Giuseppe Occhiato – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Venire in salvamento https://www.carmillaonline.com/2023/11/14/venire-in-salvamento/ Tue, 14 Nov 2023 21:00:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=79685 di Neil Novello

Giuseppe Occhiato, L’ultima erranza, Rubbettino Editore, 2023, pp. 356, 19 euro

La poesia greca e la poesia latina, tra l’Iliade omerica e l’Eneide virgiliana, espongono il topos culturale della morte senza sepoltura. È la preliminare condizione per figurare un orizzonte di destino: l’erranza tragica dell’anima nell’aldilà. A riferire delle citazioni liminari scelte da Giuseppe Occhiato nel romanzo L’ultima erranza, i versi di Omero e Virgilio sugli insepolti istituiscono l’archetipo di un’idea, una credenza utilizzata dallo scrittore calabrese per giustificare l’oltremondana peripezia di Rizieri Mercatante, il protagonista del romanzo. La sua tragedia consta dunque di un fio [...]]]> di Neil Novello

Giuseppe Occhiato, L’ultima erranza, Rubbettino Editore, 2023, pp. 356, 19 euro

La poesia greca e la poesia latina, tra l’Iliade omerica e l’Eneide virgiliana, espongono il topos culturale della morte senza sepoltura. È la preliminare condizione per figurare un orizzonte di destino: l’erranza tragica dell’anima nell’aldilà. A riferire delle citazioni liminari scelte da Giuseppe Occhiato nel romanzo L’ultima erranza, i versi di Omero e Virgilio sugli insepolti istituiscono l’archetipo di un’idea, una credenza utilizzata dallo scrittore calabrese per giustificare l’oltremondana peripezia di Rizieri Mercatante, il protagonista del romanzo. La sua tragedia consta dunque di un fio terribile. Esso non è tanto nell’essere morto giovane e per di più di morte violenta, caduto miseramente in una fine sanguinosa già raccontata da Occhiato nella grande epopea di “Oga Magoga” (ed. or. 2000). E non è neppure nell’essere realmente insepolto. Pure inumato nei suoi «sette palmicelli di terra» nel cimitero di Santocostantino, alla sua morte Rizieri non ha ricevuto il conforto del rituale funerario tradizionale. Ecco allora il momento tragico e la sua incolpevole erranza oltremondana. Secondo la credenza, l’errante dell’aldilà, non è più corpo vivo e non ancora anima morta, erra nell’attesa di ricevere sulla terra quanto non ha mai avuto, i cosiddetti «funerali all’antica». E dunque il pensiero magico, la credenza lo fa disperatamente, e in eterno, vagare nell’altro mondo. La sua condizione rischia di essere sospesa per sempre. Rizieri è un trapassato in attesa di trapassare.

