Giovanna Melandri – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Sat, 22 Feb 2025 21:00:49 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Non ho visto niente https://www.carmillaonline.com/2017/05/19/non-visto-niente/ Thu, 18 May 2017 22:10:36 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=38329 di Alexik

Non ho visto nienteAngela Giordano, Non ho visto niente. Sul come essere No Tav comporti perdere il lavoro, Sensibili alle Foglie, 2017, p. 95.

A giudicare dal suo sito web e dagli articoli entusiasti della Stampa, la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino deve essere proprio un gran bel posto dove stare: impianti sportivi, occasioni di lavoro, sale mense progettate da “interior designers”, cene con chefs stellati …. Verrebbe quasi voglia di farsi arrestare apposta per poterne vivere l’esperienza !

Prima di [...]]]> di Alexik

Non ho visto nienteAngela Giordano, Non ho visto niente. Sul come essere No Tav comporti perdere il lavoro, Sensibili alle Foglie, 2017, p. 95.

A giudicare dal suo sito web e dagli articoli entusiasti della Stampa, la casa circondariale ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino deve essere proprio un gran bel posto dove stare: impianti sportivi, occasioni di lavoro, sale mense progettate da “interior designers”, cene con chefs stellati ….
Verrebbe quasi voglia di farsi arrestare apposta per poterne vivere l’esperienza !

Prima di compiere l’apposito reato ritengo però opportuno ascoltare  la testimonianza diretta di chi ha avuto, a vario titolo, l’occasione di entrarci, per misurare se non vi sia una certa distanza fra l’immagine e la realtà.

Angela Giordano per quattro anni, fino al settembre 2015, ha attraversato quei cancelli in qualità di educatrice a partita IVA in ‘sub-convenzione’ – in convenzione, cioè  con una realtà associativa a sua volta convenzionata con l’amministrazione penitenziaria.
Angela lavorava nel ‘Blocco E’, all’interno della sezione a custodia attenuata ‘Arcobaleno’, dove il Dipartimento Dipendenze della ASL torinese gestisce un programma terapeutico rivolto a detenuti con dipendenza da sostanze stupefacenti, alcol e gioco d’azzardo.
Un settore che ha una funzione delicata, a cui la Direzione carceraria  – come recita il sito istituzionale del ‘Lorusso e Cutugno’ – ha dedicato a suo tempo del personale ad hoc, accuratamente scelto fra gli agenti di Polizia Penitenziaria “particolarmente sensibili al progetto e disposti a lavorare in equipe, cercando di creare un clima favorevole al percorso terapeutico del detenuto”. Sentiamo come viene descritto da Angela questo ‘clima’:

“sventola un foglio (la sua busta paga) davanti allo sguardo attonito e disgustato di dieci detenuti … “Duemilacinquecento euro per guardare quattro prigionieri del cazzo! Niente male!” … Ma non è niente in confronto alla frase che gli sento gridare mentre esce dalla stanza, non prima di aver urtato la mia spalla: “10,100,1000 Cucchi!” … Lo stesso, la mattina della vigilia di Natale 2014, era riuscito a suggerire, urlando perché tutti lo sentissero, che il regalo giusto per i detenuti lì presenti era “più corde e sgabelli per tutti”.

Che spessore umano e quanta professionalità! Che sia il frutto della speciale formazione ricevuta?

campo calcio valletteRacconta Angela:
un giovedì dell’estate 2015 ero al campo di calcio del Blocco E a organizzare il pomeriggio di gare d’atletica, che proprio in quel campo, con modalità sempre uguali, venivano svolte da almeno 10 anni…. Era stato necessario un gran lavoro burocratico per mettere insieme le autorizzazioni necessarie…
Eravamo autorizzati a restare in campo fino alle 18.00, e tutto si stava svolgendo nel migliore dei modi possibili, fino a quando non avvenne il cambio turno fra gli agenti….
Già dal lento passo e dallo sguardo torvo, avevo capito che T. quel giorno era di cattivo umore, e non aveva nessuna voglia di rimanere sotto il sole ad osservare quei prigionieri che si divertivano… Improvvisamente era sparita la ‘domandina’ con l’autorizzazione a stare in campo fino alle 18.00 …
T. chiamò altri due agenti, perché il tentativo di un volontario di trovare una mediazione che rendesse possibile l’attività era diventata una ‘istigazione’, e i detenuti che chiedevano di poter terminare la gara ‘si opponevano agli ordini di tornare in sezione’.
Nell’incredulità più totale di chi assisteva a quell’assurda distorsione della realtà, T. avvisò anche la sorveglianza del muro di cinta…
L’attività era saltata
.”

L’episodio dà il senso di come ogni aspetto della vita dei detenuti, anche il più semplice, sia quotidianamente appeso a un filo di arbitrarietà, che quando viene minimamente contrastata diventa immediatamente minaccia.
Possono essere appese a un filo le decorazioni per i bambini nelle sale colloqui, rimosse perché se no i figli dei detenuti le rompono, o le domande dei permessi premio, che rischiano misteriosamente di perdersi, o il rispetto della dignità dei familiari in visita, e in particolare delle donne.

Angela non trova in tutto ciò nulla che assomigli al concetto di ‘rieducazione del condannato‘, scolpito nella nostra Costituzione all’art. 27. Ma tutto sta ad intendersi su quale ‘rieducazione’ si voglia.
L’onnipotenza delle divise, la precarietà di ogni aspetto della vita, la distruzione dei diritti, la disponibilità a farsi umiliare chinando la testa, sono principi basilari non solo del carcere, ma della società nella quale i prigionieri dovranno reinserirsi al momento del fine pena.
Il carcere li allena, ne verifica l’idoneità ad affrontare ciò che, in versione un po’ più soft, troveranno anche fuori.

