Goldrake – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 05:59:59 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Goldrake siamo noi https://www.carmillaonline.com/2025/02/11/goldrake-siamo-noi/ Mon, 10 Feb 2025 23:01:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=86923 di Luca Cangianti

Sandokan, Sean Mallory, Goldrake. Ogni generazione di rivoluzionari combatte con un eroe immaginario nel cuore. Le memorie dattiloscritte del partigiano Giovanni Pepe s’intitolano I tigrotti di Bandiera Rossa. I resistenti eretici romani s’ispiravano alla furia del personaggio salgariano. Gli imperialisti britannici avevano sterminato la famiglia di Sandokan così come i nazifascisti avevano massacrato per anni il proletariato europeo scatenando il flagello della guerra. La scimitarra del pirata nelle mani dei partigiani diventava un mitra. I rivoluzionari degli anni settanta nei cortei serravano i cordoni e intonavano la colonna sonora di Giù la testa, il capolavoro spaghetti-western di Sergio Leone [...]]]> di Luca Cangianti

Sandokan, Sean Mallory, Goldrake. Ogni generazione di rivoluzionari combatte con un eroe immaginario nel cuore.
Le memorie dattiloscritte del partigiano Giovanni Pepe s’intitolano I tigrotti di Bandiera Rossa. I resistenti eretici romani s’ispiravano alla furia del personaggio salgariano. Gli imperialisti britannici avevano sterminato la famiglia di Sandokan così come i nazifascisti avevano massacrato per anni il proletariato europeo scatenando il flagello della guerra. La scimitarra del pirata nelle mani dei partigiani diventava un mitra.
I rivoluzionari degli anni settanta nei cortei serravano i cordoni e intonavano la colonna sonora di Giù la testa, il capolavoro spaghetti-western di Sergio Leone in cui il peone Juan Miranda e l’irlandese Sean Mallory attraversano le vicende della rivoluzione messicana. Negli anni settanta il sogno di un mondo migliore fu represso con stragi, torture e incarcerazioni di massa, fino al grande reset postfordista.
Le sorelle e i fratelli minori di quella generazione erano appena adolescenti negli anni ottanta: davanti alle scuole, in un clima di crescente indifferenza, distribuivano volantini contro i missili a Comiso, la dittatura in Cile e la riforma regressiva della scuola secondaria. Sapevano che prima di loro era accaduto qualcosa di affascinante e terribile cui non avevano potuto partecipare.

Avremmo dato non so cosa per poter esser lì e ci maceravamo nella rabbia al pensiero che mentre si occupano le fabbriche, le università e le scuole, mentre ci si accalcava nelle assemblee e non si conosceva la solitudine, noi non avevamo ancora raggiunto il metro e mezzo d’altezza. Le nostre voci erano squittii e non avremmo avuto la forza di impugnare i pesanti megafoni del tempo. Eravamo solo bambini nel 1978, stavamo davanti al televisore, vedevamo Goldrake. Ci immedesimavamo nel suo pilota, Actarus: i veghiani avevano distrutto il suo pianeta, sterminato i suoi cari. Qualcosa di simile stava accadendo anche a noi: quanti nostri fratelli maggiori cadevano vittime dell’eroina? Quanti annichiliti dalla militarizzazione del conflitto sociale, dal riflusso, dal tradimento? In qualche modo anche il nostro pianeta era andato distrutto. E Actarus combatteva con il suo robot i mostri che avevano perpetrato questo crimine.

Goldrake U, il reboot in onda su Rai 2 lo scorso gennaio, ha scatenato sui social una guerra proustiana di madeleine. A cinquant’anni dalla serie originale, le immagini di guerra sono più cupe, la ferita dell’eroe più profonda, il robot più inquietante e misterioso. La trama allude a un inconscio collettivo numinoso che scorre sotto le vicende storiche e personali.
L’immaginario non è una mera sovrastruttura, ma innerva i modi di produzione. La sua potenza creativa è al tempo stesso strumento di dominio e grimaldello di liberazione. Mi spiego così quei cortei studenteschi che gridavano: «Contro il sindacato concertante, doppio maglio perforante». Era 1992, i confederali avevano siglato un accordo trilaterale che prevedeva l’abolizione della scala mobile e nel paese si sviluppò un vasto movimento di contestazione operaia.

Provo a immaginare una metaforica «ora x» in cui ci libereremo dei mostri che deturpano la natura delle nostre valli; che ci obbligano a fuggire dalle nostre terre devastate dalle guerre e dal riscaldamento climatico; che ci torturano nei lager libici, ci fanno affogare in mare, ci rubano la vita e la dignità. Ci provo, e ancora una volta vedo Goldrake. È molto più torvo di quello della nostra infanzia e in effetti assomiglia a quello del recente reboot. È indecifrabile, molto diverso da una semplice macchina, ha colori più cupi, freme di una energia a lungo repressa, ma continua a urlare il nome delle sue armi: disintegratori paralleli, tuono spaziale, raggio antigravità. Lo vedo incassare colpi, subire ferite mortali, resistere oltre l’impossibile, fino al catartico grido finale: «Alabarda spaziale!». Cioè rivoluzione.

