Giso Amendola – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Wed, 18 Dec 2024 21:16:43 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Autonomi a sud. Storia di un’aporia militante https://www.carmillaonline.com/2022/02/24/autonomi-a-sud-storia-di-unaporia-militante/ Thu, 24 Feb 2022 21:00:37 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=70643 di Giovanni Iozzoli

Antonio Bove – Francesco Festa (a cura di), Gli autonomi – Vol X. – L’autonomia operaia meridionale, Parte prima, Edizioni DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 320, € 20.00

In questo volume, dedicato all’autonomia operaia meridionale, il primo di una serie di tre, Francesco Festa e Antonio Bove, ricercatori militanti (cioè, non foraggiati dai soldi pubblici) offrono al lettore un’opera ricchissima in cui storia, storiografia, biografie, teorie e prassi, si intrecciano su un terreno delicatissimo, anzi inafferrabile, che si può ricondurre ad una domanda retorica: è esistita una forma specificamente meridionale dell’autonomia [...]]]> di Giovanni Iozzoli

Antonio Bove – Francesco Festa (a cura di), Gli autonomi – Vol X. – L’autonomia operaia meridionale, Parte prima, Edizioni DeriveApprodi, Roma 2022, pp. 320, € 20.00

In questo volume, dedicato all’autonomia operaia meridionale, il primo di una serie di tre, Francesco Festa e Antonio Bove, ricercatori militanti (cioè, non foraggiati dai soldi pubblici) offrono al lettore un’opera ricchissima in cui storia, storiografia, biografie, teorie e prassi, si intrecciano su un terreno delicatissimo, anzi inafferrabile, che si può ricondurre ad una domanda retorica: è esistita una forma specificamente meridionale dell’autonomia operaia? E in che modo questa categoria – così legata alla storia del neocapitalismo fordista padano – può essere piegata e riadattata al contesto del mezzogiorno? E farlo, è un’attribuzione legittima o una forzatura  ideologica? I due autori, attingendo a molti contributi intellettuali e/o militanti, sembrano interrogare e interrogarsi sulla liceità di tale operazione.

Partiamo, quindi, da una questione sostanziale: cos’è l’autonomia operaia meridionale? È davvero esistita? Basta definirla come l’insieme dei comportamenti operai e proletari fuori e contro le compatibilità capitalistiche e completamente indipendenti da ogni legame con il riformismo? Per provare a rispondere bisogna tracciare una «cartografia tematica» e ripensare l’idea stessa di Mezzogiorno, dell’aggressione capitalistica alle sue regioni, prendere distanza dal pietismo meridionalistico e dal marxismo storicista: la linea del progresso in ascesa con il timone retto dalla borghesia illuminata, senza la quale il Sud sarebbe ostaggio di lazzari, plebaglia e lumpenproletariat. Linea che ha segnato, per oltre cinquant’anni, l’azione politica e culturale del Pci. (pag. 9)

Il libro è la risposta a quella domanda retorica: è legittimo parlare di una autonomia operaia meridionale e tale categoria non va considerata un’appendice di quella nata nel cuore del triangolo industriale, nella misura in cui la storia economica e sociale del mezzogiorno può sottrarsi alla narrazione “storicista” del sottosviluppo cronico del nostro Sud, eternamente etichettato come ritardo, risacca e zavorra malata del processo unitario. Questione di sguardi, di punti di vista, di approccio alla lettura storica. Se il Sud smette di essere considerato una escrescenza incompiuta del processo unitario e del neocapitalismo, allora i suoi movimenti autonomi non vanno considerati una riproduzione delle lotte dell’operaio massa, bensì il bacino di creazione di figure e conflitti originali. Il sottoproletariato – fantasma e coscienza sporca del movimento operaio – esce da se stesso, dai suoi stereotipi lumpen, supera lo stigma plebeo e si presenta come proletariato diffuso, creatore di plusvalore sociale nella nuova fabbrica-metropoli. Non ritardo, quindi, ma nuova e diversa realtà che richiede nuove e diverse chiavi interpretative. Gli anni 70 dei movimenti antagonisti napoletani, raccontano proprio il processo di autovalorizzazione – l’assalto alla spesa pubblica, la riappropriazione del patrimonio abitativo, il rivendicazionismo incessante sulla linea reddito/lavoro – di questo soggetto che raramente la sinistra era riuscita a intercettare. Autonomia a sud come nuova chiave di lettura di questo sud.
Gli autori rimarcano più volte questa tesi, come un filo conduttore che deve reggere la frenesia centrifuga delle storie e dei movimenti.

Nei primi anni Settanta, i riflessi sui consumi della crisi economica e dello sviluppo caotico dei trent’anni precedenti riportano il Mezzogiorno al centro delle riflessioni del Pci e della sinistra rivoluzionaria, riabilitando la «questione meridionale». Le letture della situazione, tuttavia, sono insufficienti a chiarire gli spunti relativi alla composizione sociale, all’industrializzazione e al ruolo delle regioni meridionali nella programmazione capitalistica. Nella lettura del Pci, ma anche in settori alla sua sinistra, il Sud è visto da sempre come una «distorsione», l’elemento arretrato dello sviluppo generale, frutto di un «problema», di un «ritardo» o di una serie di «errori di programmazione». Da tale assunto emerge che, alla base, il processo di sviluppo capitalista possa intervenire per rimuovere gli agenti di freno allo «sviluppo». Una discussione, in verità, tutta interna alle logiche del capitalismo che purtroppo ancor oggi occupa gran parte dei dibattiti sul tema, partendo da due errori enormi. Uno è l’idea che il problema sia il mancato sviluppo e non la sua stessa natura, cioè la sua matrice capitalista; l’altro è la considerazione del Mezzogiorno come «tema», mentre la discussione dovrebbe, in altro senso, vertere sulle modalità del processo economico, politico, sociale e culturale che ha creato il Mezzogiorno come visione. Il capitalismo è il vero tema. (pag. 31)

L’autonomia, l’operaismo, le metropoli slabbrate e purulente del mezzogiorno, le campagne dell’entroterra, l’appennino e le terre dell’osso: se Lenin veniva portato a spasso in Inghilterra, sarebbe legittimo traslocare Panzieri a sud di Latina?
Inquadrare quella storia con le lenti dell’operaismo è un procedimento controverso. Festa e Bove restano fedeli a un metodo: leggere i cicli dell’ intervento straordinario nel mezzogiorno alla luce della sequenza sviluppo/ crisi dello Stato Piano, legando composizione di classe, conflitti, investimenti e spesa pubblica, dentro un’unica chiave di lettura. Il programma non scritto dell’autonomia operaia meridionale sta tutto dentro questo groviglio.