Vale anche per il lavoro.
E’ interessante, a proposito il racconto di Angela sulla cena organizzata nel ‘Padiglione E’ per festeggiare l’anniversario della nascita di ‘Pausa Caffè’, la cooperativa che gestisce la torrefazione del carcere. Pausa Caffè è una coop che ha come obiettivo quello di dare nuova dignità alla vita in carcere, offrendo opportunità di lavoro per i detenuti, aiutandoli a sviluppare importanti competenze produttive e dando vita a imprese sociali di altissimo livello”.
Angela ricorda “una cena in grande, con molti invitati, un catering esterno  e la presenza di un cuoco stellato, con cui alcuni nostri detenuti addetti alla cucina ‘avrebbero avuto l’onore di lavorare’”. Un onore a cui difficilmente, anche volendo, avrebbero potuto sottrarsi.

Ma che bello ! Cene in grande ! Cuochi stellati ! Musica dal vivo !
Sento già risuonare nelle orecchie il berciare del populismo forcaiolo da talk show: “Altro che carcere ! Guarda che albergo a 5 stelle, dove i criminali mangiano manicaretti cucinati dagli chefs ! Alla faccia della della gente onesta che li mantiene!!!

10 anni di pausa caffèIn realtà le cocotte al tartufo e il brasato di fassona non erano destinati ai detenuti, ma ad avventori esterni dal portafogli pieno (prezzo della cena 100 euro a testa, da devolvere ai progetti della cooperativa), alla ricerca di esperienze eccentriche.
Ai prigionieri era riservato il ruolo di camerieri e sottocuochi, e dovevano esserne anche ‘paghi’…. perché altra paga non c’era !
Angela ricorda come “alle nostre richieste che venissero perlomeno remunerate regolarmente le persone che quella sera avrebbero prestato il loro servizio – ci era stato risposto che “i detenuti avrebbero dovuto essere già contenti di poter partecipare a tale evento, e di poter usufruire della formazione che gli addetti al catering avrebbero fatto loro”.
Dovevano essere ‘già contenti’ di poter toccare con mano l’abissale differenza fra il cibo per i ricchi e il vitto carcerario a loro riservato, e di servire alle tavole dei clienti eleganti litri di vino di ottima qualità, di norma severamente vietato in un padiglione per il recupero degli alcolisti (nello stesso stile, potrei suggerire un utile tirocinio come croupiers per i detenuti affetti da ludopatia).

L’esperienza era molto educativa anche dal punto di vista della sempre invocata legalità.
La legge 354/75 sull’ordinamento penitenziario prevede infatti, all’art. 22:
Le mercedi per ciascuna categoria di lavoranti sono equitativamente stabilite in relazione alla quantità e qualità del lavoro effettivamente prestato, alla organizzazione e al tipo del lavoro del detenuto in misura non inferiore ai due terzi del trattamento economico previsto dai contratti collettivi di lavoro”.
È bello vedere come anche questa norma, già di per se discriminatoria, possa essere tranquillamente ignorata in nome della “nuova dignità della vita in carcere”,  ed è bello vedere come questo genere di formazione sia veramente propedeutica ad un reintegro nella vita civile. La vita civile ai tempi del Job Act, dove il lavoro e un privilegio e il salario è un favore.

Soffermiamoci sull’argomento ‘cibo’. Il rancio del ‘Blocco E’ non viene, normalmente, cucinato da Nicola Batavia o Cristina Bowerman, né sponsorizzato da Eataly.
Dice Angela, tranchant, che “il digiuno spesso diventa preferibile”.
Consultando il “Referto sulla gestione dei contratti pubblici segretati o caratterizzati da particolari misure di sicurezza”, redatto dalla Corte dei Conti, se ne capisce anche il perché: l’accordo quadro per l’affidamento del servizio somministrazione pasti dell’Istituto penitenziario di Torino prevede una spesa giornaliera di € 3,585 per il vitto di ogni detenuto, dalla colazione alla cena, il che ti lascia immaginare la quantità e qualità delle forniture.
Nella sezione ‘Arcobaleno’ il rancio carcerario è ineluttabile.
Non è prevista infatti la possibilità di cucinare in cella, a differenza delle sezioni ordinarie dove si può acquistare, a caro prezzo, il sopravvitto. Un prezzo oggetto di proteste, come quella dell’agosto 2014, quando quaranta detenuti del “Lorusso- Cutugno” si rifiutarono di rientrare in cella al momento del pasto, cominciando la battitura di posate e stoviglie contro le inferriate. Poi incendiarono giornali e cartoni.

LiberamensaComunque, il sopravvitto non è un problema dei reclusi della sezione ‘Arcobaleno’, che tanto non possono cucinare.
Chissà se vanno tutti i giorni a mangiare al ristorante di Liberamensa/Cibi per menti libere ?
Angela non può conoscerlo. L’hanno buttata fuori nel settembre 2015 mentre il ristorante è stato inaugurato all’interno del carcere più di un anno dopo, grazie al significativo apporto finanziario fornito dalla Compagnia di San Paolo.
È veramente carino !!! E’ il fiore all’occhiello del ‘Lorusso e Cutugno’, indicato da La Stampa come esempio virtuoso di integrazione possibile.
Architetti di valore ne hanno curato il design, e un sito web ne decanta le qualità gastronomiche e sociali, visto che, assieme al panificio e alla torrefazione, dà lavoro ai detenuti.
Ma… a quanti ?
Il rapporto di Antigone sulla casa circondariale, datato 13 aprile 2017, recita:
Le lavorazioni all’interno dell’istituto hanno una bassa incidenza per quanto riguarda il numero di persone detenute coinvolte (inferiore alle 10 in totale)”… che sui 1357 detenuti presenti a quella data è una percentuale non da poco (0,73%)!