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Squid game, o vinci o sei nulla https://www.carmillaonline.com/2021/12/03/squid-game-o-vinci-o-sei-nulla/ Thu, 02 Dec 2021 23:30:00 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=69454 di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare [...]]]> di Fabio Ciabatti

Ho iniziato a vedere Squid game incuriosito dal fatto che questa serie è diventata un grandissimo successo tra gli adolescenti e i preadolescenti. In realtà questo prodotto televisivo sudcoreano, disponibile su Netflix, si inscrive in un filone di survival game o death game che conta già molti esempi provenienti dall’estremo oriente (p. es. Alice in Borderland), ma anche dagli Stati Uniti (si veda The wilds o Panic). Quello che però colpisce rispetto a Squid game è che non si tratta di un prodotto pensato per un pubblico di adolescenti a differenza degli altri esempi citati o, per menzionare un grande successo cinematografico, della trilogia di Hunger games (attenzione il seguito dell’articolo contiene spoiler)

Il protagonista della serie sudcoreana è infatti Seong Gi-hun, un sottoproletario senza arte né parte di mezza età, indebitato con gli strozzini, lasciato dalla moglie, padre di una bambina nei confronti della quale non riesce a rappresentare una figura di riferimento. Aggiungiamo che vive ancora con l’anziana madre,  impossibilitata a curarsi da una grave malattia per mancanza di soldi, e il panorama delle disgrazie è completo. Si scoprirà nel corso della serie che le sciagure del protagonista nascono con il fallimento della fabbrica dove lavorava: per evitare il licenziamento collettivo si unisce agli altri operai nell’occupazione del posto di lavoro che viene sgomberato violentemente dalla polizia. Altri personaggi di rilievo della serie sono un rampante finanziere, amico d’infanzia di Seong Gi-hun, che ha truffato la sua stessa società, un anziano signore malato di tumore al cervello, una giovane borseggiatrice scappata dalla Corea del Nord in cerca di soldi per far uscire dall’orfanotrofio il fratellino fuggito con lei dal paese natale, un malvivente di mezza tacca violento e prepotente che i suoi complici vogliono uccidere, un immigrato clandestino pakistano.
Tutti questi personaggi fanno parte di un folto gruppo di reietti della società (in tutto 456) che partecipa ad un gioco di cui non sa alcunché salvo che la vittoria assicurerebbe una enorme vincita in denaro. Capiranno soltanto nel corso del primo gioco che chi perde viene ucciso: uomini in tuta rossa e volto coperto da una maschera sparano senza pietà ai poveri malcapitati. Dopo il primo massacro lo spettatore è inchiodato al teleschermo. Subito c’è un altro colpo di scena. Le regole del gioco prevedono che nessuno possa abbandonare individualmente la competizione, ma che la stessa si può interrompere solo se la maggioranza lo decide. Traumatizzati dall’eccidio cui sono appena scampati, ma ancora allettati dal montepremi, i giocatori superstiti si dividono sul da farsi. Prevale di un soffio il game over. Una volta tornati alle loro vite, però, i giocatori ripiombano nelle loro misere quotidianità prive di qualsiasi prospettiva. E quasi tutti decidono di rientrare. Mi fermo qua nella descrizione della trama per non rovinare il gusto della sorpresa. Aggiungo soltanto che le mortali competizioni cui assistiamo sono tutte basate su giochi per bambini. Si comincia con uno due tre stella e si finisce con il gioco del calamaro (squid game, appunto, vecchio passatempo dei bambini coreani a noi sconosciuto).

Da quanto detto, però, si può capire come il mondo descritto sembri assai lontano da quello degli adolescenti occidentali. Metteteci anche un tipo di recitazione che è molto distante dai canoni hollywoodiani cui fin da tenera età siamo abituati e il mistero del successo di questa serie tra le giovani generazioni si infittisce. Certamente c’è l’elemento del gioco, per di più infantile, che ci porta in un universo narrativo vicino a quello dei videogame. Non bisogna poi sottovalutare il livello raggiunto dall’industria dell’audiovisivo in Corea del Sud e la potenza di fuoco di una piattaforma come Netflix che si può permettere di proporre anche una quota di prodotti al di fuori del mainstream americano. Ma tutto ciò non mi sembra sufficiente. Ci sono prodotti ben più smaliziati che possono candidarsi al ruolo di serie cult tra i giovanissimi.
Questo tipo di problemi non se li pone certo chi ha cominciato una nuova campagna allarmistica. Si moltiplicano notizie di bambini che, emulando i giochi di Squid game, finiscono per picchiare chi perde. Si ripetono le denunce nei confronti della serie perché indurrebbe comportamenti violenti. Da più parti è arrivata la richiesta di oscuramento del programma.

