Giovanni Rossi – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 26 Apr 2025 20:00:47 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il manicomio che non vuole morire https://www.carmillaonline.com/2016/11/05/il-manicomio-che-non-vuole-morire/ Sat, 05 Nov 2016 22:30:26 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34116 di Piero Cipriano

opgEhi, dico a voi, laggiù in Sicilia, voi di Barcellona Pozzo di Gotto, lo sentite questo lamento di animale morente?

E a Secondigliano? Vi arriva questo rantolo cupo che non si decide a esalare l’ultimo fiato?

E a voialtri, poco più su, ad Aversa, non vi risuona nelle orecchie un grido straziante, come quello di un dinosauro che deve accettare di uscire dalla storia?

E a voi di Montelupo Fiorentino? La puzza, questa puzza di cadavere che ancora non è cadavere, di piaghe da corpo morente in decubito che tra poco saranno piaghe di corpo morto, la sentite [...]]]> di Piero Cipriano

opgEhi, dico a voi, laggiù in Sicilia, voi di Barcellona Pozzo di Gotto, lo sentite questo lamento di animale morente?

E a Secondigliano? Vi arriva questo rantolo cupo che non si decide a esalare l’ultimo fiato?

E a voialtri, poco più su, ad Aversa, non vi risuona nelle orecchie un grido straziante, come quello di un dinosauro che deve accettare di uscire dalla storia?

E a voi di Montelupo Fiorentino? La puzza, questa puzza di cadavere che ancora non è cadavere, di piaghe da corpo morente in decubito che tra poco saranno piaghe di corpo morto, la sentite questa puzza, o siete ancora troppo lontani?

La sentono, forse, quelli di Reggio Emilia, che pure loro ci avevano un mostro bifronte, un cane cerbero con due teste, un tirannosauro che hanno appena seppellito.

Di sicuro il lamento, l’agonia, il lento, ansimante respiro, la bradicardia di un cuore in affanno, e l’olezzo di carogna noi che siamo andati a Castiglione delle Stiviere la settimana scorsa li sentivamo, hai voglia se li sentivamo. Ma noi ci avevamo il naso affilato e le orecchie addestrate, ma noi perché siamo i killer di questi animali fuori dal tempo, fuori dalla storia, fuori dalla civiltà.

Eravamo lì, nel paese del manicomio che non si decide a morire. Che non decide a farsi una ragione, che gli tocca morire. Perché si era fatta la nomea d’essere il manicomio perfetto, l’aveva fatto credere e infine ci aveva creduto pure lui. Tutti fanno schifo, si diceva in giro, al mercato, alla posta, al bar, ovunque c’è la merda, uno solo è pulito, ed è a Castiglione delle Stiviere il manicomio bello. Ora che gli altri manicomi dei criminali colti da follia, o dei folli diventati criminali, ora che gli altri si sono arresi alla loro pericolosità, alla loro perniciosità, a Castiglione delle Stiviere c’è l’ultimo manicomio rimasto. Il manicomio che si credeva eterno, il manicomio che non vuole morire. Eppure deve morire. Perché noialtri, che siamo i killer, noialtri che ci siamo scelti il difficile mestiere di boia di questi luoghi infami, vogliamo agevolarne l’estinzione. Somministrare la giusta eutanasia a un luogo fuori tempo massimo. Ma questa bestia, questo mostro bifronte, questo cerbero mezzo carcere mezzo ospedale ci tiene a sopravvivere, e si sta legando all’ultimo simbolo della sua storia, capace di tenerlo in vita. Si sta legando alle fasce. Le fasce, con cui gli homines sacri che trasgrediscono vengono legati, da Ulisse in poi, le fasce sono la sineddoche del manicomio. Le fasce sono il manicomio. È per questo che noi, che ci proclamiamo i killer dei manicomi, combattiamo le fasce, perché esse sono il manicomio, per mezzo delle fasce il manicomio morente si è perfino trasferito nell’ospedale civile, che non è per niente civile se là dentro ci sono le fasce che, fornite di volontà propria, come fantasmi, agiscono. Si avvolgono. Atterriscono. Atterrano gli uomini. Li allettano, nel senso che clinicizzano, costringendoli in posizione clinica, gli homines sacri, i trasgressori, quegli uomini furibondi, o meglio, forsennati, come scrive Antonin Artaud, li mettono al letto in posizione cadaverica, cadaveri, mummie legate, l’avresti mai detto possibile che in un ospedale civile, dove devi provare a guarire, ti mettono a fare il morto?, e ti inoculano flebo e iniezioni obtorto collo, per aver trasgredito: chi per aver bevuto troppo alcol, chi per aver inalato troppa cocaina, chi per essere uscito fuori solco, de lirium, si dice, o aver preso a udire le voci, o aver ingoiato troppa bile nera sì da diventare cupi al punto che bisogna farla finita col mondo e col tempo. A queste e altre decine di trasgressione dal pensiero e dal comportamento comune la risposta dell’ospedale, e dei dottori che lo dirigono, e degli infermieri che obbediscono ai dottori, è nelle fasce.