«Soltanto a livello di classe operaia si può parlare in senso specifico di processo rivoluzionario, di rivoluzione, di rottura rivoluzionaria», si diceva, ma la classe operaia, nelle metropoli e nei territori meridionali stravolti dal capitalismo della crisi non è solo quella della linea di montaggio, anzi, a Napoli e in tutto il Mezzogiorno questo paradigma non regge. L’operaismo è un punto di vista di parte, cui ha attinto – chi più, chi meno – tutta l’area dell’Autonomia operaia ed è inevitabile riflettere sui problemi che l’incontro fra la storia del Sud e questa corrente di pensiero genera. Leggendo quelle vicende dentro le loro specificità è evidente che si finisca per individuare un vulnus, un cortocircuito nel paradigma operaista le cui specificità vanno rimodulate attraverso i comportamenti e le soggettività dell’Autonomia meridionale: in particolare, rispetto alla composizione di classe di quei territori e ai processi di produzione e valorizzazione delle comunità. Detto fuori dai denti: l’operaismo è nato nel Nord Italia, davanti ai cancelli delle fabbriche del «triangolo industriale», in particolare a Mirafiori con al centro l’operaio massa, giovane meridionale «deportato» per sostenere lo sviluppo capitalistico dei gloriosi Settanta. A Sud questa linea di pensiero ha avuto la funzione di “cassetta degli attrezzi” concettuale per gruppi ristretti di intellettuali e avanguardie militanti, ma non è mai esistita una sua tradizione teorica né una sua traduzione. (pag. 11)

Questa traduzione/traslazione la opereranno i proletari nella prassi, senza porsi tante questioni epistemologiche: nel Mezzogiorno l’autonomia dell’interesse di classe e dei bisogni di massa non ha bisogno di adattarsi al “calco” operaista, ma lo reinventa, ne forza il perimetro costringendo le stesse soggettività organizzate a ridefinire se stesse in rapporto ad una movimentazione sociale ricchissima e radicale. Raccontare quel clima è difficile e necessario. E per provare a farlo, gli autori si affidano a molti contributi, di taglio e registro assai differente (per soddisfare ogni palato). Contributi di alto profilo, quali quello di Lanfranco Caminiti, che racconta della nascita di Primi Fuochi di Guerriglia, il tentativo di praticare il “diritto alla guerra” dentro l’oppressione stagnante della società meridionale e rifondare una dialettica nuova tra iniziativa armata e pratica di massa, tra soggettività autonoma e comunità/territori.

Indicare lo Stato come nemico, indirizzare contro lo Stato la sintesi dell’antagonismo al Sud, non sarebbe stato un «valore aggiunto» – accadeva già. Il fatto nuovo, a noi sembrava, era che le funzioni dello Stato si andavano dislocando dentro la società, i corpi intermedi e la distribuzione dei poteri, e una semplificazione società vs. Stato o classe vs. Stato non coglieva le modificazioni. Bisognava perciò «portare» l’antagonismo dentro la società, dentro la statualizzazione della società; cioè, dentro una dinamica, un processo, e non una struttura e le sue articolazioni. (…) Non eravamo clandestini. Con quella stessa faccia facevamo assemblee e rapine, riunioni e attentati. In guerra, d’altronde, si combatte a viso aperto. (pag. 96)

Napoli, all’inizio degli anni ’70, è comunque la quarta città industriale d’Italia. E l’Italsider e l’Alfasud vengono pienamente investite dal vento dell’autunno caldo, della stagione dei consigli e dell’autonomia dei comportamenti operai in direzione del rifiuto del lavoro salariato – non come programma o teoria, ma come prassi ed esigenza di vita. Anche qui ci si interroga retoricamente sul rapporto tra lotte di fabbrica e lotte sociali: sono i contenuti del ’69 operaio a rovesciarsi sui quartieri, o al contrario, è la maturazione delle lotte popolari sul territorio, sul terreno della riproduzione e del reddito sociale, a tenere acceso il fuoco nei reparti della produzione industriale? In ogni caso, anche a Napoli alcuni grandi stabilimenti diventeranno scuole di comunismo per una generazione di quadri operai, sempre in bilico tra sindacalismo radicale e insurrezione.
Interessante, da questo punto di vista, il recupero della storia dimenticata dell’Unione Sindacale dei Comitati di Lotta, una rete di nuclei di fabbrica – ostili al nuovo corso consiliare post-69 – e riconducibile ad una piccola formazione marxista-leninista (guidata dal non dimenticato Gustavo Herman): paradossi napoletani, per raccontare l’autonomia, nel groviglio di storie, facce e processi, devi parlare degli emme-elle…

Franco e importante, il contributo di Raffaele Paura, amatissima figura tutt’ora attiva dentro il movimento napoletano; da lui arriva un frammento relativo alla storia dei Comitati di Quartiere (l’autonomia con la a minuscola), del loro apogeo e della loro rapida decrescita. Organismi popolari, centrati sull’autoriduzione e la vertenzialità di quartiere, nei quali però una generazione di militanti dovrà fare i conti con il nodo più drammatico di quella fase storica:

Intorno al ’74 un gruppo di militanti attivi nel Comitato del quartiere Porto, sulla scia di un ragionamento interno e sulla spinta di quello che accadeva intorno, abbandona il lavoro di massa e si struttura come gruppo armato. È stata una scelta complicata e sicuramente un errore politico. Il gruppo non aveva un nome, usavamo diverse sigle anche perché nel momento in cui si diffondeva un certo innamoramento per la lotta armata noi cerchiamo di evitare la deriva avanguardista anche se questa cosa poi, di fatto, accade. Il nostro gruppo, come altre formazioni affini sparse nel Meridione, non aveva nemmeno una composizione stabile, i compagni si spostavano e attraversavano diversi ambiti del movimento e pensavamo che questo potesse evitare il distacco dalle lotte sociali. Nessuno di noi, infatti, è mai stato clandestino, anche quando eravamo latitanti continuavamo a stare nel movimento perché l’idea dell’avanguardia esterna non ci ha mai attratto. Alcuni compagni, inoltre, sono andati in galera per rapina o altri «crimini» ma erano proletari che stavano con noi e molte rapine etichettate come crimini «comuni» in realtà non lo erano, ma si trattava di azioni di compagni e proletari politicamente schierati dentro quella forte quota di «illegalità sociale» che si incrociava con quello che facevamo noi.
Nonostante la disponibilità all’uso di armi e della forza, comunque, fra tutti gli errori che abbiamo commesso non abbiamo mai avuto come obiettivo quello di colpire le persone, l’omicidio politico non è mai stato nel nostro orizzonte. L’attività era rivolta prevalentemente al controllo dei territori che le lotte sociali stavano liberando, con le campagne contro i delatori nei quartieri, e poi ad azioni come la spesa politica che non era solo l’attacco ai supermercati ma anche iniziative più eclatanti. Nel ’75, quando Sergio Romeo era ancora vivo viene bloccato a Forcella un camion che trasportava pasta e il carico viene distribuito ai proletari del quartiere. Questo era il tipo di azioni che ritenevamo centrali. Sergio in quella occasione era già nei Nap e voglio ricordare questo particolare perché nonostante le sigle di appartenenza il dato politico è che noi compagni ci riunivamo sulle azioni, non c’erano compartimentazioni stagne. In quel periodo anche gli stessi militanti dei Nap agivano in questo modo, pure perché quella organizzazione nasce dentro i movimenti, prima dell’impazzimento organizzativo che avviene quasi per necessità, dopo la morte e gli arresti di molti compagni e compagne e le fasi drammatiche che la loro organizzazione si trovò ad affrontare.(…) È anche sulla base di questi eventi che avvertiamo la spinta a costruire un gruppo che di fatto si distacca dal lavoro nei quartieri, veniamo coinvolti da quella spinta soggettiva che porta a un «gioco al rialzo», pensiamo che ormai i proletari siano pronti a reggere in autonomia le strutture territoriali e ci dedichiamo a costruire un’altra organizzazione, invece di ripensare e rilanciare il lavoro di massa. (…)
L’abbandono delle lotte sociali, comunque, anche se non era nostra intenzione c’è stato, dovendo affrontare un percorso di quel tipo che è stato un punto di non ritorno. Nella zona del centro avevamo costruito, negli anni, una struttura autorganizzata a partire dalle autoriduzioni che doveva essere funzionale alla costruzione di un contropotere territoriale. Il risultato di quella scelta, invece, è che come prima cosa viene tagliata subito la corrente elettrica a tutti. Mia mamma non mi ha mai perdona- to per quella cosa. Il nostro ruolo in quei Comitati non era secondario, anzi, nel momento in cui siamo passati alla clandestinità, consegnando il lavoro di massa e l’organizzazione in mano ai proletari che avevano fatto le lotte fino a quel momento insieme a noi è scomparso tutto e l’ esperienza dell’autoriduzione si è esaurita. Tutto quel processo, i Comitati per l’autoriduzione, la difesa del territorio, i Comitati di quartiere alla fine è andato perduto. (pag. 200)

Alfonso Natella, Franco Piperno, Francesco Caruso e Giso Amendola arricchiscono il racconto corale di una epopea che solo apparentemente ha il sapore della sconfitta o dell’occasione mancata: c’è un sedimento di memoria, di verità, di sapienza sovversiva, che riemerge carsicamente, fino a sfidare il presente davanti ai cancelli della logistica, nei territori stuprati, nelle metropoli slabbrate e violente che ci tocca attraversare.

Nella capitale della fluidità sociale, le formazioni dell’Autonomia organizzata – Rosso, Senza Tregua, Mco – proveranno a costruire legami solidi con l’autonomia diffusa napoletana e meridionale. Ma per tutto il decennio ’70, gli autonomi del sud non riescono a definire dei perimetri organizzativi e programmatici stabili: come se il montare dei cicli di lotta impedisse non solo le sclerotizzazioni gruppettare, ma anche qualsiasi sedimentazione virtuosa, qualsiasi passaggio che evitasse i salti e le rotture generazionali, che saranno così tipiche di questa storia e di questi territori.

Gli autonomi furono i primi a lottare contro se stessi, a provare a mettere ordine nei processi caotici che erano stati così bravi ad evocare o abitare. Ma risulta difficile ricostruire una cornice adeguata, rispetto a questa eccedenza, a questa ricchezza: tanto più nel sud Italia, e nella sua sgangherata capitale. E’ per questo che ancora oggi continuiamo a leggere libri su questa storia così presente, così irrisolta, che preme con urgenza sulla nostra intelligenza e sull’agenda dell’oggi.

Del resto, in ognuno dei nove volumi precedenti (una serie editoriale dalla longevità incredibile, per la quale non si smetterà mai di essere abbastanza grati a DeriveApprodi) il problema “ontologico” dell’autonomia operaia permane ostinato – fino alla difficoltà nella scelta della A maiuscola o minuscola, nel racconti di molti contesti. L’ A/autonomia inafferrabile, che non si fa catturare, catalogare, su cui non solo storici e saggisti continuano a sbattere la testa, ma anche tanti solerti magistrati che hanno provato attraverso centinaia di migliaia di pagine di atti istruttori a ricondurre a categorie penali quella che è stata una esplosiva complessità.

Questo libro è forse il più dinamico e “difficile” di tutta la serie, quello che esige più dedizione, quello in cui lo sforzo di contestualizzazione storico-politica è più alto. Ma anche quello che offre di più al lettore che, a seconda delle sue preferenze, troverà storie di vita ed elementi alti dibattito teorico, intrecciati nel classico bailamme mediterraneo: come nei vecchi assetti urbani napoletani, dove i bassi del piano terra convivono col piano nobile e tutti gli odori e i rumori si mescolano apparentemente senza principio.

Un libro che resterà – oltre l’orizzonte facile della memorialistica – e che siamo sicuri troverà la sua collocazione non solo nelle biblioteche di movimento, ma anche negli archivi di istituti e centri studi che non hanno abdicato alla necessità della memoria critica.

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Eversione politica ed insurrezione espressiva https://www.carmillaonline.com/2016/06/29/eversione-politica-ed-insurrezione-espressiva/ Wed, 29 Jun 2016 21:30:28 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=30940 di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. [...]]]> di Gioacchino Toni

saccheggiate_louvre_Burroughs_cover_particEludere il controllo. Corpi mutanti e trasformazioni sensoriali in William S. Burroughs e dintorni

Nel febbraio del 2014, in occasione del centenario della sua nascita, l’Università degli studi di Salerno rende omaggio a William Seward Burroughs dedicandogli la rassegna “Saccheggiate il Louvre – Seminari ed eventi per i 100 anni di William Burroughs”. L’editore Ombre Corte, nel marzo del 2016, pubblica un saggio che raccoglie gran parte degli interventi presentati in occasione del convegno salernitano insieme ad alcuni altri scritti: Alfonso Amendola, Mario Trino (a cura di), Saccheggiate il Louvre. William S. Burroughs tra eversione politica e insurrezione espressiva, Ombre Corte, Verona, 2016, 202 pagine, € 18,00. Tale testo si snoda lungo una successione tripartita che prende il via con alcuni contributi (Parte prima) che indagano la matrice politica di Burroughs, prosegue poi (Parte seconda) presentando tre scritti dello scomparso Antonio Caronia (autore di importanti studi a proposito di cyberpunk, mutanti, androidi, virtuale, postumano, ibridi uomo-macchina ecc.) e si conclude (Parte terza) con alcuni interventi che analizzano le tecniche di scrittura di Burroughs ed il suo rapporto con i media.