Mi viene in mente Gianni Rodari che nel 1980 su Rinascita scrive un articolo dal titolo Dalla parte di Goldrake. Sembra assurdo che qualcuno possa aver considerato nocivo per i bambini un cartone animato che, a quarant’anni di distanza, appare una roba completamente innocua. Eppure è proprio così. Al di là della benefica relativizzazione del nostro punto di vista che questo esempio sollecita, alcune cose scritte da Rodari ci possono essere ancora utili. Egli sosteneva che vedere la televisione, anche per i bambini, non è mai un atto così passivo come si potrebbe pensare. C’è sempre un’attività di decodifica, di interpretazione, di coordinamento di immagini, suoni, rumori e voci. Il senso della storia non è dato in anticipo, va ricostruito. “I bambini si riappropriano dei materiali fantastici che la televisione ha offerto loro (e noi diciamo: li condizionano, li costringono, ecc.) e ne fanno quello che vogliono loro. La drammatizzazione è una riappropriazione spontanea: i bambini giocano a fare Goldrake perché non vogliono subire Goldrake, ma lo vogliono usare per sé stessi”. Invece di polemizzare con questo e altri simili prodotti televisivi, sostiene ancora Rodari, “Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere, non per suggerire a loro delle opinioni”. Non deve certo sfuggire la differenza tra un prodotto televisivo come Goldrake e una serie Tv alla Squid Game. Né si può sottovalutare la differenza tra la socializzazione dei più giovani di quarant’anni fa e quelli di oggi. Ai giorni nostri l’insieme dei messaggi che arrivano attraverso gli schermi delle televisioni, dei computer, degli smartphone e delle playstation sono molto più pervasivi di quanto fosse la TV ai tempi di Goldrake. Eppure rimane il fatto che la fruizione di tutti questi media non è meramente passiva. Rimane il fatto che occorre interrogarsi più che condannare.

E allora torniamo a bomba. Perché un prodotto sudcoreano pensato per un pubblico adulto ha così successo tra giovani e giovanissimi del mondo occidentale? Sia ben chiaro, risposte definitive non ne ho. Ho solo un’ipotesi che mi piacerebbe fosse approfondita ben più di quanto io sia in grado di fare. Quello che Squid game drammatizza attraverso il meccanismo narrativo del death game è la traiettoria esistenziale che le giovani generazioni, magari confusamente, percepisco gli sia toccata in sorte: o vinci o muori. O diventi come Steve Jobs o sei destinato a consegnare pizze per pochi euro per tutta la tua vita. O eccelli o sei nulla. All or nothing, per utilizzare il titolo di una serie di documentari in tema sportivo. 
Cosa trasmette un genitore al proprio figlio quando non può accettare che abbia preso un brutto voto e se la prende immancabilmente con l’insegnante? Quale lezione può trarre un ragazzino quando un genitore si scaglia pesantemente contro l’allenatore che l’ha messo tra le riserve? Quale ansia da performance si trasmette a un bambino quando il suo tempo è riempito, sin dalla tenera età, con mille attività e corsi predisposti da genitori con cipiglio quasi manageriale? Quale messaggio arriva dall’eccessiva medicalizzazione di comportamenti di bambini in età scolare che, in molti casi, hanno solo il difetto di essere poco performanti? L’insuccesso è inaccettabile, non essere tra i primi è un dramma, migliorarsi in continuazione è una necessità vitale, non impegnarsi al massimo è patologico.
Di esempi se ne potrebbe fare ancora molti, ma a questo punto preferisco concedermi una breve parentesi autobiografica. Quando, molti anni fa, decisi di iscrivermi a una facoltà umanistica sapevo benissimo che da un punto di vista degli sbocchi lavorativi la mia scelta avrebbe potuto essere penalizzante. Pensavo però, con una certa incoscienza, che se non fossi riuscito a raggiungere il mio obiettivo primario, un piano B lo avrei escogitato. Un posto come impiegato l’avrei comunque trovato, magari attraverso qualche concorso pubblico del cavolo. Quanti giovani al giorno d’oggi potrebbero fare una scelta vocazionale con altrettanta leggerezza? I percorsi professionali devono essere pianificati in anticipo. Guai a non avere le idee chiare sin da subito. Intendiamoci, la mia non è un’invettiva contro i giovani privi di valori o di coraggio. È il nostro mondo ad essere cambiato in peggio. Precarietà diffusa, condizioni di lavoro oppressive, diritti sociali in via di liquefazione, distribuzione sperequata delle ricchezze e dei redditi, frammentazione sociale configurano una società ferocemente atomizzata e, al tempo stesso, polarizzata tra una minoranza sempre più esigua che ce la può fare e una maggioranza sempre più estesa che rischia di rimane esclusa da una vita decente. 