Ma ecco che questo dinosauro che si ciba di questi homines sacri avvoltolati nelle fasce è tempo che muoia, e che non dia più il cattivo esempio all’ospedale civile, e per accompagnarlo a morire noi del Forum Salute Mentale, noi di Stop OPG, noi tecnici democratici, noi di Slegalo subito, siamo andati lì, nel paese dell’ultimo manicomio, a parlare di lui, a parlare di loro, delle loro pratiche. Io ci sono andato per raccontare il perché ho scritto certi libri che ho chiamato riluttanti, e mi sono fatto sostenere in questo racconto dal cantante degli orrori, dalla voce e dal corpo che muove il Teatro degli orrori, quel genio partigiano di Pierpaolo Capovilla, che a un certo punto si è trasformato (ne è stato proprio posseduto, direi, l’ho visto, e lo posso giurare) in Antonin Artaud (colui che scriveva di questa eterna lotta tra l’uomo forsennato e gli altri uomini), e poi c’era con noi Giovanni Rossi, il genius loci, lo psichiatra che in quei territori ha sempre combattuto le fasce, ha aperto i reparti, ha inventato la radio di chi sente le voci, ebbene, è stato proprio lui a svelare, a un certo punto, il segreto di Pulcinella che il manicomio giudiziario che non intende morire preservava gelosamente.

Ricordate, voi che avete letto Il manicomio chimico? Avevo scritto che nell’OPG perfetto di Castiglione delle Stiviere c’è una donna, con un ritardo mentale grave a quanto pare, che da dieci anni è costantemente legata, di giorno in carrozzina e di notte al letto. Quanto è pericolosa questa donna?

Bene. Capita che siccome Franco Corleone (nome perfetto per un necroforo gentile che ha dichiarato: anche a costo di avere le peggiori REMS, chiuderemo gli OPG), il commissario designato per il superamento degli OPG, deve aver chiesto, a tutte le REMS (dunque pure alla mega REMS di Castiglione, che il giorno dopo la data stabilita dalla legge 81 di chiusura degli OPG furbamente cambiò targa e si chiamò REMS) di censire, contare, e comunicare i propri numeri a proposito delle persone che vengono legate, ecco i dati.

Dalla Gazzetta di Mantova del 3 ottobre 2016, un estratto della relazione di Corleone: «Su 26 Rems, 17 dichiarano che non si sono verificati episodi di contenzione all’interno della struttura». «Un discorso a parte va fatto sul sistema polimodulare Rems Provvisorie di Castiglione, il quale ospita un numero di persone pari a 162 (di cui 110 definitivi e 52 provvisori). All’interno della struttura vengono effettuate regolarmente delle contenzioni. Nel periodo che va dall’1 aprile 2015 al 31 marzo 2016, si registrano 918 episodi che interessano 59 pazienti». Nella relazione Corleone sottolinea che «si tratta di un numero di contenzioni molto alto, ma ricorda che 742 sono rivolte ad una sola donna».

Bene. Anzi male. Malissimo. Ecco che allora Giovanni Rossi, il genius loci, il combattivo psichiatra in pensione ha formulato il suo j’accuse: è falso che questo fosse l’OPG modello, se queste sono le contenzioni che si fanno, se una sola donna è stata legata in un anno 742 volte, questo è il peggiore OPG, o REMS, che dir si voglia. Balbetta una sterile difesa uno psichiatra dell’OPG-REMS: non ho seguito la cosa, negli ultimi tempi, fa, però so che negli ultimi mesi le contenzioni sono scese a cinque o sei al mese. Dunque stiamo migliorando, voleva dire.

Ah! Delle due l’una. O ciò è vero, e allora significa che le mille contenzioni che avete fatto l’anno prima, o negli anni precedenti, erano tutti abusi. E quindi facciamo bene, noi che le fasce vogliamo farle sparire dai luoghi di cura, a sostenere che la contenzione va abolita. Oppure ciò non è vero.