Da parte nostra passeremo in rassegna il volume seguendo un ordine differente: inizieremo dai contributi di Caronia, proseguiremo con i saggi che trattano William S. Burroughs tra cut-up, remix, musica underground, lingua teatralizzata, sonic weapons, shotgun paintings ed audiovisivi “infetti”… e termineremo con gli scritti che si concentrano su “Burroughs ed il politico”.

I tre interventi di Antonio Caronia raccolti in questo volume sono stati prodotti dallo studioso tra la fine degli anni ’80 ed i primi anni ’90. Il primo scritto, “Il sistema dei media nell’universo della fantascienza” (1990) [originalmente in: C. De Stasio, M. Gotti, R Bonadei (a cura di), La rappresentazione verbale e iconica: valori estetici e funzionali. Atti dell’XI Congresso nazionale dell’A.I.A., Bergamo 24-25 ottobre 1988, Guerini, Milano, 1990] individua nella scrittura burroughsiana la capacità di intercettare le trasformazioni sensoriali, individuali e sociali determinate dalla comunicazione elettronica. In tale intervento Caronia sostiene che del sistema dei media della seconda metà del Novecento, «di questa rete di audiovisivi che connette il pianeta via etere e lo trasforma in villaggio globale (o in una metropoli locale, il che forse è la stessa cosa), Burroughs coglie un carattere fondamentale, quello della trasparenza. Attraverso il collegamento punto-a-punto della radio e della televisione le distanze si annullano, il tempo si relativizza e noi riusciamo a vivere in un eterno presente, espanso a inglobare il lontano e il vicino, il passato e il futuro. Il mondo diviene trasparente, e questa trasparenza è per noi una garanzia della realtà del mondo» (p. 77).

Nella social science fiction, sostiene lo studioso, i mass media risultano metafora del potere, strumenti attraverso cui vengono create realtà artificiali che imprigionano l’essere umano attraverso pratiche di disciplinamento dei corpi. Tale intuizione, da parte della fantascienza più orientata verso la critica sociale ed antropologica, secondo Caronia, esprime «la consapevolezza del processo che vede i media costituirsi come vero e proprio corpo sociale complessivo a detrimento dei corpi individuali» (p. 78). Ad esempio, nel racconto di James Ballard In The Intensive Care Unit (Riunione di famiglia, 1977), viene presentata una società futura ove i corpi non possono entrare in contatto tra loro; tutti i rapporti debbono essere filtrati dal video. Anche nei racconti di Philip Dick il tema dell’espropriazione del corpo risulta ricorrete e viene affrontato soprattutto attraverso la figura dell’androide, come nel celebre Do Androids Dream of Electric Sheep? (Il cacciatore di androidi, 1968).

scanners009A proposito della capacità di certa fantascienza di percepire la problematica dello “statuto del corpo” nell’ambito delle trasformazioni produttive e sociali che attorno alla metà del Novecento iniziano a palesarsi, Caronia, oltre alla narrativa, fa riferimento anche ad una celebre produzione televisiva degli anni Ottanta: Max Headroom (1987-1988) di Annabel Jankel e Rocky Morton, opera che pone la questione del “corpo immateriale” nell’epoca dell’immagine elettronica.
Ancora una volta, secondo Caronia, «la fantascienza, più che veicolo di anticipazione, più che discorso futurologico divulgativo, usa il presente, lo scava, ne estrae le tendenze e caratteristiche sotterranee, in una competizione/emulazione inviabile fra parola e immagine» (p. 80), come ben testimoniano le produzioni cyberpunk. William Gibson, in particolare, «nei suoi romanzi introduce una nuova figurazione che sta già diventando convenzione narrativa, quella del cyberspace, lo spazio virtuale interno al computer nel quale si muovono gli operatori più abili connessi alla macchina per via neuronale» (pp. 80-81). Parola ed immagine, da questo punto di visto, a queste latitudini, ci parlano di un “nuovo corpo sintetico” dato dall’intrecciarsi sempre più inestricabile di naturale ed artificiale.

Caronia, nel suo secondo intervento, “Immaginari a confronto: William S. Burroughs e James Ballard” (1992) [originalmente in: A. Caronia, Archeologie del virtuale. Teorie, scritture, schermi, Ombre Corte, Verona, 2001], propone un’analisi comparata dei testi di William S. Burroughs e di James Ballard soffermandosi soprattutto su Naked Lunch, opera in cui lo studioso individua «l’irreparabile urgenza di rappresentare, nella sua incontenibile virulenza, i processi di degradazione della carne, la purulenta carne del tossicodipendente, sui cui destini si esercitano le violentissime guerre del potere nell'”universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga» (p. 76).
In questo scritto viene sottolineato come Naked Lunch, nonostante la sua destrutturazione narrativa e la mescolanza di stili differenti, riesca a coinvolgere il lettore grazie soprattutto al suo saper trasmettere una «stringente sensazione di necessità» (p. 83). In tale romanzo non viene ancora fatto ricorso al metodo del cut-up e l’effetto straniante, che comunque lo contraddistingue, deriva, secondo lo studioso, dall’urgenza della scrittura. «Quello che Il pasto nudo ci offre è insomma uno sguardo sull’universo concentrazionario e occlusivo del controllo e della droga. Da qui prende l’avvio quella particolarissima “continuità” che lega l’uno all’altro tutti i libri di Burroughs almeno fino a Nova Express […] e che ruota attorno al tema del controllo e del complotto» (p. 84) e, continua lo studioso, le «”aree psichiche” esplorate da Burroughs diventano qui delle aree geografiche in senso letterale, paesi fantastici che servono da sfondo e da commento alle azioni dei personaggi» (p. 84). Dunque, la galleria di figure che scorre davanti agli occhi del lettore «è innanzitutto la loro carne malata di droga in continua trasformazione, e le parole che la descrivono, un flusso di parole in caduta libera» (p. 85). Naked Lunch, attraverso la magmaticità del linguaggio, mette in scena il decadimento, la trasformazione, la dissoluzione e la perdita del corpo umano. In Burroughs però, sostiene lo studioso, non vi è alcuna visione romantica dell’innocenza originaria del corpo; il corpo è malato in quanto tale e lo è irreparabilmente.