Se quanto detto fin qui ha un senso, non dovrebbe sorprendere il successo di una serie come Squid Game. Il tutto sta a capire come un certo tipo di contenuto viene interpretato e vissuto. Ci si limita a fare il tifo per il protagonista identificandosi con lui senza mettere in questione il meccanismo in cui è immerso? O la proiezione al di fuori di sé di un dispositivo ansiogeno che è stato introiettato può preludere a un suo possibile rigetto? Come ci si pone di fronte alla scelta del protagonista che a un certo punto deve decidere se sacrificare il suo amico d’infanzia è un prezzo che si può pagare per raggiungere la vittoria? Una risposta definitiva a queste domande suonerebbe a questo punto vuotamente retorica o moraleggiante. Mi limito a un’osservazione che può mantenere viva la speranza: le giovani generazioni, attraverso il tema della crisi climatica, stanno scoprendo che non ci si può salvare da soli. Di strada bisognerà farne ancora tanta. Enormi sono le forze in campo che spingono verso una strumentalizzazione e una neutralizzazione di questa protesta. Ancora deboli le voci di chi non si accontenta del solito bla bla bla. Ma un primo passo è stato fatto. Forse non siamo condannati a uccidere tutti i nostri concorrenti per non soccombere nella gara della vita.

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Alla ricerca del Goldrake perduto https://www.carmillaonline.com/2018/06/30/alla-ricerca-del-goldrake-perduto/ Fri, 29 Jun 2018 22:01:04 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46666 di Paolo Lago

Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake. La vera storia del robot giapponese che ha rivoluzionato la TV italiana, note introduttive di M. Gusberti, P. De Benedetti, con un saggio di G. Di Fratta, Società Editrice La Torre, San Marco Evangelista (CE), 2017, pp. 660, € 24,50.

Il recente saggio di Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake, possiede veramente uno sguardo enciclopedico. Al centro di questo studio, infatti, non vi è solo la figura di Goldrake o la serie di cartoni animati Atlas Ufo Robot, ma numerosi risvolti culturali e sociali [...]]]> di Paolo Lago

Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake. La vera storia del robot giapponese che ha rivoluzionato la TV italiana, note introduttive di M. Gusberti, P. De Benedetti, con un saggio di G. Di Fratta, Società Editrice La Torre, San Marco Evangelista (CE), 2017, pp. 660, € 24,50.

Il recente saggio di Massimo Nicora, C’era una volta Goldrake, possiede veramente uno sguardo enciclopedico. Al centro di questo studio, infatti, non vi è solo la figura di Goldrake o la serie di cartoni animati Atlas Ufo Robot, ma numerosi risvolti culturali e sociali di un periodo, perlopiù quello degli anni Settanta e dei primi Ottanta, con estensioni dell’analisi anche agli anni Cinquanta e Sessanta. Il lavoro di Nicora è sicuramente il più corposo (660 pagine) fra gli svariati saggi dedicati a Goldrake o agli anime giapponesi in generale: come l’autore scrive in conclusione, «il libro avrebbe potuto essere più corto? No, anzi avrebbe potuto essere più lungo», testimonianza di una ricerca durata dieci anni. Lo sguardo enciclopedico dell’autore si esplica nell’analisi a tutto tondo di un preciso milieu culturale e sociale attraversato da un certo tipo di generi, di trasmissioni televisive, di opinioni, di modi di sentire. Non si tratta quindi soltanto di un libro su Goldrake ma di una summa enciclopedica sull’intero sfondo sociale e culturale nel quale la serie di cartoni animati si trova inserita. Perché, come nota l’autore, «la ricerca del nostro tempo perduto è una ricerca continua», proprio «come le nostre passioni, che nascono e non muoiono mai».

Si comincia quindi con una serrata disamina del cinema di fantascienza americano e giapponese degli anni Cinquanta, soprattutto incentrata su Ultimatum alla Terra (1951), diretto da Robert Wise. Se la cinematografia di fantascienza americana ha avuto un notevole impatto su quella giapponese, è anche vero che quest’ultima mette in scena delle opere peculiarissime, segnate in maniera evidente dalla sua storia recente e dal disastro atomico, nonché impresse in una differente matrice culturale. Dopo il grande successo di Godzilla (Gojira, 1954), diretto da Ishiro Honda, si realizzano interessanti esperimenti, fra cui Gli uomini spaziali atterrano a Tokyo, (1956) diretto da Koji Shima, che presenta figure di alieni a forma di stella marina con un unico occhio al centro. Un altro interessante film giapponese di fantascienza è, secondo la traduzione italiana del titolo, Forza di difesa della Terra (1957), diretto da Ishiro Honda, che esce negli Stati Uniti col titolo The Mysterians e in Italia col titolo I misteriani. In esso è presente la figura di gigantesco robot, di nome Mogera, «che sbuca improvvisamente dalle viscere della terra e avanza distruggendo ogni cosa con la sua mole imponente e sparando raggi dagli occhi».