Nel 2007, per il marchio Iride (Rubbettino) Occhiato pubblica la prima edizione dell’Ultima erranza. Nel 2023 l’opera è ristampata con l’introduzione di Emilio Giordano. Giuseppe Occhiato, il classico più ignoto della letteratura calabrese e nazionale, nel 2022 rilanciato da una nuova edizione di Oga Magoga, risale lentamente la dura china di un ingiusto anonimato culturale. E ciò soccorre per cancellare lo stigma di regionalismo letterario, e ancora peggio di meridionalismo, affibbiato alla sua opera. Al di là dell’agnizione omerico-virgiliana, L’ultima erranza, si direbbe una meravigliosa isola staccatasi proprio dall’immenso arcipelago Oga Magoga, è ambientata a Mileto, la terra di Occhiato. Racconta la storia di un nostos, quello di Filippo Donnanna. È un emigrato che ritorna al paese dopo quarant’anni di lavoro a San Candido, nell’Alto Adige. Donnanna è un’«anima in penìo», un purgante terrestre che si dibatte tra un inquieto travaglio metafisico, il problema dostoieskijano di Dio, un’amara, cupa nostalgia, l’insensatezza dell’esistenza. E ancora, una vana meditazione sull’assurdità della vita e della morte, il male nel mondo e il terrore del nulla. L’interezza della sua condizione umana è da Occhiato figurata come un «groviglio di mèrveri». Quando Donnanna cerca un amico d’infanzia, don Nazareno Gullà, vibra in lui un ulisside metafisico, un uomo alla «deriva» sia perché ha perduto il «senso di tutto» sia perché al religioso supplica una lezione di tanatologia. Donnanna domanda a don Gullà il dono di una parola salvifica, una meditazione sull’essere e sulla fine. Il suo problema filosofico, crudo, lucido e feroce, inquadra una realtà inaccettabile. Quest’anima dolente è afflitta da elucubrazioni heideggeriane e si comprende alla luce del pensiero di Leopardi. Noi siamo stati abbandonati sulla terra. E la morte non è che l’esperienza di un amaro passaggio dallo stato di abbandono all’ultimativo nulla. Su tale senso tragico governa l’indifferenza di Dio. Per rivelare a Donnanna la formula della salvezza difendendo la fede come natura del «cuore» umano nonché atto d’amore per la «religiosità popolare», cioè il vissuto della tradizione, don Gullà scommette su un effetto di sortilegio. Non dona a Donnanna una parola, indica solo una via. Essa riguarda la «storia» occulta di un’«antica carrozza da morto», una storia legata a un oggetto prezioso, che a Donnanna però dovrà servire da «lezione di vita». Da lezione e anche da mezzo per afferrare la sfuggente «verità» sul senso della vita, la fissazione che lo affligge a morte accogliendo così, in maniera traslata, la filantropica «offerta di salvezza» da parte del religioso. Nell’intenzione di don Gullà, la conoscenza della misteriosa «storia», cui il prete invita a interessarsi per ricostruirne il corso e afferrarne il senso profondo, nella ricezione da parte di Donnanna assume un valore esperienziale pedagogico. È il solo mezzo attraverso cui la crisi dell’uomo potrà risolversi in un orizzonte di redenzione. Del recupero di una fede di «cuore» e della consapevolezza culturale della «religiosità popolare», l’«antica carrozza da morto» è il simbolo salvifico. E così conoscere le azioni terrene compiute da don Natalino, il padre di Rizieri e l’artefice della «storia» legata alla «carrozza», per orientare l’«erramìa dell’anima» del figlio in altro e diverso destino, nel pensiero di don Gullà definisce la clavis hermeneutica necessaria a Donnanna per capire il proprio mondo, la propria crisi umana. E anche altro: per rovesciare in coscienza culturale lo statuto di un tormento profondo fatto di inesplicabili «demoni interiori». Attraverso l’opera di don Natalino, Donnanna e Rizieri, i due mondi dell’Ultima erranza, entrano in rotta di collisione.

Donnanna ritorna a Mileto nel 1983, la sua «indagine» autosalvifica riguarda dunque la «leggenda» dei funerali messa in scena da don Natalino nel 1963 per onorare la morte di Rizieri, tuttora senza onoranza, avvenuta nel 1943. Rizieri è ancora in «attesa» di conquistare la plenitudine dell’aldilà. La sua morte del 1943 accade esattamente vent’anni dopo il 1923, l’anno della vile e colpevole fuga di don Natalino in Argentina. Essa consegue all’aver compiuto una «barbara infamità», l’«empietà» dell’abbandono della moglie Costanza e quindi dei figli Rizieri e Chicchina. Ora l’afflitto Donnanna, riannodando il filo della «leggenda», riannoda anche la storia di un’altra afflizione, quella della coscienza di don Natalino. Nel suo personale nostos, don Natalino cerca, non meno che Donnanna, la propria «redenzione» attraverso i dovuti «funerali all’antica» per l’errante Rizieri. Morire definitivamente per lui significa transitare sul «ponte di santo Iapico», il pons probationis che ammette all’eternità. L’ultima erranza diviene quindi un congegno soteriologico. La crisi esistenziale di Donnanna è curata dalla «storia» di don Natalino, i cui «rimorsi» per l’abbandono della famiglia e la morte senza rituale tradizionale del figlio, a sua volta sono curati dall’impresa dei «funerali all’antica». Ciò vuol dire «accompagnamento, lutto, mortorio, ricònsolo», il «corteo all’antica maniera» e la «carrozza a cavalli», tutto come usava a Santocostantino nel 1943. Sono desideri tradizionali dettati in «sogno» dal figlio al padre. Un’onoranza funebre che anzitutto salva Rizieri dall’«erramìa» eterna, dal non essere ancora «morto all’intutto», e inoltre salva sia don Natalino che fa sia Donnanna che sa.

