni. Quelle robe insomma che piacciono tanto agli eredi esoterico/politici del Gruppo di Ur che a tutt’oggi cercano di annettersi l’autore (nella ola di un certo fandom nerd) senza neppure rendersi conto della contraddizione. Il che la dice lunga sulla accuratezza, serietà e lucidità di certa critica nostrana.

A questo punto la storia ha un brusco strappo in avanti, tanto che al narrante sembrano passati mesi. Mentre Pernath, da raffinato intagliatore di pietre preziose, vagheggia di riprodurre sulla selenite il volto di Mirjam – invece che, come inizialmente pensato, il dio egizio Osiride e l’Ermafrodito del libro Ibbur – al contempo medita sulla propria solitudine: di certe cose può parlare solo con Hillel… ma piomba lì Angelina, sconvolta. Wassertrum ha raggiunto il capezzale di Savioli e vuole che si tolga la vita minacciando altrimenti lo scandalo sulla sua amante. La dama è pronta a rivelare tutto al marito, pur di salvare la vita dell’amato, ma Pernath, baciandola, le spiega che le lettere compromettenti sono in salvo. Sollievo entusiastico di lei.

Pernath apprenderà poi da Charousek che Wassertrum aveva cercato le carte. Lo studente finisce con il confessare il segreto dell’odio che lo anima, Wassertrum era suo padre e ha costretto sua madre a cedergli per poi venderla a un postribolo, grazie al fatto che il rigattiere “è in combutta con funzionari della polizia”. L’orrido e tormentato figuro l’ha venduta quando ha scoperto di amarla…

Quella però di donare una gemma incisa a Mirjam si dimostra un’operazione complessa; la povertà di lei non permette che accetti facilmente. Pernath cerca di spiegarle che deve tanto al dono interiore offerto da Hillel, e finisce col raccontarle la propria storia – in modo più agevole di quanto sentisse di poter fare con il suo eccelso padre. Un personaggio di statura troppo elevata persino per la figlia: alla morte della moglie che pure amava molto, non era riuscito a condividere davvero la terribile sofferenza della figlia. Mirjam vive nell’attesa di un miracolo, vedendo in esso il nocciolo più essenziale delle Scritture (potremmo parlare di Provvidenza): e sa che un giorno sarà ridestata. Ma aiutarli materialmente – come Pernath vorrebbe fare – significherebbe toglier loro la possibilità di vivere un miracolo…

Appare Hillel, che in presenza di sua figlia dà a Pernath del lei, marcando un distacco. Solo quando sono soli gli chiede se intenda consultarlo “sulla faccenda riguardante la giovane signora”. Ha saputo che ha dato dei soldi a Charousek e lo mette in guardia dal cercare di risolvere le situazioni in quel modo; quanto alla giovane dama, non gli pare sia minacciata al momento da pericoli e ritiene sia meglio non far nulla. Mai gli ha “parlato con un tono così freddo e minaccioso” e Pernath non capisce il perché.

Rientrato in casa, vi avverte una tensione incomprensibile e scivola in una sovraeccitata esperienza onirica. Una strana creatura grigia, con un globo di vapori al posto della testa, gli tende con insistenza dei grani simili a fagioli: “Che avrei dovuto farne?”. Pernath sente una responsabilità immane pesare su di lui… “Due piatti della bilancia, ognuno gravato dal peso di un emisfero del mondo, sono sospesi in qualche parte del Regno delle Cause, intuii – quello su cui gettassi un granellino, tracollerebbe al suolo”. E se non scegliesse, sarebbe come respingere i grani… Poi, in una notte inquieta in cui Wassertrum armeggia imprecando nell’atelier e nella visione lunghe file di “rigide maschere morte” – gli antenati di Pernath – culminano in un ultimo volto, quello del golem, appaiono intorno a lui due schiere, abbigliate l’una di violetto, l’altra di nero e rosso: capisce che dovrà prendere una decisione. Colpisce dunque la mano dello spettro coi grani, che rotolano per terra: le figure del cerchio rosso spariscono, quelle del blu sollevano in alto i grani…

Una tempesta si abbatte allora sulla città e una voce accanto a Pernath lo invita a restare calmo, “oggi è la Lelschimurin, la notte della Difesa”. Poi echeggia la frase “Colui che cercate non è qui”, il primo che ha parlato mormora qualcosa in cui ricorre il nome Enoch, cioè l’iniziato, e una delle figure fa comparire sul petto del Nostro la frase in caratteri prima latini, poi diversi e sconosciuti, CHEBRAT ZEREH OR BOQER (più o meno “Confraternita dei discendenti della luce del mattino”): allora Pernath cade in un sonno profondo senza sogni. Inevitabile pensare alla quantità di gruppi iniziatici cui s’era affiliato Meyrink, ma qui il contesto – è bene sottolineare – è essenzialmente onirico, un teatro di maschere e simboli interiori.

Le giornate sono piene, Pernath ha finito la gemma di cui ora Mirjam è felice, restaurato la lettera I del libro (che peraltro, nella realtà, gli appare un’edizione bella ma comune in ebraico, lingua che non capisce)… e scopre che, forse proprio mentre faceva cadere i grani, è crollato il ponte di pietra sul fiume. Gli tornano dunque in mente le volte in cui l’ha percorso, ma anche le cose della giovinezza e la casa dei genitori; e bacia la foto di Angelina. Vagheggia anzi di poter intrattenere una relazione con lei, hai visto mai che il marito muoia improvvisamente… e “Non era un miracolo […] che nello spazio di poche settimane si fossero destate in me capacità artistiche che già ora parevano di gran lunga al di sopra della media?”. Ma capisce che deve pensare a Mirjam, alla quale ha procurato artificiosamente un piccolo miracolo, una moneta entro la forma di pane del fornaio… Anche se ora si preoccupa di averlo fatto, ripensando ai discorsi con loro: “La nobiltà dell’intento non mi scusava in alcun modo: il fine non giustifica i mezzi, vedevo bene”. Di nuovo un uomo senza qualità, goffo come Zeno Cosini, che combina pasticci…

Mentre sta pensando a condurre Mirjam a fare un giretto, piomba da lui Wassertrum, untuoso e brutale come sempre,  con un orologio malconcio da far riparare: Pernath non realizza che il nome lì inscritto e faticosamente decifrato, Zottmann, è quello del tipo assassinato. In un linguaggio smozzicato, Wassertrum inanella una serie di allusioni volgari su Angelina: Pernath ribatte che i ricatti non arrivano a nulla, e quando il rigattiere mostra tutta la sua arroganza, il Nostro starebbe per passare alla violenza – ma compare Hillel. Alla sua presenza luminosa, il rigattiere è costretto a battere in ritirata, e si fa restituire l’orologio da Pernath.

Mentre Charousek latita, il Nostro si pastura in fantasie su Angelina, Mirjam e persino Rosina, ma dialoga anche con il proprio doppio e gli pone una serie di domande sui cose terrene e ultraterrene. Comincia a intuire che Mirjam vive forse un tessuto di eventi segreti simili ai suoi. La ragazza spiega che se mai scoprisse che l’episodio della moneta non era un miracolo ne morirebbe di delusione (un annuncio che terrorizza Pernath) ma poi non vuole affliggerlo con discorsi tristi e lo consola. Tanto più per la sensazione che gravi su di lui un grosso pericolo… Emerge poi che la madre di Mirjam avrebbe dovuto sposare Wassertrum, ma non l’ha fatto: e con lei è stato “sempre cordiale e buono”. Ma è un uomo tormentato, che non accetta la pietà degli altri: “un invasato – un uomo che diventa subito diffidente, in modo irreparabile, quando qualcuno gli tocca il cuore”, e vede “odio e tradimento dappertutto”. Unica eccezione, verso il figlio amatissimo; ma nella bottega tiene una figura di cera somigliante a una propria antica amante – “La madre di Charousek”, pensa Pernath. Che poi scherza con Mirjam in modo galante: la ragazza ha il sogno di sposarsi, vagheggia di fondersi con un altro essere come nel culto egizio di Osiride per dar luogo all’Ermafrodito, “unione magica dei generi maschile e femminile in un semidio […] principio di una vita nuova, eterna – che non ha fine”. Ma lei ha appena chiesto, per favore, di non parlare più di quel tema e appare Angelina, ciangottando capricciosa per portare Athanasius a fare la stessa gita in carrozza che lui aveva proposto a Mirjam. La quale si ritira in buon ordine: “Era come se avessi perduto tutto un mondo”, commenta lui. Ma poi esce con Angelina.

La dama, archiviato come noioso Savioli ormai fuori pericolo, vuole “tornare finalmente a godere” e si mostra civettuola: han sognato l’uno dell’altra, lui invaghito torna a casa ore dopo… però dopo quel pomeriggio vertiginoso si sente estraneo al proprio squallido alloggio e comprende che di quella felicità resterà solo “un dolce, dolente ricordo”. Così, prima di rientrare nel ghetto, torna a gettare col buio uno sguardo alle finestre dietro le quali Angelina dorme, ma si perde nella nebbia: finisce nel Vicolo degli Alchimisti e a sbattere contro un cancello di legno sul fondo, lì bussa a una finestra e vede un uomo vecchissimo dagli occhi vuoti tra storte e alambicchi…

Ripresa la strada, decide di soffocare la brama dei baci di Angelina con qualche ora in compagnia dei tre vecchi amici, e ascolta così da Zwakh la storia dell’assassino Babinski (di cui al già citato racconto su “Die Ernte”). Poi fanno parlare Pernath che racconta come si sia perso nel buio, abbia visto il misterioso alchimista (“Ma possibile…! Questo Pernath vive in prima persona tutte le leggende che ci sono”) – e gli spiegano che il presunto golem del ghetto è stato identificato banalmente nel mendicante ebreo Haschile che aveva recuperato in un portone degli antichi abiti (quelli appunto dismessi da Pernath). Quanto alla casa nel Vicolo degli Alchimisti si tratterebbe di una dimora arcana, “visibile soltanto con la nebbia e unicamente a persone elette dalla fortuna”, detta “il Muro all’Ultima Lanterna”: di giorno c’è solo una grossa pietra grigia e poi un precipizio, Pernath è stato fortunato a non fare un passo di più. Sotto la pietra si troverebbe un tesoro immenso sepolto dall’Ordine dei Fratelli Asiatici pretesi fondatori di Praga, “a fondamento di una casa che sarà abitata alla fine del mondo da un uomo, o per meglio dire da un Ermafrodito, una creatura che è uomo e donna insieme” e avrà nella propria insegna l’immagine della lepre simbolo di Osiride. A custodire il luogo starebbe Matusalemme in persona, per evitare che Satana fecondi la pietra e nasca un figlio, Armilos dai capelli d’oro, “occhi falcati e braccia lunghe sino ai piedi”. È possibile che i tratti asiatici del golem trovino qualche nesso proprio coi Fratelli Asiatici della fondazione di Praga.

Lasciati bruscamente gli amici intenti a discorsi un po’ pesanti suscitati dal grog, Pernath muove verso casa nella nebbia e si sente chiamare. Subito dopo, Rosina si stringe ardente contro di lui…

Si sveglia tardi, l’indomani, nella casa squallida, evidentemente dopo una sordida esperienza sessuale con la ragazza; e medita d’impiccarsi. I messaggi “dal regno dell’immortalità”, gli pare, non sono serviti a niente. Potrà ritirare il denaro e lasciare a Mirjam le sue pietre preziose, a Hillel una lettera in cui chiarisce la sua goffaggine col “miracolo”, ad Angelina un mazzo di rose. Ma arriva Wassertrum, che spera di non essere stavolta interrotto da Hillel: si finge amichevole e in pegno della pace fatta vuol donargli l’orologio già visto. Peccato che l’interruzione arrivi egualmente, è Charousek, che sa che Pernath non è solo e affetta tutta una commedia celebrando con lodi sviolinate la generosità di Wassertrum (che non si fa vedere). Lo studente racconta di non sapere chi fosse il proprio padre e di non aver mai visto sua madre – che però ha amato molto il padre, come attesta in una pagina strappata dal proprio diario e in suo possesso: dove però emerge anche la crudeltà di lui. Quindi Charousek cade in ginocchio maledicendo il genitore… e gli augura “la più orrenda delle fini che si possano immaginare”. Continua poi la commedia proclamando il suo affetto per il figlio di Wassertrum, il dottor Theodor Wassory e il suo dolore per il suicidio – in realtà causato da lui stesso – di quell’impagabile amico: chiede anzi che Pernath consegni a Wassertrum la boccetta del veleno memore di quell’infelice e una rosa tratta dal petto della sua salma… Pernath lo accompagna per le scale, non intende favorire il suicidio del rigattiere, ma Charousek spiega che il tipo si è certo già appropriato della boccetta e la suggestione psicologica ha fatto effetto:

 

Non c’è che il pathos più ripugnante a far presa su simili fottuti! Mi creda! Via via che parlavo, avrei potuto disegnarle le espressioni della sua faccia, a ogni mia frase. Nessun kitsch – come lo chiamano i pittori – è abietto abbastanza, per non agire da strappalacrime sulla massa intrisa sino al midollo di menzogna, per non colpirla direttamente al cuore! Se fosse diversamente, non crede che già da un pezzo tutti quanti i teatri sarebbero stati messi a fuoco? La canaglia la riconosci dal sentimentalismo.

 

Pernath è sconvolto. Poi Wassertrum passa loro accanto, e il Nostro rientrando in casa trova l’orologio al posto di boccetta e rosa: il rigattiere, come previsto dal manipolatore Charousek, se n’è in effetti appropriato.

Ma in banca Pernath non riesce a ritirare subito i suoi soldi – occorrono otto giorni – dunque non può ancora suicidarsi; in compenso un losco tipo dall’occhio di vetro ha preso a seguirlo, e la sera lo incantona e lo arresta. È un agente, scopre, della polizia segreta e lo trascina al posto di polizia. Lì il commissario cerca di confonderlo con domande su Angelina e Savioli, si finge un amicone e un amico del padre, ma Pernath resiste, finché quello non sbotta: “Assassino!”. E alla fine il Nostro capisce. Era stato ucciso quello Zottmann il cui nome campeggia sull’orologio: dunque, nonostante le minacce del commissario, Pernath fa mettere a verbale che l’orologio gliel’ha regalato quel mattino il rigattiere Wassertrum.

Tradotto in un carcere che sembra riproporre l’esperienza claustrofobica della stanza murata, vive tutte le brutture della situazione – qui Meyrink parla di esperienze vissute – con le angosce aggiuntive della situazione specifica, le carte di Angelina probabilmente in mano ai poliziotti e a Wassertrum… ma poi si tranquillizza pensando che a vegliare sulla situazione c’è Charousek. In cella trova anche il butterato Loisa, accusato lui pure dell’omicidio Zottmann, che gli chiede di Rosina.

Portato davanti al giudice istruttore barone Karl Zampadigatto, Pernath rifiuta di ammettersi colpevole e viene ributtato in cella. Passano le settimane, sulle vicende di Angelina è fatalista, mentre “Era la sorte di Mirjam […] a rendermi quasi folle di disperazione”. Abbrutito dalla vita in cella si pone domande sui propri amici: l’unica proccupazione delle autorità – e del medico del carcere dottor Petaldirosa – è che nessuno si impicchi. Una lima, comparsa inopinatamente in cella, viene fatta sparire da Loisa poi trasferito in un’altra.

Da tre mesi Pernath è in carcere, si angoscia che Mirjam possa essere morta; nessuno lo interroga – ed è ormai maggio, quando Zwakh usa battere la provincia coi suoi burattini. L’incendiario Vóssatka suo compagno di cella viene liberato, Loisa è evaso, il nuovo arrivato Wenzel fa in modo di sbagliare cella per recare un messaggio a Pernath: è uno sgrammaticato membro del “battaglione” del dottor Hulbert, gli porta una lettera di Charousek e lo esorta a fingere una crisi epilettica per fuggire, mostrandogli come fare.

Ma Pernath non vuole evadere, vuol essere scarcerato. Apprende da Wenzel notizie che lo deludono: Angelina ha divorziato ed è partita con la figlia e l’amante (“Mi ero dato tanta pena per amor suo, e adesso… ero già dimenticato”, forse lo credeva un assassino), mentre su Mirjam non sa nulla. Quanto a Wassertrum è stato assassinato con una lima in gola – da Loisa, il cui coltello è stato fatto sparire da Wenzel. Quando questi viene riportato alla cella giusta, Pernath legge ansioso la lettera di Charousek. Che lo tranquillizza: l’omicidio di Zottmann è stato commesso da Loisa, il fratello Jaromir ha trovato l’orologio e l’ha venduto a Wassertrum. A quel punto Charousek ha dato mille fiorini a Jaromir (e “solo Angelina poteva aver dato quella somma a Charousek”, dunque non si è dimenticata di lui), per cui il tipo testimonierà come abbia avuto l’orologio e Pernath verrà liberato. Charousek, malato di tisi, sa peraltro che morirà presto. “Una cosa però è certa: noi ci rivedremo”. Non tra i vivi e neppure tra i morti: ma in una situazione diversa, nota ai cabalisti. Una volta ha creduto anzi di vedere sul petto di Pernath un segno: probabilmente la citata scritta mistica della visione notturna. Quanto a Wassertrum, alla fine d’aprile la suggestione del diabolico studente stava iniziando ad agire su di lui: aveva anche fatto testamento ed era andato da un notaio. Nominando proprio erede proprio Charousek… il figlio tradito, l’unico al mondo per cui potesse riparare qualcosa, forse anche per la speranza di neutralizzarne la maledizione. Ma a quel punto, mentre Charousek attendeva il suicidio di Wassertrum, era arrivato qualcun altro ad ammazzarlo con una lima. Col risultato che ora Charousek si sente un reietto, “strumento giudicato indegno di stare nella mano dell’angelo della morte”. Potrà ancora versare il proprio a seguire quello del padre odiato… cui non offrirà appigli nell’aldilà, non toccherà un soldo di quell’eredità: metterà all’asta le case, brucerà gli oggetti e garantirà a Pernath un terzo del valore – a compenso di quanto Wassertrum, ha scoperto, aveva predato al di lui padre. Un altro terzo sarà diviso tra i dodici membri del “battaglione” che hanno conosciuto Hulbert;

 

L’ultimo terzo andrà in parti uguali ai prossimi sette assassini per rapina del paese, che vengano prosciolti per insufficienza di prove.

Di questo andavo debitore alla pubblica indignazione.

 

Terribile e insieme tenerissimo, Charousek è più puro – riflette il Nostro – di tanti uomini devoti.

Ma il giorno dopo in cortile Pernath conosce un altro di questi peccatori straordinari, quando viene avvicinato da un altro prigioniero, il delicato Amadeus Laponder. Reo confesso, scopre con sorpresa, nientemeno che di assassinio con stupro. Condividono la cella, Pernath è impressionato e preoccupato di quella presenza in apparenza così urbana, educata e metodica (anche nel piegare e appendere gli abiti la sera): e di notte, quando un raggio di luna gli batte sul viso, lo ode ripetere più volte “Lasciami”. Pernath è talmente impressionato dalla presenza dello stupratore assassino da non riuscire a dormire, e una notte sente la voce di Mirjam, “Interrogami. Interrogami”. Viene dalle labbra di Laponder, e quando Pernath pronuncia il nome di lei riceve una conferma: “Ella parlò del suo amore per me e della felicità indicibile di esserci finalmente ritrovati – e di non mai più separarci – in furia – senza pause – come chi tema d’essere interrotto e vuol approfittare d’ogni secondo”. E quando lui le chiede se sia morta, la voce risponde “No. Io vivo. Dormo”. Poi, dopo una pausa, arriva la voce di Hillel, che a più riprese lo chiama “Henoch!”, cioè l’iniziato, e gli spiega di non angustiarsi per Mirjam (e, sottinteso, per la storia del finto miracolo): spera di rivederlo, ma – come emerge a frasi spezzate e non del tutto comprensibili – potrebbe non riuscire perché partirà per la Palestina, verso Gad. Sopita quella voce, arriva quella di Charousek, ma con la frase di chiusura della sua lettera: “Stia bene e si ricordi qualche volta di me”.