Proprio questo cinema di fantascienza è il migliore background per la nascita del primo robot dei cartoni animati giapponesi, Mazinga Z (1972), seguito da Il Grande Mazinga (1974), frutto della fantasia di Go Nagai. L’idea per la creazione del robot venne a Nagai da una sua esperienza quotidiana: guardando una strada in cui gli automobilisti erano imbottigliati nel traffico, si immaginò che alle loro auto spuntassero braccia e gambe in modo da consentirgli di scavalcare facilmente la coda. Curiosa è anche l’origine del nome di Mazinga, il quale rimanda quasi ad una antica divinità, poiché risulta composto da due ideogrammi: ma che significa «demone» e jin, che significa «dio». Una novità assoluta rispetto agli altri robot dei film di fantascienza, poi, è la modalità di pilotaggio di Mazinga: non si tratta, infatti, di un robot che si muove autonomamente, ma viene guidato da un pilota posizionato in una cabina interna allo stesso robot, come se si trattasse di un velivolo o di un’automobile alla quale fossero spuntate braccia e gambe. Il plot degli episodi è sempre lo stesso: Mazinga deve affrontare delle battaglie all’ultimo sangue contro dei mostri mandati dai terribili nemici che vogliono impossessarsi della Terra.

Sul medesimo schema narrativo è costruita anche la successiva serie di Ufo Robot Grendizer (nome originale di Goldrake), sempre realizzata da Go Nagai, trasmessa in Giappone per la prima volta il 5 ottobre 1975. A pilotare il robot incontriamo Daisuke Umon (che nella versione italiana verrà rinominato Actarus), il cui vero nome è Duke Fleed, principe del pianeta Fleed, fuggito sulla Terra a bordo di Ufo Robot Grendizer dopo che la sua patria è stata distrutta dalle truppe di Re Vega. La prima puntata si apre con il ritorno in Giappone di Koji Kabuto (Alcor), l’ex pilota di Mazinga Z, che si dirige al Centro di Ricerche Spaziali del professor Umon (Procton) a bordo di un disco volante da lui stesso progettato. Atterra nei pressi della fattoria Shirakaba (Betulla Bianca) e fa la conoscenza dei membri della famiglia Makiba: Danbei (Rigel), un simpatico ranchero, il piccolo Goro (Mizar) e la bella Hikaru (Venusia). Come nelle precedenti serie di Mazinga, la trama è tutta incentrata sugli scontri fra i mostri inviati dal terribile nemico che intende conquistare la Terra, in questo caso Vega, e Grendizer, il quale naturalmente trionferà sempre. L’analisi rigorosa di Nicora abbraccia ogni sfaccettatura della serie, dalla sigla giapponese ai manga, fino a spingersi ad un competente focus sulla «Mazingsaga coreana», cioè sul cinema di animazione sudcoreano che giunge a creare un lungometraggio avente come protagonista un robot autoctono sulla falsariga di Mazinga, Robot Taekwon V.

Lo sguardo critico dell’autore si sposta quindi sulla fortuna estera di Grendizer, a cominciare dalla Francia, paese attraverso il quale la fama della serie animata è poi stata traghettata in Italia. È merito di Bruno-René Huchez, impiegato presso un’azienda giapponese in Francia dedita all’import-export fra Giappone e Francia, l’aver scoperto, a Tokyo, facendo zapping alla TV, gli anime di Mazinga e di Grendizer. Dopo una serie di vicissitudini legate alla produzione e all’acquisto della serie, finalmente Grendizer approda su Antenne 2, nel luglio 1978, con il nome di Goldorak.

L’analisi si focalizza quindi sull’Italia. La vocazione filologica (in senso positivo) del libro di Nicora fa sì che non si passi subito a parlare di Goldrake ma che si prepari il suo arrivo con una sottile disamina della «TV dei Ragazzi in Italia prima di Goldrake». La Rai degli anni Cinquanta, la «TV dei Ragazzi», le varie trasmissioni e programmi educativi, le prime serie a puntate (basti ricordare Zorro, Lassie, Rin Tin Tin, Furia) fino ai cartoni animati di Braccio di Ferro, di Braccobaldo, del Gatto Silvestro, degli Antenati e ai fumetti in TV di Gulp! e SuperGulp!. Ancora una volta, il saggio si presenta come una specie di enciclopedia della cultura e dello spettacolo italiani degli anni dai Cinquanta ai Settanta. La ‘scoperta’ italiana di Grendizer si deve a Nicoletta Artom, una funzionaria Rai che si batté, appunto, per portare la serie animata giapponese, ‘filtrata’ attraverso la traduzione francese, su Rete Due, dove debuttò il 4 aprile 1978, col nome di Atlas Ufo Robot. Una curiosità: da dove esce questo «Atlas» (nome con il quale viene identificato il disco volante di Goldrake) del titolo italiano? Ebbene, deriva – sembra non per un errore – dal nome apposto sulla copertina del raccoglitore contenente il materiale descrittivo inviato in Italia. «Atlas», infatti, in francese significa «guida», «collezione di mappe geografiche», «raccolta di tavole figurate» (si pensi all’italiano «atlante»). La voce di Actarus (nome che deriva dalla versione francese Arcturos) è affidata a Romano Malaspina, quella di Alcor a Giorgio Locuratolo mentre la sigla di testa è composta da Vince Tempera (e suonata da musicisti del calibro di Ares Tavolazzi e Ellade Bandini) e cantata da Michel (Alberto) Tadini.