Rincorrere il filo della «piccola inchiesta privata» sulla storia dei Mercatante, per Donnanna significa rincamminare, attraverso la vicenda, nel proprio mondo interiore. Nella «leggenda» da ricostruire è occultato il senso profondo dell’origine. De Martino avrebbe parlato di antropologia religiosa. Così il nostos di Donnanna non è solo geografico, è anzitutto spirituale. E la sua anima è malata perché il suo mondo è una fine di mondo. Nell’alveo del suo stesso tramonto, attraverso la promessa autosalvifica dell’«inchiesta», Donnanna lavora a riconquistare un’ontologica alba perduta, a reintrodurre un senso nella sua anima schopenahueriana. Il caso e l’errore appaiono come le cifre dominanti della sua condizione inumana. Anche il problema teologico di Donnanna, alla fine si rivela come la mera proiezione metafisica di una crisi gnoseologica. La sua ricerca infatti gravita nell’umano perché figura un’interrogazione al «senso della vita, la sua realtà primigenia, il suo mistero». Proprio come Rizieri, caduto in un aldilà oscuro, incomprensibile, sprofondato in un emisfero di tenebra. Il «mondo sottano», certificando la fine parziale della sua vita, replica il destino di Donnanna, proteso nella colossale impresa di ricostruire, attraverso quella che è divenuta una «leggenda», il significato perduto della vita e del suo essere. Donnanna agisce dunque dall’interno di una catastrofe. Qui si inscrive anche la scissione tragica di don Natalino, realmente al confine tra il mondo non finito di Rizieri e il nuovo al suo inizio.

Donnanna, Rizieri e don Natalino identificano un’esperienza apocalittica. L’emigrante calabrese di San Candido cerca se stesso nell’anima profonda del paese, l’Argentino nel folle recupero di un passato perduto, la parte viva e irrisolta di Rizieri per capire come è fatto l’altro mondo desiderando ancora il nostro mondo. Il radicamento terrestre del trapassato è riassunto in un solo nome, la memoria incancellabile della «zingarellota» Orì, l’amore crudele e la più sinistra reminiscenza di Oga Magoga, la creatura inseguita da Rizieri anche nell’aldilà. Ma don Natalino, nella sua smania di vivificare il tempo, di regredire nel passato per conquistare il proprio presente, figura anche l’anello di congiunzione, il punto di sutura tra le due realtà di Donnanna e Rizieri. I fatti del 1963, con don Natalino, appaiono salvifici per i fatti di Rizieri del 1943 e per i fatti di Donnanna del 1983. La loro indeterminazione ontologica spiega la ricerca di una smarrita «pienezza» spirituale e destinale. Più la ricerca sulle res gestae di don Natalino entra nell’orizzonte di conoscenza di Donnanna, più il ricercatore saturnino supera i «conflitti interiori». E così sulla sua via negationis fiorisce una nuova domanda alla vita.

Nel suo ventennio di erranza, Rizieri compie un viaggio paradantesco. È lui l’homo viator che vaga in un aldilà intemporale, in un incomprensibile pre-«purgatorio». Qui la condizione stessa del vagare è foriera di incontri, parole, struggenti consapevolezze riguardo alla vita abbandonata sulla terra. Dapprima rivede, ma come in un allucinato sogno, la madre Costanza. Incontra il cugino Rinardo, in Oga Magoga l’ideatore del «geniale stratagemma» per uccidere il «minatòtaro». Parla con la «rimita» Brandoria Palaia. Ritrova il «santufemioto». Ed è visitato dalla beffata amante Mata Fara, la feroce «nimpia dei calibis» di Favazzina, discesa nel pre-«purgatorio» per vendicarsi di lui, il «tradimentoso». Ma Rizieri agogna soprattutto di rivedere l’amata Orì. Per questa solitaria anima di purgante, incontrare l’umanità dell’«oltremondo» significa ripercorrere le tracce del passato ormeggiando le vie aperte in Oga Magoga. Tutto il suo mondo di vivo è una visione che risale alla sua memoria di non vivo e non morto.