In entrambi i casi il manicomio, l’ultimo manicomio rimasto, deve morire.


gazzettaMa andiamo un poco indietro nel tempo, e proviamo a fare una rapida storia di questo istituto, per chi non sa come sono andate le cose e come stanno, adesso.

1978. La legge 180 chiude, ovvero abolisce i manicomi civili, quasi uno per provincia ce n’erano, quasi un centinaio, in Italia.

Il Codice Penale però non cambia, con la legge 180, e il doppio binario rimane, e una persona che compie un reato in presenza di un disturbo mentale non trova il dipartimento di salute mentale, ma neppure il carcere, perché gli tocca questo luogo ibrido, né carcere né ospedale, e però tutt’e due, il peggio di un manicomio e di un carcere insieme. Un posto in cui entri folle e ne esci morto.
Perché? Perché il giudice affida a uno psichiatra (dica il perito…) la decisione: è folle?, allora è incapace di intendere di volere, può ripetere il reato essendo folle?, allora è socialmente pericoloso. E dunque niente processo, che il folle reo non è in grado di comprendere, e niente possibilità di difendersi, e niente condanna (magari era uno schiaffo il reato, e la condanna sarebbe stata poca cosa, una bagattella), ma solo internamento, in OPG. Però questa cosa si trasformava in un ergastolo, la pericolosità sociale veniva ribadita, di controllo in controllo, sovente per paura, talvolta per infingardia (valeva più che mai il motto di Basaglia: quando il malato mentale è internato il medico mentale si sente libero, quando il malato mentale è libero è il medico mentale a sentirsi internato, ovvero a sentirsi in pericolo, in pericolo di essere condannato; dunque per scongiurare il pericolo per sé, il medico mentale conferma la pericolosità sociale al malato, che resta internato, sine die, ergastolo bianco lo si chiama, un ergastolo anche quando il reato è minimo, giacché solo pochi sono i reati efferati, per la verità).

Così siamo andati avanti per quasi trent’anni, dopo la legge 180 del 1978, con questi manicomi giudiziari, gli ex manicomi criminali, il primo dei quali fu istituito ad Aversa, nel 1876, molto prima della legge 36 del 1904 che regolava i manicomi civili.

Negli anni 2000 alcune sentenze della Corte Costituzionale (253/2003, 367/2004) stabiliscono che è più importante la cura della custodia, e dunque il ricovero in OPG costituisce una disuguaglianza di trattamento rispetto a ciò che prevede la 180: il trattamento territoriale. Ecco, con queste sentenze il Codice Penale avrebbe potuto essere eroso, eppure (la solita infingardia, il solito timore) furono poco utilizzate.

Nel 2008 il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 1 aprile stabilisce il trasferimento delle competenze per gli OPG dalla sanità penitenziaria al Servizio Sanitario Nazionale.

Sempre nel 2008 il Consiglio d’Europa, in seguito a una visita effettuata nell’OPG di Aversa, denuncia le condizioni di degrado di questo istituto. Ciò dà il destro al Senato per istituire una Commissione parlamentare d’inchiesta per valutare l’efficienza del Sistema sanitario nazionale, la presiedeva Ignazio Marino. Marino dà luogo a ispezioni a sorpresa presso i sei OPG, evidenziando, nella maggior parte di loro, tali fatiscenze e orrori, da far pronunciare all’allora presidente Napolitano la più volte ripetuta (non bellissima) frase: «Istituti indegni di un paese appena civile» (bastava dire istituti indegni, senza aggiungere nient’altro, no?). Sempre da allora si cominciò a ripetere questa cosa: che la maggior parte erano reati bagatellari, che si trasformavano in ergastoli bianchi.

A quel punto, 2011, in seguito a un convegno del Forum Salute Mentale tenutosi ad Aversa proprio, nasce Stop Opg, sotto il cui impulso, lentamente (ma nemmeno tanto) scaturiscono delle leggi (legge 9/2012, legge 52/2013), che di volta in volta propongono una data per la chiusura degli OPG, che poi viene prorogata. Finché la legge 81, del 2014, stabilisce che gli OPG, inderogabilmente, chiudano il 31 marzo del 2015.

É lì che, scaltramente, l’OPG che si riteneva modello (neppure Marino gli mosse critica alcuna, pure il videomaker che fece il video sostenne che era un luogo bello), Castiglione delle Stiviere, si giocò l’ultima carta per non morire. Il giorno dopo, 1 aprile 2015, cambiò targa, et voilà, ora mi chiamo REMS. Altro che gattopardo.

