Giulio Regeni – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sun, 24 Nov 2024 21:00:22 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Se non son dittatori buoni non li vogliamo (e Giulio Regeni?) https://www.carmillaonline.com/2022/08/29/se-non-son-dittatori-buoni-non-li-vogliamo-e-giulio-regeni/ Mon, 29 Aug 2022 21:55:32 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=73821 di Francisco Soriano

In questi giorni convulsi l’establishment politico italiano, ai suoi più alti livelli, sta cercando di fronteggiare la più grave crisi energetica degli ultimi anni, soprattutto per gli eventi bellici scatenati in Europa da Putin. Qualche mese fa prima del conflitto bellico in corso, il premier italiano Mario Draghi definiva, più o meno, Recep Tayyip Erdoğan come “un dittatore con il quale si è obbligati ad avere relazioni”. Questa affermazione era stata determinata dell’atteggiamento scortese di quest’ultimo nei confronti di Ursula von der Leyen, in visita nella capitale turca, interpretato [...]]]> di Francisco Soriano


In questi giorni convulsi l’establishment politico italiano, ai suoi più alti livelli, sta cercando di fronteggiare la più grave crisi energetica degli ultimi anni, soprattutto per gli eventi bellici scatenati in Europa da Putin. Qualche mese fa prima del conflitto bellico in corso, il premier italiano Mario Draghi definiva, più o meno, Recep Tayyip Erdoğan come “un dittatore con il quale si è obbligati ad avere relazioni”. Questa affermazione era stata determinata dell’atteggiamento scortese di quest’ultimo nei confronti di Ursula von der Leyen, in visita nella capitale turca, interpretato “legittimamente” come lesivo nei confronti delle donne. L’incidente capitato alla leader europea era stato presto definito come “sofagate” e, la difesa di Draghi, aveva determinato una crisi diplomatica fra l’Italia e la Turchia con tanto di convocazione dell’ambasciatore italiano ad Ankara. La presa di posizione di Draghi aveva sorpreso per la durezza e, senza dubbio alcuno, ci aveva fatto percepire quanto il leader italiano concepisca l’ipocrisia “in politica” come un dato effettivamente accettabile e ampiamente elaborabile. Una affermazione, la sua, che ci confermava la sua impostazione tecnocratica e utilitaristica nell’affrontare le questioni.

 

Dire che, “in qualche modo”, si deve e si può avere a che fare con un dittatore, definisce bene il perimetro delle relazioni immaginate dal primo ministro italiano. Infatti, l’affermazione non significava affatto superare l’ipocrisia tipica e comunemente accettata in politica internazionale fra stati, come invece la maggioranza della popolazione aveva immaginato ma, in un certo senso, la sdoganava alla luce del sole. Qualche italiota, con scarse conoscenze geopolitiche e una certa inclinazione a una non meglio definita revanche sciovinista, aveva salutato la frase di Draghi come (finalmente), una coraggiosa presa di posizione da parte di un vero leader, forte e inflessibile all’arroganza dell’altro, il nemico necessario, questo sì, su cui far ricadere il proprio frustrante sentimento di impotenza da provinciale nazionalista. La stretta di mano fra Mario Draghi e Recep Tayyip Erdoğan di qualche giorno fa, invece, definisce il perimetro in cui si muovono i nostri leader politici, interessati agli affari, alle buone relazioni, all’accettazione neppure silente che la violenza e la prevaricazione dei dittatori sui dissidenti e sulle persone che esprimono diversità e dissenso possono essere serenamente comprese e taciute. Che male ci sarebbe, si direbbe, in vista delle gravi difficoltà nell’approvvigionamento di risorse e nella necessità prevalente di fare degli inverni al caldo, di calmierare i prezzi dei combustibili, di frenare l’inflazione sui beni di prima necessità e quant’altro? In fondo, dicevano i nostri padri, pecunia non olet!

 

La questione risiede però, in questo caso, nella totale asimmetria delle posizioni nei confronti di chi perpetra violenza e persecuzione in una dimensione tipica dei regimi dittatoriali seppur in sistemi “generalmente democratici”. Il giudizio nei loro confronti è negativo in alcuni casi, in determinati periodi storici, in certe aree del pianeta e in riferimento ad alcuni leader autoritari; al contrario, in altri casi, l’opinione torna ad essere assolutamente positiva, certi comportamenti da condannare vengono sorprendentemente accettati e, il giudizio sui protagonisti dei misfatti, derubricato alla “necessità” e “pragmaticità” della politica e dell’economia. Infatti, Draghi era stato chiaro non per amor patrio ma, perché il nostro leader, per struttura ed attitudini ha sempre molto a cuore le questioni finanziarie ed economiche delle quali si è spesso trovato a fronteggiare nei vari ruoli che ha ricoperto a livello internazionale. E questo si nota evidentemente in Italia, dove la sua visione politica liberista, decisamente riscontrabile nei suoi atteggiamenti di approvazione ai modelli sociali ed economici statunitensi, provoca e incrementa sacche di povertà, disagio sociale, aumento delle diseguaglianze, arricchimento sempre maggiore di alcune categorie di cittadini senza che nessuno si permetta, se non timidamente, di criticare la deriva sociale alla quale andiamo incontro. Una situazione in totale simmetria con l’ipocrisia atavica ben radicata nel nostro Paese che, nelle sue fasi storiche spesso convulse, ha dato prova di insensibilità alle questioni sociali e alle richieste degli ultimi.

 

Per ritornare alla dialettica sui “dittatori” (seppur capi di stato in Paesi dove esistono “strutture democratiche elettive”) e alla politica internazionale italiana, la polemica si è scatenata, ad esempio, più o meno consapevolmente in alcuni passaggi dopo le dichiarazioni di Joe Biden nei confronti di Vladimir Putin. Si è compreso e percepito dai vari esperti commentatori (così come la guida statunitense solare e intangibile nella sua sacrale aurea democratica impone), che esistono dei dittatori assetati di sangue, assassini, invasori, dei killer assoldati per uccidere oppositori e scienziati, dei leader autoritari che ordinano di torturare e bastonare (è successo al nostro Giulio Regeni) e, altri, che sarebbero colpevoli delle stesse mostruosità, ma in “forme e condizioni accettabili”. Nel conflitto fra Russia e Ucraina, ad esempio, non vengono considerate (molto raramente da analisti subito tacciati di “putinismo”) le ragioni della deriva bellica che risiedono nei comportamenti assolutamente coincidenti e con una stessa fonte comune costruita sull’intolleranza, l’appropriazione e lo sfruttamento delle persone e dei territori, la mancanza di rispetto verso gli accordi e il disconoscimento dei diritti umani e del dissenso di giornalisti, partiti e sindacati. Una seria e serena lettura della storia dei due Paesi, dagli accordi di Minsk a oggi, aiuterebbe invece a capire cosa stia succedendo, considerando anche la non trascurabile pressione militare della NATO su un Paese con un complesso di accerchiamento abbastanza tangibile. Questa mia considerazione si basa sui comportamenti e sulle prese di posizione dei nostri leader e rappresentanti politici, in vari contesti internazionali e pubblici, nei confronti dei dittatori d’Egitto, della Turchia, del Mozambico, dell’Algeria, dell’Arabia Saudita, dell’Iran e di altri innominabili Paesi con strutture autoritarie (ripeto, democratiche solo sulla carta) e immorali con i quali non si dovrebbero avere neppure relazioni telefoniche. Sono, in definitiva, dittatori “ragionevoli” con i quali si possono avere relazioni commerciali e diplomatiche.