James Ballard, una decina di anni dopo l’uscita di Naked Lunch di Burroughs, è alle prese con i suoi condensed novels poi raccolti in The Atrocity Exhibition (1970), tradotti in italiano soltanto nel 1990 proprio da Antonio Caronia con il titolo La mostra delle atrocità. A proposito di tale raccolta, sostiene lo studioso, «non c’è altro testo, forse, che sollevi temi analoghi e che possa stare al pari del libro di Burroughs quanto a intensità e lucidità della visione» (p. 87). Da una costola di questo libro di Ballard nasce il romanzo Crash (1975) che ha nella mutazione del corpo il suo nucleo fondamentale. In questo caso la mutazione viene indagata «attraverso una violenta e catastrofica variante del matrimonio tra corpo e tecnologia: la compenetrazione del corpo e della macchina nell’incidente automobilistico» (p. 87). In Ballard, dunque, interno ed esterno del corpo, corpo e mondo si compenetrano diventando «un luogo neutro e indistinto in cui si va registrando, con una scrittura crudele e impietosa, la fine della modernità» (p. 87)

nl_cronembergNel terzo intervento, “Il pasto nudo. Storia di un testo” [scritto per il saggio Naked Lunch messo in cantiere da Telemaco Edizioni nel 1992 ma mai pubblicato], Caronia ricostruisce brevemente la faticosa genesi del celebre romanzo di Burroughs a partire dalle difficoltà nel trovare un editore e, soprattutto, una diffusione in America a causa dei tanti problemi di censura.

La parte di Saccheggiare il Louvre che si occupa del rapporto di Burroughs con le arti mediali prende il via con il contributo di Vito Campanelli, Lieterary Cut-Ups. Le radici letterarie della cultura del remix”, in cui lo studioso intende verificare se la figura di Burroughs può essere collocata tra i fondatori di quello che oggi è divenuto un vero e proprio fenomeno di massa: la “cultura del remix”. Se è pur vero che ogni epoca ha fatto ricorso a frammenti di produzioni precedenti, è indubbio che mai come nell’età contemporanea si può parlare di cultura del remix come tratto distintivo. La diffusione di strumenti di post-produzione che permettono di campionare e sovrapporre fonti diverse, la moltiplicazione delle fonti a cui si può accedere ovunque ed in ogni istante e la tendenza a riversare in formato digitale quanto prodotto precedentemente dalla cultura analogica, sono alcuni dei motivi che permettono alla cultura del remix di caratterizzare la contemporaneità. Inoltre, le ingenti quantità di informazioni a disposizione richiedono memorie artificiale in grado di contenerle in maniera modulare, dunque immediatamente disponibili ad operazioni di remix.
Campanelli, che segnala come le radici della tecnica burroughsiana del cut-up possono essere individuate nelle sperimentazioni della poetica dadaista di inizio Novecento, sottolinea come ricorrendo al “gioco modulare” dei frammenti, Burroughs possa «andare oltre la definitività, quasi la sacralità, dei testi per aprire ad opere e visioni che non possono mai dirsi finite, concluse, appunto, definitive […] Anche i concetti di autorialità ed originalità sono messi fortemente in discussione attraverso i cut-up» (pp. 101-102). L’operazione burroughsiana contribuisce ad esplicitare come innovazione ed originalità non siano ormai più possibili.

Sono diversi anche i musicisti sperimentali contemporanei che hanno contribuito a diffondere la cultura del remix; si pensi alle pratiche di campionatura che rendono l’opera mai davvero conclusa in quanto chiunque può riprendere il lavoro e modificarlo ulteriormente. Proprio ai musicisti lo studioso concede un ruolo privilegiato nella diffusione di tale cultura perché più che alle fonti dell’avanguardia artistica è al mondo musicale che si deve la comprensione profonda del remix. Campanelli ricostruisce brevemente i punti salienti della storia del remix musicale a partire dalle pratiche dei DJ giamaicani che, a fine anni Sessanta, utilizzano basi ritmiche preregistrate per poi riarrangiarle. È in queste pratiche musicali che si devono ricercare le radici della cultura del remix e non nell’avanguardia dada primonovecentesca o nel cut-up burroughsiano. A suffragio di tale ipotesi nello scritto vengono riportate le riflessioni della studiosa statunitense Rosalind Krauss (L’originalità dell’avanguardia) che vede nelle avanguardie storiche il permanere del mito modernista dell’originalità; «l’originalità avanguardista è concepita come un’origine in senso proprio, un inizio a partire da niente. Un concetto questo che è incompatibile con la prospettiva del remix che si fonda proprio sul riutilizzo creativo del passato» (p.103). A differenze delle avanguardie storiche, la contemporaneità avrebbe una maggior consapevolezza di come il concetto di originalità sia ormai completamente andato in frantumi a causa dei processi di automazione nella produzione, riproduzione e distribuzione oltre che, a parere nostro, a causa di pratiche di esproprio, di appropriazione, votate ai commons, alla conquista ed alla condivisione di beni comuni in ostilità all’industria culturale ed al concetto di proprietà autoriale.

Se la rivoluzione del remix ha fatto saltare le rigide distinzioni tra autore e fruitore, tra emittente e ricevente, sostiene Campanelli, il mercato dell’arte ha reagito a ciò “commercializzando l’aura”; «Nell’attuale mercato dell’arte, infatti, ciò che si vende e si compra è l'”aura”, ovvero la possibilità di definire qualcosa come arte e in tale ottica, l’originalità dell’opera, la possibilità di attribuirne la paternità al genio solitario del presunto artista di turno, diventa l’aspetto nodale» (p. 104).
Secondo lo studioso «la cultura del remix rappresenta l’approdo finale di quel processo di sgretolamento di quel mito modernista dell’originalità che, sotto una serie di spinte concentriche (economiche, sociali, culturali e tecnologiche), giunge al pieno compimento con il diffondersi su scala planetaria dei media digitali» (p. 105).
I cut-up burroughsiani sembrerebbero un tentativo di sottrazione ai ruoli prescritti dalle principali istituzioni: famiglia, scuola, azienda, moda e comunicazione dei media. Attraverso operazioni di remix, come il cut-up, si possono sperimentare strade differenti da quelle tracciate ma, sottolinea Campanelli, «Il problema diventa, in ultima analisi, quello di capire quali condizioni devono verificarsi affinché le pratiche remixatorie attuali possano sottrarsi a quelle forme di creatività indotte dalla Rete, omologanti, massificanti al massimo grado, come nel caso delle memi, le idee-virus che si diffondono con enorme rapidità nel Web. In definitiva, quali sono le condizioni perché il remix possa accogliere l’eredità dei cut-up letterari divenendo una pratica per sottrarsi agli stampi prefabbricati dell’auto-identità?» (p. 106).