Il rapporto di Antigone dice anche che non esistono sale mensa comuni per i detenuti.
E allora Liberamensa, tolta la clientela esterna del venerdì e sabato, è la mensa di chi ?
L’esercizio, destinato tra l’altro alla pausa pranzo dei vari operatori penitenziari che lavorano all’interno della suindicata struttura…”, recita il sito della casa circondariale.
Insomma, è la mensa del personale penitenziario, non dei reclusi.
I soldi degli sponsor e gli architetti di grido non sono serviti a ristrutturare gli spazi destinati ai detenuti ma agli agenti, perché evidentemente quelli per i prigionieri non ne hanno un maggior bisogno. Non necessitano, anzi,  di nessuna ristrutturazione che ne garantisca se non il design e la bellezza, almeno l’igienicità e la decenza.

lorusso e cotugno - cellaRecenti sopralluoghi dei radicali e di SEL presso il “Lorusso e Cutugno” hanno verificato nei reparti sanitari del Sestante (una delle più grandi strutture per la salute mentale in carcere a livello nazionale) e del Centro Diagnostico Terapeutico condizioni di fatiscenza, con ascensori rotti (tutti gli ascensori del blocco A, che ospita il CDT), perdite dai tubi, infiltrazioni d’acqua dentro i muri, cascate nei cavedi, bagni e turche senza porte, con relativa diffusione di tanfo…. ma la priorità è la ristrutturazione della mensa degli agenti di custodia e l’apertura al pubblico di un ristorante.
Forse perché non produce solo alta cucina, ma anche tanta tanta immagine, molto più rassicurante rispetto a quella trasmessa dai 121 casi di autolesionismo attuati dai detenuti nel 2016.
Cercandole da altre parti, dal ‘Lorusso e Cutugno’ affiorano realtà decisamente meno televisive. Come quella registrata da un rapporto del Garante dei detenuti, relativa alle condizioni di un recluso del reparto di Osservazione psichiatrica:
Le condizioni igieniche della stanza sono apparse scadenti e scarse di corredo. Il letto è allestito esclusivamente con una coperta, senza lenzuolo, perché, come riferito dagli agenti del reparto, trattandosi di persona ad alto livello di sorveglianza viene applicata la cosiddetta “rimozione”, cioè la privazione di tutto quello che può essere usato per farsi del male.”

Ma torniamo per un attimo all’argomento lavoro.
Il Rapporto di Antigone segnala che al ‘Lorusso e Cutugno’ 60 detenuti sono inseriti in percorsi lavorativi all’esterno, grazie a protocolli d’intesa  fra l’Amministrazione penitenziaria e gli enti locali. “Il Comune di Torino inserisce 30 persone all’AMIAT (l’azienda di raccolta e trattamento rifiuti). Si nota come queste mansioni non tengano conto di un eventuale sbocco professionale futuro (il lavoratore, concluso il semestre di lavoro – per i più fortunati 18 mesi – non viene stabilizzato in azienda) e garantiscano stipendi molto bassi (intorno ai 130 Eu mensili tramite voucher, che ora si trasformeranno in 400 euro mensili)”.

No, non 400. Trecento per la precisione, gli euro mensili, per i sei detenuti impiegati dal 31 gennaio nel parco della Mandria e per il Comune di Druento.
Trecento gli euro mensili per trenta ore settimanali di lavoro e ‘volontariato’ nella manutenzione del parco, rimozione della neve, accudimento scuderie, pulizia dei fossi, lavori di tinteggiatura e muratura.

detenutimandriaOra, uscire da quelle mura è fondamentale.
Fondamentale riconquistare i colori uccisi dal grigio della prigione, riconquistare l’aria, un pasto normale, una birra bevuta nel bicchiere di vetro, il rapporto solidale con i lavoratori dell’AMIAT. Lontano da quelle celle soffocanti, dall’arbitrio e dall’arroganza dei guardiani.
Ma tutta l’operazione ha anche aspetti meno nobili, visto che abbassa i salari della manutenzione parchi dai livelli contrattuali di un operaio AMIAT a quelli di un bracciante di Villa Literno.
E’ questa la rieducazione alla dignità del lavoro ? E dov’è la dignità del salario ?

Recentemente, c’è anche chi ha pensato di costruire degli strumenti finanziari basati su progetti di reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute.
E’ il caso dei ‘Social Impact Bonds’, strumenti Pay by Results (PbR) progettati proprio a misura del ‘Lorusso e Cutugno’ dalla Human Fundation (la fondazione presieduta da Giovanna Melandri), dalla Fondazione Sviluppo e Crescita Crt, dal Politecnico di Milano, dall’Università di Perugia e dalla multinazionale KPMG. La filosofia che sottende il progetto è la seguente:

Un possibile strumento finanziario aggiuntivo è rappresentato dai PbR, attraverso i quali gli investitori privati forniscono il capitale iniziale per la gestione di progetti sociali di natura innovativa a fronte dell’impegno, da parte delle Amministrazioni Pubbliche titolari istituzionali di quei progetti, di elargire, come remunerazione sul capitale investito, i risparmi generati per le casse pubbliche dal successo dei progetti stessi“.

Personalmente mi sembra una follia, ma in questo mondo sempre più folle non ci si deve stupire più di niente.

Angela è già al riparo da tutto questo. Lei è già fuori, estromessa dal suo lavoro.
Le partite IVA, anche quando da anni lavorano 40 ore settimanali per lo stesso committente, non godono di tutele o di preavviso. E poi ormai non ne godono nemmeno più i dipendenti.
La sua convenzione è stata chiusa perché ha abbracciato una sua amica in presidio davanti al carcere, perché è andata alle manifestazioni No Tav, perché ha messo le magliette sbagliate.
Perché è colpevole di abbraccio e di avere delle idee, ma anche perché non è mai riuscita a star zitta di fronte a quello che vedeva oltre i cancelli.
Peggio: insisteva, formalizzava, scriveva (e continua a scrivere). Comportamenti invisi a tutte le catene di comando, che a fronte della parola scritta non possono più fingere di non sapere.

 

 

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Divine Divane Visioni (Cinema porno) – 76 https://www.carmillaonline.com/2016/12/15/divine-divane-visioni-cinema-porno-76/ Thu, 15 Dec 2016 21:00:29 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=34800 di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979 Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: [...]]]> di Dziga Cacace