 

Il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un percorso politico connotato, da sempre, da sobrietà e senso delle istituzioni, ha tradito la sua inviolabile intangibilità politica, probabilmente per “ragioni di Stato”, per ragioni necessarie e “davvero ineludibili”. É volato in Mozambico al fine di esaudire il fabbisogno di gas della nostra nazione, cercando personalmente di stabilire relazioni commerciali. Il concetto e il sacrificio sono chiari. Tuttavia, ricordare che cosa sia questo Paese, è forse doveroso. Un sacerdote portoghese e non un pericoloso rivoluzionario comunista, padre Ricardo Marques, ha definito qualche tempo fa sulla stampa nostrana la situazione sociale e politica del Mozambico: famiglie spezzate, persone scomparse (in migliaia), tortura come sistema e strumento di deterrenza contro i dissidenti, uomini e donne giustiziati per strada e sgozzati. Inoltre, il parroco quantifica con numeri catastrofici, la deriva “dittatoriale” del Mozambico: “più di 3.000 morti ed oltre 800.000 sfollati in tutta la provincia del nord del Paese negli ultimi sei mesi” in cui, “la maggioranza della popolazione si rifugia nella boscaglia, fuggendo da morte certa; inoltre ci sono persone che non sanno dove si trovino i loro parenti, se sono ancora vivi o morti”. Combattimenti continui, traffici di armi e di altro imperversano nel Paese fra gruppi di miliziani, fra i quali i jihadisti di al-Shabaab e civili, che fuggono da un luogo all’altro. Dalla città costiera di Palma sono stati costretti alla fuga 11.000 civili e molti sono rimasti intrappolati e giustiziati in città. Inutile affermare che la maggioranza dei fuggitivi sono donne e bambini, arrivati a Nangade, Mueda e Montepuez in vari momenti e a più riprese: “Non conosciamo le motivazioni di quello che sta succedendo” dice ancora il missionario che, aggiunge, “con l’escalation della violenza si stanno riaccendendo vecchi rancori. Non possiamo far cadere quanto sta avvenendo in questa parte di mondo nell’oblio. È necessario un intervento urgente, prima che sia troppo tardi. Mi appello, quindi, a tutte le autorità e alle persone di buona volontà, affinché si trovi presto una soluzione che metta fine a questa guerra devastante”. Gli appelli sono chiaramente caduti nel vuoto e gli unici a prestare soccorso e aiuto sono sacerdoti e suore cattoliche che vivono da anni in Mozambico. Continuare la narrazione della devastazione in questo inferno terrestre sembra essere quasi impossibile per orrore e dolore.

 

Mario Draghi si è invece recato in Turchia. Una stretta di mano al califfo fotografata e ben mostrata in tutto il mondo, soprattutto per le polemiche di mesi fa, scatenate dal succitato “caso” von der Leyen/dittatore necessario. Anche in questo caso bisognerà ricordare che cosa rappresenti la Turchia, in pieno Mediterraneo, agli occhi del democratico occidente. Un Paese che intende far parte, a pieno titolo, della nostra Comunità europea ed è membro della NATO. Recep Tayyip Erdoğan è uno dei leader più improponibili al mondo per aver favorito e rafforzato nel proprio Paese la più massiccia e sistemica violazione dei diritti umani.  Migliaia di morti e deportati dopo il tentato golpe, una buona scusa per liberarsi di tutti i dissidenti una volta per tutte, affamando le famiglie dei “sovversivi”. Sotto il suo governo di matrice dittatoriale, con evidenti atteggiamenti di tipo califfale, si attenta continuamente alla vita di giornalisti e dissidenti politici, con la tortura si terrorizza la popolazione, praticata in tutte le carceri e luoghi di detenzione. Incredibilmente, disprezzando ogni più elementare principio giuridico, vengono arrestati i legali e i difensori nei processi penali eletti a difesa dei propri imputati. Il sultano turco lede, viola e non tiene in alcun conto le norme internazionali in merito al rispetto delle etnie, delle comunità minoritarie e linguistiche, perseguitando con le proprie milizie e l’esercito, il popolo e i territori curdi, che bombardano, massacrano, uccidono su mandato, stuprando le donne e deportando i maschi, non disdegnando l’invasione di spazi oltre confine come è spesso capitato con la Siria. Anche in questo caso ricordare i casi di morti in carcere per lo sciopero della fame, prigionieri dissidenti alcuni dei quali componenti di gruppi musicali e giornalisti, è emblematico e spiega bene il clima di violenza nel Paese.

 

La politica estera italiana dai primi anni novanta del secolo scorso è stata connotata da gravissime e ignobili posizioni: noi, sempre dalla parte dei più forti e contro le popolazioni e gli stati in chiaro affanno e bisogno. Avremmo preferito che un leader come Draghi fosse stato finalmente in grado di reggere un comportamento abbastanza lineare nei confronti delle gravi intromissioni, centinaia, degli Stati Uniti d’America nello scacchiere internazionale. Ad esempio, sulla guerra per procura in Ucraina, fra Usa e Russia, silenzio assordante. I crimini commessi dagli americani sono stati spesso elencati e narrati, le derive umanitarie provocate dagli USA in Medioriente sono sotto gli occhi di tutti. Le posizioni imperialistiche al fine di procacciare risorse e commerciare in armi hanno una evidenza cristallina. Per non parlare delle violazioni dei diritti umani nel proprio territorio, che avvengono all’ordine del giorno: uccisioni indiscriminate degli afroamericani, tendenze di arianesimo nazista di alcuni estremisti e derive golpiste come la presa di Capitol Hill; poi le leggi che cancellano la possibilità alle donne di interrompere la gravidanza, le limitazioni al diritto di ospitare derelitti che spingono ai confini, le esecuzioni in base alla legge sulla pena di morte, le giurisdizioni speciali dove viene consentita la tortura “legale” come nel caso delle carceri di Guantanamo, sono solo alcune delle “distorsioni democratiche” di questo Paese.

 

La politica estera del nostro Paese non si è mai distinta per coraggio. Vari e molteplici i governi capeggiati da Silvio Berlusconi e i suoi sodali che, ad esempio, orchestrava ricevimenti in favore dei dittatori buoni: si ricordano ancora quelli adornati da giovani donne con in braccio il corano, in chador e minigonna, pagate per rendere onore allo sceicco Muhammad Gheddafi in territorio italiano. E poi le barzellette e le pacche sulle spalle, gli affari e le foto ricordo con Vladimir Putin, quel leader che Joe Biden oggi definisce un macellaio. I populismi cominciarono proprio allora, ridefinendo il ruolo del Parlamento, sacro avamposto democratico, alla mercè degli spettacoli televisivi, divenuto presto uno spazio eletto rimpinguato da giullari e saltimbanchi, soubrette e amici di lusso, mortadelle e fiaschi di Chianti. Dopo la deriva culturale e antropologica insieme, ecco l’astro nascente: il populista Renzi, del quale pochi ricordano la sua dialettica a tratti violenta: “basta con i vecchi e i professionisti della politica”, quelli che siedono da sempre sugli scranni del Parlamento, richiamando a una doverosa dimissione in caso di “cambio-casacca”; e poi la “rottamazione”, come se si parlasse di frigoriferi o autovetture, ormai inutili, se non buoni in vista di una rivalutazione commerciale per il nuovo. Era il nuovo che avanzava e, se non fosse stato concesso il passo, diceva, “ci faremo da parte perché un mestiere noi ce l’abbiamo”. Sono tutti in stretta ed eroica resistenza sulle proprie postazioni di potere e guadagno. Ancora le invettive, poi, contro quelli che rubano, che scappano quando “fanno gli incidenti stradali”, e altre cose di questo genere che avrebbero influito negativamente sulla democrazia di questo Paese. Renzi non è sfuggito alla sua “grandezza” in politica estera, rendendosi davvero insuperabile, lui, fiorentino di Rignano, a dichiarare che il Rinascimento è ormai affare saudita, facendoci vergognare più che arrossire. Neanche si era finito di parlare del povero giornalista fatto a pezzi in un consolato e trasportato in sacchetti di plastica in Arabia Saudita. Per onore di cronaca molto spesso, con malcelata umiltà, Renzi ha sperato di essere nominato a capo della NATO, questa entità che ha tolto sovranità al nostro Paese, collocando sul nostro territorio missili nucleari di cui non possediamo i codici. Chapeau!