Chiusa l’esperienza, Pernath si sente in colpa per non aver visto in Laponder altro che un deliquente, e mai l’uomo: è palesemente un sonnambulo (come il Cesare del Gabinetto del dottor Caligari, 1920, dunque di poco successivo), sotto l’influsso della luna piena. Quando si sveglia, gli chiede scusa e Laponder mostra di comprendere; e alla domanda su cos’abbia sognato, risponde che non sogna mai – ma si sposta, esce dal corpo. Quella notte, racconta, si trovava nella strana stanza senza porta a cui si accede da una botola. Ma c’era un letto, in cui dormiva una bambina, e un uomo le teneva la mano sulla fronte. Mirjam e il padre… e dalla scala si scendeva in una stanza “dove stava un uomo con fibbie d’argento alle scarpe, una strana figura, come non ne ho mai viste: di colorito giallo in faccia e occhi obliqui; era chino in avanti e pareva aspettare qualcosa”. C’era anche un libro di pergamena che iniziava con una grande A d’oro… poi a un tratto Laponder fissa il petto di Pernath come a sua volta vi scorgesse qualcosa. Per cui gli afferra la mano e lo supplica di dirgli tutto, rivelazioni che lo riguardano da vicino: c’è poco tempo, di lì a poco gli comunicheranno la condanna a morte e lo porteranno via…

Così Pernath inizia il racconto degli strani eventi occorsigli, e quando cita la figura acefala che ha offerto i grani e lui li ha fatti cadere, Laponder commenta stupito che non avrebbe pensato a una terza via. Quei grani significano le forze magiche, non li ha rifiutati né accolti ma resteranno custoditi fino al tempo della germinazione. “Si vivificheranno allora le forze che adesso ancora sonnecchiano in lei”, custodite dai suoi antenati, le persone del sogno irradianti luce blu. Quando Pernath racconta di Mirjam e dell’Ermafrodito, Laponder piange, cereo… Nell’uccidere, spiega, non era libero di scegliere, ma considera la sentenza giusta: non è pazzo, ma pericoloso. Quando anche a lui era apparso il fantasma coi grani, li aveva presi e dunque ha percorso la via della morte. Comunque, si lascerà guidare dallo Spirito, anche fino al patibolo, così sarà libero.

Pernath ha perduto per l’ipnosi di un medico la memoria della giovinezza: “È questo il contrassegno – la stimma – di tutti coloro che sono stati morsi dal ‘serpente del regno dello spirito’” (facendo nel corso della propria vita “quel che nell’intera razza appare durante una generazione” e ritrovandosi alla fine profeti); e l’estinzione della memoria – tra un “prima” e un “dopo” – prende quel posto tra una vita e l’altra che in altri casi è della morte. “[…] l’attesa dell’ascesa al trono del proprio ‘io’ è l’attesa del Messia”, e all’incoronazione del re si spezzerà il legame col mondo. Laponder completa insomma la formazione di Pernath avviata da Hillel (triangolo dell’iniziazione).

Più che esoterica, insomma, la soluzione è mistica, ma insieme psichica ed esistenziale. Come le foglie portate dal vento di cui sopra, come i burattini degli spettacoli dei tre vecchi amici, il sonnambulo resta un archetipo del dominio da parte di forze altre: e burattinesche, nel senso di creature agite da incubo alla Caligari, si potranno definire varie figure della produzione meyrinkiana (si pensi all’inquietante Zrcadlo di Walpurgisnacht, 1917). Ma in questo senso burattinesca è la stessa realtà del ghetto, percorsa a ondate periodiche come da febbri pneumatiche, e ipostatizzata nello spettro del golem, spirito elusivo che sembra fondersi e confondersi nel vissuto profondo degli stessi abitanti. Laponder aspettava da Pernath una chiave, la storia dell’Ermafrodito, e ora è sereno. Arrivano a prenderlo, per impiccarlo l’indomani.

Per mesi Pernath sarà ancora in carcere, tormentato dalla brutalità della situazione e dall’angoscia: dalle parole di un arrestato gli è sorto il panico che la ragazza stuprata e uccisa da Laponder fosse Mirjam. E finalmente a inizio novembre (ma l’atto è di luglio, visto che il suo nome inizia per P, “e naturalmente nell’alfabeto si trova verso la fine”, continua la polemica contro la giustizia) viene prosciolto – e alla lettura perde i sensi. Apprende anche ufficialmente di essere erede di Charousek, suicida a maggio a faccia in giù sul tumulo di Wassertrum: “Aveva scavato due profonde buche nella terra, poi s’era tagliato i polsi e infilato le braccia in quelle buche. È morto dissanguato”. Si chiude così intorno a Wassertrum una nuova struttura triadica (triangolo dei suicidi) comprendente il figlio Wassory, la nemesi Charousek e lo stesso Pernath come aspirante suicida (che però con Wassertrum e Savioli rientra con altrettanta ragione in un triangolo dei suicidi mancati).

Rilasciato a mezzanotte dopo aver recuperato i propri beni, ma con le gambe quasi incapaci di funzionare, si fa portare rapidamente da una vettura in Hahnpassgasse 7, ansioso di vedere Mirjam. L’autista obietta che lì non si arriva, stanno risanando il quartiere ebraico. Ma arrivando alla casa, poco resta in piedi. La gente, oltretutto, è stata sgomberata per via del tifo; l’unico che pare di poter rintracciare è Jaromir, che a gesti comunica come tutti i suoi vecchi contatti siano partiti o scomparsi – anche Mirjam… con strazio di Jaromir, Rosina è divenuta l’amante di un principe.

In attesa di incassare i soldi, i propri e l’eredità, Pernath vende le pietre per affittare due stanzette in un punto risparmiato dallo sventramento del quartiere, nella soffitta di una casa dove una volta il golem sarebbe sparito. La notte di Natale si porta a casa un piccolo albero con candeline rosse; poi intende partire a cercare Hillel e Mirjam. E quella notte, per un attimo, il suo doppio appare sulla soglia della stanza, coronato e biancovestito. Ma subito dopo Pernath si rende conto che è scoppiato un incendio, fugge sul tetto, e mentre si sta calando giù con la corda di uno spazzacamino – come l’uomo che aveva tentato di occhieggiare dalla finestra della stanza murata, rimettendoci l’osso del collo – gli pare di vedere Hillel e Mirjam nel riquadro della finestra. Perde la presa – restando nella stessa postura dell’Appeso dei Tarocchi – e scivola tentando invano di afferrarsi al davanzale, di pietra liscia come un pezzo di grasso. Ma lui non muore nella caduta, e simbolicamente riesce a vedere la stanza segreta del Sé.

Ora l’uomo che nel suo letto d’albergo ha vissuto quest’esperienza interiore in neanche un’ora di sonno – e non si chiama affatto Pernath – si alza e prende il cappello che ha scambiato per sbaglio durante la messa nella cattedrale. Nella fodera appare a lettere d’oro il nome Athanasius Pernath. Senza por tempo in mezzo, vestitosi, corre dunque all’indirizzo ben noto nel quartiere ebraico – dove pure, l’avverte il custode, “non c’è più molto”. Con lui, avvolto in un foglio è il cappello di Pernath: ed eccolo raggiungere Hahnpassgasse, trovandola completamente diversa – e così pure il caffè Loisitschek. Apprende dalla cameriera che il ponte di pietra è crollato trentatré anni prima, Pernath dev’essere dunque sulla novantina. Attraverso le informazioni di vari avventori che discutono la credibilità dell’esistenza del leggendario Pernath, che abiterebbe al muro dell’ultima lanterna in un punto pericolosissimo, il narrante scopre però stranito che la casa della sua ultima visione nei panni di lui non è mai andata a fuoco. La realtà interiore e quella storica non si sovrappongono completamente, e il sogno pretende la sua parte.

Al mattino il narrante si fa traghettare oltre la Moldava raggiungendo il Vicolo degli Alchimisti – oggi meta fastidiosamente turistica, il Vicolo d’oro in cui abitarono Kafka (dal 1916 al 1917, dunque poco dopo l’uscita di Il golem) e Seifert è stato molto restaurato dai tempi in cui lo ricordava Meyrink – ma al posto del vecchio cancello che ricordava ne trova ora uno grandioso e mosaicato, con l’immagine di Ermafrodito, e un profumo di giacinti oltre il muro. Compare un servitore (ennesima maschera del golem, a giudicare dall’abbigliamento), gli chiede cosa desideri e lui gli tende il cappello incartato. Sullo sfondo, sui gradini di un edificio a forma di tempio, vede Athanasius (“immortale”, secondo l’etimo) e Mirjam. Il primo identico a lui, lei giovane e bellissima. Poi, al chiudersi del cancello riappare il servitore restituendogli il cappello giusto: il signor Pernath lo ringrazia, e lo prega di non considerarlo inospitale se non lo fa entrare. Si era accorto subito dello scambio di cappello e non l’ha usato; “Si augura solo che il suo non le abbia provocato dei mali di testa”.

Se davvero (come qui si ipotizza con la necessaria prudenza) Il golem vede tra le righe – a partire da una suggestione contingente che può aver colpito Meyrink – l’intreccio di linee e strutture geometriche che delinea l’Albero cabalistico della Vita, inevitabile ricordare come questo già sia stato inteso come simbolizzante una figura umana: a quel punto potrebbe suggerire la figura del golem o piuttosto dello stesso Ermafrodito della felice unione tra Athanasius e Mirjam.

Possiamo ignorare la questione se Il golem sia o meno un capolavoro della letteratura, ma certo è un testo straordinario, autenticamente letterario: un romanzo intenso e dotato di una poesia a tratti struggente, e un incitamento onesto alla ricerca interiore attraverso un teatro di maschere fondamentali che colpirà Jung. Un romanzo iniziatico, certo, ma in modo più sottile di quanto spesso indicato con questo termine. Sia perché all’autore interessa anzitutto varare un’opera letteraria, non un testo a chiave per corrucciati conciliaboli di eruditi, e dunque una storia che parli di sentimenti, nostalgie, amore, almeno quanto di riletture cabalistiche (peraltro molto libere, per necessità di narrazione) o esoteriche; sia perché i riferimenti arcani, piuttosto improbabili se singolarmente considerati, fungono da suggestioni che l’autore in realtà relativizza col suo libero uso – l’importante è il cammino, per ciascuno modellato in modo peculiare, al di là di maschere e categorie culturali; sia perché appunto si tratta della storia di una ricerca, scevra da ogni spocchia da presunti Maestri.

La peculiarità grottesca-fantastica del Golem, pur trovando in E. T. A. Hoffmann un illustre precedente, permette di apparentarlo solo a L’altra parte di Kubin, peraltro amico dell’autore. Al netto della dimensione onirica, si possono cogliere realismo e razionalità nel trattamento narrativo di una condizione mentale crepuscolare: le separazioni tra io e mondo esterno, tra io e l’altro – un Doppio trattato con riferimento a un antico linguaggio magico, ma in fondo riconducibile a meccanismi noti alle scienze umane – tendono a sciogliersi, e il linguaggio gotico, gli effetti gotici sono volti a esiti più sottile che in tanti precedenti per veicolare una visione spirituale. Facendo saltare alcune categorie letterarie di alto e basso, e permettendo di riconoscere una sincerità dell’autore nel suo progetto.

Certo la trama tende spesso a inabissarsi in un labirinto onirico e pneumatico, donde le accuse talora rivolte di testo soporifero. Ma è pur vero che alla mancata sovrabbondanza di fatti fantastici – che pure ci sono – corrisponde un felicissimo gioco d’ombre espressionista: un’inquietudine di visceri cui le tavole di Steiner-Prag illustrative della prima edizione restituiscono efficace forma visiva, e che coinvolge il lettore disposto a mettersi in gioco. Un romanzo insomma pienamente fantastico (si è parlato di urban fantasy), nell’accezione più ricca del termine evocante la sospensione/soglia tra realtà liminari, la ferita/feritoia su un mondo interiore e l’imbarazzo radicale dell’osservatore: qualcosa che non confligge con la dimensione interiore/“iniziatica”, ma ne rappresenta semplicemente la definizione narrativa.

La detenzione in carcere di Pernath, vera e propria morte iniziatica, segna il culmine della storia: quando finalmente viene liberato, trova che il mondo è cambiato, gli amici sono spariti, Mirjam stessa è andata via e occorre cercarla. Ma è un po’ tutto il microcosmo-ghetto come lui l’ha conosciuto a sparire, e non solo per la ristrutturazione urbanistica che lo sventra modificando la geometria di Praga. L’anonimo narratore che, a distanza di una trentina d’anni, si troverà a rivivere l’esperienza di Athanasius per il cortocircuito psichico di uno scambio accidentale di cappelli, dovrà fare i conti con quella svolta, il recupero di un’identità culturale e la sintesi tra gli opposti. Come in fondo il lettore, per lo scambio di cappello con Meyrink che lo proietta nel labirinto del protagonista: a riconoscere i propri imbarazzi, paure e rovine, ma anche la speranza finale di una ridefinizione profonda, di una maturazione in serenità e misericordia.

(5-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 4 https://www.carmillaonline.com/2024/11/26/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-4/ Tue, 26 Nov 2024 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85482 di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (I)

 

La luce della luna batte sul fondo del mio letto e vi posa come una grossa, piatta pietra luminosa.

Quando la luna piena prende a raggrinzirsi e il suo lato destro comincia a sfaldarsi, come una faccia che va incontro alla vecchiaia da prima smagrisce e si solca di rughe su una sola guancia, verso quell’ora della notte s’impossessa di me un’inquietudine torbida, tormentosa.

Non dormo e non veglio, e nel dormiveglia si vengon mescolando nella mia anima cose vissute con cose lette e udite, al [...]]]> di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Attraverso Il golem (I)

 

La luce della luna batte sul fondo del mio letto e vi posa come una grossa, piatta pietra luminosa.

Quando la luna piena prende a raggrinzirsi e il suo lato destro comincia a sfaldarsi, come una faccia che va incontro alla vecchiaia da prima smagrisce e si solca di rughe su una sola guancia, verso quell’ora della notte s’impossessa di me un’inquietudine torbida, tormentosa.

Non dormo e non veglio, e nel dormiveglia si vengon mescolando nella mia anima cose vissute con cose lette e udite, al modo che correnti varie per colore e trasparenza confluiscono insieme.

 

Inizia così Il Golem (trad. di Carlo Mainoldi, Bompiani 1977), avventura narrata come nel dormiveglia, a render vane le pretese di credibilità dell’una o dell’altra asserzione di un narrante più o meno inaffidabile. Dove l’immagine della pietra offre similitudine per lo scorcio illuminato dalla luna, ed è insieme eco di una lettura della sera dalla vita di Buddha (la roccia con l’aspetto di un pezzo di grasso, abbandonato da una cornacchia accortasi dell’errore: “così […] lasciamo l’asceta Gotama, poiché non sappiamo più godere di lui”). E quell’immagine cresciuta mostruosamente nel cervello fino a riempirne il dormiveglia – traghetta fino alla coscienza che il corpo

 

giace addormentato nel letto e i miei sensi sono sciolti e non più legati al mio corpo.

Chi è adesso “io”, questo vorrei chiedere a un tratto; poi mi prende la paura che la stolida voce si ridesti di nuovo e di nuovo cominci l’interrogatorio senza fine sulla pietra.

E do un altro corso ai miei pensieri.

 

Tutto avviene a Praga – práh, etimologicamente “soglia” o “guado”, con tutta la nebulosa di simboli sull’idea di passaggio – nel cui vecchio ghetto il Nostro si ritrova: vediamo con la bottega di un rigattiere ebreo, il turpe Aaron Wassertrum, e la scala verso casa occupata dal voluttuoso ingombro della procace Rosina, imparentata col rigattiere. Un mezzo piano più in basso, in quel brulicare di locali tra scale e anditi vari, è appostato Loisa, che freme per il corpo di Rosina e teme solo che il narrante le apra la porta – lui e il gemello sordo Jaromir sono coetanei di lei ed entrambi vogliosi, ma Loisa ha la meglio rispetto al fratello cui riserva crudeli malignità. Chiaro che in questo ambiente depresso – una Praga nera contrapposta all’absburgica Praga d’oro – il narrante non riesca a trovare la concentrazione per il suo delicato lavoro di restauratore. Vero, giungono anche risa allegre: un giovane signore distinto (il dottor Savioli, scopriremo) ha preso in affitto un laboratorio dal vecchio burattinaio Zwakh… ma a un tratto una donna irrompe mezza nuda e scarmigliata nella stanza del narrante chiedendo che la nasconda (al cattivo Wassertrum, naturalmente). Così il narrante scopre di aver nome Athanasius Pernath: o meglio, quel nome è riportato nel cappello scambiato per errore, e che sembra aver innescato un curioso scambio d’identità. Identità, sogno, fissazioni patologiche, pulsioni sessuali: siamo, a tutti gli effetti, in un contesto modernista.

 

L’origine del complesso del Golem come Doppelgänger dell’eroe e anima collettiva del ghetto risiede dunque nel sogno dello scrittore provocato da uno scambio di cappelli, che a sua volta rappresenta lo sdoppiamento dell’io narrante su tre piani di realtà: la realtà fittizia della cornice, la realtà del sogno del racconto e la realtà del sogno nel sogno, ossia delle visioni dello schizofrenico protagonista nella trama. La conoscenza della propria identità può avvenire soltanto in uno stato di semisogno intermedio tra veglia e sonno profondo, ossia in uno spazio di meditazione in cui il sogno è rivelatore dell’aldilà e assume caratteristiche più vere della stessa realtà. Non è un caso che il primo capitolo, il piano della cosiddetta realtà, sia intitolato Schlaf [“Sonno”], mentre il secondo capitolo, che introduce il lettore in una dimensione onirica, Tag [“Giorno”]. La duplicità dei piani narrativi prosegue fino alla fine del romanzo e legittima lo sconcerto dell’io narrante, che spesso si domanda se ciò che ha vissuto sia sogno o realtà [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, “Studia austriaca” XX (2012), 33-53]

 

Ma è allora che il narrante riceve una misteriosa visita, un tipo che si comporta come a casa propria e apre davanti a Pernath un libro dalla copertina di metallo incastonato con colore e pietre. Poi addita un capitolo, Ibbur (più precisamente Jbbur), “la fecondazione dell’anima” e lo incarica di restaurarne la grande iniziale I (o J) in rosso e oro: Pernath inizia a guardare, poi a leggere e le parole gli volteggiano davanti “come schiave dalle vesti variopinte […]. Sperava ognuna per un attimo che avrei scelto lei” e a un certo punto gli trascinano davanti una figura vagamente felliniana (le ragioni del sogno, ancora),

 

una donna tutta ignuda, dalle proporzioni gigantesche di un colosso di bronzo […] Il polso le batteva con palpiti tellurici, ed io sentii che la vita di tutto un mondo era in lei.

Di lontano si veniva appressando un corteo di coribanti.

Un uomo e una donna si avvinghiarono. Li vidi arrivar di lontano, sempre più vicini echeggiavano gli schiamazzi della processione.

Di quegli esseri in estasi udivo ora il canto fragoroso, e i miei occhi cercarono la coppia allacciata..

Ma la vidi ormai trasfigurata in una figura unica, metà uomo, metà donna: l’Ermafrodito era assiso su un trono di madreperla.

 

La visione prosegue, come onirica o lisergica, fino alla percezione che il libro gli parli, con “una voce che da me voleva qualcosa, che non comprendevo, per quanti sforzi facessi”:

 

non un libro ero venuto sfogliando, ma il mio stesso cervello.

Tutto ciò che la voce mi aveva detto io l’avevo portato dentro di me, nascosto e obliato, celato sino ad oggi alla mia mente.

 

Perché la crisi dell’io che reca da un lato lo sgomento di una perdita d’identità, dall’altro reca l’emergere straniante di un altro io, l’inconscio, insieme ritorno del rimosso e Perturbante presago di morte.

Uno straniamento che in fondo vale per la genesi stessa del romanzo, la cui revisione finale disorienta l’autore. Si rivolge dunque per aiuto all’amico Felix Noeggerath (1885-1960, filosofo e mitologo, ammirato da Benjamin come “genio universale”) per chiedere aiuto, e ne riceve un prezioso input: l’amico delinea una sorta di mappa stellare, con un punto per ogni personaggio del Golem e linee di collegamento con gli altri. Dei personaggi irrilevanti per il percorso e il significato del libro l’amico raccomanda l’eliminazione. Salta fuori così che l’elenco contiene ben 120 nomi, 90 dei quali completamente inutili. A rimuoverli, il quadro confuso diventa a Gustav chiarissimo. A questa struttura di punti e linee dovremo tornare.

Ma ora l’uomo che ha portato a Pernath il libro è sparito: tornerà a prenderlo dopo il lavoro? Ha lasciato il proprio indirizzo? Quali erano i suoi tratti? Di lui Pernath non ricorda nulla. Allora fa un tentativo interessante e surreale: si veste, esce di casa e rientra cercando di ripetere andatura e gesti dello sconosciuto. E inaspettatamente la mimesi funziona quasi a fissare una possessione, riesce a imitare il movimento dell’uomo e il viso cambia – “una faccia estranea, senza barba, con zigomi sporgenti, e guardavo con occhi obliqui” (inevitabile pensare allo straordinario golem interpretato da Paul Wegener in più pellicole espressioniste). E torniamo all’idea, già presente nella faccenda dello scambio di cappelli, che un indossare i panni altrui permetta – come una maschera nel pensiero antico – più che una mimesi, una vera identificazione, che gli reca persino momenti di angoscia. Di nuovo l’identità, il Doppio, il gioco “io è l’altro”… Poi però “le dita dello spettro” smettono di palpargli il cervello. Dell’interlocutore ha capito comunque

 

che lui è come in negativo, un’invisibile figura cava, di cui non so cogliere i lineamenti, ma nella quale è forza ch’io entri se voglio aver coscienza della sua figura e della sua espressione dentro di me.