È subito un enorme successo: la Rai viene inondata di lettere di bambini che ‘scrivono’ a Goldrake chiedendo curiosità e retroscena sui personaggi e sulla trama. Il grande successo possiede comunque anche un altrettanto grande strascico di polemiche. Il principale fautore di queste ultime è Silverio Corvisieri, appartenente a Democrazia Proletaria e membro della commissione di Vigilanza Rai, il quale definisce Goldrake come «antidemocratico e violentissimo». Viene fatto inoltre appello agli schieramenti politici e Goldrake è bollato ‘di destra’ (Dario Fo chiama in causa il fascismo), anche a causa dell’odio per i ‘diversi’, gli abitanti del pianeta Vega, identificati come nemici. Ciò non è del tutto vero – ribadisce Nicora – se pensiamo che Actarus è egli stesso un ‘diverso’, ‘immigrato’ sulla Terra dal Pianeta Fleed, e combatte come un ‘partigiano’ assieme ai terrestri contro le violenze del ‘regime’ di Vega. Molti giornalisti, intellettuali, e personaggi dello spettacolo si schierano poi a favore di Goldrake: basti ricordare Luca Goldoni, Oreste Del Buono, Gianni Rodari, Marco Ferreri.

In fin dei conti, non ci si può elevare più di tanto a ‘censori’ perché i bambini e i ragazzi sanno già selezionare ciò che fa parte della fantasia e ciò che, invece, fa parte della realtà: ciò che si vede in Atlas Ufo Robot fa esclusivamente parte del regno della fantasia, dell’immaginazione e, anzi, esso ci potrebbe servire (a tutti, indistintamente adulti e bambini) per sconfiggere la violenza silenziosa, la crudeltà e la dolorosa assuefazione ad essa che si cela nella realtà di tutti i giorni. Probabilmente, anche l’immaginario di Goldrake fa parte di quella «immaginazione al potere» che, sulla scorta di Marcuse, diviene una delle parole d’ordine degli studenti del Sessantotto e, poi, degli anni Settanta (la sigla di Goldrake – c’è da dire – veniva cantata dagli studenti durante le manifestazioni). Una immaginazione attraverso la quale si possono potenziare le istanze di liberazione dai meccanismi di schiacciamento della quotidianità e della nuda realtà, una immaginazione che adesso ritroviamo, come una madeleine proustiana, grazie al bel libro di Massimo Nicora.

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La poetica di Goldrake https://www.carmillaonline.com/2017/01/19/la-poetica-di-goldrake/ Thu, 19 Jan 2017 22:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=36083 di Luca Cangianti

Guida super robot nacci

Jacopo Nacci, Guida ai super robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980, Odoya, 2016, pp. 302, € 17.00.

“Miwa, lanciami i componenti!” gridavano alcuni bambini tra gli anni settanta e gli ottanta, “Alabarda spaziale!” gli facevano eco altri. Molti genitori presero a preoccuparsi per il successo dell’animazione super-robotica giapponese. Silverio Corvisieri – che va ricordato per gli ottimi saggi storici sulla resistenza romana e sulla formazione comunista dissidente Bandiera Rossa – al tempo era membro della Commissione di Vigilanza Rai in [...]]]> di Luca Cangianti

Guida super robot nacci

Jacopo Nacci, Guida ai super robot. L’animazione robotica giapponese dal 1972 al 1980, Odoya, 2016, pp. 302, € 17.00.

“Miwa, lanciami i componenti!” gridavano alcuni bambini tra gli anni settanta e gli ottanta, “Alabarda spaziale!” gli facevano eco altri. Molti genitori presero a preoccuparsi per il successo dell’animazione super-robotica giapponese. Silverio Corvisieri – che va ricordato per gli ottimi saggi storici sulla resistenza romana e sulla formazione comunista dissidente Bandiera Rossa – al tempo era membro della Commissione di Vigilanza Rai in quota Democrazia Proletaria e sulla Repubblica condannò Goldrake e Jeeg Robot come violenti e reazionari.1 Il quotidiano Lotta Continua si schierò invece a favore,2 così come Gianni Rodari che dalle pagine di Rinascita, il mensile teorico del Pci, invitava a liberarsi dei pregiudizi personali per capire cosa rappresentassero gli anime: «Bisognerebbe chiedersi il perché del loro successo, studiare un sistema di domande da rivolgere ai bambini per sapere le loro opinioni vere… Invece di polemizzare con Goldrake, cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno. Il vecchio Ercole era metà uomo e metà Dio, questo in pratica è metà uomo e metà macchina spaziale, ma è lo stesso, ogni volta ha una grande impresa da affrontare, l’affronta e la supera. Cosa c’è di moralmente degenere rispetto ai miti di Ercole?»3
Passarono gli anni e quei bambini andarono all’università: a Roma, a ridosso del movimento della Pantera, un corteo ludico di studenti di lingue straniere e filosofia attraversò i giardini di Villa Mirafiori intervallando la sigla di apertura di Atlas Ufo Robot a slogan della tradizione rivoluzionaria. Simili contaminazioni continuarono a verificarsi per tutti gli anni novanta nelle manifestazioni e nelle feste dei centri sociali dove la sigla di Jeeg Robot veniva accolta a pugno chiuso (o era un maglio perforante?).