 

Oggi, invece, il Parlamento doveva diventare una scatoletta di tonno. Le parole per chi scrive hanno un valore superiore, probabilmente, a quello (il significato, l’etimo e infine il valore) che i parlanti (politici?) intendono dare, ma questo lessico esprime bene lo stato deteriore del Paese. Discretamente meglio, il linguaggio si è denotato per moderazione quando la narrazione voleva il Palazzo come “un cristallo”, così trasparente in cui tutto poteva essere visto: infatti lo spettacolo in termini di indecenza nei comportamenti dei rivoluzionari populisti ha superato ogni più fervida fantasia.

 

Noi però non dimentichiamo la storia di Giulio Regeni. I populisti non sono stati in grado di compiere nessun passo nei confronti dell’Egitto governato da un dittatore necessario. Non c’è riuscito nemmeno il tecnocrate, l’uomo della provvidenza. L’ennesimo: Mario Draghi.

 

Questo giovane intellettuale italiano è stato bastonato, torturato e ucciso, gettato come uno straccio in uno spiazzale fra i rifiuti di una autostrada. Questa è la verità. Non esistono altre discussioni, opinioni, idee, dialettiche. Noi vogliamo la Verità e la Giustizia per Giulio Regeni. Noi vogliamo che l’Italia interrompa i rapporti commerciali e diplomatici con l’Egitto, vogliamo che questi due Paesi non abbiamo più rapporti anche al prezzo di interrompere la circolazione delle persone per qualsiasi intento.

 

Noi i dittatori non li vogliamo, anche quelli necessari.

 

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Questi vigliacchi non so’ a scorda’ https://www.carmillaonline.com/2021/08/22/questi-vigliacchi-non-so-a-scorda/ Sun, 22 Aug 2021 21:00:38 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=67588 di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla [...]]]> di Luca Baiada

23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.

Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.

Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.

Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.

Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.

Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».

Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».

Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.

Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.

Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».

Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.

E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.

Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».

Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».

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Giulio Regeni, le verità ignorate. Intervista a Lorenzo Declich https://www.carmillaonline.com/2016/07/12/giulio-regeni-le-verita-ignorate-intervista-lorenzo-declich/ Mon, 11 Jul 2016 22:01:05 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=31646 regenidi Simone Scaffidi

A quasi sei mesi dalla sparizione forzata di Giulio Regeni a Il Cairo c’è ancora molta confusione intorno al tema. L’informazione mainstream italiana continua nella sua ostinata ricerca del complotto e snocciola infamanti accuse morali a destra e a manca, spostando di fatto l’attenzione dai contesti (quello egiziano) e dalle questioni di fondo (un regime repressivo brutale amico del governo italiano) al mero rumore. Lorenzo Declich, una delle migliori penne in lingua italiana per comprendere il mondo islamico contemporaneo, ha contribuito a smontare questa narrazione scrivendo il primo libro dedicato [...]]]> regenidi Simone Scaffidi

A quasi sei mesi dalla sparizione forzata di Giulio Regeni a Il Cairo c’è ancora molta confusione intorno al tema. L’informazione mainstream italiana continua nella sua ostinata ricerca del complotto e snocciola infamanti accuse morali a destra e a manca, spostando di fatto l’attenzione dai contesti (quello egiziano) e dalle questioni di fondo (un regime repressivo brutale amico del governo italiano) al mero rumore. Lorenzo Declich, una delle migliori penne in lingua italiana per comprendere il mondo islamico contemporaneo, ha contribuito a smontare questa narrazione scrivendo il primo libro dedicato al caso del ricercatore ventisettenne sequestrato, torturato e ucciso dal regime di al-Sisi. Si intitola “Giulio Regeni, le verità ignorate. La dittatura di al-Sisi e i rapporti tra Italia ed Egitto” (Alegre Edizioni, 2016) e quella che segue è un’intervista all’autore.

  1. Perché hai deciso di scrivere un libro sul caso Giulio Regeni a soli quattro mesi dal suo assassinio?

Ho ritenuto che fosse necessario fissare alcuni punti, già chiarissimi nei giorni seguenti al ritrovamento del corpo di Giulio Regeni. Buona parte del libro è tesa a fornire una base di ragionamento valida per ieri, oggi e domani.

  1. Puoi raccontarci chi era Giulio Regeni, perché era in Egitto e perché è stato rapito, torturato e assassinato dal regime di al-Sisi? Lo avremmo dovuto avere tutti ben chiaro fin dall’inizio, eppure a causa di una stampa mainstream che ha preferito abdicare al suo ruolo – sposando fantomatiche quanto infamanti teorie del complotto – ne abbiamo sentite di tutti i colori sul conto di Giulio Regeni. Puoi chiarirci un attimo le idee?

Giulio Regeni era un ricercatore come molti altri, forse più bravo di tanti altri, che stava svolgendo una ricerca in autonomia, in accordo e coordinandosi con i suoi docenti. È caduto nelle maglie di un apparato di sicurezza ipertrofico e paranoico nell’area (attorno a piazza Tahrir, il centro simbolico della rivoluzione egiziana) e nel giorno (ricorreva l’anniversario della rivoluzione egiziana e in cui solo al-Sisi poteva “parlare di rivoluzione”) in cui quell’apparato concentrava tutti i suoi sforzi. La sua vicenda ci racconta di un salto di qualità del livello di arbitrarietà e impunità del regime. Gli egiziani, da subito, hanno provato a trattarlo come un “caso isolato”, e sappiamo che ciò non è – visti i numeri, sempre crescenti, di sparizioni forzate, torture e morti in carcere. Questo salto di qualità non è stato percepito (qualcuno non lo ha voluto percepire) in Italia mentre bastava chiedere a chi, come Regeni, stava svolgendo ricerche in Egitto, per rendersene conto. Bastava registrare lo stato di shock che nei primi giorni si respirava all’interno della comunità accademica che si occupa di Egitto e con cui Regeni era in relazione. Si è preferito invece costruire ipotesi fantasiose (ne parlo nel quarto capitolo del libro), accusare i suoi supervisor di “responsabilità morale”, descrivere Regeni come un inconsapevole strumento di qualche apparato di intelligence e chi più ne ha più ne metta. Se in Egitto il regime faceva muro in Italia sembravano tutti impegnati a trovare responsabili diversi dal vero responsabile: Abd al-Fattah al-Sisi.