Fuck the game if it ain’t sayin’ nuttin’

ddv7601876 – Librianna, Bitch of the Black Sea di anonimo cane, USA 1979
Librianna è un bidone, ma non solo il film, pure la giunonica eponima protagonista, una sorta di santona del sesso che predica a colpi di bacino la controrivoluzione in URSS. Sinceramente non ricordo come ho fatto a imbattermi in questa roba mostruosa ma una volta saputo che esisteva un fake che pretendeva di essere il primo e unico porno dell’era sovietica non ho saputo resistere: ho sbrigliato la mia fibra ottica e, voilà, eccovi il resoconto di quanto ho visto. Purtroppo.
Che si tratti di un’epocale fetecchia è evidente dopo pochi secondi di visione: si parte con il monumento a Lenin e il picchetto d’onore sulla piazza Rossa. Poi scene della ridente Mosca brezneviana, grigia e piovosa. Stacco e c’è una bella bruna che ansima a gambe larghe e un bel tomo le zompa addosso e con voce off si rivolge a noi malcapitati spettatori: “Vi chiederete come mai mi trovi in un posto come questo… Mosca intendo”. Capisco che si arriverà a vette sublimi. Ma come siamo giunti a questo punto? Dunque: Scott è un giornalista di Seattle minacciato di licenziamento; gli fanno vedere un filmino hard e veniamo a sapere che in URSS sta proliferando la pornografia underground con funzione dissidente e la leader è tale Librianna: Scott deve andare a intervistarla, costi quel che costi. E per entrare in Unione Sovietica basta chiedere, no? Il protagonista arriva come turista sul Mar Nero (che non è chiaramente il Mar Nero) in treno (da Seattle!) e poi da lì a Mosca in aereo, con intrattenimento orale gentilmente offerto in volo da una compagna (“Abbiamo infranto la barriera del suono”). Scott finisce sulla piazza Rossa (e c’è sul serio! E fa quasi più impressione che ci sia del contrario!) e si chiede, da vero segugio: come trovare Librianna? Basta andare ai magazzini GUM, e dove, se no? (C’è solo una milionata di russi, del resto, a guardare i prodotti, pochi). È il momento più godibile dell’immonda pellicola: Scott salta fuori qui e là nelle location moscovite come un Paolini in cerca di notorietà. Però gli va sempre buca: decide allora di provare la fortuna alla parata che celebra la Rivoluzione d’Ottobre. Del resto è logico: più gente c’è, più è probabile che si trovi lì anche Librianna… La logica viene ulteriormente violentata grazie a un tizio che vende al mercato nero la dritta verso tale Maya, una con il tatuaggio di una stella rossa su una chiappa, giuro. Ovvia copula ma il lavoro di intelligence va in malora perché Maya è un’agente KGB. Arrestato e interrogato, Scott riesce a scappare (non è dato sapere come: la mai abbastanza celebrata grandezza dell’ellisse narrativo!) ed è Librianna a contattarlo. La leader controrivoluzionaria è una ninfomane che vuole liberarsi del giogo comunista e si masturba con i libri di storia sovietica: sa tutto di Scott e lo ha seguito insieme al suo servo, un personaggio incappucciato chiamato Igor. Riceve lo straniero nel suo covo segreto, lo invita a farsi un bagnetto e gli concede l’agognata intervista. Lui le chiede come mai sia così ricca e riesca nella sua attività porno-politica e lei gli risponde come se parlasse a un deficiente: in URSS sono tutti così timorosi di fare domande che nessuno le fa e questo le permette di prosperare. Ma pensa! E da qui prosegue l’assortimento di bestialità, con una trama pensata da qualcuno che ha ingestito peyote grossi come birilli, farcita di scene pornografiche eccitanti come in un film di Rocco – ma Buttiglione non Siffredi – con fotografia amatoriale, musiche stonate e montaggio e regia che farebbero augurare un’effettiva permanenza in Siberia degli autori di cotanta vaccata. C’è tutto il repertorio: sopra, sotto, davanti e dietro, ma è sempre tutto di una bruttezza indicibile, assolutamente inibente qualunque desiderio sessuale, anche a causa di attori orrendi, senza distinzione di genere, tutti, maschi e femmine, oltretutto pelosi anche oltre le folte abitudini dell’epoca. Lui sembra un Kevin Costner con la frangetta, finito sotto una pressa e senza un bagliore di intelligenza negli occhi ed è un attore bestiale, asinino ma non dove ti aspetteresti che lo sia un attore porno. Lei è una non irresistibole tettona alla Russ Meyer, dal volto cubista e con parrucca platinata. Il top della comicità involontaria è toccato con la scena di seduzione della bionda nei confronti di Scott: passeggiata sulla spiaggia, bacetti, cena a lume di candela e ballo lento, con lui con un completo enorme che andrebbe forse a Galeazzi e lei vestita come Moira degli elefanti. Tra le altre perle la liberazione di Igor da un gulag entro il circolo polare artico, impresa irrisoria perché “sanno impedire alla gente di uscire dai campi, ma non di entrarci”. Infine la conclusione: Scott torna a casa, pubblica il suo articolo e si riguarda beato i filmini della sua avventura, con il degno finale di lui che possiede Librianna con addosso un costume da orso sovietico, scena degna del peggior film porno mai visto, ma mai brutto come questo. (22/8/11)