Ora però sembra che un ex bambino di quella generazione sia andato ancora oltre realizzando una vera e propria poetica dell’animazione robotica: Guida ai super robot giapponesi di Jacopo Nacci, infatti, s’immerge nella struttura narrativa degli anime con competenze letterarie e filosofiche raffinate facendo emergere la trama profonda di una produzione artistica che è stata vittima di demonizzazione o, nel migliore dei casi, di superficiale interesse sociologico.
Nacci è rigoroso come un anglista alle prese con il canone shakespeariano. Per prima cosa elabora il profilo idealtipico del super robot. Esso è un gigante di metallo, è pilotato dall’interno da un eroe che grida il nome delle armi che sta per utilizzare, ha potenzialità altamente distruttive e difende la Terra da un nemico che vuole conquistarla inviando a ogni puntata un mostro diverso – anch’esso gigantesco. L’autore stabilisce poi un’attenta periodizzazione che inizia con Mazinga Z del 1972, passa per la canonizzazione del 1976 (Gaiking, Godam, Groizer X, Diapolon, Combattler V) per arrivare ai tardi prodotti di fine decennio. Dopo il 1980 il tema del super robot, il cui suffisso «indica un’impronta mitologica e soluzioni narrative che tendono al fantastico» cede il passo alla narrativa di guerra dei real robot. Infine Nacci affronta le dimensioni simboliche e narrative dissezionando le serie televisive e catalogandone temi, trame e personaggi.
Sul versante simbolico la Guida fa emergere dalla cosmogonia super-robotica – affollata di funghi atomici, lutti, distruzioni, controllo dei corpi e delle menti – il trauma della seconda guerra mondiale e il rapporto tra tecnica e immaginario nipponico: «storicamente la tecnologia era legata all’immagine dell’Occidente, ed è il campo sul quale le bombe di Hiroshima e Nagasaki hanno decretato nel modo più terrificante la vittoria dell’Occidente, ma proprio per questo è anche un campo sul quale si vorrebbe dimostrare una raggiunta parità, se non una vera e propria superiorità. Insomma la tecnologia è, nell’immaginario giapponese, un territorio – se non il territorio – di relazione, contaminazione e competizione tra il Giappone e l’Occidente». Tale simbolismo tracima anche nella struttura narrativa in senso stretto, dove l’eroe è quasi sempre un orfano che ha il compito di salvare l’umanità. Egli tuttavia è contaminato dal nemico: Hiroshi Shiba, il “pilota” di Jeeg, combatte contro malvage creature provenienti dal passato, ma, contraddittoriamente, in petto porta un’antica campana; Actarus è un extraterrestre che ha perso i propri genitori in una catastrofe che è alla base della stessa invasione aliena. Insomma il nemico è l’ombra dell’eroe: ha tratti fascistoidi, militareschi, statunitensi o mutuati dalla vecchia generazione giapponese; è animato da sete di potere e invaso dalla tecnica. Il decapitato Blocken e l’assemblato Pigman sono infatti cadaveri rigenerati, i micenei mostri semi-antropomorfi con parti meccaniche e organi duplicati, le bestie meccaniche di Mazinga Z giganteschi schiavi di metallo animati da istinti primitivi.
Molto interessanti sono i profili degli altri personaggi che ricorrono negli anime super-robotici. In primis il “padre della tecnica”, cioè il creatore del robot, il mentore. Egli dirige la base e la squadra dei “buoni”. Questa è formata da un gruppo di tre o cinque elementi. In formazione completa, oltre all’eroe, comprende: il grosso in funzione comica, il ragazzino come esperto di scienza e tecnica, la ragazza e lo smilzo. La figura femminile è connotata da stabilità psicologica e ferrea dedizione alla causa, anche se non vi è traccia di un arco di trasformazione paragonabile a quello dei personaggi maschili. La discriminazione di genere affiora poi in alcuni anime attraverso l’inferiorità dei robot femminili: quelli di Gō Nagai – l’autore di Jeeg e Goldrake – sono deboli e inutili, in Ginguiser il veivolo di Michi è costruito con degli scarti ed è l’unico che non si trasforma. Lo smilzo, infine, è cinico, sprezzante e in competizione con l’eroe. Ha spesso un occhio coperto da un ciuffo a testimonianza della sua natura misteriosa, introversa e inafferrabile: «il leader e il grosso incarnano rispettivamente lo spirito e la tradizione del samurai, lo smilzo incarna il ninja».