  1. Giulio Regeni è stato rapito il 25 gennaio 2016, nel quinto anniversario della rivoluzione egiziana. È un caso che sia stato rapito proprio quel giorno? Come riporti nel libro, il 2 aprile 2016, la madre di Khaled Said – ventottenne egiziano ucciso dalla polizia il 6 giugno 2010 e diventato uno dei simboli del movimento che ha contestato i regimi repressivi che in questi anni si sono susseguiti in Egitto – si è rivolta a Paola, la madre di Giulio Regeni, attraverso un video-messaggio, con queste parole: «Invio le mie condoglianze alla madre del martire Regeni, sono con lei e sento il suo stesso dolore, come soffro ogni giorno per Khaled. Voglio ringraziarla per essere con noi e per il suo interesse e preoccupazione per i casi di tortura in Egitto». Pensi che Giulio Regeni possa essere considerato un martire della rivoluzione egiziana?

desaparecidos-egizianiSì, penso che lo sia, soprattutto nella percezione di molti attivisti egiziani. Ma ciò non deve essere visto come “prova” del fatto che Regeni fosse un attivista. Giulio Regeni non era un attivista, pur avendo passione politica: stava studiando, stava facendo ricerca. È stato ucciso dal regime, “come un egiziano” (questo si leggeva su alcuni cartelli, i primi giorni dal suo ritrovamento) e per questo è stato inserito nella lista dei martiri della rivoluzione egiziana.

  1. Nel libro insisti sul fatto che la sparizione forzata, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni non rappresentino di per sé un caso eccezionale nell’Egitto di al-Sisi. Soltanto nei primi mesi del 2016 infatti – secondo il Centro el-Nadim per la Riabilitazione delle Vittime della Violenza – sono stati registrati 88 casi di tortura, 8 dei quali con esito mortale. Mentre il bilancio complessivo del 2015 conta 464 casi di sparizioni forzate e 1676 casi di tortura, di cui 500 con esito mortale. È giusto chiedersi dunque di cosa ci stiamo stupendo ed è altrettanto legittimo domandarsi per quali ragioni la maggioranza dei mezzi di informazione italiani abbia ignorato queste verità e omesso la natura di un regime repressivo che intensifica le sue politiche di controllo a suon di sparizioni forzate e detenzioni illegittime. Perché nella trattazione mediatica del caso il contesto che ha portato alla morte di Giulio è stato ignorato?

Molti giornalisti che sono stati messi a trattare il caso Regeni non avevano alcuna conoscenza dell’Egitto e di ciò che in Egitto è successo negli ultimi anni. Altri, che solitamente si occupano di cronaca giudiziaria, hanno avuto un approccio “investigativo” senza però fare i conti con la presenza di un regime e di una retorica di regime, specializzata nello spostare l’attenzione, nell’insabbiare. E questo è il lato “luminoso”. Nel libro parlo anche di chi, avendo interessi in Egitto, ha remato davvero contro, cercando di derubricare la vicenda, lanciando accuse infamanti su Giulio Regeni, su chi era intorno a lui nei suoi studi, ecc. Mettici anche che in Italia non si è parlato di Egitto per anni e quando se ne è parlato si è descritto al-Sisi come una specie di “pilastro della stabilità”, come un grande statista di cui avremmo assoluto bisogno per la battaglia contro il terrorismo, ecc.

  1. «In questo momento l’Egitto si salva solo grazie alla leadership di al-Sisi. Sono orgoglioso della mia amicizia con lui e sosterrò i suoi sforzi in direzione della pace, perché il Mediterraneo senza l’Egitto sarà un luogo senza pace» sono parole di Matteo Renzi (8 luglio 2015) che insiste nel definire al-Sisi «un grande leader». Perché il Presidente del Consiglio italiano ha una relazione così stretta con il dittatore al-Sisi? Quanto pesano 1) la presenza dell’Eni in Egitto; 2) l’ingente vendita di armi delle industrie italiane all’apparato repressivo egiziano e 3) gli accordi per “combattere l’immigrazione clandestina” tra i due governi? E quanto ha influito questa relazione sul silenzio e la passività dell’Italia durante il sequestro e dopo il ritrovamento del corpo di Giulio Regeni?

Pesano molto. Nel libro dedico un capitolo alle relazioni fra Italia ed Egitto. Con un dettaglio da non trascurare: oggi avere relazioni economiche con l’Egitto significa in moltissimi casi supportare il regime. Nel libro parlo anche degli accordi fra Italia ed Egitto in tema di migrazioni. Anche questo è un capitolo che non bisogna trascurare. In questo giorni si discute sul fatto che l’Egitto possa essere definito “paese sicuro”, un paese verso il quale rimandare indietro i migranti. La famiglia Regeni è stata molto chiara in questo senso: l’Egitto, al contrario, deve essere messo di fronte alle proprie responsabilità, deve essere considerato paese non sicuro.

  1. Puoi aggiornarci sulla situazione egiziana dall’assassinio di Giulio Regeni ad oggi? I sindacati indipendenti che studiava Giulio in che acque navigano ora? I giornalisti e gli attivisti continuano a essere minacciati, sequestrati e torturati? L’Italia e la comunità internazionale hanno agito pressioni sul regime di al-Sisi con rispetto alla tutela dei diritti umani?

13151916_1019068978174109_2892829785132549035_nI numeri, sempre crescenti, delle sparizioni forzate parlano da soli. I sindacati indipendenti sono schiacciati e divisi, il presidente del sindacato dei giornalisti è stato arrestato. Un consulente della famiglia Regeni al Cairo è stato accusato di terrorismo. E questi sono solo esempi. La repressione non si è fermata anzi si è intensificata. L’Italia, dopo il ritiro dell’ambasciatore, non ha fatto niente. Anche qui il richiamo dei familiari di Regeni a fare di più parla da solo. Britannici (ma non Cambridge, occorre sottolinearlo) e francesi chiudono gli occhi. Qui nessuno vuole dire: “se fosse stato un francese o un britannico le cose sarebbero state diverse”. Non è questo il punto. Senza la pressione dell’opinione pubblica le cose rimarranno ferme.

  1. Nel libro citi la compiacente intervista di Mario Calabresi e Gianluca Di Feo, rispettivamente direttore e vicedirettore de la Repubblica, ad al-Sisi, e le domande inopportune poste dallo stesso Calabresi ai genitori di Giulio Regeni durante la conferenza stampa al Senato. Cosa pensi della campagna “Verità per Giulio” lanciata da Amnesty International e la Repubblica?

Trovo quell’intervista uno dei punti più bassi del giornalismo italiano degli ultimi tempi. E trovo che Repubblica, pubblicando tutto e il contrario di tutto – anche lettere anonime! – non ha contribuito a fare chiarezza. Stendo un velo pietoso sulla domanda di Calabresi alla conferenza stampa. Ne ho scritto appunto nel libro, definendo la cosa “pornografia dell’informazione”. Quanto ad Amnesty penso che stia facendo il suo lavoro, avendo anche il delicato ruolo di assistere nelle iniziative la famiglia di Regeni. Un lavoro che ha dei limiti strutturali: se non c’è volontà politica non si va avanti. Certo è che ormai, sotto l’hashtag #veritàpergiulio, va a finire di tutto, come era prevedibile. Col tempo i messaggi si confondono e si edulcorano. E tutti parlano “in nome di”. Bisogna fare presto. Personalmente non ho mai usato quell’hashtag, soprattutto per non creare ambiguità: il mio libro è prima di tutto un lavoro di analisi e approfondimento. E deve essere chiaro che la cosa corre in parallelo rispetto alle iniziative della famiglia Regeni – iniziative coraggiose, che trovo importanti perché mettono al centro sempre la questione dei diritti umani in Egitto e del regime – e a quelle di Amnesty.