ddv7602877 – La bestia nel cuore – e temo anche alla regia – di Francesca Comencini, Italia 2006
Premetto: farò di tutto per non scadere nel querelabile. E aggiungo: non escludo che cattiva digestione, ansie professionali e meteopatia possano avere influenzato il mio giudizio. La prendo larga: per quel che mi riguarda questo film è disastroso ed è l’epitome (ehi, ho usato la parola “epitome”) di tanto cinema italiano, tronfio e insopportabile. La cosa che soffro di più è il testo, mortificante, tutto scritto, legato, finto: la regia insistita e non granché originale contribuisce a questo senso di poca spontaneità, in una generale piattezza talvolta interrotta da qualche lampo d’invenzione, alternanza – rara – che insinua il dubbio della casualità e dell’inconsapevolezza. La drammaturgia è gestita come un macellaio tratta un nodino, con improvvisi apici recitativi scomposti, tra urla e gemiti. Poi arriva il momento leggiadro, sentimentale e, zac!, parte la Gnossiénne numero 5: povero Satie, ridotto a stereotipo musicale. Giovanna Mezzogiorno non recita, ma sussurra ai limiti dell’inudibile e sembra avere qualche problema di dizione e siccome l’argomento è scottante la si premia, anche in memoria del padre Vittorio che in vita, invece, ce l’eravamo filati poco nonostante avesse lavorato con Peter Brook. Luigi Lo Cascio se la cavicchia, ma qui non mi sembra un problema di capacità attoriali, ma proprio di gestione delle stesse, con una regia che anestetizza tutto fino alla prossima accelerazione isterica, passando da personaggi narcotizzati a giulivi e poi tragici. In certi momenti il film sembra Boris, ma per comicità involontaria. Finale con rallenti e fermo immagine: non vado oltre se no finisco nel penale. Audio brutto, luci e scene finte, con interni irreali, case vuote, senza tende o persiane (la metafora? Spero di no ma pure potrebbe). Dialoghi da manuale, ma di quelli per principianti: più che indignato, sono incredulo e Barbara mi è testimone dello scempio cui assistiamo. La trama è tratta da un romanzo della regista e si può sintetizzare il più brevemente così: papà è pedofilo e incestuoso, ma la figlia ha rimosso nonostante l’evidenza dei ricordi. E certo, se no il film non si fa. Lei incinta va in USA dal fratello per rasserenarsi dato che la turba l’immagine ricorrente della patta aperta del padre che la raggiungeva nel suo lettino di bimba. E chissà mai cosa sarà potuto accadere. Ma in USA non ha il coraggio di chiedere esplicitamente al fratello. Poi annuncia che è incinta e quando la cognata dice che la gravidanza le farà dimenticare tutto, che questa nascita la salverà, arriva il picco drammatico: “Salva da cosa!?!”, urlando all’improvviso. E da lì rivelazioni a cascata e ritorno in Italia con ulteriori vicissitudini che culminano nella scena stracult del delirio preparto, con camera zenitale che ondeggia sulla Mezzogiorno in deliquio. Candidato per l’Italia al premio Oscar, il film non è stato però premiato e chissà poi perché. Mentre scrivo, cioè il giorno dopo questo supplizio, la Comencini ha presentato il suo nuovo film a Venezia, tratto da un altro suo romanzo. Ci son state risate a scena aperta durante le scene drammatiche. Lei ha accusato i critici maschi, e te pareva. Mi dispiace, ma dopo questo La bestia nel cuore non ho dubbi su chi possa aver ragione. Critico no, ma maschio sì, sorry, e non significa che devo accettare sullo schermo ogni cosa solo perché la regista si ritiene intoccabile per nascita, eh. Vabbeh, basta: ho una fame nera, comunque, e vorrei capire perché se basta una sera per prendere un chilo, serve un mese per abbatterlo e perché a 20 anni mangiavo 5 etti di patatine fritte e non avevo problemi e adesso non posso più farlo. È un mondo cattivo, con la bestia nel cuore, certamente. (Diretta su RaiMovie; 6/9/11)

ddv7603879 – L’incantevole, giuro, Come d’incanto di Kevin Lima, USA 2007
Galeotto fu il trailer in un dvd Disney visto recentemente. Le bimbe pretendono e il pessimo padre obbedisce. Il concept è imbattibile (personaggio da favola, simil-Principessa, immerso in realtà metropolitana odierna) e il risultato finale è ottimo perché si tiene il ritmo delle trovate e non si sbraca mai. La prima parte funziona benissimo ma è anche la più facile (per modo di dire) da scrivere. È la parte destruens, con tutta l’ironia – anche cattiva – sul mondo disneyano e gira a mille con equivoci, gag e anche battute azzeccate. Il primo Shrek era tutto così ed era amabile. Ma era solo così: parodia, geniale perché inedita, ma solo parodia. Diventa difficile però portare avanti il gioco, la parte construens: come far funzionare la trama, come risolvere tutto ed è qui che io batto le mani perché tutto si incastra alla perfezione, sempre con autoironia e plausibilità narrativa. È un ottimo lavoro, sinceramente, e non l’avrei mai detto, ma mai mai mai. Brava la protagonista principale, Amy Adams, e anche il belloccio contemporaneo, tale Patrick Dempsey, che, mi spiega Barbara, si tratta di gnoccolone riverito dall’universo mondo femminile intiero in quanto protagonista di Grey’s Anatomy, uno di quei telefilm di bassa lega che ha conosciuto immensa popolarità in tempi recenti (ne ho visto una volta una puntata e l’unica cosa curiosa era che protagonista fosse una cinese con la faccia più storta che avessi mai visto, tolti due quadri di Picasso). Film adorato dalle bambine (le mie, intendo) e pure apprezzato da me, com’è evidente. (1/10/11)

ddv7604880 – Boris – Il film di Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, Italia 2011, non vale il Boris che conoscevamo
La partenza è buona, con la sentenza definitiva sul fare tivù (“è come la mafia: non se ne esce, se non da morti”, confermo) e con il racconto dolorosamente attendibile del sottobosco cinematografico: la cialtronaggine dei produttori finti e veri, le fisime intellettuali degli sceneggiatori, i salari rubati, le pose acculturate. Finisce che René Ferretti accetta di girare un improbabile La casta, provando il colpaccio con un’operazione in stile Gomorra. Ovviamente finirà tutto in vacca, rassegnati – anche su pellicola – a riprodurre le modalità lavorative della televisione. Perfetta la caratterizzazione della grande attrice italiana, che non parla ma sussurra ed è piena di fobie, ritrattino che mi sembra adattabile a un numero imprecisato di attrici (ma facciamoli ‘sti nomi: la Mezzogiorno, la Morante, la sempre nevrotica Buy). Ci sono alcune trovate azzeccate, ma più che ridere si sorride e in alcuni momenti si subiscono stasi esiziali e la questione è che da un film così vorresti avere una brillantezza insuperabile, come nella serie tivù. Invece si rimane in superficie in troppi momenti. La seconda parte ricalca le dinamiche note nella serie, ma senza la freschezza e la velocità cui eravamo abituati e la morale finale l’abbiamo già vista in tre finali di serie, anche se Barbara parte con le ipotesi: e se fosse stato un sogno? Ma non cambia il risultato: René quello sa e deve fare, la tivù cialtrona, ammesso che ne esistano altre possibili. Gli attori sono tutti bravi e ben diretti. Sermonti è l’unico che mi risulta fastidioso, ma non per limiti suoi, ma perché il suo ruolo non ha più misura, è completamente fuori controllo e non credibile nel pur poco credibile livello di realtà. Cameo grandioso di Nicola Piovani che si riscatta dall’amorazzo con Giovanna Melandri e rende meritevole l’Oscar vinto anni fa con La vita è bella. (1/10/11)