[…]

La voce che s’aggira nelle tenebre per tormentarmi con la storia della pietra grassa mi è passata accanto e non mi ha veduto. E io so che viene dal regno del sonno. Ma quel che ho vissuto era la vita reale, era realtà, per questo non le è riuscito di vedermi e mi ha appostato invano, lo sento con certezza.

 

E questo lui – ipotizzerà tra poco l’amico Zwakh –, questa “invisibile figura cava” è probabilmente il golem.

Nel capitolo successivo la scena si apre, da titolo, su Praga, sulle sue vie dalle case incombenti e misteriosamente frementi e su tutto un mondo di abitanti – “come fantasmi, come esseri – non nati da madri – che in quel che pensano e fanno sembrano consistere di tanti pezzi messi insieme a casaccio” come appunto il golem della leggenda. Sarebbe affascinante scoprire quale selva di personaggi – una novantina, raccontava – l’autore abbia defalcato, ma i rimasti sono figure di grosso impatto: lo studente Innozenz Charousek che sembra leggergli nel pensiero, il ributtante Wassertrum e il defunto, potente e predatorio figlio dottor Wassory, il dottor Savioli che è stato uno strumento dell’oscuro Charousek per far cadere Wassory e spingerlo al suicidio… Più avanti facciamo la conoscenza degli altri deliziosi amici di Pernath: non solo il burattinaio Zwakh, ma il musicista Josua Prokop e il pittore Vrieslander, che sagomando un burattino si intrattengono a parlare del golem – una sorta di ebreo errante psichico, proiezione di paure e angosce represse di quegli immiseriti abitanti del ghetto che come lui crollerebbero (viene da pensare) quali fantocci inanimati al cancellare dalla loro mente i rituali della tradizione ebraica – e di lanterne magiche: come quella con cui forse il sapiente rabbino animatore dell’uomo artificiale ha evocato per l’imperatore Rodolfo le ombre dei trapassati.

La necromanzia riletta insomma in chiave di protocinema: una provocazione interessante dell’autore, che demisticizza in modo provocatorio un romanzo in ipotesi tanto esoterico (al punto che, funzionalmente, Meyrink stesso, animatore del Golem in quanto romanzo, si fa Doppio di quel Rabbi Löw che avrebbe fatto sollevare l’uomo d’argilla).

Così come proprio l’approccio suggerito da Felix Noeggerath all’autore, una struttura di punti e linee funzionale a portare ordine nel viluppo della storia, solo accidentalmente potrebbe evocare a livello di struttura visiva l’intreccio grafico, geometrico, dell’Albero della Vita cabalistico, l’Etz haHa’yim. È possibile che Meyrink, che collega/oppone i personaggi a coppie polari, triangoli e quadrati simbolici, sia stato colpito dalla suggestione, ed è pur vero che la storia del Golem potrebbe in quella struttura mistica ravvisare un efficace affresco generale: ma pretendere di spiegare i singoli nodi del romanzo in stretto rapporto ai gangli dell’Albero, a evocare una presunta verità criptata per sussiegosi iniziati, sarebbe davvero troppo.

Certo la vicenda muove attraverso un complesso reticolo di relazioni geometriche: quasi a evocare (di nuovo una suggestione, non un feticcio esoterico) le sfaccettature prismatiche di quelle pietre preziose che Pernath per professione intaglia, e che richiamano a un ricco simbolismo mistico-religioso. Se il sensibile Pernath è al centro della storia, i personaggi principali si combinano con lui e tra loro in ideali coppie di opposizione polare, triangoli e quadrati simbolici. A partire dai legami con Rosina, calamita nel ghetto degli istinti sessuali più torridi e bassi, e che trova in altre due figure della zona, i gemelli Loisa e Jaromir, referenti ideali (triangolo della miseria); con l’amico Zwakh, latore perplesso di storie su Praga, vertice di un ulteriore, impagabile trigono coi due compari, il musicista Prokop e il pittore Vrieslander, complici in vivaci serate all’osteria (triangolo degli amici) – e proprio il tema dei burattini che Zwakh porta in scena finisce con l’alludere a una dimensione più profonda e diffusa nel romanzo; con l’alleato Charousek, lo studente tisico legato al rigattiere da un torbido nesso di sangue e nondimeno votato a essere sua nemesi (triangolo del confronto col Male). Astuto e machiavellicamente rassicurante coi buoni quanto terribile con i cattivi (con Wassertrum e il suo losco figlio dottor Wassory forma un ideale triangolo dell’odio), Charousek si contrappone polarmente a Wassertrum nel segno della tragedia.

E questi sono solo alcuni dei triangoli ravvisabili nel Golem, altri li troveremo via via. Al netto della relativa interpretazione cabalistica, semmai più interessante un altro distinguo strutturale, quello da qualcuno proposto tra i tre stadi di maturazione di Pernath: si potrebbe cioè raccogliere i personaggi (compresi quelli disincarnati) in tre sfere, materiale, immateriale e spirituale. Ma va pur detto che tutti i personaggi sono in fondo funzioni di Pernath, e particolarmente Charousek e Laponder, a loro volta doppi del protagonista a diversi strati di coscienza.

Però tutto torna, non solo il golem: Rosina ripropone “sempre lo stesso viso” della madre e della nonna, e lo stesso nome: “l’una è ogni volta la resurrezione delle altre”, anche nelle abitudini di vita. Gli amici sospettano che Pernath (che credono sia addormentato) si sia sognato tutta la storia del libro Ibbur: in fondo, poveretto, è stato in manicomio… e si sforzano di non richiamargli dolorose memorie connesse alla sua follia. Il problema è che non stava dormendo, e ha sentito tutto. Come nel ghetto esiste “una stanza, uno spazio di cui nessuno riesce a trovare l’entrata – un essere umbratile che vi abita e solo qualche volta si aggira a tentoni per i vicoli, a suscitare l’orrore e il raccapriccio tra la gente”, così è la finestra della sua anima, chiusa come da inferriate. Al punto che Pernath si sente diventato il burattino che Vrieslander stava sagomando – ed è riuscito curiosamente simile alla maschera del golem – per essere poi lanciato con noncuranza giù nel vicolo.

Gli amici portano il Nostro al Loisitschek dove ascoltano musica e antiche storie, come quelle sul “battaglione” del giurista infelice e pietoso dottor Hulbert, frequentatore di quel locale dopo l’esplosione della sua vita privata, e consulente dei poveracci sul filo della malavita (“mendicanti e vagabondi, ruffiani e prostitute, ubriaconi e cenciaioli”) contro le oppressioni di polizia. Il “battaglione” ha una cassa comune e propri riti; e quando Hulbert viene trovato morto su una panchina, i membri si dissanguano per organizzargli un funerale solenne. In suo ricordo, a mezzogiorno, ogni membro del “battaglione” riceve nel locale una minestra gratis. Si è osservato un certo dickensismo del mondo criminale del Golem, frutto dell’influenza del maestro inglese di cui ha tradotto vari romanzi, ma anche in fondo, della repulsione di Meyrink per divise e poliziottismi.

Però arriva la polizia, che contesta danze abusive e la chiusura del locale. La presenza sul posto di un principe indurrà l’arrogante commissario a rimangiarsi le minacce: ma lasciato il gran sabba di Loisitschek con Rosina ubriaca, Pernath ha un cedimento psichico, e gli amici lo affidano alle buone mani dell’archivista Hillel, “è pratico di queste cose”. L’incontro per Pernath si dimostra prezioso, e l’interpretazione offerta da Hillel sull’apparizione del tipo col libro (“il risveglio del trapassato ad opera della vita spirituale”, del resto “Tutto ciò che è divenuto forma, prima era uno spettro”) prelude alla rivelazione che leggendo il libro la sua “anima è stata fecondata dallo spirito della vita”. Se finora ha percorso una via seguendo la propria libera volontà, ora viene chiamato da se stesso: e con la sapienza, a poco a poco, “torna anche la memoria. Poiché sapienza e memoria sono la stessa cosa”. Tranquillizzato da Hillel, Pernath resta “in uno strano stato intermedio, che non era sogno né veglia né sonno”: e nella lucidità raggiunta, ha l’euforia di riuscire a cogliere una serie di soluzioni a problemi che s’era posto. Non riesce però a tornare ai ricordi del proprio passato oltre l’immagine di un portone ad arco, e al nuovo passaggio della mano di Hillel sui suoi occhi si assopisce profondamente.

La storia prosegue con la lettera e l’appuntamento offerto da una misteriosa “signora che lei conosce”, a suo tempo allieva di suo padre, e la sorpresa che si rivolga a lui. Si incontrano alla cattedrale, riconosce la donna che aveva cercato ospitalità da lui, mezza nuda, contro la malignità di Wassertrum. Questi ora la minaccia: Savioli, il suo amante, è malato e non può difenderla. Lei chiede dunque a Pernath di trattare con Wassertrum e consegnargli gioielli per rabbonirlo, evitando che scoppi uno scandalo che, in ragione del suo matrimonio, le farebbe portar via la figlia. Se si è rivolta a Pernath, è stato in grazia di due parole da lui spiccicatele tanti anni prima: e all’improvviso il Nostro ricorda. “[…] un amore troppo sconvolgente per il mio cuore aveva roso, roso per anni il mio pensiero, e la notte della follia era venuta a stendersi come un balsamo sul mio spirito ferito”. Intanto un avviso murale sulla sparizione di un anziano signore viene affisso in città.

Indeciso su come salvare la dama – si chiama Angelina – e deciso a non infastidire una “figura così gigantesca” come Hillel con simili vicende mondane, quella notte Pernath sente qualcuno che armeggia nelle stanze di Savioli e della dama: vi si reca, fa scattare il chiavistello e trova Charousek che armeggia intento alle proprie indagini contro Wassertrum. Ecco, come suggeritogli da una sorta di visione alla cattedrale, colui che può essere suo alleato: e in effetti lo studente gli affida della corrispondenza delicata trovata nell’alloggio. Pernath è perplesso dell’odio che anima Charousek contro il rigattiere; ma soprattutto è perplesso delle strane forze che sembrano ora dominare la sua vita.

 

Fa un effetto così singolare quando degli oggetti che di solito giacciono immobili prendono a un tratto a svolazzare intorno. […] Un nero sospetto mi sorse allora; non poteva essere che anche noi mortali si sia come quei fogli di carta? Forse che un invisibile, inafferrabile ‘vento’ non spinge anche noi di qua e di là e fa che le nostre azioni sian quelle che sono e non altre, mentre noi, ingenui, crediamo di disporre di un tutto nostro libero arbitrio?

 

Torna dunque all’atelier di Savioli e spinto dalla curiosità scende giù da una botola che vi si apre: nel buio raggiunge un camminamento sotterraneo che probabilmente (riflette), come tanti altri nel ghetto, conduce al fiume. Procede con prudenza, per non compromettere con un improvvido incidente il caso della dama che a lui si è affidata; e finalmente trova i resti di una scala a chiocciola. La risale e si imbatte in una botola di legno a forma di stella, emergendo in una stanza piccola e semivuota. Non sembrano esserci porte, ma c’è una fitta inferriata alla finestra, da dove s’intravede una via del quartiere ebraico. Alcuni vecchi vestiti e un mazzo di Tarocchi – riconosce il Bagatto – giacciono nella polvere di una stanza evidentemente abbandonata da decenni, e oltretutto gelida. Questa stanza senza porta – per occhieggiare la quale dalla finestra un tipo appeso a una fune sarebbe un giorno precipitato, morendo – è in fondo la mente stessa di Pernath, trattata (vedremo) da un medico con ipnosi a bloccare il motivo del dolore e dunque “murata”, gelida e coperta della polvere del tempo. Non è un caso che lì il golem, ombra del rimosso, vada a sparire.

Ma sempre per responsabilità verso la dama e le sue lettere, reagisce alla possibilità di morire di freddo lì: prende a gridare “Aiuto!” dalla finestra e indossa quegli abiti strani, sdruciti e fuori moda. E mentre sta pensando a come farsi soccorrere al mattino dai passanti realizza che quella è la stanza senza accesso “nel vicolo della Vecchia Scuola, che tutti evitavano!”, perché appunto vi scomparirebbe lo spettro del golem. E intanto la carta del Bagatto, illuminata dalla luce lunare, sembra riflettere il suo proprio volto e lascia emergere in lui antichi ricordi sui giorni di scuola – ma quando sentendo rumori in strada, si affaccia alla finestra con le inferriate, la gente atterrita lo scambia per il golem, nell’ennesimo gioco di rimescolamento identitario. Il romanzo di Meyrink è in effetti una delle grandi narrazioni classiche sul Doppio, tema battutissimo nella letteratura fantastica dell’Ottocento e ancora nel secolo dopo: dove il riferimento è al Doppio di Pernath, un narrante in travaglio identitario, e insieme alle maschere cangianti di quel golem che pure è un Doppio, un sosia e si rifrange illusionisticamente di continuo.

 

Per gli scrittori tedeschi di Praga, la capitale della Boemia austroungarica è un ossimoro che sintetizza due sentimenti dissonanti: la nostalgia di un passato aureo di crogiolo di popoli, lingue e religioni diverse (ceca, ebraica, tedesca, austriaca) e il rancore nutrito per i disordini causati dal violento antisemitismo del nazionalismo slavo. Come tutta la letteratura dell’orrore, il romanzo meyrinkiano diviene un’immagine speculare inversa della realtà storica, poiché mitizza la situazione di precarietà esistenziale nella dimensione dell’onirico, del patologico e del fantastico, in cui rifugiarsi dalle tensioni politiche e sociali. […] Nei primi anni del Novecento, la cultura mitteleuropea è teatro di una dissoluzione spirituale in cui l’io, lungi dall’essere simbolo di una visione del mondo panottica e antropocentrica, si scompone in una miriade di frammenti. Le ricerche scientifiche di Sigmund Freud, Jean Martin Charcot, Joseph Breuer e Ernst Mach testimoniano il vivo interesse per l’«uomo psicologico», antitetico all’«uomo razionale» della tradizione liberale in quanto creatura dotata di istinti e pervasa di emozioni, nonché aggregato di relazioni psichiche, scomponibile in unità minime di significazione. All’«insalvabilità dell’io», generata dall’assenza di un principium individuationis che riconduca la molteplicità del reale a un Tutto organico e conchiuso, si contrappongono, su un piano letterario, i frammenti di un’esperienza vissuta col cuore, che racchiudono un elevato potenziale di significazione, poiché cristallizzano in istanti di comunione mistica l’inarrestabile fluire delle cose. È soltanto in attimi epifanici, non volontariamente evoca-ti ma scaturiti da un inspiegabile processo di selezione fra le cose e gli e-venti del mondo, che l’io riconquista la «facoltà di pensare o di parlare coerentemente su qualsiasi argomento» [Marco Serio, Costellazioni del doppio nel «Golem» di Gustav Meyrink, cit.]

 

Certo discutibile – o almeno da intendere – è la definizione de Il golem come racconto dell’orrore (vediamo le reazioni della gente, vedremo l’incubo dello spettro acefalo). Sicuramente si tratta di una storia inquietante nel segno del Perturbante, ma la natura del riconoscibile non riconosciuto va a braccetto con un rimosso che ha caratteri personali (il passato di Pernath) e comunitari (la memoria culturale del ghetto), dunque di strazio e di spaesamento più che di paura in senso proprio o di orrore nell’accezione classica.

“Dovevo forse aspettare lì per ore o sino al giorno dopo che arrivassero dei poliziotti – questi furfanti di Stato, come li chiamava Zwackh”: e ci rendiamo conto che l’autore è sempre quello dei racconti, ostile alle divise e ai poteri costituiti che spadroneggiano.

Ma a quel punto, con i barbagli fiochi della luce del giorno, si arrischia a rifare la strada dalla botola e si ritrova nella scuola dei suoi ricordi. Prima di tornare a casa, involontariamente spaventa per strada un anziano passante e vari altri, tutti convinti di trovarsi davanti al golem. Allora, infilatosi in un portone, si strappa quei cenci di dosso e un attimo dopo una folla armata di bastoni lo oltrepassa urlando alla ricerca del mostro.

Pernath cerca invano Hillel, e parla con Mirjam, vagheggiando di scolpirne il ritratto su una gemma. Poi però sta per nascondere meglio le lettere della dama, una foto scivola fuori e gli occhi gli cadono sul nome di lei in una dedica, Angelina – e a quel punto “la cortina che mi velava gli anni della giovinezza si lacerò di colpo interamente”. La memoria torna a strappi, illumina passaggi prima non riconosciuti come in una seduta psicanalitica: Athanasius Pernath è il fratello più malinconico di Zeno Cosini, e la scoperta schiude un dolore che gli fa rimpiangere la “morte apparente di prima”. Ma a furia di fissare la foto, a poco a poco riesce a dominarne l’influsso.

Torniamo alle relazioni triadiche. Due insomma sono le donne da cui Pernath si trova attratto (triangolo dell’amore), cioè la sofisticata Angelina e la mistica, angelica Mirjam: la messa a fuoco da parte di Athanasius della profondità dei sentimenti per Mirjam procederà con il suo progresso interiore, ma lo sviluppo sentimentale apparentemente scontato viene gestito da Meyrink con delicatezza e sobrietà. D’altra parte Angelina e Mirjam costituiscono a loro volta una seconda struttura triadica (triangolo delle donne) insieme alla volgare e procace Rosina, a cui Pernath finirà più avanti col concedersi.

Pernath frequenta Mirjam ma anche il padre di lei, il santo e carismatico cabalista Schemajah Hillel, la cui azione di taumaturgo dell’anima permetterà al Nostro di avanzare nel proprio peculiare cammino iniziatico liberandosi da ombre e paure (triangolo delle relazioni di salvezza). Contrapposto polarmente a Hillel e punto di riferimento del Male con cui Pernath deve fare i conti (triangolo delle direzioni esistenziali) è invece il sordido Wassertrum, che pare incarnare fisicamente lo stereotipo del “cattivo giudeo” alla Werner Krauss, ma con uno spessore tragico e tormentato tale – vedremo – da far sovrabbondare il pathos sull’antipatia.

È Wassertrum a voler perdere Angelina, scatenando il meccanismo drammatico della vicenda: e un’altra relazione triadica lega Pernath e Angelina all’amante di lei, il dottor Savioli (triangolo degli amanti), affittuario come il protagonista di una stanza dall’anziano burattinaio Zwakh (triangolo della casa, cioè lo spazio dove si consumano da un lato il feuilleton dello scandalo da sventare, e dall’altro le visitazioni pneumatiche ad Athanasius).

Pernath resta però deluso quando Hillel torna a dargli del lei, dopo la confidenza vibrante dei loro primi scambi. Il fatto è che c’è anche Zwakh, stanno succedendo delle cose; è riapparso il golem, e anche stavolta tutto è iniziato con un assassinio, quello del grosso Zottmann, direttore dell’omonima Società di assicurazione; Rosina è scomparsa e Loisa è stato arrestato. Il sorriso di Hillel svela che non crede alla storia del golem, e neanche al legame con gli omicidi: “Quando spira il vento australe, qualcosa si sommuove alle radici. In quelle dolci come in quelle velenose”. Poi, a Zwakh che l’ha definito rabbino, Hillel offre una risposta interessante: “Io non sono ‘rabbino’, anche se potrei portare questo titolo. Sono soltanto un misero archivista al municipio ebraico e tengo il registro dei vivi e dei morti” (corsivo mio). Un ruolo, insomma, che la dice lunga, considerando che anche il golem – di volta in volta inteso come io vissuto e io vivente – intreccia queste dimensioni.

A quel punto Zwakh gli pone qualche domanda sul pensiero cabalistico e in particolare il Sohar. Libro dello Splendore, che – commenta – è troppo poco a disposizione della gente “comune”. Puntualizzando che contiene “solo alcune chiavi”, Hillel spiega però che occorre concentrare tutti i propri desideri se proprio si aspira a una simile meta di sapienza; e a Pernath che riflette che dovrebbe esserci “un libro contenente tutte le chiavi degli enigmi dell’aldilà, e non soltanto alcune” risponde con un sorriso:

 

Ogni domanda che un uomo possa fare ha già la sua risposta nell’istante medesimo in cui l’abbia posta al suo spirito. […] L’intera vita altro non è che una serie di domande divenute forme, che hanno in sé il germe della risposta – e di risposte gravide di domande. Chi vi vede qualcosa d’altro non è che un pazzo. […] Colui che domanda riceve la risposta di cui ha bisogno: se così non fosse, le creature non prenderebbero la vita dei loro desideri. Probabilmente lei crede che le nostre scritture ebraiche siano scritte con le sole consonanti unicamente per arbitrio. Ciascuno ha invece il dovere di trovarsi da solo le vocali segrete che gli dischiudono il senso a lui e solo a lui destinato – se la parola vivente non deve irrigidirsi a dogma senza vita.