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Gli sbirri hanno sempre ragione https://www.carmillaonline.com/2016/04/16/gli-sbirri-sempre-ragione/ Sat, 16 Apr 2016 20:00:03 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=29853 di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla [...]]]> di Sandro Moiso

sbirri André Héléna (1919 – 1972) può essere considerato, con piena ragione, il vero padre del moderno noir. Eppure, soprattutto qui in Italia (nonostante la pubblicazione delle sue opere ad opera delle case editrici Aisara e Fanucci), non è conosciuto come altri autori quali Simenon, Malet o Le Breton. Forse il suo intenso scavare nella zona grigia della Francia occupata e collaborazionista; forse il suo schierarsi senza indugi dalla parte della canaille; forse, ancora, il suo scrivere così vicino a Céline lo ha rimosso per lungo tempo dalla memoria dei lettori e della critica.

Scrittore scomodo come il già citato Céline, con cui ha condiviso stessa la colpa di aver ricordato la simpatia con cui una parte significativa della società francese guardò al nazismo (e all’antisemitismo). Scrittore ripreso oggi anche dallo statunitense Ellroy che, nel suo ultimo romanzo,1 sembra volergli rifare il verso parlando delle sofferenze e le deportazioni nei campi di concentramento inflitte ai cittadini americani di origine giapponese dopo l’attacco di Pearl Harbour e l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1941.

andre helena Con una differenza fondamentale però: Ellroy non può fare a meno di manifestare simpatia nei confronti degli agenti della Città degli Angeli corrotti, violenti e fascisti, mentre Héléna, fin dal titolo di un suo romanzo pubblicato in Francia nel 1949, 2 non può fare a meno di mostrare tutto il suo disprezzo per un organismo arrogante, cinico, persecutorio e ipocrita che esercita il proprio potere sui poveracci e non serve affatto a difendere gli interessi dei normali cittadini.

Oggi infatti non siamo qui per parlare di letteratura, ma, ancora una volta, proprio per sottolineare come, dopo l’assoluzione ottenuta ieri per gli agenti di polizia e i carabinieri imputati per la morte di Giuseppe Uva nel 2008, l’Italia sia il paese in cui gli sbirri hanno sempre ragione. Dove, dalla morte dell’anarchico Pinelli alla scuola Diaz e da Stefano Cucchi a tutti gli altri morti “in maniera misteriosa” a causa di maltrattamenti, colpi d’arma da fuoco partiti “accidentalmente” e torture psicologiche e non solo, una lunga striscia di sangue sottolinea da anni l’impunità delle forze del disordine.

Ora se tutto questo fosse relegato al solo territorio italiano sarebbe già sufficiente a far venire i brividi o a suscitare una enorme e sana incazzatura, ma, purtroppo, non è così. Non basta. Come non cogliere, ad esempio, nel colossale balletto di indagini, depistaggi e falsi “incidenti diplomatici” sviluppatosi intorno all’omicidio di Giulio Regeni, le conseguenze delle politiche di “tolleranza”, nei confronti delle violenze poliziesche, messe in atto nei tribunali e dai governi italiani?

sbirri 1 Come può uno Stato, con le mani lorde del sangue dei propri cittadini pretendere da un dittatore come Al Sisi, la verità pur mantenendo il silenzio di rigore sulle violenze nelle carceri, nelle caserme e nelle piazze d’Italia? Quale “verità per Giulio Regeni” se non si riesce nemmeno ad ottenere la verità sugli omicidi e sulle violenze della Polizia in casa nostra? Con quale autorità un Ministro degli Esteri screditato e colluso con gli interessi degli imprenditori italiani può minacciare ritorsioni economiche là dove , in questi giorni e solo per fare un esempio, Trenitalia pubblicizza sconti del 10% sui voli EgyptAir abbinando biglietti di treno ed aereo?

Forse minacciando di dissuadere i cittadini italiani dal recarsi in vacanza sul Mar Rosso, dove la grande imprenditoria italiana del turismo è la prima investitrice internazionale? A questo ci ha già pensato l’Isis, con ben più convincenti e coercitivi strumenti. Oppure come può un governo debole e malaticcio opporsi vigorosamente ad un regime che può esse l’unico garante del rientro sicuro delle compagnie petrolifere italiana in Tripolitania? Come può farlo un governo alleato di un Hollande e di una Francia che ,anche e proprio, sulla debolezza italiana e sull’incidente diplomatico con l’Egitto di Al Sisi, stanno andando a ricostruire una rete di protezione dei propri interessi (petroliferi e non solo) nel Nord Africa e in Libia? E cosa non sarebbero disposti a fare il nostro governo e Confindustria per un po’ di petrolio, così come prova l’indagine su Tempa Rossa giunta ormai a toccare il numero due del “sindacato” degli imprenditori italiani?

Forse a breve, in una sede istituzionale o su una piazza, come l’altro giorno presso la Corte di Assise di Varese dove si celebrava il processo Uva, si leverà il grido “Maledetti!” ad opera dei parenti e degli amici di Giulio, vittima sacrificale di intrighi ed interessi politico-economici e diplomatici, di cui il Presidente Mattarella ha gia scritto l’epitaffio: “Nessuno dimentichi Regeni”. “Nessuno dimentichi”? In un paese in cui l’amnesia politica e la perdita di ogni memoria storica e di classe è il programma principale dei governi della Massoneria, delle banche e delle compagnie petrolifere? In cui il Presidente del Consiglio si atteggia in pose mussoliniane senza avere nemmeno il coraggio di citare l’ispiratore ultimo del suo pensiero e del suo agire?

Consoliamoci però, anche il colosso tedesco deve chinare il capo di fronte ad un altro alleato altrettanto sbirresco e dittatoriale come Erdogan. Che in cambio del mantenimento della calma sulla rotta balcanica dei profughi ha potuto richiedere ed ottenere la testa del comico tedesco Jan Bohemermann, autore di una canzone satirica nei confronti del nuovo sultano di Ankara.
Così le “democrazie occidentali” potranno ancora fingere di non avere le mani sporche del sangue dei siriani, dei curdi, dei profughi o, un tempo, del popolo armeno, mantenendo sul loro trono di sangue dittatori in divisa come Al Sisi o in doppiopetto come Erdogan.

sbirri 2 Non vi basta? Volete ancora altro su cui meditare a proposito delle impunità per gli uomini in divisa? Allora pensate alle parole dell’avvocato difensore del Capo di Stato Maggiore della Marina Militare italiana, Giuseppe De Giorgi, precipitato a capo fitto nell’inchiesta sul petrolio e sulle spese pazze della marina: “Siamo soddisfatti, i pubblici ministeri di Potenza hanno ascoltato con attenzione le dichiarazioni spontanee dell’ammiraglio”. E ci mancava che non lo facessero, noblesse oblige.

sbirri 3Siete abbastanza incazzati? Bene! Ora alzate il culo dalla sedia su cui siete seduti e, se non l’avete ancora fatto per pigrizia, delusione o indecisione, precipitatevi al vostro seggio elettorale per dare retta, almeno una volta nella vita, al consiglio del Presidente della Corte Costituzionale, Paolo Grossi, e fare il vostro dovere di cittadini. Potrebbe sembrarvi non un gran che come risposta, ma potrebbe sempre costituire una bella sassata tirata in faccia ad un premier ed un governo già scaduti. Come il petrolio e i suoi maledetti guardiani.