ddv7605886 – Babylon A.D., una babelica stronzata di Mathieu Kassovitz, Francia 2008
Questo film fa cacare, ma dolorosamente, con crampi e nebulizzazioni diarroiche tipo spray. È di sconcertante bruttezza, dalla trama intorcinata e inspiegabile, senza alcun fascino visivo e narrativo. Pure le scene d’azione fanno schifo e Vin Diesel non ha una battuta una che sia decente. Di contorno una Rampling truccata come The Joker (e con qualcosa della Moratti, ecco) e un Depardieu conciato da cattivo in maniera grottesca con un nasone immenso e i denti marci. Brutto tutto, la fotografia buissima, la musica che si dimentica subito. Prevedibili gli sviluppi della trama, sono implausibili anche nel campo dell’implausibilità della fantascienza i motori narrativi della vicenda. Tremendo. Rai4 sta comunque diventando il nostro canale preferito del digitale terrestre: ha un programma denso di vaccate assolutamente godibili. Ti siedi, accendi e subisci, sdivanato e assente. Sembra una Italia1 di 15 anni fa, piena di film d’azione di cui uno non sospetta neanche l’esistenza. Barbara s’è vista due film dedicati alla Banlieue 13, che io invece ho assunto a tratti. Scene d’azione sempre godibili, montate freneticamente ma anche con bei cinematismi, inventivi, cosa che nel film di Kassovitz mancava clamorosamente togliendo anche uno dei pochi motivi di visione. Le trame e i dialoghi invece facevano schifo, ma la colpa magari è della traduzione, chissà. (No, non credo). Ad ogni modo il secondo episodio finisce con gli eroi della banlieue (arabi, dropout, punk, delinquentelli, sballati etc.) che fanno tenerezza al presidente francese improvvisamente illuminato, tutti vanno d’amore e d’accordo, egalité, fraternité, Beyoncé, e si completa il piano del cattivone di turno (il capo della flicaille) che voleva bombardare la banlieue per realizzare una pesante speculazione. La si bombarda sì, ma tutti decidono che la si ricostruirà migliore e con del verde. Ma che buffoni! (Diretta su Rai4, 21/10/11)

hqdefault888 – Fulminati e persi ne La Vallée di Barbet Schroeder, Francia 1972
Moglie di diplomatico annoiata conosce 4 hippie storti che nella verdeggiante Nuova Guinea vogliono trovare l’uccello del paradiso in una valle misteriosa. Ovviamente la ciccetta si diletta di ornitologia in altra maniera, con consumo entusiasta di droghe, tronata e libera da convenzioni piccolo borghesi, e l’allegra combriccola intraprende un trekking: il film diventa quasi un documentario, con facce, usi e costumi degli aborigeni e la consueta uccisione dei maiali (sembra un obbligo narrativo degli anni Settanta) presi a legnate in faccia, in una scena abbastanza cruenta e insistita. Il viaggio prosegue imperterrito sinché la compagnia arriva stremata in cima a una montagna. Sono tutti affamati, sporchi, distrutti da fame, sete e fatica e – con un effettaccio tipo TeleTubbies che simula la rifrazione dei raggi solari – la protagonista si risveglia e dice: la vedo, ecco la valle! (letteralmente, come da titolo: la vallée!) e poi “FIN” e buonanotte ai suonatori. Eeeeh? E nonostante ciò il film ha un suo perché: è lentissimo e ipnotico, drogato e drogante, nel senso che non riesci a metterlo giù nonostante l’azione pressoché nulla e il finale stupefacente nel suo lasciarti a bocca asciutta. La Nuova Guinea, è un’isolaccia immensa, pressoché disabitata se non da tribù che vivono su altipiani a 2000 metri e senza quasi risorse alimentari (ho appena letto Armi, acciaio, malattie di Jared Diamond, bellissimo, sull’evoluzione dell’uomo e ‘sti poveretti sono (stati) cannibali per la drammatica mancanza di proteine nella loro dieta). Per altro gli indigeni seminomadi sono fisicamente stranissimi, come degli aborigeni australiani, ma più scuri, con niente in comune con gli orientali né tanto meno gli occidentali. I paesaggi sono maestosi: sembrano alpini, ma con foreste intricatissime, ed è sempre nuvolo, con una percepibile umidità che solo a guardare il film mi sentivo venire i reumatismi. Sono andato su Google Maps a dare un’occhiata e in effetti è ovunque chiazzato di nuvole. La colonna sonora (per canzoni) è dei Pink Floyd, contenuta nell’album Obscured By Clouds, come la valle paradisiaca, sconosciuta e introvabile in quanto non fotografata nelle ricognizioni aeree perché oscurata dalle nubi. La musica è usata poco e male ed è un peccato perché è una delle opere più originali dei Pink. Realizzata in due settimane, praticamente buona alla prima, ha un piglio rock niente male (dall’hard fino a due pezzi invece inusitatamente pop, con David Gilmour in bella evidenza) e stupisce al confronto del coevo Dark Side of the Moon. O forse mi piace perché c’è quell’inconfondibile sonorità, ma su pezzi non così rifiniti, non cesellati, puliti, quasi asettici come nel capolavoro di cui si celebrano in questi giorni i 40 anni con edizioni clamorosamente costose e ricche (di roba inutile: un capolavoro per pulizia progettuale e interpretativa ti viene rivenduto con gli scarti zozzi? mah!). La protagonista Bulle Ogier è interessante, sembra una bambolina, così compita coi suoi occhioni azzurri e i capelli biondi. Gli hippie invece sono mostruosi, non particolarmente convincenti come attori e ce n’è uno che a un certo punto indossa il chiodo da metallaro… in Nuova Guinea! Alle volte, i corto circuiti temporali e climatici, mah! Il film l’ho cominciato a guardare in treno sul computer e al 15° minuto ‘sti qui trombano, come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. (Quando sarebbe interessato a me, no. Dopo neanche. Oggi neppure). Comunque non potevo vederlo col timore che arrivasse alle spalle un controllore mentre due copulano sullo schermo. Vabbeh, l’ho spento e rivisto con più calma a casina mia. Interessante spaccato di vita quotidiana, nevvero? (29/10/11)