La legge 81 non risolve il problema, si disse. A che ci serve trasformare il grande OPG nella piccola Residenza per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza (REMS)? Fare un travaso, una transumanza di internati dal grande al piccolo contenitore? Confermare, ancora una volta, l’eterogenesi dei fini che sempre caratterizza il mondo della psichiatria? (1793, Philip Pinel separa il manicomio dal carcere, vuol dare dignità di malato al folle, e però lo trasferisce in una prigione camuffata da ospedale; 1978, Franco Basaglia distrugge il manicomio dopo due secoli, e però la manicomialità che non vuole morire si trasferisce altrove, in luoghi più piccoli: SPDC, case di cura, comunità, posti dove si lega e si seda e si chiude): adesso, transumare gli internati dall’OPG alla REMS? Può darsi. Il rischio è consistente. Però un paio di cose buone questa legge le ha: stabilisce che la durata della misura di sicurezza non possa superare il massimo della pena edittale, per esempio, per cui non più proroghe sine die, non più ergastoli bianchi. E impedisce i ricoveri in REMS, in attesa di accertamenti diagnostici, così che le REMS non diverranno, come gli OPG, il bidone di scarico dei Dipartimenti di Salute Mentale per i loro indesiderati.

Ciò in attesa di svecchiare questo Codice Penale, figlio del fascista Codice Rocco, eliminando gli articoli 88 e 89, che consentono di stabilire la incapacità di intendere e di volere. Ma chi, davvero è incapace di intendere e di volere? Ci avete mai parlato coi 1400 internato degli OPG (tanti erano fino al 2011), o con gli attuali 600 rimasti nelle REMS? Vi sembrano dei vegetali, forse? Suvvia.

Ecco, questa, per sommi capi, è la storia. Questi dinosauri stanno crepando, uno dopo l’altro, prima l’ha fatto Secondigliano, a Napoli, poi Reggio Emilia, e dopo Aversa, a Montelupo Fiorentino rimangono 15 persone internate, e 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, quindi sono alla fine, solo Castiglione, dicevo, tiene duro, con la sua maxi REMS che trappola ancora circa 160 persone.

Ma creperà, ah se creperà.

 


[Il pezzo di Piero Cipriano si riferisce al convengo tenutosi a Castiglione delle Stiviere il 14-15 ottobre 2016 nell’ambito della Campagna nazionale per l’abolizione della contenzioneght]

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La Colonia Cecilia: una comune di anarchici italiani in Brasile https://www.carmillaonline.com/2015/06/13/la-colonia-cecilia-una-comune-di-anarchici-italiani-in-brasile/ Fri, 12 Jun 2015 22:01:48 +0000 http://www.carmillaonline.com/?p=23367 di Simone Scaffidi L.

la-cecilia-jean-louis-comolliAfonso Schmidt, Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento, Edizioni dell’Asino, 2015, pp. 162, € 12.00

Le storie si sa, passano di bocca in bocca: alcune si perdono, altre vanno a costituire la cosiddetta Storia Ufficiale e altre ancora restano in un magnifico limbo tra leggenda e realtà, terreno fertile per evasioni letterarie di ogni sorta. È quest’ultimo il caso dell’avventura narrata da Afonso Schmidt, che ha per protagonisti un gruppo di anarchici e anarchiche italiane, i quali e le quali, spronati [...]]]> di Simone Scaffidi L.

la-cecilia-jean-louis-comolliAfonso Schmidt, Colonia Cecilia. Una comune di giovani anarchici italiani nel Brasile di fine Ottocento, Edizioni dell’Asino, 2015, pp. 162, € 12.00

Le storie si sa, passano di bocca in bocca: alcune si perdono, altre vanno a costituire la cosiddetta Storia Ufficiale e altre ancora restano in un magnifico limbo tra leggenda e realtà, terreno fertile per evasioni letterarie di ogni sorta. È quest’ultimo il caso dell’avventura narrata da Afonso Schmidt, che ha per protagonisti un gruppo di anarchici e anarchiche italiane, i quali e le quali, spronati dall’agronomo pisano Giovanni Rossi, decidono di emigrare nelle regioni del Paraná, in Brasile, per creare, tra il 1890 e il 1894, una comune libertaria fondata sulla parità di genere, l’abolizione della proprietà privata e il libero amore. Comunità che arrivò ad accogliere fino a duecentocinquanta persone.