Tra don Natalino, Rizieri e le visite al camposanto, quella di Donnanna è anche un’amara interrogazione della Morte. La domanda è senza risposta. Essa però occorre per illuminare l’orizzonte ambiguo della vita, per strappare un lacerto di senso allo spettro cupo del nulla. Orfano di un figlio, all’origine dell’ansia metafisica di Donnanna vi è un trauma. È una ferita remota da cui scaturisce la sua ossessione. Essa traspare dalla ricerca di sé nell’impresa di un altro padre per un altro figlio. E per Donnanna non è solo l’ammissione di un antico dolore, è anzitutto il sovrumano tentativo di capirlo il dolore, di disancorare il lutto da sé attraverso il dolore e il lutto dell’altro. L’altro di L’ultima erranza edifica allora una ripetizione, una ricapitolazione, poiché identifica come la replica di un medesimo patimento.

Come Donnanna erra nel mondo, così Rizieri vaga nel «mondo sottano». E la loro specularità di condizione, tra umana e transumana, dal lato di Donnanna è espressa nella figura ermeneutica di don Gullà, dal lato di Rizieri nell’incontro con la vecchia e letale conoscenza di Oga Magoga, «Madama Mortazza». Il prete e il pupo Morte illuminano la via, interpretano i mondi di Donnanna e Rizieri e così tracciano vie di senso in luoghi vissuti come realtà senza senso. Figurano cioè come interpreti di un’utopia. Rizieri anela al «ponte di santo Iacopo», il confine ultimo ovvero la morte definitiva conquistata dopo i «funerali all’antica». Tende però anche all’impossibile, riabbracciare il suo disperato amore di Oga Magoga, la selvaggia Orì. È un sogno irrealizzabile al di qua del «ponte di santo Iacopo», poiché l’anima di Orì era in vita e resta in morte inafferrabile, tanto più che ora è murata in un altro mondo, il mondo proprio alle «credenze» della sua cultura zingaresca. Ancora di più, il sogno di ritrovare Orì appare irrealizzabile soprattutto dopo che Rizieri varca il «ponte di santo Iacopo», la sua unica e più realistica teleologia. E ciò perché il passaggio cancella, così come prescrive la credenza, sia la memoria sia il sentimento ereditati dalla vita sulla terra. La morte ora è la morte. Per l’indomito Rizieri, L’ultima erranza edifica allora due scenarî, uno è la via della nuda verità appresa dalla diretta testimonianza della Morte, l’altro una via di verità ma travestita da vana, falsa speranza. È la traccia, questa ultima, testimoniata dal subdolo «Puricinella». L’inganno però non ha valore destinale. Nonostante la prova, Rizieri non rincontrerà mai più Orì. La verità della Morte è «sacrosanta», la credenza posa su un mito fisso: prima i «funerali all’antica» per morire, dopo il «ponte di santo Iacopo» per essere morto.

Dinanzi alla «meraviglia e ammirazione per quell’uomo che era riuscito in una simile impresa», la fantasmagorica, eroica «storia» del funerale di don Natalino per Rizieri, la «piccola, personale inchiesta di don Filippo Donnanna», appena giunta alla sua fine accerta l’«enormità babilonica delle sue trovate». Per di più, esse si svolgono nel mese di agosto, il tempo delle «feste» e dunque di quella «religiosità popolare» cui Donnanna oppone uno scetticismo, un radicalismo accentuato dal suo desiderio di «sulità». Il duplice risarcimento, così per Donnanna come per Rizieri, non è tanto in una generica riconciliazione, il primo con il mondo, il secondo con l’«oltremondo», non per avere entrambi esaudito un inarrivabile sogno. Rizieri, con l’uscita dallo stato di non vita e di non morte certificato dal passaggio del «ponte di santo Iacopo», e Donnanna, con la conclusione della «ricerca», cioè aver colto nella leggendaria vicenda di don Natalino l’«onoranza della tradizione», richiamano un orizzonte in cui la salvezza è anzitutto una pacificata riconciliazione con il passato. Mentre Rizieri è un nostalgico cosciente, un’anima che nel «mondo sottano» lotta perché conserva la memoria del «mondo soprano», la luminosa conquista di Donnanna, la stessa cognizione chiamata a spiegare la sua vita felice nel paese, non sta nel sentimento nostalgico ma vive nel tentativo di riconquistare una coscienza culturale perduta. È questa la «lezione di vita» intuita nelle parole di don Gullà, l’insegnamento che traduce il suo lungo tormento in una finale placazione d’anima. Così anche la resa di Rizieri dinanzi alla «cittadella proibita» di Orì figura l’esperienza di un’erranza non più infinita. È quindi una condizione spirituale, la piccola redenzione di Donnanna, che non abbandona l’uomo alla perdita irrimediabile della propria presenza, ma fa balenare, se non la piena «salvezza», almeno il consolante ritrovamento di un «diverso equilibrio interiore». Il suo nome è inscritto in quella semplice «fede» nell’umile vita paesana, nella credenza e nella religiosità. E così Donnanna si è finalmente «riconciliato con la realtà di quel mondo», la minima realtà umana della propria terra, la realtà in cui più è rivelata la presenza di Dio.