La Guida di Nacci è ricca di schede tecniche, glossari, cronologie e immagini. L’abbondanza d’informazioni tuttavia non inficia mai la piacevolezza della lettura e non sconfina nel nozionismo da nerd. Gli ex bambini degli anni settanta adesso sanno che avevano ragione. Non erano solo lame rotanti, tuoni spaziali e raggi gamma a suscitare il loro entusiasmo, ma, come ricorda Rodari, il mito eterno e mutevole dell’eroe sofferente in lotta contro le forze della reazione.


  1. “Un ministero per Goldrake”, La Repubblica, 7-8.1.1979. 

  2. “Bambini, tenete duro. Arriva Goldrake contro i genitori babbalei”, Lotta Continua, 10.4.1980. 

  3. “Dalla parte di Goldrake”, Rinascita, n. 41, 17.10.1980. 

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Anni80.jpgDopo Berlusconi, Grillo. Chi sarà il prossimo? Individuando e analizzando le caratteristiche comuni fra i primi due, possiamo prevedere il terzo. Avvertiamo chi preferisse non scoprirli in anticipo, che questo post contiene spoiler sui prossimi sviluppi della politica italiana.

Sia Silvio Berlusconi che Beppe Grillo:

1) Sono emersi sulla scena italiana alla fine degli anni ’70, e diventati famosi negli ’80. Fra le principali icone mediatiche dell’era del Riflusso, i loro inconfondibili faccioni sono impressi a fuoco fin dalla nostra infanzia nell’inconscio collettivo di almeno cinque generazioni. 2) Hanno raggiunto grande popolarità e successo economico in un’attività (erroneamente) [...]]]> di Alessandra Daniele

Anni80.jpgDopo Berlusconi, Grillo.
Chi sarà il prossimo?
Individuando e analizzando le caratteristiche comuni fra i primi due, possiamo prevedere il terzo.
Avvertiamo chi preferisse non scoprirli in anticipo, che questo post contiene spoiler sui prossimi sviluppi della politica italiana.

Sia Silvio Berlusconi che Beppe Grillo:

1) Sono emersi sulla scena italiana alla fine degli anni ’70, e diventati famosi negli ’80. Fra le principali icone mediatiche dell’era del Riflusso, i loro inconfondibili faccioni sono impressi a fuoco fin dalla nostra infanzia nell’inconscio collettivo di almeno cinque generazioni.
2) Hanno raggiunto grande popolarità e successo economico in un’attività (erroneamente) ritenuta molto diversa (e migliore) della politica tradizionale, e lo devono ai media.
3) Sono (o sono stati) considerati outsider, fieri oppositori in nome del bene comune d’un mastodontico e persecutorio sistema pre-esistente.
4) Hanno una personalità megalomane, e un temperamento combattivo, che sfogano incuranti dei danni delle loro intemperanze.
5) Le loro dichiarazioni più assurde, offensive, imbarazzanti, vengono giustificate dai loro sostenitori come ”malintesi”.
6) Hanno approfittato dell’innovazione tecnologica per affermarsi, Berlusconi con l’emittenza privata, Grillo con internet.
7) Sono stati all’inizio sottovalutati dagli avversari, e poi contrastati in modo confuso, inefficace, e spesso controproducente e autolesionista.
8) Hanno profondamente segnato il costume e la cultura popolare, prodotto una folla di imitatori, lanciato una serie di slogan che sono entrati nel linguaggio quotidiano collettivo a prescindere dal loro significato originario.

In base a queste caratteristiche, possiamo prevedere chi sarà dopo Berlusconi e Grillo il prossimo leader a catalizzare il consenso della maggioranza degli italiani.
Goldrake.

1) È una fondamentale icona mediatica degli anni ’80 ancora immediatamente riconoscibile.
2) È alieno alla politica tradizionale.
3) Ha avuto successo contrastando il mastodontico e persecutorio Impero Galattico di Vega in nome del bene comune, ed è perciò generalmente considerato un eroe positivo.
4) È un megarobot dal temperamento decisamente combattivo.
5) Le sue dichiarazioni più assurde vengono giustificate come errori di traduzione dal giapponese.
6) Ha approfittato delle innovazioni tecnologiche della robotica.
7) I comandanti di Vega suoi nemici sono perlopiù cialtroni incapaci, molto più interessati a complottare per fottersi a vicenda, che a sconfiggerlo. Esattamente come i leader del centrosinistra.
8) ”Alabarda spaziale”!

Si potrebbe obiettare che Goldrake sia un personaggio inventato, un pupazzo sintetico pilotato da qualcun altro. Questo però non ha mai impedito a un politico d’avere successo.

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