Bacon-Studies-Self-PortraitNel contributo The cut-up up the cut the up cut. Le rivoluzioni linguistiche e metodologiche di William S. Burroughs” di Linda Barone e Gerardo Guarino, gli autori si soffermano soprattutto sul rapporto tra Burroughs e la musica, mettendo in luce come una parte non irrilevante della scena musicale underground «in pieno stile cut-up, abbia tagliato frammenti del messaggio e dell’opera di Burroughs e se li sia cuciti addosso sotto forma di citazioni, tecniche del cut-up e fold in, dreamachine, ma soprattutto imparando il suo linguaggio, facendo propria la sua cultura, ergendosi spesso a parte attiva e spinta rinnovatrice diventando veicolo di un cambiamento con l’obiettivo di ricostruire il sistema sociale» (p. 108).

Il concetto di parola/lingua come strumento di controllo compare in molta della produzione burroughsiana e, secondo lo scrittore americano, se le droghe, il potere ed il sesso attivano un controllo sul corpo, la lingua esercita il suo controllo sulla mente ed è perciò necessario ricorre a tecniche come il cut-up al fine di sottrarsi a tale controllo. Gerardo Guarino, riprendendo le riflessioni di Matteo Boscarol (William Burroughs, Rock and Roll Virus. Conversazioni con: David Bowie, Patti Smith, Blondie, Devo) sottolinea come «le tematiche dell’eccesso, delle droghe, del viaggio psichedelico da una parte e quelle del controllo, dell’alienazione, della mutazione e dello spazio, dall’altro, come rifugio per l’essere umano, via di fuga dal controllo e dal condizionamento della pattumiera dell’establishment che reprime l’uomo sono topoi, luoghi, quartieri (boroughs in altre parole) centrali in certi ambienti musicali» (p. 122). Tra i musicisti che, nel corso degli anni Settanta ed Ottanta, sono stati influenzati, seppure in modo diverso, dalla cultura burroughsiana lo studioso cita: David Bowie, Patti Smith, Lou Reed, Mick Jagger, Bob Dylan, John Cage, Philip Glass, Laurie Anderson, Frank Zappa, Ian Curtis, Nick Cave, Kurt Cobain, Lydia Lunch, David Johanesen, Tom Waits… e gruppi come: Blondie, Devo, Cabaret Voltaire, Throbbing Gristle, Ramones, Sonic Youth, The Future…

Vincenzo Del Gaudio, nel suo “Il segno e il caso: William S. Burroughs tra scrittura e teatro”, affronta il processo che porta la parola scritta dal foglio alla voce trasformandola in suono declamato ed udito. La tecnica del cut-up in Burroughs, dopo aver frantumato e fatto esplodere la consequenzialità del discorso-potere, ha lo scopo di creare una nuova lingua e come prerequisito il principio della teatralizzazione della parola che «non è una semplice operazione di rappresentazione, ma ha come scopo principale rendere la lingua creata non una mera lingua rappresentabile, ma una lingua teatrabile, ovvero, da ultimo, una lingua declamabile» (pp. 128-129). La teatralizzazione in Burroughs richiede «un’attivazione sonora della lingua, attraverso un teatro della voce senza attore, attraverso una messa in presenza della lingua» (p. 129). Dunque, sostiene Del Gaudio, «La lingua di Burroughs è un corpo teatrale, un corpo teatro, una scrittura dove “non c’è più spettacolo possibile, ci sono soltanto lo scontro, la mischia con il mondo, le attrazioni e le repulsioni” [Jean-Luc Nancy, Corpo teatro]» (p. 129). La scrittura burroughsiana, per dirla con Roland Barthes (Variazioni sul tema), è una “scrittura ad alta voce”, legata al respiro, alla vita, che «biologizza la macchina di scrittura» (p. 130).

A partire da tali premesse, Del Gaudio passa ad analizzare lo spettacolo The Black Rider: The Casting of Magic Bullets, realizzato da Burroughs insieme al regista Robert Wilson ed al musicista Tom Waits, andato inscena per la prima volta ad Amburgo nel 1990. Tale spettacolo è descritto dallo studioso come «un’eroica messa in vita operativa della lingua che si fa suono e respiro e che diventa una lingua teatralizzata, un’oscena voce oscura che proviene dalla black box, una voce metallica filtrata da un megafono: “Ascoltate le mie ultime parole in qualsiasi luogo”» (p. 134).

crocif_bacon005Stefano Perna, in Mixes by Bill. Tape experiments, armi sonore”, si occupa invece del rapporto tra Burroughs e le tecnologie di registrazione, manipolazione e riproduzione del suono, viste dallo scrittore americano come strumenti dotatati di possibilità rivoluzionarie in termini conoscitivi e di decondizionamento mentale. Perna individua nel cut-up non solo un procedimento artistico ma anche la modalità di funzionamento del sistema media elettronico, dunque, secondo lo studioso, l’artista può, attraverso tale pratica, produrre «uno sfasamento “denarcotizzante, la riappropriazione critica di una routine già implicita nel funzionamento stesso dell’ecosistema mediale» (p. 138).