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Qualcuno sa chi è Jean Sénac? https://www.carmillaonline.com/2018/06/23/qualcuno-sa-chi-e-jean-senac/ Sat, 23 Jun 2018 21:15:01 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=46165 di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato [...]]]> di Neil Novello

Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia, trad. it. e cura di Ilaria Guidantoni, Oltre edizioni 2017, pp. 240, 16 euro

Il lettore che abbia in sorte di imbattersi nel diario di Jean Sénac, Ritratto incompiuto del padre. Per finire con l’infanzia è dinanzi a un resto, un rudere letterario a testimonianza di una cattedrale autobiografica, dallo scrittore algerino non edificata sino alla fine. Allora il finito dell’opera riguarda propriamente l’anta “Per finire con l’infanzia”, che è per l’appunto il reperto testimoniale di un progetto non-finito, un progetto di scrittura allo specchio immaginato fin dal 1959 con il grandioso e ineffabile titolo “Libro della vita”.

«Andare fino al fondo di uno sforzo mi è sempre costato. Non mi sono concesso che con lentezza e pena» scrive Sénac imprimendo nel lettore un’immagine di sé e un modo di essere dell’opera. Ma c’è di più. L’incompiutezza di disegno e il carattere esemplare di una lingua-stile da collocare ai vertici estetici più esemplari della letteratura mediterranea, figura finalmente un’immagine aurorale, qualcosa di unico nell’orizzonte delle scritture autoteliche nel secondo Novecento. Quel che resta del colossale proposito di scrivere un Libro della vita, il tassello Ritratto del padre. Per finire con l’infanzia, appare dunque come un astro venuto da un altro cielo, un objet étranger caduto come in una plaga terrestre.

L’opera di Pier Paolo Pasolini, autore dalla critica talvolta associato a Jean Sénac, con Petrolio fornisce un modello di non-finito, in cui però l’infinibilità è l’esito naturale della contingenza, che comunque riflette un’estetica compiuta. Si potrebbe parlare – così di Petrolio come del Ritratto – di compimento del non-finito intendendo però il Ritratto, non più Petrolio, come un corpo letterario estraneo alla generale convenzione della finibilità, qualcosa che richiama, proprio per questa sua intrinseca natura, un preciso statuto interiore, una qualità psicologica incarnata nello scrittore di Béni Saf. Non finisce, alla lettera, il Ritratto. Anzi, Sénac si autointerroga sull’esperienza stessa di scrivere, d’avere scritto: «Comen avons nou pu écrire?». Nei fatti, il Ritratto appare come un miracolo volontaristico, il sovrumano sforzo di scrivere qualcosa di predestinato a non finire. E anche nella mera apparenza tipografica, non finisce ancora perché il Ritratto si sgretola, esplode. Ciò che era la parola poetica è ora l’esito di una deflagrazione al di là della quale sulla pagina resta sparsa una marea di scorie, di detriti, la polvere di un’apocalisse:

XWZU
Vnoqrstv ssss
Nmonmnopnopmoupmnopmnop
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuu
Ristabilire l’equilibrio, Ristabilire un ordine disequilibrato
La rivolta L’infanzia pura Ma vivere Ristabilire