ddv7607889 – La libertà irripetibile di Alpe del Vicerè 1973 e Re Nudo di Luigi Salvaggio e Dario Vergani, Italia 2010
Raccolta di documenti visivi (che si accompagnano a un divertente libro di Matteo Guarnaccia) che rinuncia programmaticamente alla forma filmica e alla nostalgia. Si tratta di diversi reperti storici dei primi raduni pop in Italia, genuinamente underground e realizzati con pochi soldi e tanta energia e idee. Le immagini sono attualizzate con interviste ai testimoni dell’epoca, realizzate tecnicamente un po’ coi piedi e con poca severità nei tagli, ma comunque interessanti e congruenti allo spirito rievocato. E non puoi che voler bene a queste persone che non ostentano alcun reducismo post sessantottino. Nelle immagini vediamo maree di giovani e c’è meno politica “parlata” di quanto si possa credere, piuttosto tanta politica praticata. Le sequenze di Alpe del Vicerè sono straordinarie e c’è un Battiato che se non lo vedi non ci credi. Ha una testa di capelli che al confronto Angela Davis era una dilettante calva: magrissimo e simpaticissimo, era già geniale allora, ma questo lo sa chiunque abbia ascoltato Fetus. Tra i protagonisti dell’epoca anche Finardi che racconta sullo sfondo di San Michele di Pagana, tra Rapallo e Santa Margherita. Quando lo vedo, penso: ma quegli scogli io li conosco! Incredibile: questo va da sempre nella spiaggia in cui andavo io da bambino (ho un evidente legame sotterraneo con Eugenio Finardi: veniva d’estate anche a Champoluc e oggi abita vicino a me: prima o poi devo intervistarlo). Dopo questo tuffo nella memoria, emozionante e per nulla compiaciuto, mi son rifatto la bocca con il finale del grandioso Trappola d’amore, un disastroso thriller sentimentale con un risibile Richard Gere al top della forma, tra pianti e scenate isteriche: prima o poi si impone una visione integrale con doverosa disamina critica. (3/11/11)

ddv7608890 – Il grande freddo di Drive, di Nicolas Winding Refn, USA 2011
Raggelato, stilosissimo, intrigante: il kitsch anni Ottanta che diventa stile. Mi ricorda uno Scorsese, ventenne nei temi e cinquantenne nella forma, ma c’è molto di più, è chiaro. C’è il Vivere e morire a Los Angeles di Friedkin, per esempio, e altre cose ancora che i critici seri sanno e io non ricordo più e neanche ho voglia di farlo. Drive è girato benissimo, con una lentezza ostentata che va di pari passo col mutismo del protagonista: non ricordo se l’ha detto Ryan Gosling o Refn proprio, ma sarebbe un sogno, o potrebbe esserlo, con le sequenze finali come uniche ambientate nella realtà. Ma non mi interessa, il film viaggia bene così. Titoli con lettering e colori fluo a sottolineare la curiosa adesione estetica di cui dicevo: si veda anche la musica di plastica, decisamente azzeccata (anche se a film finito non la sentirei manco sotto tortura). Bravi gli attori, bello il montaggio e intelligenti le piccole deviazioni narrative che ti ingannano per pochi secondi. (12/11/11)

ddv7609893 – Altrimenti ci arrabbiamo!, sempre!, di Marcello Fondato, Italia Spagna 1974
In realtà lo abbiamo visto a rullo per un mesetto circa, ma con continuità io l’ho rivisto solo stasera. E con che stolido piacere, signori miei. Pochissimo dialogo, tutto memorabile però, nella sua semplicità archetipica: quando l’ho visto nell’agosto 1979 ricordo che con Pier Paolo citavamo a memoria – e dopo una sola visione – tutte le frasi del duo Bud and Terence, manco declamassimo versi dell’Ariosto. E oggi lo vedo fare a mia figlia. I due protagonisti erano in stato di grazia e affiatatissimi, ma anche i personaggi di contorno sono perfetti (su tutti Donald Pleasance!), così come le caratterizzazioni (i duri della banda nemica, il killer Paganini). Le musiche dei fratelli De Angelis alias Oliver Onions sono eccezionali (e non solo la frizzante Dune Buggy, anche il Coro dei pompieri, Across the Fields che accompagna il rally iniziale e Il ballo, in tutte le scene danzerecce). Un giorno m’è venuto lo sghiribizzo di fare un controllino e ho verificato che lo stadio era quello dell’Atletico Madrid (Google Map è uno strumento prodigioso: certe volte passo un’ora a passeggiare virtualmente in posti che conosco. Sono un cretino, lo so). Poi ho googlato e trovato un sito con estensione Tokelau di un simpatico matto che ha perlustrato Madrid ritrovando tutti i luoghi del film 40 anni dopo. Vabbeh. Di solito coi film amati nell’infanzia, quando si rivedono dopo tanto tempo, si prova una sensazione agrodolce, scoprendo quanto fossero irrisolti, salvati dalla benevolenza della memoria. E invece no: Altrimenti ci arrabbiamo sta in piedi non solo dignitosamente, ma proprio benissimo e potrebbe correre la maratona. L’incasso fu stratosferico e non ho né voglio cercare le pezze d’appoggio, ma insieme a Fantozzi e a Ultimo tango a Parigi credo sia uno dei film più visti dal popolo italiano. D’accordo che c’erano le seconde visioni, le terze e i parrocchiali (io il film – del 1974 – l’ho visto al cinema sia nel 1979 che nel 1980) e la televisione era quella del monopolio Rai (e non ancora del monopolio Nano), ma Benigni, Aldo Giovanni e Giacomo, Zalone e Giù al sud, gli fanno una pippa ad Altrimenti. E anche non fosse un semplice calcolo sui biglietti staccati o sugli incassi, io parlo proprio di immaginario, perché non c’è persona tra i 40 e i 50 che non sia stato segnato dalla visione di questi film. Comunque che si continui a parlare d’incasso più grosso di tutti i tempi basandosi solo sul valore nominale dell’incasso e non sull’effettivo valore considerando la svalutazione, beh, è una coglionaggine che non ha veramente senso. (5/12/11)