  1. James Ellroy, Perfidia, Einaudi 2015  

  2. André Héléna, Les flics ont toujours raison, pubblicato in Italia da Aisara nel 2002 con il titolo Gli sbirri hanno sempre ragione  

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Le tre sepolture di Giulio Regeni https://www.carmillaonline.com/2016/03/01/le-tre-sepolture-di-giulio-regeni/ Mon, 29 Feb 2016 23:01:15 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28772 di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso. La prima è stata rappresentata dai servizi [...]]]> di Sandro Moiso

sepoltura 1 Se, pur nel dramma rappresentato dalla sua morte, Giulio Regeni avesse avuto come unica sepoltura quella avvenuta a Fiumicello sarebbe stato, per così dire, fortunato. Accompagnato dall’affetto dei suoi cari e dei numerosi amici o anche soltanto di coloro che hanno avuto modo di conoscerlo di persona o di apprezzare il suo lavoro di ricerca, avrebbe avuto una sola, ma dignitosissima e commovente cerimonia funebre.

Purtroppo altre due orrende, macabre e tutt’altro che dignitose, per coloro che le hanno messe in atto, sepolture sono seguite al suo tragico decesso.
La prima è stata rappresentata dai servizi egiziani fin dal primo momento della sua scomparsa e delle prime ricerche messe in atto per ritrovarlo. Secondo quanto riferito in un’intervista rilasciata al quotidiano filo governativo egiziano AlYoum7, il titolare delle indagini, il generale Khaled Shalabi, ha parlato di un incidente stradale sostenendo che la polizia avrebbe ritrovato il cadavere dopo la segnalazione di un passante.

Ma sul luogo dove la polizia aveva sostenuto di aver ritrovato il cadavere di Giulio Regeni nove giorni dopo la sua sparizione, sulla parte superiore di un cavalcavia dell’autostrada che collega Il Cairo ad Alessandria d’Egitto, non ci sono mai state tracce “né di brusche frenate, né di vetri, né di sangue, né di ripulitura nello spesso strato di polvere mista a rifiuti che ricopre tutto”.1 In compenso come altri hanno già riportato vi sono significative tracce di pratica di torture messe in atto dal generale Khaled Shalabi, che “venne condannato nel 2003 per aver falsificato rapporti di polizia e per aver torturato – fino a ucciderlo – un uomo, insieme ad altri due poliziotti”,2 anche se la sentenza fu poi sospesa.

La terza ed ultima sepoltura però, ed anche la più blasfema, è quella messa in atto dalle autorità governative e da vari media italiani che, pur fingendo di voler ottenere giustizia e pur facendo, come al solito e così come piace al nostro Presidente del Consiglio, la voce grossa, in realtà tardano a denunciare con certezza e sicurezza che gli autori del barbaro assassinio potranno essere soltanto individuati tra gli agenti dei servizi, nemmeno tanto segreti, del sanguinario regime di Al Sisi.

Così si sta letteralmente prendendo e perdendo tempo, in attesa che lo scorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi finisca con il fare levigare la memoria dell’omicidio politico dalle sabbie millenarie del deserto egiziano. Fino a farne scomparire ogni traccia, quasi si trattasse del naso della Sfinge o di qualche altra decorazione delle antiche piramidi ormai erose dal vento e svuotate più dai tombaroli secolari che non dagli archeologi.

Un autentico sepolcro di menzogne e depistaggi, dalla diffusione di notizie riguardanti una presunta collaborazione di Giulio con agenzie di intelligence oppure un rapimento dovuto ai Fratelli Mussulmani3 fino all’ipotesi di una vendetta personale avvallata negli ultimi giorni dalle autorità egiziane,4 viene ormai quotidianamente costruito al fine di ostruire ogni possibile accesso alla più semplice delle verità. Anzi la sponda che l’informazione nazionale presta, in gran parte, alle notizie rilanciate dai giornali filo-governativi egiziani, come il sopracitato AlYoum7 oppure Al Ahram, permette al regime di Al Sisi di presentarsi come vittima di un possibile complotto.

Così, mentre il macellaio si traveste da agnello, le indagini brancolano in un buio, più che voluto, desiderato. Soprattutto dalle stesse autorità italiane che, denunciando la scarsa collaborazione di quelle egiziane, sembrano non veder l’ora di poter archiviare il tutto come delitto irrisolto. Che volete che sia, in fondo, un ricercatore scomparso, magari di sinistra, ai margini di un deserto immenso in cui sono scomparse culture millenarie, faraoni, templi e armate?

Contro le illazioni su una sua possibile collaborazione con qualche forma di intelligence Oxford Analytica, il think tank britannico col quale aveva collaborato Giulio Regeni, ha fatto sapere “di non voler parlare in questo momento coi media italiani sulla vicenda del ricercatore ucciso in Egitto. Fonti in contatto col centro studi hanno riferito che si respira un’aria di irritazione fra i responsabili dell’organizzazione, che negano di essere legati a qualunque agenzia di intelligence e lamentano inesattezze sulle ricostruzioni della loro attività”.5 Mentre “invece, al Department of Politics and International Studies (Polis), l’istituto che Regeni frequentava nel campus di Sidwick Site, trapela un misto di dolore e irritazione. Glen Rangwala, un docente esperto di questioni mediorientali, si limita a dire di non voler fare commenti dopo “le inesattezze” – deplora – comparse su alcuni media italiani”.6

Un balletto così vergognoso quello inscenato tra Mukhabarat (la centrale dei servizi segreti egiziani7 ), governo e media italiani da spingere il mondo accademico inglese a formulare un appello “affinché il Parlamento britannico chieda e ottenga sulla morte di Regeni ‘un’indagine indipendente e imparziale’. Quale evidentemente non è ritenuta quella italo-egiziana”.8

Ma cosa spinge ad un comportamento tanto vile il nostro governo e buona parte dei nostri media? Soltanto gli interessi economici oppure anche qualcosa d’altro? “Non fosse altro perché sul tavolo delle relazioni tra i due Paesi, oltre al cruciale ruolo strategico svolto dal Cairo in chiave antiterrorismo, ci sono commesse per 10 miliardi di dollari (7 soltanto dell’Eni per lo sfruttamento del giacimento di gas Zohr, il più grande mai scoperto nel Mediterraneo9 ). Può il destino di un ventottenne “comunista” valere di più di quel fiume di denaro?10 E già soltanto su questo il regime di Al Sisi potrebbe ampiamente scommettere che l’Italia non vorrà fare di questo assassinio una questione capitale.