Lo scopo di Schmidt, giornalista e militante anarchico, è mantenere viva la memoria di quest’esperienza migrante e rivoluzionaria attraverso un racconto che, a causa della difficoltà di reperimento della documentazione, prende la forma dichiarata del romanzo – Colonia Cecilia è dunque un’opera d’invenzione ispirata al reale e un tentativo sincero di raccontare l’utopia che diventa pratica quotidiana. L’obiettivo è raggiunto, ma se è vero che il ricordo della Cecilia rimarrà vivo nel tempo grazie al lavoro di Schmidt, è altresì vero che l’opera si spingerà, negli anni a venire, oltre le stesse intenzioni dell’autore, contribuendo di fatto a consolidare la confusione tra realtà e leggenda che vige tutt’oggi intorno a questo esperimento libertario.

CADERNO-G-making-of-colonia-ceciliaTra le informazioni storiograficamente mai accertate che Schmidt recuperò sulla Colonia Cecilia e che segnano dal principio alla fine questo romanzo, una è eclatante e letteralmente fondativa. L’autore brasiliano inizia infatti il suo racconto narrando l’incontro tra Giovanni Rossi detto Cardias e l’Imperatore del Brasile Don Pedro II, la cui figura viene descritta con entusiasmo e ammirazione. Secondo Schmidt l’anarchico toscano e il monarca, incrociatisi a Milano, avrebbero discusso la volontà di Cardias di fondare una comune socialista in Brasile. L’Imperatore mecenate Don Pedro II non solo avrebbe concesso il suo beneplacito a Cardias, ma gli avrebbe offerto anche a titolo gratuito le terre su cui fondare la Colonia.

È da queste premesse che si sviluppa la storia: i pionieri s’imbarcano nel porto di Genova il 20 febbraio 1890 – data accertata dagli archivi e riportata correttamente da Schmidt –, approdano alle coste brasiliane e raggiungono le campagne di Palmeira, paese non lontano da Curitiba, a capitale della regione. Intorno a Palmeira – ci informa l’autore – esistono già esperimenti di colonie improntate all’autogestione delle terre e al comunitarismo, tra cui spicca «l’istituzione rurale denominata “mir”», introdotta in Brasile da migranti russo tedeschi. I confronti tra la Colonia Cecilia e il “mir” ritornano frequenti nel testo, tanto che il Delegato di Pubblica Sicurezza della città di Palmeira a colloquio con Cardias lo ammonirà con queste parole: «Perché non cercate di fare come i russo-tedeschi, quelli del “mir”? Quella gente nei confronti del governo è sempre a posto».

La parte più interessante del romanzo affonda però le sue radici in uno dei temi più cari e dibattuti dall’anarchico Giovanni Rossi: l’Amore. Rielaborando il testo scritto da Rossi intorno al 1893 e intitolato Un episodio d’amore alla colonia Cecilia, Schmidt mette in scena un vero e proprio processo senza leggi all’interno della comunità, che ha per protagonisti Cardias (Giovanni Rossi) e la coppia formata da Elena e Annibale. I tre incarnano appieno le contraddizioni che attraversano la Colonia, tesa tra la volontà di creare una società nuova di liberi ed eguali e i retaggi di una cultura patriarcale fondata sulla proprietà privata, anche degli affetti. Quando Elena capirà di essere innamorata sia di Cardias che di Annibale i due uomini non potranno fare altro che prendere atto della sua volontà ma di fatto non riusciranno a condividere e metabolizzare come vorrebbero quest’esperienza. La comunità capisce così di non poter fare tabula rasa da un giorno all’altro della propria millenaria cultura e prende consapevolezza che la lotta deve essere quotidiana: contro il sistema di dominio capitalista, contro la colonizzazione del proprio immaginario e soprattutto sul terreno delle proprie contraddizioni individuali.

cecilia-cover-fronte-754x1024Il libro di Schmidt uscì in Brasile nel 1942 ed è apparso in italiano per la prima volta nel 1958. Alle Edizioni dell’Asino si dà oggi il merito della riproposizione di quest’opera, che – al di là del suo valore storiografico – contribuisce a stimolare la memoria di un affascinante esperimento migrante e rivoluzionario come la Colonia Cecilia. Una nota storica al testo avrebbe probabilmente dato un valore aggiunto alla pubblicazione; ma forse questa interessante ciurma di Asini è voluta restare di buon grado nel campo della letteratura, consapevole dell’importanza delle storie con la s minuscola, micce incandescenti capaci di innescare curiosità e approfondimenti personali.

[Per approfondimenti sull’esperienza della Colonia Cecilia e il tramandarsi della sua storia si consiglia anche la lettura dei lavori di ricerca di Isabelle Felici. Qui un assaggio].

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