ddv7610895 – Voglio i Gremlins di Joe Dante, USA 1984
Approfittando del sonno pomeridiano della piccola Elena, Sofia e io ci concediamo una peccaminosa visione di un film che mamma Barbara sconsiglia. Ma vinciamo noi e, non avendo visto il film all’epoca, capisco a chi si riferisca il nome della band attualmente à la page dei Mogwai. Noto anche che il mio amore Phoebe Cates era proprio patatissima, nonostante certe camicette emetiche tipicamente anni Ottanta. Invece il protagonista non l’ho mai più visto. Dunque: siamo alla vigilia di Natale e un inventore senza arte né parte regala al figlio un curioso mostricciattolo peloso scovato in un robivecchi cinese. Ma, attenzione: niente luce, niente acqua e guai a dargli da mangiare dopo mezzanotte. Cose che puntualmente accadono e mentre sulla tivù girano prima La vita è meravigliosa e poi L’invasione degli ultracorpi, la cittadina viene invasa da mostruose creature devastatrici. È una fiaba di Natale horror, dove il buonismo spielberghiano viene sbeffeggiato (complice Spielberg stesso che produce). Rimandi cinefili e tanta ironia: altro che E.T.: questi gremlins sconquassano lo status quo, pervertono e perturbano anarchicamente tutto, sfasciano, fumano, sbevazzano, fanno pure giustizia dei tanti personaggi negativi della cittadina, ma ovviamente l’orrore sano non può vincere su quello reale, di un paese ormai finto, che finge di credere a Babbo Natale e che si sente assediato dagli stranieri (tantissime volte, se ne parla e si vedono prodotti esteri). Insomma, ne esce un film più intelligente di quanto vuol dare a vedere – con la sua estetica infantile e smaccatamente falsa (ma i mostri finti in modo pacchiano sono anche un omaggio alla fantascienza maccartista degli anni Cinquanta). Però rimane il solito problema: si ride e si scherza e si dicono pure cose non banali, ma il film non va bene per gli adulti (a meno che non siano un po’ rimbambiti) né per i bambini, perché al di là della vicenda (molto prevedibile) i temi sono fin troppo alti. Sofia ha visto tutto senza fare un plissé né reagendo al clamoroso spoiler: Babbo Natale non esiste! (9/12/11)

ddv7611897 – Fumata nera per Habemus Papam di Nanni Moretti, Italia 2011 Dvd
Naaaa. Non riuscito. Parte con un tema interessante che però non viene granché sviluppato: la solitudine della scelta di un uomo sembra lasciata esattamente al protagonista e la regia e la trama non provano a darci altre indicazioni. Un po’ comodo, quando invece si indugia su stupidaggini autoreferenziali (la partita a pallavolo che non finisce più, il tormentone prevedibilissimo della mancanza di accudimento) o alcune macchiette irritanti (il giornalista del Tg2 che poi, per fortuna, viene perso di vista). Un’occasione persa, insomma. C’è l’intelligenza di Moretti, ci mancherebbe, ma anche tante scorciatoie che lasciano l’amaro in bocca. A me che Nanni faccia Nanni, un po’ incazzoso e monomaniaco, non dispiace. Oh, è ben per questo che lo abbiamo amato, ma non si può cadere nella parodia di sé. Cosceneggiatori Francesco Piccolo (che ha venduto mille milioni di copie di un trascurabile liberculo intitolato Momenti di trascurabile felicità) e la genovese Federica Pontremoli che mai sono riuscito a incrociare tra Lumière e altro. (11/12/11)

ddv7612899 – Le colpe dei padri… Children of the Revolution di Shane O’Sullivan, Irlanda/Germania 2011
Curioso documentario dal repertorio iconografico storico clamoroso che racconta la storia di due madri “rivoluzionarie”, Fusaku Shigenobu e Ulrike Meinhof, e delle loro figlie, figlie della rivoluzione, senza padri e sballottate per il mondo, senza identità. Il film è apologetico e non “critico” o storiografico: sceglie di non dedicarsi alla storia delle madri in maniera approfondita, non entra nelle polemiche sui crimini commessi o meno né si occupa granché della morte della Meinhof. Circoscrive l’indagine privilegiando gli aspetti privati ed essendo un ritratto emotivo fallisce proprio perché rimane asettico, senza far scattare una vera empatia. Mai una scintilla, dell’affetto, una partecipazione, anche tra gli stessi protagonisti. Bettina Meinhof è una derelitta incarognita che ha pagato eccome per le colpe della madre, se la madre ne ha avuto, ancora ossessionata dai fan postumi. Le amiche di Ulrike che la raccontano sono delle anziane borghesi che sembrano non aver capito il travaglio della Meinhof (che a loro si ribellava) e tendono a giustificarla dando la colpa – ‘anvedi – alle cattive compagnie o ai problemi neurologici della giornalista (che si portava una bella piastra di metallo in testa che potrebbe averle cambiato la personalità). Mah. Delle due storie la più riuscita è decisamente quella di May Shigenobu, persona realizzata e dalla vita interessante. La madre Fusaku Shigenobu è stata partecipe in maniera onorevole, proprio secondo l’accezione giapponese – che non conosco, ma ci siamo capiti – della lotta palestinese per la libertà, assieme al FPLP, e non si può che provare simpatia quando la traducono in carcere, indifesa, innocua, dopo 30 anni di latitanza e lotta ideale, giacché dopo la partecipazione ai dirottamenti degli anni Settanta non ha più fatto nulla, se non vivere in fuga. I vecchi compagni della Shigenobu sono invece dei mai domi compagni nipponici, sorridenti, capaci di ironia, ancora irrequieti. Come del resto lei, di cui si vedono le immagini della cattura nell’aprile 2011, salda e sicura. Edizione sottotitolata in inglese quando i protagonisti non lo parlano direttamente (alcuni militanti palestinesi in maniera atroce e incomprensibile). Film interessante, non so quanto riuscito. (16/12/11)

(Continua, forse – 76)

Altre Visioni su Twitter, pensa che gggiovane: @DzigaCacace
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