abu omarMa anche un’altra risposta è arrivata in questi giorni proprio da Strasburgo. La Corte europea dei diritti umani ha infatti condannato l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar, avvenuto a Milano il 17 febbraio 2003 con la decisiva collaborazione del Sismi, servizio segreto militare. Collaborazione, guarda caso con la CIA e i servizi segreti egiziani. “Tenuto conto delle prove, la Corte ha stabilito che le autorità italiane erano a conoscenza che Abu Omar era stato vittima di un’operazione di ‘extraordinary rendition’ cominciata con il suo rapimento in Italia e continuata con il suo trasferimento all’estero“, afferma la Corte di Strasburgo e prosegue: “L’Italia ha applicato il legittimo principio del segreto di Stato in modo improprio e tale da assicurare che i responsabili per il rapimento, la detenzione illegale e i maltrattamenti ad Abu Omar non dovessero rispondere delle loro azioni”. Concludendo poi che: “nonostante gli sforzi degli inquirenti e giudici italiani, che hanno identificato le persone responsabili e assicurato la loro condanna, questa è rimasta lettera morta a causa del comportamento dell’esecutivo”.11

Ci sono segreti, e la storia d’Italia almeno da piazza Fontana in avanti lo dimostra tristemente, che non possono essere rivelati. A qualsiasi costo. Perché ne nascondono altri. Asservimenti che non possono essere rifiutati, come le rivelazioni degli ultimi giorni, a proposito dei controlli esercitati dai servizi di sicurezza americani sui governi “amici” e anche su quello italiano, ben dimostrano. Al massimo possono produrre un abbaiare di cani, come quando di notte siamo risvegliati da un breve latrato che, una volta interrotto, ci lascia tornare ai nostri sogni.

Le proteste di alcuni membri del governo e le indagini di questi giorni sembrano infatti ricordare l’abbaiar dei cani, spesso inutile e soltanto molesto. Perché mentre la guerra si delinea sempre più come unico orizzonte possibile, gli alleati possono chiedere ed ottenere dal governo italiano tutto ciò che vogliono. E falsificare la verità di un delitto non sarà certo la sola richiesta o la peggiore.

sepoltura 2 Il governo del pifferaio magico ci aveva garantito, qualche giorno fa, che i droni americani della base di Sigonella sarebbero stati usati soltanto per azioni di risposta a pericoli immediati e che, in sé, non avrebbero rappresentato un preludio ad una escalation militare. Peccato che, successivamente, sia stato riunito il Consiglio supremo di Difesa che “ha valutato ‘la situazione in Libia, con riferimento sia al travagliato percorso di formazione del governo di accordo nazionale sia alle predisposizioni per una eventuale missione militare di supporto’“.12 Mentre è stata rivelata, ad esempio dal quotidiano Le Monde, la presenza di truppe francesi in Libia, così come quella di corpi speciali americani e britannici.

Così sebbene lo si neghi, si è discusso del fatto che “Gli specialisti del Cosubin e del Col Moschin ma anche i parà della Folgore potranno agire grazie alle stesse garanzie funzionali degli 007 che la legge ha concesso loro con il provvedimento varato larga maggioranza proprio in previsione di un possibile intervento in Libia“. Potrebbero essere circa 3000 i soldati italiani “impiegati a protezione dei siti sensibili come gli impianti energetici, i giacimenti, gli oleodotti13 che ancora forniscono l’ENI, mentre “la macchina dei raid è già in azione. C’è una ricognizione aerea continua, condotta dai droni americani e italiani che decollano da Sigonella; da quelli francesi che perlustrano l’area desertica del Fezzan e da quelli britannici che partono da Cipro. Altri velivoli spia, inclusi i nostri Amx schierati a Trapani, scattano foto e monitorano le comunicazioni radio grazie ad apparati a lungo raggio, che gli permettono di restare fuori dallo spazio aereo libico. Una sorveglianza che avrebbe permesso di selezionare circa duecento potenziali bersagli […] Ma nessuno si illude: una manciata di bombardamenti e colpi di mano isolati non riuscirà a fermare la crescita del Califfato. Per sconfiggerlo servono truppe di terra: soldati libici con un sostegno occidentale. E bisogna trovare un governo riconosciuto che legittimi questo “sostegno” […] l’ipotesi che sta rapidamente prendendo piede tra Roma e Washington è quella di abbandonare il parlamento di Tobruk e l’armata del generale Haftar – che stanno soffocando anche il secondo tentativo dell’Onu – per puntare sull’altra compagine, quella di Tripoli. Al momento è una sorta di “ultima minaccia”, per cercare di sbloccare le resistenze di Tobruk, ma potrebbe trasformarsi in fretta in un’opzione concreta. Con un ribaltamento di fronti: mentre a Tripoli il potere è in mano a formazioni islamiche più o meno moderate, il governo rivale aveva ispirazione laica e supporto occidentale. E con la prospettiva di dividere il paese in tre entità principali, che ricalcano l’antica organizzazione amministrativa ottomana: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan. Una soluzione che potrebbe placare anche le potenze regionali, come Egitto, Turchia, Qatar ed Emirati14.

Un balzo indietro di oltre cento anni senza consultare, nemmeno per conoscenza, i libri di storia […] un “piano B” per la Libia che troppo assomiglia a vecchi progetti coloniali europei”.15 Confermato dallo odierne dichiarazioni del Segretario alla Difesa statunitense Ash Carter che ha dichiarato: “L’Italia, essendo così vicina, ha offerto di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo con forza16

Piano, ormai tutt’altro che “segreto”, che va in direzione totalmente contraria al comunicato congiunto pubblicato dopo la riunione ministeriale per la Libia del 13 dicembre 2015 in cui veniva affermato “il nostro pieno appoggio al popolo libico per il mantenimento dell’unità della Libia e delle sue istituzioni che operano per il bene del paese“.

Menzogne, nient’altro che menzogne: la guerra al terrorismo, la difesa della democrazia, la fedeltà e l’affidabilità degli alleati, l’azione umanitaria a favore dei profughi, la collaborazione tra stati e polizie per stabilire la verità sul caso Regeni. Vittima, come noi tutti, i vivi e i morti, di una macchina di oppressione, violenza, sfruttamento e falsificazione che solo la lotta per la liberazione dell’umano che è ancora in noi potrà un giorno ribaltare e distruggere.
migranti


  1. http://www.corriere.it/video-articoli/2016/02/07/egitto-luogo-dove-stato-trovato-corpo-giulio-regeni/5049aef8-cdaa-11e5-9bb8-c57cba20e8ac.shtml?refresh_ce-cp  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/10/news/regeni_informativa_da_egitto_nessun_elemento_riconduce_a_rapina_-133135353/  

  3. http://www.panorama.it/news/esteri/morte-di-giulio-regeni-legitto-rifiuta-le-accuse/  

  4. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/regeni_egitto_non_escludiamo_nessuna_pista_-134137778/?ref=HREA-1  

  5. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  6. ancora http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/16/news/regeni_famiglia_non_era_uomo_dei_servizi_segreti_-133551437/?ref=HREC1-8  

  7. che si dividono rispettivamente in Gihāz al-Mukhābarāt al-ʿĀmma (Apparato d’informazioni generali), Idārat al-Mukhābarāt al-Harbiyya wa al-Istiṭlāʿ (Direzione dei servizi militari e d’indagine) e Gihāz Mabāḥith Amn al-Dawla (Apparato d’informazioni per la sicurezza dello Stato)  

  8. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/15/news/giulio_tradito_dai_suoi_report_sui_gruppi_di_opposizione_intercettati_dagli_apparati_-133450148/?ref=HREA-1  

  9. con riserve stimate in 850 miliardi di metri cubi di metano  

  10. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  11. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/12/news/giulio_i_giorni_della_paura_e_la_verita_del_testimone_preso_da_agenti_in_borghese_proprio_davanti_alla_metro_-133248679/  