Le tecniche di sperimentazione di Burroughs e compagni variano dalla sovrincisione di suoni su registrazioni preesistenti (drop-in) ai rimaneggiamenti di una “frase sonora” al fine di sfruttare tutte le possibilità combinatorie, dalle manipolazioni dello scorrimento del nastro durante la fase di registrazione (inching) alla registrazione simultanea di fonti differenti provenienti da vari media ecc. Alcuni di questi procedimenti sono simili a quelli utilizzati da compositori come Karlheinz Stockhausen, Luciano Berio, Pierre Schaeffer e Pierre Henry ma, sostiene Perna, «sebbene le procedure e alcuni risultati possano sembrare per certi versi simili a quelli dei compositori, i presupposti da cui prendono le mosse gli esperimenti di Burroughs erano estremamente differenti. Mentre i compositori di area avanguardistica con le loro manipolazioni e decostruzioni tramite nastro erano alla ricerca di nuovi metodi per generare mondi sonori sconosciuti o inauditi, sui quali esercitare però un pieno e totale controllo espressivo, una sorta di ampliamento delle loro possibilità di azione e composizione della materia artistica, l’orizzonte di Burroughs era completamente diverso, semmai più vicino all’utilizzo delle tecnologie mediali fatto da John Cage» (pp. 139-140). Per Burroughs si tratta di ricavare zone/ritagli di tempo sottratti a quel “fluire normale” degli eventi attraverso cui viene esercitato il controllo: «frammenti di realtà depurati dalle manipolazioni che la macchina del controllo impone su tutti i discorsi e i contenuti prodotti e riprodotti dal linguaggio e dai media» (p. 140). I media sonori sono pertanto per Burroughs vere e proprie armi da utilizzare ed indirizzare al meglio, visto che lo stesso esercito americano non ha mancato di condurre ricerche sulle cosiddette sonic weapon, «armi che, producendo suoni nello spettro ultra- o infra-sonico, puntano a provocare effetti deflagranti e allo stesso tempo invisibili sulle persone, andando ad agire direttamente sui “ritmi” interni del corpo e della percezione» (p. 144).

Nell’intervento di Costantino Vassallo, “William S. Burroughs e i lineamenti di una pittura autografa”, viene presa in esame l’attività pittorica di Burroughs attuata ricorrendo alla pratica degli shotgun paintings. Se nel caso del cut-up la scrittura è trattata in forma plastica, come il materiale in pittura od in scultura, all’opposto, sostiene lo studioso, Burroughs sembra trattare la pittura come la scrittura: «i dipinti scrivono. Raccontano e predicono storie» (p. 151), afferma lo stesso Burroughs (The Third Mind). Lo scrittore americano sostiene che la pittura, a differenza della scrittura, può trasmettere serie di immagini e storie contemporaneamente, dunque «lo sparo per Burroughs permetterebbe il deliberasi di una precipua quanto particolare simultaneità narrativa in buona parte promossa per via automatica» (pp. 151-152).

Mario Trino, nel suo scritto Junker’s Movies. Il cinema infetto di William S. Burroughs”, analizza il rapporto tra lo scrittore americano e gli audiovisivi a partire delle esplorazioni della tecnica del cut-up in ambito audiovisivo da parte dello stesso Burroughs insieme a Brion Gysin, Ian Sommerville ed Anthony Balch. In The Cut Ups (1967), ad esempio, la durata dei fotogrammi viene calibrata, durante il montaggio, in modo che le immagini vengano percepite dallo spettatore senza che questi abbia il tempo di analizzarle in profondità. Se il cut-up nella scrittura permette di realizzare testi liberatori che rompono la linearità del testo, «espongono al pubblico la metodologia del controllo e la distruggono» (p. 158), in ambito audiovisivo le medesime tecniche «invece di liberare lo spettatore, ne impegnano le risorse cognitive con immagini intermittenti, che alimentano disturbi percettivi e fisici» (p. 158). Si intende così «rinegoziare la natura dell’esperienza mediale e i termini della costruzione e, quindi, della percezione del reale: esattamente come nelle opere letterarie, ma con processi e tecniche tipiche del cinema sperimentale, il loro obiettivo primario consiste nel mettere in discussione la “natura della realtà percepita”» (p. 160).

saccheggiate_louvre_Burroughs_coverSe c’è un cineasta influenzato da Burroughs, questo è David Cronemberg. Molte delle sue produzioni sono popolate da corpi mutanti e tecniche di controllo esercitate su di essi e sulla mente, si pensi a film come: Rabid (Rabid – Sete di Sangue, 1977), Videodrome (id., 1983), The Fly (La mosca, 1986), Scanners (id., 1981), The Dead Zone (La zona morta, 1983), Dead Ringers (Inseparabili, 1988). In Nake Lunch (Il pasto nudo, 1992), Cronemberg decide di «utilizzare il testo di partenza per creare una sorta di intertesto, un Naked Lunch che è nella stessa misura intessuto di sostanze burroughsiane, eppure le oltrepassa verso una dimensione audiovisiva autonoma in un processo acutamente definito “a dialectis intoxication”» (pp. 163-164). Il risultato è un nuovo Naked Lunch, in forma cinematografica, che può essere inteso come un’espansione dell’immaginario di Burroughs.

Oltre al regista canadese, Trino passa in rassegna anche alcune produzioni di Guns Van Sant che sicuramente derivano dall’immaginario burroughsiano, così come alcuni corti d’animazione e cartoon realizzati da Nick Donkin, Melodie McDaniel, Malcom McNeil, Gerrit van Dijk. Non mancano nemmeno opere audiovisive in cui Burroughs è coinvolto come attore-icona ed opere documentarie. Lo studio di Trino analizza, inoltre, la genesi di Blade Runner: A Movie (1979), opera realizzata da Burroughs ispirandosi al romanzo Bladerunner (1974) di Alan E. Nourse. Ad inizio anni Ottanta Ridley Scott è alle prese con una sua versione cinematografica del romanzo di Philip K. Dick Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) e decide di acquistare i diritti d’uso del titolo (non dei contenuti) delle opere di Nourse e di Burroughs per il suo film. Nonostante il lungometraggio di Scott derivi dal romanzo di Dick, sostiene Trino, sono evidenti i debiti del regista nei confronti dell’immaginario iconografico burroughsiano.

I contributi relativi a “Burroughs ed il politico” si aprono con lo scritto di Giso Amendola, “Saccheggiate la Banca centrale. Dal controllo al debito, senza tacer d’eccedenti mostruosità”, in cui lo studioso individua nell’opera burroughsiana una topografia del controllo. È lo stesso Gilles Deleuze ad associare il concetto di controllo allo scrittore americano: «Sono le società di controllo che stanno sostituendo le società disciplinari. “Controllo” è il nome che Burroughs propone per designare il nuovo mostro e che Foucault riconosce come il nostro prossimo avvenire» (p. 25). Amendola, dopo aver ricostruito il pensiero di Foucault in merito al superamento della società disciplinare ed all’avvento di quella di controllo, evidenzia come la produzione burroughsiana si leghi a tale nuovo tipo di potere: «La sua concezione del controllo non è iscrivibile nella lunga tradizione delle distopie, non c’è traccia di Grandi Fratelli, e nemmeno di panottici […] La società del controllo è un piano dinamico […] il controllo non si esercita sopra i soggetti, né li osserva: ma attraversa i soggetti stessi, li modifica e ne è costantemente modificato. In Burroughs, la concezione del controllo non passa affatto fuori dal soggetto: lo stesso tema della dipendenza sposta tutto sul campo della produzione di soggettività. La società del controllo taglia fuori qualsiasi culto ideologico del potere» (p. 28).