 

Finiscono col parlare dei Tarocchi, dove – spiega Hillel – precipita un’intera conoscenza esoterica, e Pernath ripensa al mazzo trovato nella casa del golem. Ma Hillel cita anche la figura del Doppio, l’Habal Garmin, “soffio delle ossa”, che abiterebbe in una misteriosa stanza senza porte, c’è solo una finestra…

 

(4-continua)

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La coscienza di Gustav (appunti meyrinkiani) 3 https://www.carmillaonline.com/2024/11/09/la-coscienza-di-gustav-appunti-meyrinkiani-3/ Sat, 09 Nov 2024 21:00:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=85113 di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia [...]]]> di Franco Pezzini

(qui e qui le parti precedenti)

Verso Il golem (1909-1915)

Nel 1908 a Meyrink è nato un figlio, la cui parabola di vita segnerà anche quella di Gustav: il giovane Harro Fortunat si suiciderà nel luglio 1932 dopo aver appreso, in seguito a un incidente di sci, di essere rimasto inguaribilmente paraplegico. L’evento condurrà il padre a non lottare più contro la malattia, e morire sei mesi dopo nel dicembre ’32. Ma siamo ancora lontani da quel triste epilogo.

Gustav si trasferisce nel 1911 a Starnberg in Baviera, dove vivrà per il resto della vita; viaggia (Lago di Garda, Praga, Berlino, Svizzera) e produce in varia forma. Tra il 1909 e il 1914, per necessità alimentari, traduce opere di Charles Dickens (Nikolas Nickleby, David Copperfield, Oliver Twist, Il circolo Pickwick), Rudyard Kipling, Lafcadio Hearn e Camille Flammarion. Legittimo pensare che l’immersione in Dickens possa giovare ai suoi progetti di romanzo: in questa fase si ha infatti l’incubazione del capolavoro Der Golem, avviato a Monaco fin dal 1907. Intanto, in collaborazione con lo scrittore Alexander Roda Roda (1872-1945), incontrato in un cenacolo viennese frequentato da Eckstein e pure autore del “Simplicissimus”, vara diverse commedie, via via rappresentate: Bubi (Schuster & Loeffler, Berlino 1912), Il Consiglio medico (Schuster & Loeffler, 1912), Lo schiavo di Rodi (un adattamento dall’Eunuchus di Publio Terenzio Afro, Schuster & Loeffler, 1913), L’orologio (Ahn & Simrock, Berlino 1914). Le annotazioni scenografiche di Gustav rivelano l’influenza delle concezioni artistiche degli studi viennesi, e questi testi (assieme alla sua trasposizione teatrale di varie novelle, in particolare L’albino) rivelano un genuino interesse per il teatro, dove inietta le sferzanti satire dei racconti. Se l’insuccesso riscontrato raffredderà le cose, Gustav inizierà a guardare alle ricche possibilità di un’altra arte più di recente emersa, il cinema; e d’altra parte, come mostra l’esperienza del cinema ungherese (brevi proiezioni seguite dall’irruzione in palcoscenico degli attori, a interagire coi propri personaggi: cfr. qui) i due mezzi mostrano al tempo anche interessanti ibridazioni.

Gustav vagheggia anche la fondazione di una rivista “di pura bibliofilia”, contro il gusto che imperversa a Monaco: titolo previsto, “Gent”, e dovrebbe uscire nel settembre 1913 – ma nei fatti il progetto non decolla. Nel marzo 1913 e poi fino all’anno successivo riprende anche un vecchio progetto (1907-08, con Richard Teschner) di teatro di marionette, ma anche questo senza seguito. Negli anni che precedono la Grande guerra, è poi coinvolto dall’amico Hans Ludwig Held, direttore della Stadtbibliotek di Monaco, quale potenziale collaboratore di una vagheggiata Accademia tedesca di Letteratura e Arte “per evitare il tramonto della letteratura tedesca”: una sorta di risposta ai livorosi attacchi dei circoli nazionalisti tedeschi, iniziativa che però non trova concreti sviluppi.

Nel 1913 esce in tre volumi per Langen di Monaco la grande raccolta di suoi racconti Des deutschen Spiessers Wunderhorn per i tipi Langen di Monaco (malizioso fin dalla copertina, parodizza il romantico Des Knaben Wunderhorn di Achim von Arnim e Clemens Brentano, ma Il corno magico – cioè la cornucopia – del titolo non è del fanciullo bensì del piccolo borghese tedesco); e il volume Der Kardinal Napellus. Erzählung seguirà per Bachmair sempre di Monaco nel 1915. Ma Gustav non smette di scrivere testi brevi, seppur meno numerosi.

Così troviamo anzitutto L’imperatore segreto. Frammento (Der heimliche Kaiser: Fragment), scritto nel 1907 e pubblicato nel 1909 come cap. XII dello scherzo letterario a più mani Der Roman der XII di “Peter Squentius Vindobonensis” (uno pseudonimo collettivo per con Hermann Bahr, Otto Julius Bierbaum, Otto Ernst Schmidt, Herbert Eulenberg, Hanns Heinz Ewers, Gustav Falke, Georg Hirschfeld, Felix Hollaender, Gabriele Reuter, Olga Wohlbrück, Ernst von Wolzogen più appunto Meyrink: il sottotitolo Fragment appare però nella riedizione nella raccolta Fledermäuse: Ein Geschichtenbuch, 1917). L’aspetto forse più interessante dell’esperimento è dato dalla partecipazione di Meyrink assieme a quell’Ewers – brillante ed equivoco visionario e pornografo – che in fondo è una sorta di suo ideale contraltare.

Per racconti veri e propri, Il cardinale Napello (Der Kardinal Napellus, “Süddeutsche Monatshefte” 1913), presenta la storia di Hieronymus Radspieller – forse un ex-monaco, che ormai scrive eruditissimi libri contro fede, speranza e promesse bibliche – residente nel piano affittato e sontuosamente arredato di un castello, e che passa molto tempo nella sua barchetta sul lago. Ha messo a disposizione alcuni locali a un gruppo di quattro amici pescatori: tra loro è il botanico Eshcuid, che un giorno arriva con una pianta velenosa strana e altissima, il napello. A un certo punto Radspieller li raggiunge, ma la situazione è stranamente tesa: la sua sonda di piombo ha raggiunto finalmente il fondo del lago, “il punto più profondo della Terra che uno strumento abbia mai raggiunto!”.

Beninteso, l’evento non gli interessa dal punto di vista dell’astratta scoperta scientifica: “la scienza per noi è solo un pretesto per compiere qualcosa, qualsiasi cosa, non importa cosa”, visto che la vita ha prosciugato loro l’anima. Col risultato di far loro inseguire “capricci infantili per dimenticare quanto [hanno] perduto” e solo per quello. Ma quei capricci hanno anche un altro senso, “Non c’è nulla che possiamo fare che non sia magico”: il suo scandagliare nelle ombre è stato solo un atto esteriore, “ma colui che sa vedere e interpretare, già dall’ombra informe sulla parete sa riconoscere chi si è posto davanti alla lampada…”. Poi, alla domanda di uno dei pescatori su quale evento di vita gli abbia inflitto una ferita tanto amara da lasciarlo così rabbiosamente scettico, spiega di non essere mai stato prete ma suo padre era morto in preda al delirio religioso e lui ne aveva ereditato le angosce.

Nella valle dov’è nato, i membri della setta dei Fratelli azzurri cui lui è appartenuto a lungo, all’approssimarsi della morte si fanno seppellire vivi: e nello stemma del loro monastero spicca una pianta velenosa, il cui petalo superiore somiglia al cappuccio di un monaco – è l’aconitum napellus, il napello blu… Nel giardino del monastero cresce quest’erba azzurra, annaffiata con il sangue delle piaghe che i monaci si autoinfliggono a frustate. All’ingresso nell’ordine si pianta un esemplare che riceve il nome del nuovo adepto. Anzi, sul tumulo del fondatore della setta, il leggendario cardinale Napello, sarebbe cresciuta in una notte di plenilunio una pianta mentre il cadavere di lui scompariva, trasformato in essa, e di lì sarebbero venute le altre. I confratelli si alimentano dei semi tossici del napello, che li portano in uno stato tra vita e morte alla mutazione dei loro cuori… ma dopo un po’, resosi conto dell’effetto di accumulo del veleno per assurde speculazioni misticheggianti, Hieronymus aveva distrutto la pianta che recava il suo nome. La notte aveva poi avuto una visione del cardinal Napello con in mano la pianta dai fiori azzurri, i tratti cadaverici – solo gli occhi erano vitali – e spaventosamente uguale a lui… Allora s’era recato di soppiatto al refettorio, aveva forzato l’urna con le reliquie del cardinale e vi aveva trovato solo il mappamondo che ora è lì nella nicchia, ma l’aveva accompagnato nella fuga dal monastero. Per profanare maggiormente la reliquia l’aveva venduta, donando il ricavato a una prostituta: ma il mappamondo era in seguito tornato in suo possesso in modo casuale tramite un amico…

Ora lì tra vette montane e profondità del lago si era liberato di una religiosità necrotica e della “menzogna che la vita avrebbe uno scopo profondo”, mentre non c’è che terra… Ma a quella confessione tutti sono angosciati, e il botanico cerca di reagire studiando il mappamondo, evidentemente una falsa reliquia moderna che riporta i cinque continenti perfettamente tracciati – c’è persino riportato il piccolissimo lago locale… Hieronymus sta sbeffeggiando il cardinale che non gli appare più nei sogni, ma all’improvviso si accorge con orrore e un rantolo strozzato del napello portato lì dal botanico stesso: il quale nel frattempo ha staccato con un ago la pergamena a copertura del mappamondo, che rivela all’interno una sfera di cristallo dov’è fusa “la figura eretta di un cardinale con mantello e cappello che teneva in mano, quasi fosse un cero ardente, una pianta con i fiori a cinque petali dal colore dell’acciaio”.

A quel punto Hieronymus, similmente immobile e con il napello in mano, precipita nella follia. I quattro amici abbandonano il castello e si separano, per non incontrarsi più; ma tornato sul luogo molti anni dopo, il narrante trova solo rovine del castello, con un’enorme aiuola di fiori ad altezza d’uomo. “[…] era l’aconitum napellus”.

Scritto nel 1913, I miei tormenti e le mie gioie nell’aldilà: comunicati attraverso suoni di colpi spiritici (Meine Qualen und Wonnen im Jenseits: Durch spiritistische Klopflaute mitgeteilt, “Simplicissimus”, 13, 1914) è una farsesca storiella sullo stesso Meyrink, in ipotesi suicida per impiccagione, che racconta scene dell’aldilà dopo il passaggio sulla “chiatta, guidata dal primo presidente del club di canottaggio Caronte” e l’incontro con un’angelicata figura femminile dall’“odore pungente di latte di capra” (un odore, ricordiamo L’anello di Saturno, associato alle beghine) che si rivela Emmeline Pankhurst, la leader delle suffragette. In seguito la sua strada si incrocia con quella di Anubi, Torquemada e Lucrezia Borgia… e il tutto si risolve in una satira sulle rivelazioni degli spiritisti.

“Che cosa siamo noi esseri umani se non burattini indifesi, guidati dai fili da un destino crudele – qua e là, solo per poi abbandonarci all’improvviso senza capo né capo, come per un capriccio infantile?”: La storia del rapinatore-assassino Babinski (Die Erzählung vom Raubmörder Babinski, “Die Ernte”, 3, 1915) è narrata da un uomo che sente ormai estranea la sua casa e prende a peregrinare come un wanderer in una Praga nebbiosa sotto monumenti incombenti. Il testo, che troviamo quasi completamente assorbito nel Golem (capitolo “Donna”), vede la comparsa di tre vecchi amici del protagonista, il burattinaio Zwakh (ispirato all’amico pittore e scultore Richard Teschner, 1879-1948, con cui Gustav ha vagheggiato un teatro di marionette), il pittore Vrieslander (l’amico illustratore John Jack Vrieslander, 1879-1957) e il musicista Prokop. “‘Si siederanno nella locanda del ‘Vecchio Ungelt’ con un bicchiere di grog’, immaginai, ‘e si racconteranno storie grandiose e grottesche’”. Ma la sorpresa maggiore per il lettore del racconto è quando il protagonista entra nel locale dove si ritrovano gli amici e viene chiamato Pernath, come appunto il protagonista del Golem: i tre prendono a raccontargli la storia del truce Babinski.

 

“A poco a poco nelle migliori famiglie si cominciò un bel giorno a registrare la scomparsa di questo o quel congiunto, atteso per il pranzo e invece mai più rincasato. Per quanto in principio nessuno dicesse nulla, perché la cosa aveva in certo modo un suo aspetto positivo, dovendosi così durar meno fatica attorno ai fornelli, non si poté d’altra parte passar sopra al forte rischio che ne venisse a soffrire la propria reputazione e si divenisse oggetto di spiacevoli chiacchiere tra la gente.”

 

Babinski, curiosamente, vive nell’idilliaco di Krtsch presso Praga, in una casetta dal giardino fiorito di gerani: e prende a seppellire le vittime sotto un tumulo erboso che attira sospetti con la sua crescita progressiva. Infine arrestato, viene condannato a un’economica impiccagione, ma allo spezzarsi della corda del cappio la pena è commutata in ergastolo. Viene apprezzato dai funzionari dell’istituto, e infine, amnistiato, è assunto come portinaio nel monastero delle Sorelle della Misericordia. Si emenda, e dalla locanda il sabato sera torna sempre presto, rattristato dalla bassa morale degli avventori. Indignato che a Praga si vendano sue statuette in cera come pericoloso assassino, biasima il fatto che si continuino a sottolineare gli errori di giovinezza di una persona – ed espressosi così sul letto di morte otterrà il divieto di quel commercio.

Come il dottor Hiob Paupersum portò rose rosse alla figlia (Wie Dr. Hiob Paupersum seiner Tochter rote Rosen brachte, “Simplicissimus”, 20, 1915), ambientato a Monaco, è un apologo di critica a una società cinicamente indifferente alle sofferenze dei poveri (il protagonista ha il nome parlante di Giobbe – in riferimento al personaggio biblico – “Pauper sum”, “Sono povero”): dopo aver portato un mazzo di rose alla tomba della figlia, Hiob si taglia le vene, conficca le mani nella terra e il sangue cola “giù verso colei che riposava là sotto”. La scena richiama la morte di Charousek nel Golem, ma, nel caso del povero padre, “Sul suo volto bianco […] era dipinto lo splendore di una pace superba che nessuna speranza era più in grado di turbare”.

Il gioco dei grilli (Das Grillenspiel, “Simplicissimus”, 23, 1915) richiama invece una visione avuta dall’autore nel 1915 sulle cause occulte che starebbero dietro alla Grande guerra. Apparentemente si ambienta nel mondo degli entomologi: in questione è “la scoperta di una nuova specie di grillo bianco” nel luglio 1914 in Bhutan, allora Tibet sud-orientale e oggi stato autonomo, “usato dagli sciamani per pratiche magiche ed è chiamato Phak, una parola che è anche un epiteto ingiurioso per tutto ciò che ha somiglianza con un europeo o con un individuo di razza bianca”. A turbare l’autore della scoperta, lo studioso Johannes Skoper, è l’incontro con un Dugpa, un sacerdote-diavolo della religione Bön che sostiene di discendere dal demone dell’Amanita muscaria (ricordiamo le commistioni umane/vegetali dei racconti e i personaggi che si chiamano come vegetali tossici) ed esperto nel sentiero della Mano Sinistra: ha “il volto dai bagliori verde-olivastri come non avevo mai visto in nessuna creatura vivente” (cfr. il successivo romanzo Il volto verde), un cappuccio rosso in testa ed è addirittura un Samtscheh Mitschebat, “un essere che non è più lecito definire uomo” con illimitati, allarmanti poteri,. Tanto più dopo una scena che mostra l’influsso strano del Dugpa sulla specie di grilli sconosciuta: al comando magico del sacerdote-diavolo, in grado di sciogliere e legare, gli insetti hanno preso a combattere furiosamente e dilaniarsi in modo ripugnante.

 

Non riuscivo a liberarmi da quelle parole: Egli scioglie e lega. A poco a poco esse venivano ad assumere nella mia mente un significato spaventoso e nella mia fantasia quel mucchio di grilli sussultanti si trasformava in milioni di soldati morenti.

Mi mozzava il respiro l’incubo di un senso di responsabilità inspiegabile e mostruoso che era tanto più tormentoso tanto più ne ricercavo invano dentro di me la causa.

 

Lo studioso non torna vivo dal Tibet, mentre si rivela vivo l’esemplare di grillo creduto morto, e chi si appresta a conservare. Invano inseguito dagli studiosi:

 

Scuotendo la testa, il vecchio [Demetrius, il custode] li osservava da dietro la grata della finestra inseguire il grillo con i retini per le farfalle, poi volse lo sguardo verso il cielo serale che imbruniva e mormorò: “Che strane forme assumono le nuvole in questi terribili tempi di guerra! Quella nuvola là ha le sembianze di un uomo, il volto verdastro e il cappuccio rosso, se gli occhi non fossero così distanti avrebbe quasi un aspetto umano. È proprio vero che anche in veneranda età possiamo diventare superstiziosi”.

 

Sempre nel filone delle storielle maliziose con animali, Amadeus Knödelseder, l’incorreggibile avvoltoio degli agnelli (Amadeus Knödlseder, der unverbesserliche Lämmergeier, “Simplicissimus”, 30, 1915) è una favola satirica fino allo sberleffo sui compatrioti bavaresi (ma ce n’è anche per gli italiani).

Racconti insomma nel complesso interessanti, anche se il periodo va soprattutto ricordato come quello di incubazione e presentazione del capolavoro di Meyrink, Der Golem. Il romanzo è apparso serializzato su “Die Weißen Blätter” tra dicembre 1913 e agosto 1914, e dopo vari rifiuti viene edito infine a Lipsia per i tipi Kurt Wolff, 1915. Che la stampa decisa di duemila copie venga realizzata in ventimila per un errore editoriale pare ovviamente una leggenda: ma il risultato è un bestseller che esaurisce le copie in pochi mesi (145.000 copie vendute in due anni) e a oggi continua a essere riedito e ristampato, anche in Italia.

Tradotto in italiano nel 1926 (in due volumi, per i tipi Campitelli di Foligno, dal goriziano Enrico Rocca, amico di Stefan Zweig, sull’onda del successo per la scrittura modernista che – come vedremo – connota l’opera), in ceco, inglese e francese alla fine degli anni Venti, il romanzo presenta la storia di Athanasius Pernath, un restauratore e intagliatore di pietre preziose che vive nel ghetto di Praga. Ma la presenta facendola vivere con uno stratagemma narrativo molto interessante, che già conduce sulle vie sottili dell’interiorità: all’inizio del Novecento un giorno, nella Cattedrale, l’innominato narrante – uno scrittore che legge un libro sulla vita di Siddhartha Gautama prima di andare a letto, virtualmente Meyrink stesso – scambia per errore il suo cappello con quello dell’ormai anziano Pernath, e ne rivive la vita da trent’anni prima, la sua ricerca identitaria nonché la rete di vicende di una serie di persone a lui connesse. Risvegliatosi dopo un inquieto dormiveglia nei panni del quarantenne Pernath, si vede dunque commissionare da un misterioso sconosciuto (il golem?) il restauro di un antico, fatale libro, Ibbur, che gli spalanca le dimensioni dell’interiorità. Accanto a Pernath e idealmente alle sue spalle, come i geni antitetici del male e del bene del Faustus di Marlowe, sono due personaggi del ghetto: il ricco, spiacevole rigattiere Aaron Wassertrum, uomo dell’Ombra e forse assassino – sorta di repellente precipitato di tutti gli stereotipi razzisti antiebraici – fronteggiato dalla sua nemesi e figlio naturale, lo studente di medicina tisico Innozenz Charousek, di cui ha sfruttato sessualmente la madre (il personaggio pare ispirato a Meyrink dallo scacchista ungherese Rudolf Charousek, 1873-1900); e il luminoso, saggio mistico Hillel, impiegato al municipio ebraico, mentore di Pernath sulla via del Talmud e della Cabala, della cui compassionevole figlia Mirjam, la ragazza che crede ai miracoli, il Nostro s’innamora.