  12. http://www.huffingtonpost.it/2016/02/25/libia-_n_9318500.html?1456431239&utm_hp_ref=italy  

  13. Fiorenzo Sarzanini, Intervento in Libia. Ok a missioni segrete dei nostri corpi speciali, Corriere della sera, Venerdì 26 febbraio 2016  

  14. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/24/news/l_allarme_la_casa_bianca_agiremo_ogni_volta_che_verra_individuata_una_minaccia_diretta_renzi_roma_fara_la_sua_parte_-134100071/  

  15. libia-divisione-in-tre-sconfitta_n_9306502.html  

  16. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/29/news/libia_usa_appoggeremo_con_forza_ruolo_guida_dell_italia_in_intervento_militare_-134513426/?ref=HRER1-1  

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Quante volte dovrà ancora essere ucciso Giulio Regeni? https://www.carmillaonline.com/2016/02/09/quante-volte-dovra-ancora-essere-ucciso-giulio-regeni/ Mon, 08 Feb 2016 23:01:01 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=28531 di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine. Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia [...]]]> di Sandro Moiso

giulio regeni Ce lo porteremo dentro con il ricordo di un volto giovane, bello, simpatico ed intelligente. Un volto come quello di tantissimi giovani che sono morti negli ultimi decenni a causa della violenza terroristica promossa dagli Stati e dai loro tutori del disordine.
Perché Giulio Regeni non è morto soltanto in qualche squallida stanza usata dai servizi segreti di Al Sisi per torturare, seviziare ed uccidere gli oppositori di un regime autoritario, sanguinario, corrotto e bugiardo.

Giulio è morto nell’indifferenza italiana verso le reali condizioni di vita e di lavoro in un paese alleato di cui l’Italia è il primo partner commerciale europeo.1 Giulio è morto per le sue idee e per la sua volontà di capire ed informare sulla realtà di quelle “primavere arabe” di cui si è parlato molto a vanvera, ma senza mai distinguere tra area e area, paese e paese, economia ed economia. Giulio è morto così come muore la ricerca, quella vera. Quella che il capitale ed il potere, a ogni latitudine, cercano di soffocare e vietare. Quella in cui il concetto di “classe” esiste ancora e non è stato rimosso con artifici mediatici ed ideologici.

Giulio è morto per la scienza, quella sociale, e per la passione, quella per la giustizia. Che stanno alla base di ogni ricerca della verità. Che è tipica dell’entusiasmo giovanile e che non appartiene ai gazzettieri che declamano che Giulio potrebbe essere stato arrestato “per sbaglio” oppure perché ritenuto “una spia”. E che non appartiene a tutti coloro che trovano stupido ed insulso occuparsi degli “affari altrui” a meno che questi ultimi non siano rigidamente relegati a livello di gossip.

Giulio è morto con le centinaia di attivisti egiziani scomparsi, di cui cinquecento soltanto nello scorso anno,2 e di cui non è più stato ritrovato né corpo né traccia. E sui quali è stato mantenuto il silenzio della stampa occidentale, fino ad oggi, in nome di una sacra alleanza che è servita non a combattere l’Isis e i suoi mandanti, ma soltanto ad impedire la formazione e lo sviluppo di una reale alternativa di classe.

Giulio ha cominciato a morire ancora prima di nascere, nell’Argentina della tripla A e dei generali golpisti che hanno fatto sparire un’intera generazione nel disinteresse nazionale ed internazionale e di quel PCI che, dopo aver liquidato le stragi cilene con la bella trovata del “compromesso storico”, ignorò quegli avvenimenti in nome della lotta al terrorismo; così come il PD di oggi vorrebbe poter fare per mandare avanti i propri affari interni ed internazionali. E poi è morto in Messico con gli studenti, le donne e i giornalisti massacrati dai narcos e dal governo.

Giulio è morto a Genova a fianco di Carlo Giuliani. Giulio è stato torturato nella scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto, i cui responsabili sono ancora impuniti perché in Italia non esiste il reato di tortura. Il corpo di Giulio ha riportato lividi, contusioni, fratture, sevizie come quelli di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e molti, troppi altri, vittime della violenza di Stato e dell’indifferenza. Vittime di un conformismo generalizzato che, fidandosi per viltà delle parole di leader tutti altrettanto corrotti, differenzia la democrazia dai regimi tirannici soltanto sul presupposto, mai dimostrato, che i governi occidentali siano i migliori.

Giulio è morto al Bataclan e nelle banlieue parigine dove i giovani della stessa età finiscono con l’imboccare strade diverse ed assassine nel vuoto di una proposta politica e morale che lascia spazio soltanto all’estremismo reazionario, all’integralismo religioso in ogni sua variante, giudaico-cristiana o islamica, oppure all’indifferenza esistenziale. Giulio è morto nella recente proposta fatta alle Nazioni Unite dal segretario Ban Ki Moon per un piano globale di azione contro il terrorismo e l’estremismo;3 il cui vero obiettivo sembra essere quello di rafforzare e rendere più efficaci le istituzioni nella loro azione di repressione nei confronti di qualsiasi dissenso che potrebbe essere, da ora in poi e come spesso in passato, equiparato al terrorismo.

Giulio è morto sotto le manganellate in Val di Susa e nella repressione di ogni lotta in difesa della specie e dell’ambiente. Giulio è morto nelle parole e sulla bocca di tutti i politici italiani ipocriti e corrotti che oggi fingono dolore per la sua morte e per la sorte di milioni di giovani disoccupati. Giulio è morto al family day e nelle parole di odio e disprezzo pronunciate contro ogni tipo di diversità . Giulio ha subito le ingiurie subite dagli omosessuali aggrediti per strada e nelle aggressioni subite dalle donne ovunque.

Giulio è morto con i bambini affogati nel Mar Egeo e in tutto il Mediterraneo. Giulio è crollato insieme ai migranti fermati ai confini d’Europa o rinchiusi nei campi profughi turchi. E’ morto con i Palestinesi condannati ad un inverno di freddo nella striscia di Gaza e con i Curdi aggrediti dai Turchi e dall’Isis nel Rojava e nel sud-est della Turchia. Giulio è morto con i finanziamenti e la fiducia rinnovati ad un presidente-dittatore come Erdogan e nell’alleanza con gli stati più retrivi ed oppressivi del Golfo.

E’ morto per una materia prima, il petrolio, che non vale più un cazzo 4 e il cui modello di sviluppo è stato sempre e soltanto motivo di guerre, di inquinamento e di morte. Giulio è morto ammazzato.
Ma quante volte dovrà ancora morire? Quanti, giovani e no, saranno ancora uccisi per difendere, con la violenza giustificata dalla ragione di Stato, un modo di produzione fallimentare e distruttivo al quale cercano ancora coraggiosamente di opporsi?


  1. http://www.infomercatiesteri.it/bilancia_commerciale.php?id_paesi=101  

  2. http://www.repubblica.it/esteri/2016/02/06/news/egitto_desaparecidos-132828753/?ref=HRER1-1  

  3. Ban Ki Moon, Un piano globale contro il terrorismo e l’estremismo violento, Corriere della sera , 3 febbraio 2016  

  4. http://www.repubblica.it/economia/finanza/2016/02/06/news/arabia_saudita_crolla_petrolio_costretta_a_chiedere_un_prestito-132809487/  

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