Non ricordo, a memoria, andando ora all’altro capo del libro, un incipit più potente del Ritratto, forse qualcosa di altrettanto epifanico lo si potrà leggere in un altro libro della vita, Oga Magoga, il romanzo-universo del gran cuntista Giuseppe Occhiato. Ma leggiamo questa prima pagina del Ritratto, ritroveremo insieme il tratto inconfondibile di Journal du voleur di Jean Genet (per Sénac il «più grande scrittore di questo tempo», cui è dedicato proprio il Ritratto) e la rara presenza di quella écriture des astre, la cui memoria rimanda alla pagina indimenticabile di Maurice Blanchot e il cui significato ultimo rinvia a Emmanuel Levinas, nel luogo dove è saldata in uno l’intercambiabilità tra des astre e désastre:

Uno strano esilio il nostro! Tra fuochi spenti, cammino, sogno, parlo. Ricompongo all’uso del mio cuore una terra che già si sfuoca. Strano esilio. Molto lontano, verso la falesia, mia madre accende il suo fornello a petrolio. Leva delle grida nel mentre mia sorella, di fronte allo specchio frantumato, si trucca. Anch’io sono là, tra gli specchi dell’esilio, cercando nella memoria frivola i temi che, proiettando la mia leggenda, ripetono a mezza voce niente meno che le sillabe della mia verità.

Non un «romanzo» il Ritratto, un «poema» in prosa verrebbe da scrivere, da un lato per la presenza ingombrante della lingua poetica e della poesia, dall’altro per la dimensione astrale di uno stile di scrittura scintillante, un mosaico di balenanti frammenti, qualcosa di formalmente inclassificabile. Al Ritratto, per stare alla palpitante materia del suo contenuto, si potrebbe affibbiare una formula nietzscheana, cioè l’opera è una corda tesa tra la figura platealmente presente della madre di Sénac (Jeanne Comma, prima dedicataria del libro, insieme a Jean Miel, Patrich Mac’Avoy, René Char, Antonin Artaud, per l’appunto Jean Genet, e nel nome neanche tanto occultato di un altro dimenticato della cultura francese del Novecento, Paul Nizan), e il grande assente e insieme il vero duende del Ritratto, il padre, la «mia sete e il mio nulla» come si legge a inizio di narrazione. Non diversamente dall’idea di rivelarsi nella parola autobiografica, questo (in parte) journal intime sembra infoltire una linea maestra, la grande dorsale, il meridiano passante tra le Confessions di Jean-Jacques Rousseau e Mon cœur mis à nu di Charles Baudelaire, con il quale il Ritratto condivide – tra le altre cose – l’identità di opera-relitto, cioè di un restante simbolo di una realtà che forse è stata (o di ciò che forse dovrà ancora essere).
La madre e il padre o l’immagine della paternità, la patria, l’Algeria, queste sono per Sénac le orme su cui rincamminare, su cui rincamminarsi per ricomporre, nel Ritratto, i segnavia del perduto paesaggio dell’origine e della memoria. Come in Proust, anche in Sénac («Ho vergogna di non aver letto completamente Proust»), rincamminare è per così dire la promessa, alla fine, di un «Temps retrouvé», qualcosa che permette al vissuto di rifluire sulla pagina, alla vita di diventare letteratura, di diventare cioè un potenziamento stesso della vita e non una sua mendace o tradita riproduzione.

La madre, Jeanne Comma, è la presenza e l’interlocutrice prima del Ritratto. Se il poema è l’incompiuto ritratto del padre, la figura materna vive nel segno della compiutezza, è un organismo vivente, una creatura del sacrificio e la portatrice stessa della sopravvivenza. Il Ritratto dunque è un libro a due superfici riflettenti, l’evidence o la scena in luce è per la madre, la zona di intercapedine destinale, la filigrana del vissuto è per il padre. Entrambi, però, concorrono a comporre il ritratto del figlio, Jean Sénac, anzi la madre e il padre realizzano una cifra di destino, qualcosa da cui è scaturito propriamente l’indeterminabile, il poema chiamato a contenere la «mitologia» di sé tra due forme del tempo, il tempo perduto e il tempo ritrovato. Se allora il Ritratto è anche una recherche, essa è anzitutto l’esperienza di una riscoperta mitologica, cioè riguarda l’esposizione di una realtà materno-paterna al cui centro il diarista tratteggia l’icona del sé. Nel disegno troviamo collocata la materia prima e creaturale di una scrittura automitografica venuta all’evidenza, ciò perché lo scrivente scrive di sé dalle regioni profonde e oscure di un desiderio autoanalitico. La scrittura è dunque uno strumento del raccontare e del capirsi, un mezzo maieutico in cui non conta più estrarre la verità dall’altro ma solo quel che veramente conta, cogliere in boccio una verità, la verità di sé.