Circondato da presenze deliziose (i tre impagabili amici Zwakh – il burattinaio suo padrone di casa –, il pittore Vrieslander e il musicista Prokop) o torbide (la ripugnante prostituta quattordicenne dai capelli rossi Rosina, in apparenza parente di Wassertrum; i gemelli Loisa e Jaromir; l’ambiguo adultero seriale dottor Savioli e la contessa Angelina sua amante…), tra cadute morali e aspirazioni alla luce, Pernath viene accusato falsamente di omicidio e finisce in carcere – come Gustav anni prima. Peccato che durante quel periodo lo sventramento urbanistico del quartiere ebraico e una serie di convulse vicende cancellino il suo mondo e facciano sparire gran parte dei personaggi… Così quando il Nostro viene liberato si mette alla ricerca di Mirjam. La restituzione del cappello alla fine (teniamo presente che Meyrink stesso vede alla luce del passato e della distanza la Praga da cui è partito tanto tempo prima) ha il sapore di un lieto fine e di un riposizionamento spirituale, di un recupero identitario su un piano più alto.

La stile onirico, ellittico e febbricitante – ma anche, a tratti, surrealmente vignettistico e caricaturale, in un legame mai perduto con la produzione breve dell’autore – si collega anche con la genesi editoriale e la forma a puntate della narrazione che deve ogni volta rilanciare sia nel segno del mistico che degli effetti di “presa” sul lettore. Merita ricordare che le illustrazioni inizialmente varate da Alfred Kubin per Il golem (la corrispondenza risale al 1907), a fronte dei ritardi di Gustav, finiranno nel romanzo kubiniano L’altra parte: e in effetti, senza alcuna necessità di denunciare imprestiti tra l’una e l’altra opera, tra l’onirica Praga di Meyrink e la straniante Perla di Kubin emergono interessanti analogie.

A questo quadro sfuggente pertiene la stessa figura del golem: qui non un gigante d’argilla sollevato misticamente dai rabbini a tutela della comunità del ghetto, come nelle leggende, ma una creatura sfuggente, perturbante (emblematico il volto attribuitogli da Hugo Steiner Prag nell’edizione originaria, oggi riprese in quella italiana per Tre Editori, 2015) che vediamo di rado ma pare evocare gestalticamente spirito e psiche collettiva del ghetto – dove appare con regolarità – e dei suoi abitanti, prendendo consistenza dalla sofferenza storica dei medesimi. E che, come un doppio, rispecchia anzi qualcosa dell’anima della singola persona che lo incontra, delle sue ossessioni e angosce. Insomma,

 

La leggenda dell’essere formato da polvere o argilla che prende vita attraverso l’evocazione rituale di una combinazione di lettere per aiutare la comunità nel testo di Meyrink assume da subito sfumature moderniste. […] La rappresentazione del golem, più che essere la figurazione mistica della tradizione, in Meyrink si lega perciò già all’inizio del romanzo a una riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico. [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, “Ticontre. Teoria Testo Traduzione”, 18 (2022)]

 

D’altra parte, così come rende interiore e psicologica la funzione del golem, allo stesso modo Gustav compone un intreccio che – descrizioni d’ambiente a parte – è tutto interiore. Hillel spiega a Pernath che Sapere e Memoria sono identici, trascendendo le polarità di razionale e irrazionale. I momenti di sogno sono sempre più numerosi, il racconto ne viene via via saturato e la coscienza (lo si veda nell’uso stesso dei tempi) viene inghiottita dal subconscio.

Vano dunque porsi il problema dell’oggettività delle esperienze di Pernath e in fondo dell’anonima voce narrante: il tutto si traduce a sogni, visioni, allucinazioni o eventi interiori, trascendenti, che ritmano la vicenda lungo il suo corso. Tra l’altro emerge che Pernath ha avuto in passato un crollo mentale per mal d’amore, ed è stato a lungo ricoverato in manicomio prima di un blocco della memoria indotto dall’ipnosi – ma il tutto resta sfuggente e rimosso, come il suo stesso pregresso giovanile, per riemergere all’incontro con Angelina, oggetto del suo antico sentimento. Da perfetto narratore inaffidabile, guardato con perplessità dagli amici nella sua stabilità mentale, il protagonista sfida così il lettore a capire quanto gli eventi siano reali – almeno su un certo piano – ma, appunto, il problema rischia d’essere malposto.

Freddino sull’insieme, Kafka vedrà in Meyrink e nella Praga del Golem anzitutto la forza di una pittura d’atmosfera: e certo l’ambientazione resta uno straordinario punto di forza dell’opera. A dispetto di ogni banalizzazione turistica odierna sulla Praga “magica”, l’attenzione dei lettori può così focalizzarsi su quello storico quartiere ebraico di Praga che al momento della pubblicazione è ormai completamente ridisegnato.

Il risultato è un enorme successo editoriale. Presentato in modo un tantino forzato: un “sensazionale romanzo poliziesco” sul “Demone di Praga”, che insieme crea suspense e stimola una riflessione etica sui temi dell’anima del destino. Se non manca chi lodi la dimensione filosofica e teosofico-religiosa del romanzo, molti vi vedranno semplicemente un fantastico tout court dalle caratteristiche un tantino cervellotiche, o magari un semplice, per quanto suggestivo, romanzo dell’orrore. Per quanto Meyrink flirti talora con le sirene della Schauerliteratur, con le sue perversioni e le forti tinte tanto vivide nei colleghi Ewers e Strobl, dove “il compiacimento nell’orrore si allea ad una segreta accettazione dell’ordine costituito” (Jean-Jacques Pollet), il suo posto è piuttosto in un altro filone di inquietudine, dove l’espressionismo traduce il turbamento in una visione apocalittica e imposta l’interrogativo identitario nella domanda radicale: “Chi è adesso ‘io’” con cui si chiude il primo capitolo del Golem. Quel che nasce qui è un nuovo tipo di fantastico, prettamente novecentesco. virato sullo sguardo di chi vede piuttosto che sull’oggetto visto.

Altro equivoco, la mancanza di filologicità di Meyrink rispetto alla tradizione sapienziale ebraica: da cui critiche ingenerose e dogmi interpretativi infondati. Scholem, grande studioso di Cabala, pur apprezzando del testo la forte suggestione d’ambiente, criticherà l’uso fantastico fino al grottesco delle idee teologiche ebraiche, le forzature sincretiste nel segno del pensiero indiano e di un certo confuso esoterismo alla Madame Blavatsky: il golem diventa nel romanzo una sorta di ebreo errante, lontanissimo dal profilo della tradizione. Ma se, proprio a Scholem, Meyrink chiederà allegramente di spiegargli alcuni aspetti del romanzo che lui stesso non avrebbe capito bene, sembra di vedervi un ridimensionamento del peso dell’elemento mistico – pur presente – a favore di quello narrativo e psicologico. Non è un caso che, incontrando il golem, i personaggi vi ritrovino qualcosa come una rifrazione oscura di sé, almeno parziale: a rinnovellare col modernismo la grande riflessione letteraria sul doppio.

Tanto più che in realtà inizialmente il titolo generale non faceva affatto riferimento alla figura mitica ebraica, e suonava Der Stein der Tiefe. Ein Guckkasten (La pietra del profondo. Un mondo nuovo) – così il frammento pubblicato sulla rivista di letteratura e arte “Pan” nel 1911 –, con Golem come titolo del quinto capitolo. Il cambio viene suggerito dall’editore: ciò a ridimensionare non la simpatia di Meyrink verso la cultura ebraica ma il peso della medesima nell’economia del romanzo, che – com’è stato osservato – va letto piuttosto nel segno dell’attenzione modernista alla psicologia (la pietra del profondo in questione, che somiglia a un pezzo di grasso, è un oggetto delle ossessioni di Athanasius, e non c’entra con il pensiero cabalistico). Torniamo così alla citata “riflessione narrativa sull’identità e il doppio, l’inconscio e il fantastico”. Semmai qualcosa della tradizione ebraica – ma non solo – può emergere nel sottotitolo: il Guckkasten è il mondo nuovo o mondonovo nel senso della macchina ottica anticipatrice del cinema, e nel romanzo si ricorda come Rabbi Löw avrebbe proiettato con una lanterna magica immagini paurose di defunti alla corte di Rodolfo II. Ma ciò finisce con l’evocare anche le ombre del cinema al tempo in evoluzione (inevitabile pensare ai film espressionisti sul golem poi varati con grande successo), e comunque un tipo di visione narrativa a base di giochi d’ombre inseguita in tutto il testo. Come sintetizza Fossaluzza, “Il risultato è una dimensione narrativa in cui sogno e realtà, psicologia e mondo reale si fondono completamente”. E il golem si rivela in fondo una figura umbratile e sfuggente da lanterna magica, oggetto di una “narrazione prolifica” (la leggenda udita invade il racconto): “Né sveglio né dormiente, scivolo in una sorta di sogno in cui ciò che ho vissuto si mescola a ciò che ho letto e sentito”. La coscienza collettiva afferra l’Io, l’Io è un Altro. Ma dunque il golem è insieme anche doppio e revenant (il ritorno del rimosso, il Perturbante): la sua apparizione è un ritorno, conduce alla stanza proibita dove incontrare il Subconscio. La sostituzione dei cappelli non è un semplice artificio buffo, ma rimanda a uno sdoppiamento. E il finale garantirà della fondatezza del sogno, almeno fino a un certo punto: l’imbarazzo del fantastico resta, e l’Io appare in scena – e questo è autenticamente espressionista – attraverso il teatro del mito.

L’equivoco condurrà peraltro alle critiche più stolide, livorose e incarognite al romanzo, quelle da parte dell’estrema destra nazionalista. Sui relativi giornali Meyrink viene accusato di propaganda a favore della “politica e cultura ebraica”: su “Deutsches Volkstum” e nell’opuscolo Gustav Meyrink und seine Freunde, Albert Zimmermann manifesta i suoi sospetti che Meyrink debba essere ebreo, tanto è interessato ai temi ebraici, e avvicina le satire antimilitariste dell’autore agli scritti critici del poeta ebreo tedesco Heine. Per Carl Gross, l’obiettivo principale del Golem sarebbe senz’altro “promuovere la politica e la cultura ebraica”. Invano interverranno a difesa di Gustav l’Associazione degli autori tedeschi e letterati come Heinrich Mann ed Hermann Hesse; e più tardi, alla salita al potere dei nazisti, i libri di Meyrink verranno pubblicamente bruciati come espressioni di “uno spirito non tedesco” (maggio 1933), con la distribuzione delle sue opere vietata. Ma al tempo lui è già morto (4 dicembre 1932), e mentre si avviava alla fine della vita sentiva l’approssimarsene come una grazia.

Mentre l’enfasi squilibrata sugli aspetti esoterici, a detrimento delle altre dimensioni presenti – compresa una che potrebbe definirsi pre-surrealistica – renderà il libro gradito agli estremodestri italiani, il sottomondo del Gruppo di Ur e i loro eredi anche odierni.

 

Su un piano poetologico, la concatenazione di “realtà”, “psicologia” e “magia”, […] non è tuttavia solo lo sfondo tematico del romanzo. “Realismo”, “psicologia” e “magia” sono anche le categorie estetiche su cui esso si fonda. Letto in questo senso, Il Golem non appare più solo come il manifesto letterario delle correnti mistico-esoteriche di quegli anni, ma si rivela essere un romanzo genuinamente modernista. Il Golem è infatti uno dei pochi testi della letteratura di lingua tedesca riconducibile ante litteram alla corrente estetica che nel 1925 il critico d’arte Franz Roh (riferendosi alla pittura) proprio in Germania definirà «realismo magico». [Cristina Fossaluzza, Composizione surrealista con figura invisibile. Il golem di Gustav Meyrink nella traduzione di Enrico Rocca, cit.]

 

Col che non si intende, come ovvio, che nel Golem la dimensione esoterica manchi, ma che sia stata sopravvalutata in modo deformante a danno di altre, meno rispondenti alla facile chiacchiera e meno facilmente prone a fantasie e ossessioni di alcuni critici predatori e dei relativi bacini di lettori (l’esoterico piace e intruppa sotto labari che conosciamo). Sul tema dovremo comunque tornare.

(3-continua)

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Il golem, le pesche e lo specchio https://www.carmillaonline.com/2021/06/24/il-golem-le-pesche-e-lo-specchio/ Thu, 24 Jun 2021 20:31:18 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=66901 di Franco Pezzini

Sarah Blau, Il libro della creazione, trad. dall’ebraico di Elena Loewenthal, pp. 279, € 16,50, Carbonio, Milano 2020

“I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo / e nel tuo libro erano tutti scritti / i giorni che mi eran destinati, / quando nessuno d’essi era sorto ancora”: così, nella cosiddetta Nuova Riveduta, il versetto 16 del Salmo 139. La “massa informe” (o materia grezza, o embrione) è resa con la parola ebraica gōlem, da cui il mito tardo sul gigante d’argilla, privo di facoltà intellettive ma di [...]]]> di Franco Pezzini

Sarah Blau, Il libro della creazione, trad. dall’ebraico di Elena Loewenthal, pp. 279, € 16,50, Carbonio, Milano 2020

“I tuoi occhi videro la massa informe del mio corpo / e nel tuo libro erano tutti scritti / i giorni che mi eran destinati, / quando nessuno d’essi era sorto ancora”: così, nella cosiddetta Nuova Riveduta, il versetto 16 del Salmo 139. La “massa informe” (o materia grezza, o embrione) è resa con la parola ebraica gōlem, da cui il mito tardo sul gigante d’argilla, privo di facoltà intellettive ma di forza prodigiosa, che grazie alla conoscenza della cabala – e in particolare dell’antico trattato Sefer Yetzirah (II-VI sec. d.C.), letteralmente “Libro della creazione” – alcuni dotti rabbini avrebbero fabbricato a difesa della comunità da pogrom e altre insidie. Di solito si pensa all’Europa orientale, e non è troppo noto che storie molto antiche di golem riguardino l’Italia meridionale, per esempio Benevento e Oria in provincia di Brindisi, dove la presenza ebraica era significativa; è però vero che le più celebri restano quelle di Praga su Rabbi Löw, che soprattutto nel Novecento condurranno a indimenticabili trascrizioni letterarie e cinematografiche.

D’altra parte se il golem dell’omonimo romanzo di Meyrink (scritto 1907-14, edito a puntate 1913-14, in volume 1915) è una presenza sfuggente a metà tra il genius loci del ghetto di Praga e una manifestazione dell’inconscio collettivo dei suoi abitanti, non mancheranno altre interpretazioni pneumatiche e non canoniche. Per esempio come spirito dell’esilio nel film – appunto – L’esprit de l’exil di Amos Gitai, 1992: per il regista, “nel corso della storia, [il golem] verifica la sua impossibilità di funzionare come strumento di salvezza delle minoranze, degli immigrati, dei perseguitati”. Due insomma sono le componenti attorno a cui il mito golemico si costruisce e decostruisce continuamente in età moderna: una materiale, figurata come argilla, che lo mostra prototipo di Adamo, pure plasmato quale impasto di terra (in base all’assonanza popolare ‘dm/uomo con adāmā/terra, suolo) e una immateriale, un’incompiutezza che dalla connotazione d’informità originaria (quasi un parallelo nell’uomo, prima del soffio d’alito vitale, con la condizione caotica della realtà intera prima della creazione della luce in Gn 1,3: ōhū wā-ōhū, senza forma e vuota) tracima per le vie sottili come un limite, un trasalimento o una condanna. Questa quasi-creatura potenziale, frutto di sogno e magari di tentazione, è già un golem, il quasi-Adamo di una creazione minore ed eventualmente blasfema, permessa dalla sovrabbondanza di vita sedimentata nella creazione ma come extrema ratio, limite su cui testare il nostro concetto di necessità e alternativa comunque pericolosa.

Tutto ciò pare necessario ricordare davanti al bellissimo romanzo d’esordio della scrittrice, drammaturga e attrice Sarah Blau, “Conosciuta per il suo approccio originale e femminista alla cultura ebraica ortodossa” (così l’aletta), che si legge come assistendo a una play – per il tipo di dinamiche dove l’autrice valorizza la propria esperienza teatrale – ma che assieme mantiene una qualità di romanzo genuinamente letteraria. Una scrittura magmatica, argillosa e ricchissima, questa di Blau che ammette un’identificazione forte con la ribelle e goffa protagonista Telma, una trentenne oppressa da una grigia famiglia tradizionale, e che rispetto alla realtà israeliana in cui è incastonata prova sentimenti d’inadeguatezza, ribellione e ripugnanza.

Tutto parte con l’ultimo congedo da quella nonna Gerta che, unica in famiglia e nella comunità, aveva avuto concrete predilezioni per Telma: ed è straordinaria la scena di un funerale dove regna un vago imbarazzo e gli altri anziani occhieggiano con stranita inquietudine. Già eroina della rivolta del ghetto di Varsavia contro i nazisti, Gerta vi avrebbe scatenato un golem la cui opera ancora atterrisce rabbino ed ex-compagni… L’anziana sembra aver intravisto che la nipote, forse proprio per la sua frustrazione e le sue mancanze, è in grado di lanciarsi con potenzialità più rabbiose nella magia cabalistica: e insieme alla propria casa (per renderla autonoma dagli ingombranti genitori), le lascia un libriccino sporco – tanto più sporco quanto più usato e potente, e titolato Libro della creazione – con le formule per destare il golem.

La trama di Il libro della creazione si potrebbe sintetizzare agilmente come storia di chiamata alla vita di una creatura che sia per Telma amante e partner – soccorrendola in fondo dall’attacco della realtà in quello che è il suo problema primo ed essenziale, la mancanza di eros. Tuttavia nel testo si può riconoscere anche un livello più profondo in tutto un rapporto conflittuale di Telma con una società chiusa, e nel suo tentativo di cambiare le cose appellandosi a un potere più alto.

Come spiega l’autrice in un’intervista, il romanzo è stato scritto in un momento molto difficile della vita, in cui non riusciva a riconoscersi: ed era stato immediato volgere al femminile le storie su uomini creatori del golem. Inevitabile pensare al lascito perturbante nella mitologia ebraica di arcaiche entità femminili poi ripudiate, demonizzate o confinate nel puro simbolo dall’affermarsi di una cultura patriarcale; e ciò in parallelo anche a una gestione del sacro (e del magico) sempre più rigorosamente maschile. Un’opera scritta comunque da Blau anzitutto per se stessa, per salvare se stessa, e che pare dunque condividere in parte il ruolo del libriccino di nonna Gerta: leggendo Il libro della creazione abbiamo anche noi la sensazione di trovarci le mani, le unghie incrostate dell’argilla del primo e fallimentare tentativo magico di Telma – condotto assieme al cugino amato invano, Chanan, poi strappatole dalla cugina perfettissima e odiosa, Nilli – e del secondo e riuscito, mentre ristagna nel caldo l’odore fradicio e dolciastro delle pesche dei vasetti della nonna. Ci troviamo le mani sporche d’argilla sia per la qualità tattile – oltre che olfattiva – della scrittura di Blau, sia perché dalla soffitta delle nostre tentazioni (come in quella di casa di Telma o nell’altra della sinagoga Staronova di Praga, per opera di Rabbi Löw), saremmo a volte spinti a scatenarlo, il golem…

Del resto, conformemente alle dottrine cabalistiche,

 

In questo libriccino, cui sei tanto affezionata si trova l’idea che delle combinazioni di lettere possono formare mondi, e creare vita. Ogni lettera che pronunciamo stupidamente, insensatamente, con cattiveria, ingenuità o indifferenza, ogni lettera crea qualcosa. “Telmaaaaa!” e voilà! Qualcosa viene alla luce.

A te sembra molto logico che le lettere siano ciò che dà la vita.
Lo stupore vero è il fatto che il tuo corpo umano abbia questa facoltà. Perché le lettere sono molto più forti delle tue vulnerabili ovaie. Alef! Yod! Shin! Alef! Yod! Shin! Hey! Questa è l’essenza della creazione, altro che un’accozzaglia di vene e sangue.

 

E ciò vale – ne facciamo esperienza tutti i giorni – a partire dalla letteratura, che appunto attraverso le lettere forma mondi e crea vite.