Il potere è dunque una relazione che attraversa e costituisce i soggetti e Deleuze spiega come l’uomo non sia più rinchiuso ma indebitato. «Il ruolo dell’indebitamento si comprende solo guardando ad una società il cui intero corpo sociale è diventato estesamente produttivo, in cui il welfare, i servizi, la vita stessa, tutta intera, delle persone diventano fonte di estrazione del valore» (p. 31). Secondo Foucault e Deleuze la resistenza non avviene (non può avvenire) a partire da “un fuori” (che non esiste); essa si produce all’interno della relazione di potere, trasformandola. Qualcosa di analogo, sostiene Amendola, avviene in Burroughs ed in lui il controllo è sempre anche una macchina di resistenza e per questo motivo intende portare la rottura dentro il linguaggio attuando pratiche di desoggettivazione e di fuoriuscita dal linguaggio al fine di cercare una via di fuga da esso. «La macchina non è più il mezzo di produzione a noi esterno, ma è intelligenza, sapere, linguaggio: è incorporata dentro di noi e dentro le forme della cooperazione sociale. Così il lavoro, potenza della liberazione umana e insieme origine della sua miseria – la croce dei Grundrisse – si dà ora finalmente come produttività sociale ampliata, dove la macchina è ormai incorporata nella vita di uomini e donne: una potenza diffusa che però continua a incontrare il comando della valorizzazione capitalistica, sempre più parassitaria e estrattiva» (p. 35). È dall’interno della cooperazione sociale che la resistenza può oltrepassare le identità imposte.

nl_cronemberg_008Claudia Landolfi, nel suo “Non potere più dire ‘sono questo’. L’Apocalisse in/di parole di William S. Burroughs”, inizia col collocare Burroughs tra coloro che Timothy S. Murphy (Up the Marks: The Amodern William Burroughs) etichetta come scrittori “amoderni” pur restando per certi versi anomalo anche all’interno di questa categoria. Landolfi individua in Burroughs una radicale critica al capitalismo ed al suo sistema di controllo attuata attraverso le sue sperimentazioni linguistiche con cui è alla ricerca di una linea di fuga dalla catena “capitale-soggettività-linguaggio”: «l’indagine sulle forme paranoiche del controllo capitalistico della società americana che trasforma le soggettività attraverso il linguaggio-virus che usa (e dunque controlla) il corpo umano è ben chiaro da Junky (La scimmia sulla schiena, 1953) a Naked Lunch» (p. 43). In generale, sostiene Landolfi, il limite politico delle opere di Burroughs è ravvisabile nel fatto che, pur ingaggiando una resistenza al controllo votata al cambiamento sociale, non sembrano andare oltre alla negazione dello status quo, mancano di prospettare nuove forme di organizzazione sociale.

Education is a virus from outer space: elementi di anatomia politica” di Alfredo Di Tore parte dalla constatazione di come l’opera burroughsiana mostri «in filigrana, come il filo rosso che lega linguaggio, corpo e mutazione sia oggetto di una deliberata confusione di piani e livelli, di una ibridazione mistificante. Più propriamente il legame tra linguaggio e corpo umano è il frutto dell’attività di quella che Giorgio Agamben definisce la macchina antropologica, un artificio che propone incessantemente una distinzione fittizia tra umano e non umano attraverso un processo arbitrario, ideologicamente orientato, di inclusione/esclusione. Secondo lo studioso in tutta l’attività di Burroughs è possibile rintracciare un tentativo, costante ed efficace, di smantellare la macchina antropologica» (pp. 50-51). Attribuendo al linguaggio la natura di virus, Burroughs dà corpo al linguaggio conferendogli una dimensione parassitaria. Il corpo funzionerebbe dunque come un decodificatore che reagisce al virus del linguaggio. Il rapporto identità/corpo/ambiente è, in Burroughs, un esercizio di potere che deve essere fatto saltare e l’ultima parte dell’intervento di Alfredo Di Tore analizza come la mutazione, in Burroughs, sembri offrirsi come possibilità.

locandina_saccheggiate_louvre_003Concludiamo questa lunga disamina di Saccheggiare il Louvre, con il contributo di Antonio Lucci, “Sciarada gattesca. Schizotecniche della scrittura in William Burroughs”, che prende il via da alcune riflessioni sulle “tecniche culturali” sviluppate dalle Kulturwissenschaften tedesche, in particolare dal filosofo viennese Thomas Macho e dallo studioso tedesco Friedrich A. Kittler. Lucci riprende gli studi di Macho a proposito della “divisione del soggetto” alla base delle “pratiche di solitudine”, tra cui ha un posto eminente la scrittura, mentre da Kittler recupera l’idea che «il soggetto è creato dal sistema di media che utilizza, nella misura in cui ne fa uso» (p. 64). A partire da tali linee guida, Lucci analizza l’opera burroughsiana evidenziandone la «funzione di raddoppiamento, quindi di sdoppiamento e di Spaltung, che assume la scrittura […] andando a vedere come a questa funzione di sdoppiamento scritturale faccia pendant una serie di contenuti narrativi opposta e parallela, vale a dire quella della moltiplicazione, proliferazione ed ibridazione dei soggetti della nella narrazione, che si pone come un affollato e brulicante “brodo primordiale” da cui escono, per poi ricadere nel calderone della scrittura libera e magmatica, figure allucinatorie, allunanti e allucinate, tipiche di una dimensionalità simbolica altra, atta a segnare i (non-) confini di un cosmo anumano» (p. 65).
L’analisi di Lucci si concentra su The Cat Inside (Il gatto in noi, 1986), opera tarda di Burroughs, in cui la funzione del doppio assume la massima evidenza. Secondo lo studioso le tecniche culturali della scrittura, la distruzione del soggetto-scrittore, della scissione della soggettività, costitutive della scrittura burroughsiana, sembrano, in questo testo, essere superate «grazie ad un equilibrio soggettivo ritrovato, attraverso una discreta, magica, sospesa, presenza della dimensione dell’alterità radicale, tanto estranea quanto vicina […]: quella dell’animale domestico, che dà a Burroughs il senso e la dimensione esistenziale e affettiva di una comunità tra i viventi non più vissuta con ferocia critica, ma con l’empatia della compassione» (p. 71).

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