Tra orfanità di padre e senso di spaesamento esistenziale, forma della relittitudine, Sénac domanda alla realtà del mondo quale sia infine il mondo della realtà. Qui è esposta la ferita meno medicabile, quella coscienza dell’assurdo che tiene in una sola culla l’esistenza del diarista e il pensiero di Camus, l’interlocutore paterno di un’«amicizia impossibile». Alla memoria e alla tessitura di un ordito disorganico di eventi, laceranti lutti, giochi erotici, visioni, deliri e sogni Sénac affida il compito di develare proprio il mondo della realtà, develarlo non per comprenderlo ma per comprendersi nel profondo, donarsi un nome abitando il sacro mistero della realtà del mondo. Qui la figura assente del padre, il «non-visto, non-nominato», è una sorta di demoniaca divinità, una creatura perturbante venuta ad assumere il ruolo di demiurgo dell’immaginario filiale. Per essere, il figlio dovrà penetrare in quell’«Essere» superiore che è il padre. Non uccidere il padre però ma sopravvivere, divorandone il nome, alla sua mitologia. Il Ritratto allora si rovescia nel suo ideale contrario, diviene cioè un autoritratto in forma di figlio alla recherche del padre, in forma di figlio alla ricerca di una patria, l’Algeria (o le patrie che l’Algeria è), e che resta sempre una terra abitata e anche da abitare, il luogo dell’abitabile espresso nella sua radicalità, nella sua identità rinviante per l’appunto a inestirpabili «radici»: «La felicità, talvolta è questo attimo di radici» scrive Sénac.

Un radicale canto, un canto delle radici, anche questo è il Ritratto. E la forma stessa del poema, la sua struttura poematica, rimanda l’immagine del rizoma. Qui la scrittura incede seguendo una ramificazione visionaria, è propriamente innescata da uno stile per l’appunto rizomatico, questo così mosaicale di Sénac, specie quando la memoria del padre e della madre espone il narratore al recupero (memoriale) non di una narrazione lineare ma come di una costellazione, un informe aggregato, un insieme molecolare di balenii, di pulsanti brani di vita ricamati infine in un arazzo automitografico. Non si è dinanzi a un delirio narcisista né qui è in scena il monologo egotista di un velleitario del ricordo, tra le pagine del Ritratto troviamo un Sénac tutt’altro che imprigionato nel sé, semmai il teatro del sé espone in luce anche uno scrittore sensualmente coinvolto nella vita algerina, una vita per così dire erotizzata in ogni momento della sua afrodisiaca espressione esperienziale.
La più efficacie definizione del Ritratto è fornita proprio dallo scrittore quando parla en passant dell’arte del pittore serbo Petar Omcikous, «macchie appena modulate ma che procedono per sortilegi fino alla sinfonia, all’unità, all’universo». Qual è allora la condizione unica e immodificabile di un siffatto sortilegio? Per una volta, alla ricerca del sortilegio, e per un’icastica occorrenza, Sénac sembra non soccorrere il lettore. Ritratto incompiuto del padre, nel sottotitolo occulta la chiave stessa del diario. Non più allora Per finire con l’infanzia ma il suo speculare e stravolto contrario, non dover mai finire con l’infanzia. Proprio in questa resa alla verità sembra collocarsi il sortilegio. La sua vita infinibile traccia allora l’esemplare via di questa scrittura di abbandono e patimento, di dolcezza e ferocia, questa scrittura votata alla miseria, alla preghiera e al sole, al cuore, al sacrificio, questa visione che procede in circolo dall’infanzia anagrafica in direzione di un’altra infanzia, uno stato di fanciullezza destinato a durare oltre ogni possibile fine.

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