La single Telma, frutto di genitori fragili, goffi e dimessi portatori di un messaggio di annullamento del desiderio laddove la figlia desidera eccome, afflitta da un fisico che avverte sgraziato e sostanzialmente sola, alla deriva del disordine e dello sporco di casa, non accetta quel gioco di regole in cui invece scintilla Milli: vive in modo conflittuale il rapporto con tutta la realtà, quella interna – a partire dalla propria femminilità – come l’esterna (i genitori, il lavoro d’insegnante nel liceo femminile della propria imprecisata cittadina, le allieve sicure di sé, la propria immagine persino nel vestire) e non è più disposta a soffocare in sé le proprie ribellioni. La memoria della Shoah, oggetto dei racconti alle allieve e delle storie sull’eroica nonna, ma anche – notiamo lo scarto generazionale – di questioni di proprietà su un certo alloggio che il padre sta cercando di recuperare, pesa come un’eredità di morte su tutto: e anzi in tutto il testo ristagna quell’odore della morte dolciastro come pesche, nel segno di una corruzione che sembra tracimare nei pensieri e nelle ferite dell’anima e farsi putrefazione di pensieri, rimorsi e rimpianti, ricordi e desideri, tanti desideri.

Telma decide dunque di prendere il controllo della propria vita, costi quel che deve costare. E il romanzo sembra trasmettere in termini quasi sensoriali qualcosa di un corpo tutto umori e desiderio, di un calore tellurico al momento della chiamata alla vita della massa informe, della sensazione in casa di un crocchiare di terra del cimitero sotto le scarpe. Con quella propria creatura che chiama Shaul, “il desiderato”, assieme – in qualche modo – figlio e amante in grado di soddisfare l’impasto imperfetto della sua identità, Telma subentra a sua nonna nella custodia del Libro della creazione e anche nel ministero ribelle di una magia femminile illecita per il mondo dei patriarchi: e il sesso con Shaul sbriciola l’argilla di cui è fatto e sbriciola assieme il mondo interiore di Telma e i suoi divieti, investendo a cerchio d’onda tutta la cultura del mondo dell’autrice. Possiamo stupirci che nella realtà la madre di Blau, incontrandola una volta l’anno (lo racconta lei stessa), le chieda angosciata se davvero non sia lei il modello della dimessa madre di Telma? Possiamo stupirci se nel romanzo, a contraccolpo di quella rabbiosa antigravidanza cabalistica, la madre di Telma sviluppi un tumore e tutto intorno inizino a moltiplicarsi calamità? Perché nell’equilibrio generale a qualcosa che nasce forzatamente deve corrispondere la morte di altro: e nel suo modo torpido e contraddittorio, Telma dovrà decidersi ad affrontare il problema che ha spalancato…

Certo possiamo domandarci se il golem ci sia davvero: se davvero offra a Telma la passionalità sessuale che desidera, se realmente si scontri con Chanan, se sia lui la vera causa di tutta la distruzione che si accende intorno come un incendio. O se invece le lettere che danno sostanza a parole e sogni non l’abbiano fatto sorgere come una semplice rifrazione nello specchio oscuro dei desideri di una Telma alla deriva… La chiave può del resto trovare conferma nella citazione d’incipit, dal Frankenstein: “Ma come fui terrorizzato quando vidi me stesso in una pozza trasparente! All’inizio sobbalzai, incapace di credere che ero veramente io quello riflesso nello specchio…”.

Irrimediabilmente scissa tra l’immagine di sé che l’ambiente si aspetta– quella apprezzabile di persona matura, devota e professionale – e quella, piena di contraddizioni, debole e schiava di istinti che coglie con frustrazione nel proprio specchio interiore, cioè embrione soltanto della donna libera che mirerebbe a essere, in fondo è Telma stessa il golem; e attraverso quel riflesso lo è l’autrice – come a suo tempo lo era stata Mary Shelley, che nel gioco di virtuali identificazioni del romanzo proprio nella creatura si rifrangeva. Si è osservato come in Blau l’uso dei tempi verbali, la prima persona singolare che si stempera con frequenza nella seconda o nella terza, finisca con l’essere rivelativo di una frantumazione identitaria. Ma attraverso il tunnel di quell’eros malato che è però sostenuto da un’azione sui livelli sottili della realtà, e nel confronto con gli occhi vuoti del riflesso narcisistico Shaul creato a suo specchio per soddisfarla, Telma cambia: e cambia l’autrice, che brandendo il proprio testo eretico ed erotico, spietatamente ironico e nero davanti a una società perplessa riesce a salvarsi. Forse il passaggio di un cartiglio cabalistico nella bocca di Telma può animarla a nuova vita: forse il racconto nero di quel che siamo nel riflesso del nostro rapporto col mondo attorno può aiutarci a uscire dalle nostre impasse. Attraverso quella forma di magia cabalistica che è la narrazione.

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Immagini del conflitto / Corpi https://www.carmillaonline.com/2018/06/09/immagini-del-conflitto-corpi/ Fri, 08 Jun 2018 22:01:41 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46124 di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; [...]]]> di Gioacchino Toni

Convinto di come il genere fantascientifico – nelle sue molteplici dilatazioni – abbia saputo condensare epocali processi sociali e conflitti politici, Antonio Tursi, nel suo recente libro Immagini del conflitto. Corpi e spazi tra fantascienza e politica (Meltemi, 2018), si sofferma su alcune rappresentazioni che a ridosso del cambio di millennio hanno messo in luce quei mutamenti di confini che stanno ridisegnando i nostri corpi in un orizzonte post-umano.

Attraverso una serie di esempi narrativi – la figura del cyborg, con i suoi rimandi alla creatura frankensteiniana e a Dracula; l’universo avatariano di James Cameron; la nuova carne cronenberghiana; la trilogia cinematografica dei fratelli Larry e Andy Wachowski; il ciberspazio dei romanzi di William Gibson, il Metaverso descritto da Neal Stephenson – Tursi riflette su questioni che toccano il nostro presente materiale-immaginario in un volume suddiviso in due parti: Corpi e Spazi. In questo scritto ci limiteremo a prendere in esame soltanto la prima parte del libro, relativa ai Corpi, ripromettendoci di tornare sulla seconda, dedicata agli Spazi, successivamente.

Il rapporto tra corpi e immaginario risulta meno oppositivo di quanto non appaia in un primo momento e ciò risulta particolarmente evidente nell’immaginario tecnologico. Se già nel Golem, creatura umanoide artificiale della tradizione ebraica, nel suo essere proto-umano, i confini tra umano e non-umano, organico e inorganico, naturale e artificiale non appaiono tracciati con la nettezza che contraddistingue la cultura occidentale, è però sull’essere mostruoso assemblato da Frankenstein e sulla figura del conte Dracula che Tursi avvia la riflessione sulla recente figura ibrida del cyborg.

Il corpo della creatura frankensteiniana di Mary Shelley rappresenta l’oggetto scandaloso con cui è costretta a confrontarsi la società borghese pre-vittoriana. «Un corpo assemblato rappezzando pezzi anatomici di cadaveri, attraverso un commercio con il-già-morto, con membra destinate alla putrescenza. Con ciò che la società degli umani ha già relegato nell’altro da sé, anche fisicamente rinchiudendolo nei cimiteri all’esterno delle città» (p. 34). Il corpo della creatura mostruosa è sospeso tra vita e morte, «tra visioni normalizzate dell’umano e visioni inquietanti di ciò che umano non è ritenuto e che, nonostante ciò o proprio a causa di ciò, insiste nel mettere in discussione le certezze umane» (p. 34). Le membra tratte dai cadaveri ricevono la vita dal dominio moderno tecnico-scientifico sulla natura; l’immaginario tecnologico veicolato dalle vicende della creatura frankensteiniana ha sicuramente a che fare con i mutamenti tecnologici e sociali propri del periodo compreso tra la prima e la seconda rivoluzione industriale. Scriveva a tal proposito sul finire degli anni Settanta Alberto Abruzzese (La grande scimmia. Mostri vampiri automi mutanti. L’immaginario collettivo dalla letteratura al cinema e all’informazione, 1979) che nel momento in cui le macchine invadono l’uomo e la natura, all’orrido paesaggistico finiscono con l’aggiungersi gli orrori industriali e metropolitani di un capitalismo che porta sfruttamento e alienazione.

Un aspetto interessante della creatura di Frankenstein riguarda il legame tra l’evoluzione biologica e quella culturale, tra corpo e tecnica. Quando il mostro assemblato tenta di raggiungere una sua autonomia, inevitabilmente sente il bisogno di esprimere le sue emozioni, di comunicare con gli altri esseri umani al fine di farne a tutti gli effetti parte ma, paradossalmente, «è poco macchina»; non possiede la macchina sociale del linguaggio. Il mostro deve acquisire un elemento artificiale come il linguaggio per potersi dire davvero umano.

Dracula di Bram Stoker è invece un essere metamorfico, il suo corpo si trasforma in altro da sé, in altre specie viventi, collocandosi in un immaginario di fine secolo caratterizzato dall’instabilità del soggetto moderno. È attraverso il sangue raggiunto dai denti aguzzi che il suo corpo di non-morto si ibrida con il corpo dei mortali in un meccanismo di attrazione reciproca, di contaminazione e di trasformazione. «Metamorfosi e ibridazione emergono come caratteristiche decisive del corpo di Dracula e perturbano la stabilità e l’identità dei corpi umani» (p. 42). Nella sua alterità si annida un vettore di disordine che mette in pericolo l’identità occidentale che la tradizione umanistica ha edificato nel corso dei secoli: è l’intero ordine da essa costruito ad essere messo a rischio.

La narrazione di Dracula, sottolinea Tursi, si inscrive perfettamente all’interno delle trasformazioni comunicative moderne; nel testo si giustappongono diversi mezzi di comunicazione e attorno al buon esito o meno della comunicazione si determinano comprensioni o incomprensioni tra i diversi personaggi con importanti ricadute sull’epilogo. Oltre alle comunicazioni anche i numerosi mezzi di spostamento hanno importanza nella narrazione che conduce, inesorabilmente, verso la dissoluzione del corpo di Dracula e se ciò accade è perché i suoi nemici possono ricorrere ai mezzi messi a disposizione dalla moderna società capitalista che regola così i conti con un passato costretto a lasciare spazio al nuovo mondo che avanza.

Questa immersione nella civiltà tecnologica dei protagonisti del romanzo di Stoker svela sino in fondo il conflitto che ha portato alla dissoluzione del corpo di Dracula e all’impedimento posto alla trasformazione in non-morta del corpo di Mina. Da un lato, infatti, c’è l’aristocratico conte Dracula dotato di notevoli risorse, lascito di un passato glorioso; dall’altro, un manipolo, tutto sommato abbastanza omogeneo, sintesi della borghesia occidentale, anch’essa dotata di bastevoli risorse, frutto delle attività dei tempi recenti. Evidentemente, queste ultime superiori alle prime tanto da consentire la vittoria all’avvocato Jonathan Harker, all’americano Quincy Morris e agli altri inseguitori. Alla fine Mina potrà con un certo autocompiacimento “riflettere sul meraviglioso potere del denaro! Che cosa possono fare i soldi quando sono impiegati come si deve”. Cosa pu fare il capitalismo nel pieno della seconda rivoluzione industriale e poco prima del passaggio di secolo? (p. 45).

A dissolversi con il corpo del conte è anche l’Uomo cartesiano, infrantosi contro il «corpo polimorfico, ibrido e desiderante di Dracula. Questo essere diabolico ha rivelato la contingenza storica del progetto moderno: le apparentemente intoccabili catene dell’ancien régime si sono spezzate per essere prontamente sostituite da nuove catene, quelle che nel romanzo di Stoker si colgono nel rapporto di reverenza nei confronti delle classi emergenti da parte dei personaggi di ceto sociale inferiore» (p. 46). Usciamo da questa vicenda coscienti del «carattere dinamico del nostro “essere-generico” (gattungswesen) […] costruzione prodotta dai rapporti capitalistici di produzione» (p. 47).

Non è difficile comprendere i motivi per cui il mostro organico-artificiale frankensteiniano e il metamorfico Dracula riescano ad avere ancora un ruolo importante nell’immaginario contemporaneo. Nonostante si tratti di figure nate nel corso di un epoca passata di grandi mutamenti della quale hanno saputo condensare i conflitti sociali e l’immaginario, sembrano comunque capaci di far riferimento anche a un contesto contemporaneo caratterizzato da un immaginario tecnologico riferito al corpo umano in cui

la tenco-scienza si è fatta mondo, si è posta […] l’obiettivo di costruire non una seconda natura per l’essere umano ma la natura stessa dell’essere umano. Se nel primo caso, infatti, poteva ancora valere il tentativo di segnalare il carattere compensativo della tecnica rispetto a una carenza dell’umano, oggi ciò che è tecnica e ciò che è umano mostrano la loro indissolubilità e indistinguibilità ab origine. La tecno-scienza ha addirittura proposto (preteso), attraverso la mappatura completa del genoma, di tradurre l’umano in un codice d’informazioni, disponibile alla riproducibilità tecnica (p. 49).

L’essere umano si modella tanto «attraverso una messa in forma civilizzante» (attraverso pratiche di educazione, disciplinamento, formazione…), quanto ricorrendo all’ingegneria genetica e alle biotecnologie «che intervengono a costruire l’umano, a manipolare la sua costruzione biologica in modo accelerato» (p. 50). Il ricorso sempre più massiccio alla tecno-scienza comporta una messa in discussione dei confini che definiscono l’umano. «Affrontare i confini della nostra vita corporea, il suo inizio e la sua fine, ripensare le nostre vulnerabilità e le nostre potenzialità, cogliere i limiti e gli sconfinamenti della nostra pelle, di quella membrana che ci interfaccia con il mondo, si pongono come questioni di scelta politica da cui non possiamo sottrarci come singoli, come collettività e come società globale» (p. 51).

Alla luce di tali trasformazioni, l’individuo contemporaneo, rispetto al passato, tende inevitabilmente ad avvertire come la sua condizione sia tutto sommato simile a quella del corpo assemblato immaginato da Shelley o metamorfico narrato da Stoker. «Parti inorganiche (le protesi), semiorganiche (gli organi bioartificiali) o appartenenti a organismi non più viventi (gli organi trapiantati) sono pronte a costruire e ricostruire, a modificare in continuazione i nostri corpi grazie ai meravigliosi progressi tecnoscientifici degli ultimi decenni. La rottura di un ordine, che il corpo mostruoso della creatura di Frankenstein manifestava ai suoi contemporanei, è diventata normalità, condizione quotidiana di noi post-umani del terzo millennio» (pp. 52-53).

Mentre la civiltà classica ha tendenzialmente manifestato l’inquietudine circa l’identità umana elaborando un universo di mostri in cui l’umano si intrecciava con l’animale, l’attuale civiltà tecnologica si proietta su sconfinamenti che riguardano l’antroposfera e la tecnosfera. Da tali sconfinamenti nascono le figure dei nuovi mostri: automi, robot, androidi, replicanti, mutanti… Nell’età contemporanea tali inquietanti ibridazioni consentono di fare i conti il concetto stesso di “vera natura” che si tramanda da secoli.

Gli attuali e diffusi sconfinamenti tra antroposfera e tecnosfera impongono la sfida concettuale di interrogarsi su quanto queste sfere (compresa naturalmente la teriosfera) possano definirsi nella loro distinzione netta se non oppositiva, così come la civiltà classica e poi quella umanistica hanno suggerito, e non invece nella loro ibridazione reciproca. Se dalla civiltà umanistica abbiamo ereditato un certo Uomo, autoreferenziale nel suo intendimento e persino violento nel suo progetto di dominio, in un orizzonte post-umanistico possiamo riconsiderare le trame di relazioni che l’essere umano costruisce da sempre con l’alterità, sia essa innanzitutto umana (superando, per esempio, quelle distinzioni di razza e di genere che per troppo tempo hanno contribuito a isolare quel certo Uomo e a produrre sub-uomini), animale o macchinica. Sono queste trame a permettere l’emerge stesso di ciò che siamo abituati a chiamare umano (pp. 53-54).

Senza dubbio la figura del cyborg è quella che meglio esprime l’ibridazione tra elementi organici e cibernetici pensando però a questi ultimi non soltanto come oggetti aggiunti a un corpo naturale. «Essi, in quanto ultima manifestazione del nostro esserci tecnico, rientrano appieno nel definire la natura umana ovvero nel coglierne la fondamentale costruzione storica» (p. 56). L’orizzonte post-umano comporta dunque una riconsiderazione dell’intera storia dell’evoluzione dell’essere umano e non soltanto degli esiti recenti tecnologicamente più avveniristici. Se da un lato si può affermare che l’essere umano è sempre stato post-umano in quanto ibridato (con piante,  cibo, farmaci, droghe e, in epoca più recente, macchine) e modificato (attraverso pratiche artificiali), dall’altro lato vi è però un’importante discontinuità che risiede nella sua inedita consapevolezza.

Secondo Tursi occorrerebbe «rintracciare nel cuore della modernità, nei suoi disumanizzanti processi di industrializzazione e artificializzazione, crepe rispetto a quella civiltà umanistica che è valsa come alveo della modernità stessa» (p. 57). È proprio «nel momento in cui il progetto umanistico si è compiuto imponendo la sua egemonia sul mondo intero [che] si sono avvertiti i suoi limiti e le sue ambivalenze. L’Uomo bianco, nel portare sulle spalle il suo gravoso fardello, si è trovato di fronte a un cuore di tenebra: ha incontrato mostri come quello di Frankenstein e il conte Dracula» (p. 57) e questi hanno insegnato a guardare al di sotto della superficie della della civiltà occidentale, cogliendone le ambivalenze. «E così il mostro di Frankenstein e il conte Dracula invitano anche a guardare nell’attuale orizzonte post-umano per cogliere sfumature e ambiguità, opportunità e rischi del nostro essere cyborg, per essere cioè all’altezza delle sfide complesse che esso ci pone, a iniziare da quella di riconsiderare le tracce della storia che conducono ai nostri corpi, sulla cui pelle si giocano i conflitti del presente a venire» (p. 57).

Dopo una breve parentesi in cui, ragionando attorno ad Avatar (2009) di James Cameron, lo studioso riflette sulla soggettività e l’agire politico nel mondo contemporaneo a partire dall’intersezione tra corpo e tecnologia in un’epoca in cui la politica sembrerebbe fondarsi «sul coinvolgimento emotivo, sulla condivisione di un sentimento di appartenenza, di un sentire comune» (p. 71) più che sulla ricerca di una soluzione razionale, Antonio Tursi giunge ad affrontare, inevitabilmente, la produzione cornemberghiana.

Attorno al passaggio di millennio, in un’epoca segnata da nuove scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche, oltre che dall’aprirsi di una prospettiva di globalizzazione, è stata messa in discussione l’eredità umanistica antropocentrica che «mentre dichiarava l’essere umano (o meglio un certo essere umano: uomo, bianco, colto, razionale e possidente) misura di tutte le cose, lasciava sul terreno macerie e tragedie impensabili. Dell’essere umano si è compresa la dinamica emergenziale: non si tratta di un essere fisso e immodificato (di cui rinvenire l’essenza) ma di un’entità costruita nei tempi lunghi della sua filogenesi» (pp. 80-81). La consapevolezza che l’essere umano derivi da numerosi processi di ibridazione (con simili, con l’ambiente, con la tecnica…) ha comportato un ripensamento del corpo «ripensato e compreso non come datità ma come retaggio di lunghi processi filogenetici, processi di adattamento e sfida all’ambiente» (p. 81) in cui è possibile – inevitabile – accogliere alterità.

In ambito cinematografico David Cronenberg è sicuramente l’autore che meglio di ogni altro ha saputo «condensare uno dei passaggi mediologici cruciali del secolo scorso: cioè il ruolo profondo dei media elettronici e in particolare della televisione» (p. 82). In Videodrome (1983) il regista «ci ha messo di fronte alle caratteristiche decisive della televisione: al suo essere ambientale (e non riducibile a un mero strumento) e al suo essere tattile (e non legato unicamente al regime visivo)» (pp. 82-83).

Cronenberg […] ha saputo cogliere e rendere percepibile il medium televisione: Videodrome ci ha offerto scene di pulsazioni degli aggeggi televisivi, di piccoli schermi che risucchiano corpi, di corpi che ospitano e liberano aggeggi, di desideri che si incontrano sulle superfici dei tubi catodici, di ibridazioni tra umano e tecnologico, di immersioni profonde in ambienti televisivi, di emergenza di una nuova forma di vita. Inoltre, Videodrome rappresenta il consolidarsi del nuovo regime mediale come conflitto tra progetti alternativi, tra istanze divergenti […] Un conflitto che […] ridisegna l’essere umano, la sua carne, sino a far emergere un ibrido tra corpo e comunicazione, tra psiche e segnali dell’etere, tra sistema nervoso e immaginario, tra “realtà” e allucinazioni (p. 84).

La fusione tra essere umano e ambiente si completa nelle scene finali quando il protagonista, desiderando andare oltre i suoi confini, oltre la sua umanità, inneggia alla “nuova carne” mentre lo schermo televisivo di fronte a lui esplode eruttando interiora e sangue. «Così la fusione tra uomo e ambiente televisivo è completa e profonda. Ed è avvenuta spingendo oltre l’uomo e oltre il suo rassicurante ambiente abituale, verso una superficie scontornata che amalgama pelle e transistor, carni e metalli, desideri e immaginari senza soluzioni di continuità» (p. 85). Tematiche simili si rintracciano anche in eXistenZ (1999) dello stesso Cronemberg, con il mondo dei videogiochi digitali e reticolari al posto della televisione tradizionale.

Tursi evidenzia che se in molte produzioni cinematografiche recenti Cronemberg sembra aver accantonato l’ossessione per le tecnologie, soprattutto comunicative, e la loro ibridazione con il corpo umano, è pur vero che questa riflessione la si ritrova, in qualche modo, e in maniera del tutto particolare, nel suo romanzo Consumed (Divorati, 2014). Curiosamente in questo caso Cronemberg ricorre a un medium come il libro stampato, in cui la fotografia ha un ruolo centrale nella narrazione.

Divorati si apre con uno schermo di un computer portatile, quello attraverso il quale Naomi esplora l’abitazione dei coniugi Aristide Arosteguy e Célestine Moreau (“Naomi era nello schermo” sono le prime parole del romanzo). Durante tutto il romanzo, le nostre tecnologie e piattaforme di comunicazione sono costantemente richiamate: dall’iPhone all’iPad, dal MacBook Air alle schedine di memoria SD, da Adobe Lightroom a Photoshop, da YouTube a Skype, da Facebook a Google. Esse rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di Naomi e Nathan esattamente come rappresentano lo sfondo della vita quotidiana di ciascuno di noi. E naturalmente come l’acqua per i pesci, queste tecnologie rischiano di essere sempre più inavvertite nel momento stesso in cui si normalizzano e ci circondano nelle routine quotidiane (p. 87).

Pur evitando di mostrare tecnologie e scenari futuristici, Cronemberg evidenzia la

quotidianizzazione dei media digitali. Comprendere il loro carattere ambientale, da un lato, diventa più difficile perché ormai ne siamo costantemente immersi ma, dall’altro, è una possibilità offerta a ciascuno e non più solo un’esperienza eccezionale, quale era quella a cui aveva avuto accesso – nel caso di Videodrome – il produttore televisivo Max Renn. Una possibilità che diviene più che mai necessario cogliere per muoversi agilmente nel nuovo scenario mediale, individuarne gli elementi conflittuali e non lasciarsi risucchiare in una narcosi da Narcisi postmoderni, non lasciarsi sommergere dalla “inesorabile, rovente colata lavica della tecnologia” (pp. 87-88).

Le macchinette fotografiche che letteralmente infestano le vite dei protagonisti del romanzo si riveleranno incapaci di garantire autenticità alle immagini. Su «quelle foto, sulla loro capacità di catturare o ancor di più costruire e veicolare la nuova carne, si è giocata una partita globale tra poteri» (pp. 89-90). Cronemberg mette in scena scontri globali sulle tecnologie che «nel dispiegare la nuova carne del mondo, configurano uno scontro profondo sul modo stesso in cui ci comprendiamo, comprendiamo i nostri corpi, configuriamo le nostre identità ibride. Attraverso le tecnologie, si ridisegna il rapporto tra carne e corpo» (p. 91).

Attraverso il romanzo Cronenberg sembrerebbe pertanto riprendere la sua indagine sull’estetica contemporanea intesa come «cartina di tornasole delle dinamiche politiche attuali». Un’estetica fondata sull’ibridazione tra tecnologie e corpi che accoglie concetti di bellezza in passato non ritenuti tali.

La malattia che eccita, la seduzione del decadimento, il profumo della morte, le disfunzioni corporee (come quella di Peyronie), la disabilità umana, i nuovi corpi che emergono dall’amputazione di membra (apotemnofilia): modalità di una bellezza che si contrappone a quella classica basata sulla conformità, sull’armonia, sull’organicità. Una bellezza capace di competere con quella naturale o addirittura di superarla per capacità di seduzione, una bellezza all’altezza delle nuove condizioni industriali-tecnologiche dell’uomo. Un riallineamento dell’estetica che fa perno sulla diversità stessa, diventata “afrodisiaca e stuzzicante”. E intorno a questa bellezza che si costruiscono nuove identità, che si giocano perciò gli scontri di potere. In un mondo in cui il “vero oggetto dell’innata brama di bellezza erano adesso le merci, i prodotti industriali”, in un mondo in cui il corpo stesso è ridotto a merce, è omologato, è triturato dall’“insaziabile ethos consumista occidentale che tutto divora”, ovvero è costruito come prodotto dalle tecnologie, in questo mondo non ci resta che diventare consumatori di noi stessi, appropriarci di noi stessi in modo estremo, essere divoratori della carne ormai sconfinata oltre i confini della nostra pelle. […] Abitare un corpo ibrido, aperto, contaminato. Che non può più rappresentare il confortevole porto di partenza dal quale sicuri guardare il mondo ma l’approdo instabile del nostro cammino nel mondo (p. 95).

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Goolem – La creatura di tutti https://www.carmillaonline.com/2017/05/24/goolem-la-creatura-tutti/ Tue, 23 May 2017 22:01:49 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38202 di Francesca Palazzi Arduini

raspberrygolem[Premessa: Il 16 febbraio di quest’anno, sollecitato dalle accuse, anche al suo social network, di aver contribuito alla vittoria di Trump con la diffusione virale di false notizie, Mark Zuckerberg pubblica una lettera sul suo profilo FB: “Building Global Community”. Nel testo esprime la convinzione che il suo network sarà il catalizzatore fondamentale di una comunità globale pacifica e “inclusiva”. Egli articola in cinque punti il suo programma politico: rafforzare le istituzioni in crisi, dare sicurezza, aumentare l’accesso alle informazioni e alla possibilità di parola, [...]]]> di Francesca Palazzi Arduini

raspberrygolem[Premessa: Il 16 febbraio di quest’anno, sollecitato dalle accuse, anche al suo social network, di aver contribuito alla vittoria di Trump con la diffusione virale di false notizie, Mark Zuckerberg pubblica una lettera sul suo profilo FB: “Building Global Community”. Nel testo esprime la convinzione che il suo network sarà il catalizzatore fondamentale di una comunità globale pacifica e “inclusiva”. Egli articola in cinque punti il suo programma politico: rafforzare le istituzioni in crisi, dare sicurezza, aumentare l’accesso alle informazioni e alla possibilità di parola, portare tutti al voto, contribuire all’interculturalismo globale. L’obiettivo dell’amministratore, e proprietario, di Facebook è di usare schemi di intelligenza artificiale per permettere la creazione di una “comunità globale”].

Personaggi:
-l’Ingegnere capo
-il CEO e Azionista di maggioranza
-la Portavoce della Presidente
-la Consulente in Neurologia
-l’Addetto alle Biometrie del Gooolem
-un Funzionario militare del governo
-Voce gracchiante, o il Politologo
-alcune comparse mormoranti, gli Invitati all’esperimento.

Menlo Park, California. In un assolato pomeriggio primaverile, alcuni tra i più potenti gestori di dati del pianeta Terra sono riuniti assieme a funzionari dell’intelligence governativa ed altri esperti di tecnologie dell’informazione. L’incontro si svolge in un’aula sotterranea dell’immenso campus, pseudo universitario, popolato da lavoratori “smart”, che si aggirano in tuta da ginnastica o camiciole hawaiane, spostandosi in bicicletta, skate, segway.

In una hall riservata:
-“Bene! Ci siamo riusciti, stiamo per dare forma al più grande esperimento di intelligenza ed emotività virtuale della storia e…ehm, cari amici, signori, signore” (rivolto ai funzionari vestiti elegantemente come degni eredi di CSI Miami)… a parlare gesticolando è un biondiccio Ingegnere capo, seduto ad una consolle leggermente più alta della platea. Di fronte a lui sono sedute una dozzina di persone

-“…debbo avvisarvi che ciò che succederà ora, nel momento in cui chiederò a Gooolem di aggregarsi, è ignoto anche a me ed allo staff. Tuttavia voi, proprio voi in prima persona, potrete indirizzare la nostra creazione a darci conto dei suoi pensieri e delle sue emozioni su argomenti che potrete indicarmi. Per ora lavoreremo privi di interfaccia neurale, per verificare senza il nostro apporto ciò che aggrega Gooolem”

Un mormorio fluttua tra le persone presenti quando l’ingegnere fa scorrere con un telecomando un gigantesco pannello. Si palesa allora un generatore di ologrammi di dimensioni considerevoli, che emana una colore cangiante in un unico cono di luce bluastro tremolante.

Le tende scorrevoli della vasta stanza si chiudono lentamente, la luce del generatore diviene più brillante mentre il sole all’esterno resta in lunghe strisce nelle quali nuota la polvere. Tutto è silenzioso.
All’ingegnere si affianca il notissimo Azionista di maggioranza dell’azienda nonché compilatore del più noto programma di social networking del mondo. – “Non voglio trattenere l’emozione! Abbiamo impiegato anni a capire come indirizzare i dati raccolti in un unico contenitore informatico che ci permettesse di dare una forma, ehhhm, appunto in –cludere (con le mani tratteggia più volte un quadrato), tutti nella grande comunità che siamo, in ogni settore della nostra vita!”

-“Dopo il recente scandalo di Babele e l’ecatombe di Ipermarket, da qualche anno il rivolgimento umanista ci ha indicato la strada da percorrere. Abbiamo creato comunità nelle quali è possibile incontrarsi coi propri simili, trovare affinità, ma anche conoscere ciò che è dissimile da noi. Riconosciamo però che questi insiemi erano troppo chiusi, ci eravamo concentrati solo su amici e famiglie, ci eravamo autolimitati ad un sistema commerciale volto allo sfruttamento dei dati, ora è diverso, siamo stati incaricati del cambiamento e abbiamo creato una rete di controllo del procedimento, rete che coinvolge al meglio gli Stati! (quest’ultima parola detta con enfasi)”.

-(una voce gracchiante dalla platea) “Il passo avanti da fare lo abbiamo capito negli anni Venti! Con Trump e la Brexit, e le repubbliche naziste d’Europa (voce quasi isterica) che hanno minacciato di rompere definitivamente la libertà d’impresa, hanno minacciato i diritti… (applausi) ma in fondo non era sempre stato così? Ma si parlava di elezioni attraverso il social network già nel Duemila!”

-La Portavoce della Presidente interviene: “Certo, i sistemi elettivi inefficienti, e l’uso dei dati a solo scopo spionistico e commerciale ci impedivano una chiara visione della ricchezza che avevamo tra le mani! Non siamo Panoptikòn, non siamo Echelon, non siamo più i venditori di basi di dati babeliche, non siamo mere piattaforme commerciali, …ora siamo delegati a dar vita a qualcosa di nuovo, la Comune coscienza!”

Gooolem_PodwalMormorìi, esclamazioni, qualcuno si alza in piedi,
-“Stiamo dando vita ad una nuova forma di rappresentazione di noi stessi, attraverso questa potremo giudicare meglio, capire, indirizzare le nostre democrazie! Ma con che sistemi pratici? Dobbiamo fare in fretta…a meno di non scegliere il sistema dei grandi Esodi dell’Amicizia per i quali però abbiamo visto occorrono troppe risorse…”

Voce gracchiante: -“E ci occorre una nuova iconografia! Certo ci occorre, ricordiamo ad esempio che nell’antichità esisteva un essere mitico creato con le parole magiche del Maharal, fatto di terra sì, di fango, ma che si muoveva nelle città, ed era capace di indagare per risolvere i problemi e trovare i colpevoli, sgominarli, difendere la società…”.
Attimi di smarrimento e cacofonie, poi tutti si rivolgono verso l’ingegnere, che si passa la mano sulla fronte.

–“se per voi va bene iniziamo a dare la luce il Gooolem: tutti voi avete sui vostri pad la possibilità di scrivere una parola o una domanda da rivolgere a Gooolem. Lei, lui, insomma loro, ecco, io lo appellerei con un Loro, ci fornirà in tempo reale una immagine, corredata da suoni, anzi per essere precisi la sua fi-gu-ra ci fornirà la reazione umana collettiva a ciò che chiediamo”.

Un momento di silenzio e già il tasto dell’ologramma è premuto. La luce inizia a vibrare e dal fascio di luce sembra, anzi è sicura l’emanazione di più voci unite in un coro dodecafonico, la somiglianza con la stele di Kubrick è inquietante.

-“Ecco…”

-“Ecco vedete Gooolem ora possiede una forma indistinta creata dal pensiero espresso online da tutte le persone del mondo delle quali riceviamo dati di ogni tipo, parole, voci, espressioni, gesti, scelte online, acquisti e voti…che creano …guardate!”
L’ologramma ha sviluppato una forma umana che pare in piedi e seduta alternativamente, e si guarda attorno. Ride, piange, tocca con le indistinte e solo abbozzate mani ogni parte del suo corpo.

-“Sembra stia portando la mano al portafogli”
-“Siamo interconnessi?”
-“Forse perché si avvicina l’ora di chiusura della Borsa di New York?”

-“Shhhhh!”
-“E’ giunto il momento di porgli delle domande”
-“Ricordate che non si tratta di una coscienza individuale ma di una entità collettiva, e che le reazioni sono la reale somma di tutte le reazioni del mondo raccolte in tempo reale”.
-“E’ ora di cena! Diciamogli la parola “hamburger” e vediamo se ha fame!”
-“Ma per favore! Chiediamogli piuttosto cosa pensa della pace nel mondo? Sarà mai possibile?”

L’ingegnere alza un amano come a dare uno stop ai suggerimenti si volge alla tastiera e digita
-“pace – nel – mondo”

All’immissione del dato, il Gooolem barcolla e sembra mettersi in ginocchio, sì, sembra piegarsi sulle gambe…

-“ma che fa, si stende?!?”

-“sentite le voci adesso, sembrano una quelle di una ninna nanna”

Il Gooolem in effetti ha assunto una forma rannicchiata sulla base del generatore di ologrammi e fluttua tranquillamente nell’aria mentre una musichetta cantata da Shirley Temple si mixa con Michael Bublé.

-“Ma …perché?!

-“Ma scusate, questo Gooolem sembra un neonato! Possibile che non ci dica niente sulla pace nel mondo se non che vuole dormire…”. Altri mormorìi di disappunto.

-“Facciamogli un’altra domanda, digita –più buon leader mondiale-, chissà che non ci sia possibile una sorta di sondaggio universale istantaneo.”

-“Abbiamo già schedato un decennio di recensioni da King Advisor, possediamo le schede dettagliate dei commenti su ogni personaggio politico potenziale esistente sulla faccia della terra, lo chiameremo “Il Catalizzatore”, schede comprensive di proiezioni basate sugli obiettivi raggiunti e raggiungibili durante la sua leadership…”

L’ingegnere digita dettando – “ –più- buon –leader- mondiale-“
e quasi subito il Gooolem viene affiancato da quella che a tutti gli effetti sembra la sagoma di un micetto, poi di un cane, il Gooolem materializza in mano una scatola di croccantini. Nell’aria si diffondono suoni che indicano che sta giocando con i suoi pet.

-“Che sta facendo?”

-“Scusate, è evidente che il programma scambia la parola “leader” con un’altra…”

-“Ma come è possibile, abbiamo l’assoluta certezza che a quei termini abbiamo associato tag inerenti la gestione politica, non certo la vita domestica e lo svago! Freddy, ripassami il codice di quella selezione di tag,
-“…rifai partire almeno tutti i rich snippet del Data center europeo, ricarica tutto i materiale dai satelliti!”
Nel frattempo, mentre le dita scorrono sui pad di controllo e sulle tastiere, il dialogo è interrotto da miagolìi, abbai, lancio di ossi di mais.

-“Devo ricordarvi,” a intervenire, alzandosi in piedi, è la Consulente di neurologia e psichiatria applicata ai sistemi informatici, “che la nostra creatura è un organismo sinestetico, comunica con gesti, suoni, colori ciò che è la summa in rete dei sentimenti e delle opinioni. Esso percepisce però le nostre sollecitazioni anche in maniera simbolica, il tag “leader” potrebbe essere stato quindi percepito come attribuzione personale, cioè a se stesso, e la parola “buon” è stata recepita come sinonimo di –affettuoso-, ciò ha portato il Gooolem, che tende a semplificare e riassumere, a raggruppare i tag che etichettano affetto, fiducia, comando individuando l’immagine più diffusa online che ha questi attributi, quella del rapporto tra con gli animali d’affezione! “

-“Basta!” è il maggiore Azionista che attrae l’attenzione di tutti alzandosi dalla sua postazione “non è possibile semplificare così anni e anni di lavoro! Questa creatura sa dirci di più, occorre comunicare meglio! Proviamo almeno a porgli una domanda che abbia un inizio, una fine, e un punto interrogativo”
-“Chiediamo quale è la soluzione più rapida ed efficiente per fermare il cambiamento climatico…”

Nel frattempo il Gooolem si sta rotolando sul pavimento col suo olo-gattino.

L’ingegnere digita e legge: – “Domanda-Quale-è-la-soluzione-più-rapida-ed-efficiente-per-fermare –il-cambiamento-climatico”.

Un pesante silenzio scende nella sala… il Gooolem sembra essere diventato una grossa bolla blu dal rumore del mare. Passa il tempo, qualche mormorio mentre la bolla si gira e si rigira su se stessa ingigantendosi quasi a voler sbalzare dal basamento del proiettore di ologrammi. Nell’aria si respira un’atmosfera salmastra… .

-“Come potete annusare il nostro emettitore di sostanze sta ricreando la percezione che ha ora la moltitudine umana di una atmosfera marina”, sottolinea l’Addetto alle Biometrie alla consolle.

prehistoric_stat-“Ma, non è eccessiva questa dimensione”, chiede ad alta voce uno dei funzionari militari del Governo, e non ha il tempo di fare altre domande perché la gigantesca bolla, dei più meravigliosi colori blu e verde azzurri, incupisce il suo colore e diviene così grande, assieme ad un suono oceanico, da uscire nella stanza dividendosi in un gigantesco fiume di acqua azzurra che pervade tutto.
Nemmeno il tempo di impugnare la pistola, gli addetti alla security finiscono sott’acqua, nessuno riesce a salvare il proprio terminale, tutta la grande area industriale sede della società, il Plesso, viene sommersa da quello che da allora in poi sarà chiamato Lago di Gooolem, si contano dei dispersi.

Ancora oggi chi solca il lago in barca racconta come si veda saltar fuori dall’acqua, ogni tanto, sciami di piccoli pesci cangianti.

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Storia, magia, complotto e fisica quantistica https://www.carmillaonline.com/2016/09/01/storia-magia-fisica-quantistica/ Wed, 31 Aug 2016 22:01:59 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=32820 di Sandro Moiso

COMPLOTTO_COVER Riccardo Borgogno, Il complotto delle statue di cera, Eris Edizioni, Torino 2016, pp. 544 con illustrazioni in bianco e nero di Silvia Rocchi, € 17,00

[Riccardo Borgogno, nato a Torino nel 1954, ha scritto sceneggiature di fumetti per molte case editrici. In questo momento sta realizzando una graphic novel di genere storico sullo sfondo della rivoluzione haitiana per un editore francese. Conduce il programma “La perla di Labuan” su Radio Black Out di Torino e ha pubblicato molti articoli, racconti e romanzi. L’ultima opera in ordine di tempo è il romanzo “Il complotto delle statue di cera”, [...]]]> di Sandro Moiso

COMPLOTTO_COVER Riccardo Borgogno, Il complotto delle statue di cera, Eris Edizioni, Torino 2016, pp. 544 con illustrazioni in bianco e nero di Silvia Rocchi, € 17,00

[Riccardo Borgogno, nato a Torino nel 1954, ha scritto sceneggiature di fumetti per molte case editrici. In questo momento sta realizzando una graphic novel di genere storico sullo sfondo della rivoluzione haitiana per un editore francese. Conduce il programma “La perla di Labuan” su Radio Black Out di Torino e ha pubblicato molti articoli, racconti e romanzi. L’ultima opera in ordine di tempo è il romanzo “Il complotto delle statue di cera”, del quale pubblichiamo un estratto qui di seguito, in cui la storia del Piemonte medioevale e del Duca Arduino di Ivrea si mescola in maniera appassionante con la repressione dei Valdesi nel XVII secolo, il movimento del 1977, la magia bianca e nera, la tradizione alpina delle “masche” (streghe) e la creazione “artificiale” della vita da parte di esponenti del potere di ieri e di oggi. Buona lettura!]

“Chiamami Jolanda, tesoro.” disse la donna mentre si alzava. Tamara ignorò l’occhiataccia di Milo. La professoressa aprì l’armadio a vetri, prese un libro, lo aprì e spiegò: “È la relazione del maresciallo francese Catinat al ministro Louvois.” Poi prese a leggere: “Gli uccisi sono 2.000, gli incarcerati sono 8.500, 3.000-3.500 fuggiti per gole e forre al di là delle Alpi, in Francia e in Svizzera. Non c’è il numero dei neonati strappati ai genitori e dati in adozione. Dei valdesi prigionieri metà non supera l’estate a causa di malattie e infezioni. Sono mal sistemati, mal nutriti, gli uni addosso agli altri, e quegli che è in buona salute non può che respirare aria viziata. Oltre a questi mali la tristezza e la nostalgia, a ragione causate dalla perdita dei beni e da una prigionia di cui non vedono la fine, la perdita o per lo meno la separazione dalle mogli e dai figli che essi non vedono più e di cui non conoscono la sorte. Molti di essi, in tali condizioni, tengono discorsi sediziosi, che li consolano delle loro disgrazie e delle loro miserie.”

Jolanda Morioni guardò Milo, che a sua volta guardava lei perplesso. Quindi depose il libro sullo scrittoio e concluse: “Tra i 1.400 rinchiusi nel castello di Carmagnola ne morì un migliaio, un altro migliaio morì tra i 1.400 imprigionati a Saluzzo. Dei 1.000 del carcere di Trino ne sopravvissero 46.” La professoressa scosse la cenere dalla sigaretta, e solo in quel momento Milo notò che il teschio era in realtà un portacenere.
“Comunque la storia dei valdesi non finì qui. I superstiti si nascosero in grotte e gole, e si organizzarono in bande armate con il nome di Invincibili, al comando di capitani come Paolo Pellenc e Daniele Mondon. Il duca intendeva riempire le casse dello stato vendendo ai nuovi proprietari cattolici le terre espropriate ma, sotto l’attacco degli Invincibili, l’affare sfumò. Quelle grotte, in una località ancora oggi nota come Vallone degli Invincibili, furono riscoperte durante la seconda guerra mondiale e utilizzate dai partigiani per nascondervi le armi trafugate ai nazisti.”

Jolanda Morioni avrebbe continuato a lungo, nessuno era più brava di lei a trovare collegamenti tra avvenimenti lontani e apparentemente estranei, ma ci pensò Tamara, in modo garbato, a riportare il discorso sul primo re dei Savoia.
“Un ultracattolico, insomma.”
“Oh, era solo politica. Il massacro dei valdesi rientrava nell’alleanza con il Re Sole e con la Chiesa Cattolica. Ma non disdegnava di occuparsi di magia, alchimia e astrologia. Ma questo al suo confessore e al papa non lo diceva.”
“Vittorio Amedeo II aveva contatti con alchimisti e astrologi?”
“Molti. Uno in particolare, Giovanni Vincenzo Giobbe Fortebraccio, divenne il suo consigliere privilegiato. Gli predisse la nascita del figlio, che era la cosa che desiderava di più dopo la corona di re.”

Era il nome che il sedicente padre Eusebio aveva citato, l’aveva chiamato “maestro”, secondo lui aveva recuperato un certo libro che Sekhmet gli aveva sottratto. Milo ritenne giunto il momento per la domanda che lo aveva portato in quel luogo.
“Ti risulta che sotto il suo regno Fortebraccio o qualche altro alchimista sia riuscito a realizzare un simulacro di essere umano?”
Jolanda Morioni aspirò a lungo dalla sigaretta e sorrise.
“Per rispondere alla vostra domanda devo fare un passo indietro. Quale è il più antico sogno dell’umanità?”
Milo e Tamara si guardarono. “Non saprei. L’immortalità?” azzardò lui.
”Uno è sicuramente l’immortalità. Ma un obiettivo che forse l’uomo persegue anche più tenacemente è la capacità di creare la vita. I tentativi e gli esperimenti sono stati molti fin dall’epoca più antica. La ricerca della vita ha subito preso due strade diverse. Una prevede l’uso della scienza e della tecnica, ed è cominciata con gli antichi Greci…”
“So che i greci avevano sviluppato una raffinata tecnologia. Dedalo, l’inventore del labirinto e delle ali per volare, era il tipo dell’ingegnere e inventore che i greci ammiravano. Infatti Dedalo costruì anche uomini e animali meccanici e semoventi.”

“E bravo, sapientone, vedo che la lontananza dalla scuola non ti ha obnubilato le nozioni fondamentali. Oggi tutti sanno cosa sono un blog, una mailing-list o una chat line, ma nessuno si ricorda chi erano Dedalo, Dioniso, Prometeo, le amazzoni, le sirene e gli orchi, che sono alle basi della nostra civiltà. La parte più profonda. I giovani oggi credono che il cavallo di Troia sia solo un programma per computer, e che Omero sia uno dei Simpson.” si lasciò andare a un sorriso sconsolato. “La via scientifica e tecnologica per creare la vita, stavo dicendo. Poi ci sono stati gli automi del ‘500 e del ‘600, e arriviamo fino ai moderni robot. Un’altra via è quella che crea la vita dalla materia inerte. Come il golem della tradizione ebraica.”

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Il Golem https://www.carmillaonline.com/2015/03/14/il-golem-israele-e-netanyahu/ Fri, 13 Mar 2015 23:01:30 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=21270 di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito [...]]]> di Sandro Moiso

golem 1Nel cuore del cuore di ciò che rimane del ghetto ebraico di Praga, ovvero al centro del vecchio cimitero, dove si sono stratificati i corpi e la cultura di migliaia di ebrei vissuti in quella città prima della catastrofe nazionalsocialista, si erge la tomba di Judah Loew ben Bezalel, anche noto come Yehudah ben Bezalel, o Jehuda Löw, o come Maharal di Praga. Vissuto tra il 1520 e il 1609, Rabbi Loew rappresenta ancora oggi un motivo di pellegrinaggio per le comunità ebraiche.

La sua celebrità e la sua importanza sono dovute, oltre al ruolo esercitato nell’ambito dell’interpretazione del Talmud, anche, e forse soprattutto, per essere stato, almeno secondo le leggende che ne circondano l’immagine, colui che, insieme al genero Jizchak ben Simson e al discepolo Jakob ben Chajim Sasson, plasmò dal fango uno o più Golem, riuscendo ad insufflargli lo spirito della vita.

Il Golem costituisce, nella sua interpretazione più semplice, una sorta di automa di argilla, una statua animata destinata ad obbedire agli ordini ed alle necessità del suo creatore fino a quando questi non cancelli dalla sua fronte l’alef di ‘emet, modificandone il significato da verità in met, morte.1 Oppure, più semplicemente, togliendogli dalla fronte la benda contenente le parole magiche che lo animavano e lo tenevano in vita.

Ciò che importa, in questa sede, della suddetta leggenda è legato al fatto che tale o tali Golem, a seconda della versione, spesso si ingrandivano troppo durante la loro azione e finivano col dover essere distrutti dal loro creatore. Anche quando essi erano creati per difendere le stesse comunità ebraiche da nemici più numerosi o più potenti. Bastava infatti un attimo di disattenzione da parte di chi ne deteneva il controllo perché questo o questi finissero col distruggere le proprietà, se non addirittura le vite degli ebrei stessi.

Al di là delle sue interpretazioni kabbalistiche e trascendentali,2 il mito del Golem, anticipando di secoli sia Mary Shelley che Philip K. Dick, tratta della facoltà umana di creare una vita artificiale e nel fare questo ammonisce l’uomo dal non volersi rendere simile a Dio, poiché da un essere imperfetto non può nascere nulla di perfetto. Infatti già nel Talmud si parla di un essere artificiale creato da un uomo pio. Ma il Golem in questione, creato da Rava, è incapace di parlare poiché “i pii, gli uomini giusti, sono dotati di poteri straordinari che sono però limitati dalle iniquità da cui nessun essere umano può essere esente”.3

Prestiamo ben attenzione all’avvertimento: iniquità da cui nessun essere umano può essere esente. Perché, a questo punto, è ben facile poter intravedere nella creazione e susseguente distruzione del Golem una lezione sul limite e la pericolosità che le macchine create dall’uomo, anche nella loro forma istituzionale (Stato, esercito), possono comportare per coloro che credono di poterle usare per la propria difesa o al proprio servizio.

Molto ci sarebbe ancora da dire sui limiti che una parte del pensiero ebraico pone alla vanagloria dell’uomo e dei suoi apparati, ma per ora basti qui citare la contrarietà che molte comunità ebraiche da sempre manifestano nei confronti dello Stato sionista di Israele e delle sue aggressive politiche, sia nel mondo che all’interno dello stesso.4

Contrarietà che ha assunto ultimamente i toni di una grande manifestazione di massa tenutasi a Tel Aviv, sabato 7 marzo scorso, quando decine di migliaia di persone (gli organizzatori hanno parlato di 85.000 manifestanti) si sono raccolte, in vista delle elezioni parlamentari del 17 marzo, per opporsi alle suicide politiche militariste di Netanyahu e del suo governo di destra. Sono stati scanditi slogan come “Fermiamo la guerra”, “Portate i soldati a casa” e “Gli ebrei e gli arabi rifiutano di essere nemici”, mentre sugli striscioni era scritto “Israele vuole un cambiamento” oppure “Bibi, hai fallito, tornatene a casa” (quest’ultimo con riferimento al soprannome del premier).

netanyahu La manifestazione era stata organizzata dal movimento “Un milione di mani”. Lo scopo, a dieci giorni dalle elezioni, era quella di chiedere un cambiamento delle priorità di Israele, con maggiore attenzione a temi come la sanità, la scuola, i salari, la casa, il costo della vita e l’assistenza agli anziani, mentre un bambino su tre versa in condizioni di povertà.

Gli organizzatori del raduno avevano scritto sulla loro pagina Facebook: “Di fronte alla guerra che sta pretendendo un pesante tributo di sangue, di morti e di feriti da entrambe le parti, di distruzione e terrore, di attentati e razzi, noi resteremo con l’affermazione: «Terminare la guerra ora!» Invece di essere trascinati ancora e ancora in più guerre e più operazioni militari, ora è il momento di condurre un percorso di dibattito e di un accordo diplomatico. C’è una soluzione diplomatica. Quale prezzo pagheremo – noi, i residenti del sud e il resto di Israele, e gli abitanti di Gaza e Cisgiordania – per arrivare a questo? […] Insieme, ebrei e arabi, sostituiremo il cammino fatto di occupazione e di guerre, di odio, istigazione e razzismo, con un percorso di vita e di speranza”.

Abbiamo un leader che combatte una sola campagna – la campagna per la propria sopravvivenza politica”, ha detto uno dei principali oratori: Meir Dagan, ex capo del Mossad, che era in piazza con l’ex comandante militare della regione nord ed ex vice capo del Mossad, Amiram Levin.
Per sei anni, il signor Benjamin Netanyahu ha servito come primo ministro”- ha aggiunto- ”In sei anni non ha fatto una sola mossa per cambiare la regione e per creare un futuro migliore

La vedova del colonnello israeliano Dolev Keidar, ucciso durante l’offensiva della scorsa estate contro la Striscia di Gaza, dal podio ha severamente criticato l’approccio del premier verso la questione palestinese. “Sì, signor Primo Ministro, ciò che è importante è la vita stessa, ma è impossibile parlare tutto il tempo di Iran e chiudere un occhio sul sanguinoso conflitto con i palestinesi, che ci costa tanto sangue”, ha detto Michal Kestan-Keidar.

Mentre la crisi mondiale precipita sempre più verso una guerra allargata, è chiaro ormai per molti israeliani che, qualsiasi possano essere gli sviluppi futuri dell’attuale situazione politica, economica e militare internazionale, la politica aggressiva di Benjamin Netanyahu ha portato ormai lo Stato di Israele ad un punto di non ritorno. Soprattutto con la spinta verso la guerra all’Iran, altrettanto voluta dagli Stati del Golfo e dal regime saudita, ma attualmente osteggiata dagli Stati Uniti che, invece, dell’Iran come alleato potrebbero avere sempre più bisogno per dirimere le questioni mediorientali.

La politica dell’incremento della spesa militare di tutte le maggiori potenze e di autentico riarmo da parte della Cina, del Giappone e della stessa Germania confermano il lento scivolare del globo verso un conflitto mondiale,5 di cui le guerre finanziarie e monetarie non sono che un’anticipazione gravida di imprevedibili conseguenze6. Ed Israele potrebbe trovarsi a breve al centro di ogni tipo di conflitto, senza alleati sicuri con cui concordare la propria azione.

D’altra parte Hannah Arendt l’aveva già previsto nel lontano 1948, ai tempi della prima guerra arabo-israeliana: “[…] anche se gli ebrei dovessero vincere la guerra […] La nuova terra sarebbe qualcosa di molto diverso dal sogno degli ebrei di tutto il mondo, sionisti e non-sionisti. Gli ebrei “vittoriosi” vivrebbero circondati da una popolazione araba interamente ostile, segregati entro confini perennemente minacciati, a tal punto occupati a difenderli fisicamente da trascurare ogni altro interesse e ogni altra attività […] il pensiero politico sarebbe focalizzato sulla strategia militare; lo sviluppo economico sarebbe determinato esclusivamente dalle necessità della guerra. E questa sarebbe la sorte di una nazione che, indipendentemente dal numero di immigrati che potrebbe ancora assorbire e dall’estensione del suo territorio […] continuerebbe a essere un piccolo popolo soverchiato dalla prevalenza numerica e dall’ostilità dei suoi vicini”.7

Da settant’anni ormai lo Stato di Israele affida la sua sicurezza a Tsahal, uno degli eserciti più armati, addestrati e potenti del mondo ipocritamente definito come Forza di difesa, senza però mai essere venuto definitivamente a capo dei suoi problemi di sicurezza ed economici. Anzi entrambi sembrano essersi aggravati nel corso dei decenni, dimostrando così che il progressivo rafforzamento del Golem tecnologico-militare non ha contribuito a difendere meglio il suo territorio né, tanto meno, a migliorare le condizioni di vita della maggioranza dei suoi abitanti.

merkavaDa questo punto di vista la storia del carro armato Merkava, il gioiello corazzato dell’esercito israeliano, nato nel 1979 e interamente prodotto in Israele, può costituire un buon esempio.
Il carro Merkava prende pomposamente il nome dalla parola ebraica Merkavah, (carro, biga) usata in Ezechiele (Ez1,4-26) con riferimento al carro-trono di Dio con angeli detti Chayyot.

Il profeta Ezechiele così descrive la struttura del Carro Celeste: “Le ruote avevano l’aspetto e la struttura come di topazio e tutt’e quattro la medesima forma, il loro aspetto e la loro struttura era come di ruota in mezzo a un’altra ruota. Potevano muoversi in quattro direzioni, senza aver bisogno di voltare nel muoversi. La loro circonferenza era assai grande e i cerchi di tutt’e quattro erano pieni di occhi tutt’intorno. Quando quegli esseri viventi si muovevano, anche le ruote si muovevano accanto a loro e, quando gli esseri si alzavano da terra, anche le ruote si alzavano. Dovunque lo spirito le avesse spinte, le ruote andavano e ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote. Quando essi si muovevano, esse si muovevano; quando essi si fermavano, esse si fermavano e, quando essi si alzavano da terra, anche le ruote ugualmente si alzavano, perché lo spirito dell’essere vivente era nelle ruote”. (Ez. 1,16-21)

Il richiamo biblico serve dunque a definire un mezzo corazzato in grado di raggiungere ogni luogo e in qualsiasi condizione. Tant’è però che, anche se oggi è considerato dagli esperti il carro armato più sicuro al mondo, nel corso degli anni i modelli succedutisi sono stati almeno sette: tutti modificati, o quasi, a seguito delle esperienze belliche sui vari fronti (a partire da quella in Libano degli anni ottanta). E senza che esso sia mai riuscito a trionfare nello sconto urbano o su territori difficili come quello del confine libanese, per cui è stato continuamente modificato.

L’aumento della potenza da sola non basta contro un nemico abile e determinato anche se armato in maniera più povera. Questa è una lezione che le strategie militari occidentali ed israeliane continuano a non comprendere. Anzi, si potrebbe dire che la guerra da sola, come strumento di controllo e di dominio non sarà mai sufficiente a risolvere i problemi tra le società e le nazioni.

Forse era anche questa la lezione che gli uomini pii delle antiche leggende volevano trasmettere: la forza non basta, anzi spesso è dannosa anche, e forse proprio, per chi pensa di averne di più. Poiché nel momento in cui quella forza gli si rivolterà contro, l’apprendista stregone non saprà e non potrà affrontarla perché tutto il suo sapere, tutte le sue abilità e tutte le sue esperienze si saranno già preventivamente concentrate in essa e soltanto in essa. Privandolo di qualsiasi altra possibilità dialettica o strumentale.

Oggi Bibi, l’omino di latta dal sorriso feroce, sbruffoneggia, ricordando qualche nostro premier, mentre scherza col fuoco di una guerra allargata. Eppure già diversi anni fa, un vecchio israeliano, comunista di origini polacche, aveva intravisto la trappola in cui il sionismo si sarebbe racchiuso da sé. Senza via di scampo. “Nonostante lo stato d’assedio e i bombardamenti, nonostante tutti i morti e i feriti, nonostante le massicce distruzioni e i colpi inferti alle istituzioni militari e civili dell’Autorità palestinese, nessun segno di prossima capitolazione è in vista. La deteminazione dei palestinesi e delle palestinesi, di ogni tendenza, si esprime nella loro ostinata volontà di rimanere sul posto e di condurre una vita normale in mezzo alle distruzioni […] Ma, come tutti gli imbecilli gallonati del mondo, i generali israeliani, compresi quelli che hanno deposto l’uniforme per diventare ministri, sono convinti che quello che non sono riusciti a ottenere con l’uso della forza, lo otterranno usando una forza ancora maggiore8

E concludeva affermando: “La povertà intellettuale di un Benyamin Netanyahu, il provincialismo culturale di un Ariel Sharon li rende ciechi: credendo di servirsi degli Stati Uniti per il loro progetto coloniale, essi non sono, in realtà, che lo strumento di un progetto molto più ambizioso che ha, fra l’altro, come rovina il popolo di Israele”.9

Schiacciato tra i giochi planetari della potenza declinante di Washington e quelli locali delle monarchi sunnite del Golfo e delle potenze rampanti come Cina, Turchia e Iran, Israele rischia veramente di fare la fine del topo. Nonostante la prosopopea da protettore degli “ebrei di tutto il mondo” con cui Bibi ha voluto presentarsi alle imbambolate piazze parigine del post-Charlie.

merkava 2 A meno che i suoi cittadini non si arrischino, per ridurlo in polvere, a togliere l’alef dalle parole, false, scritte sulla fronte del loro Golem.10 Così come dovremo fare noi anche qui, nel resto dell’Occidente, strappando dalla fronte dei nostri Golem imperialisti e militaristi le magiche parole “Progresso, Democrazia e Libertà” con cui continuano a tenersi in vita. A spese nostre e del mondo intero.


  1. Così come avviene nelle narrazioni medievali riguardanti la creazione del Golem riportate in Moshe Idel, Il Golem. L’antropoide artificiale nelle tradizioni magiche e mistiche dell’ebraismo, Einaudi 2006, pag. 90 e seguenti  

  2. Vedasi, oltre al già citato Moshe Idel, anche Gersom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993 e, ancora, G.Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Einaudi 1980  

  3. M. Idel, op. cit., pag.50  

  4. Si confrontino, a tal proposito, Yakov M. Rabkin, Una minaccia interna. Storia dell’opposizione ebraica al sionismo, Ombre Corte, Verona 2005 e Furio Biagini, Giudaismo contro sionismo. Storia dei Neuteri Karta e dell’opposizione ebraica al sionismo e allo Stato di Israele, l’Ornitorinco edizioni, Milano 2010  

  5. Si vedano: Guido Santevecchi, Il riarmo cinese. Spese su del 10%, Corriere della sera 5 marzo 2015; Giovanni Zagni, La Germania pensa al riarmo e rivede il suo pacifismo, Corriere della sera 9 marzo 2015; Guido Santevecchi, La spesa record del Giappone per il riarmo. Guardando alla Cina, 15 gennaio 2015  

  6. Brunello Rosa, La guerra delle valute, in Moneta e Impero, Limes 2/2015  

  7. Hannah Arendt, Salvare la patria ebraica: c’è ancora tempo (1948) in Ebraismo e modernità, Feltrinelli 1993, pp. 167-168  

  8. Michael Warschawski, A precipizio. La crisi della società israeliana, Bollati Boringhieri 2004, pp. 48-49  

  9. M.Warschawski, op.cit., pag.123  

  10. Sulla possibile sconfitta elettorale di Netanyahu e della sua coalizione alle prossime elezioni si veda Bernardo Valli, Tra i seguaci di Netanyahu che temono le urne. La sinistra di Israele torna a sognare la vittoria, La Repubblica 13 marzo 2015  

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