Giorgio Vasta – Carmilla on line https://www.carmillaonline.com letteratura, immaginario e cultura di opposizione Fri, 18 Apr 2025 22:31:39 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=4.9.26 Il postino di Mozzi, l’ultima frontiera della psichedelia https://www.carmillaonline.com/2019/05/09/il-postino-di-mozzi-lultima-frontiera-della-psichedelia/ Thu, 09 May 2019 21:29:08 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=52446 Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella [...]]]> Il postino di Mozzi, Arkadia editore, Cagliari 2019, pagg. 136 € 14

Esce per Arkadia questa originale antologia, curata da Marino Magliani e Luigi preziosi, dove un gruppo di scrittori di formazione e stili diversissimi trova riparo sotto l’accogliente ombrello del nominativo Fernando Gugliemo Castanar. La fiction di base sta nell’operato di un aspirante autore (lo stesso Castanar) che per anni ha spedito, inutilmente, testi e lettere a un famoso editor e scrittore di nome Giulio Mozzi, il quale ovviamente non ha mai risposto.

Così, diventato postino, proprio nella città di Mozzi, ha iniziato a sottrarre posta al suddetto, assemblando questa raccolta fatta di pagine narrative, poetiche, invettive, riflessioni. Il risultato è un furioso, anarcoide ipertesto che si può leggere in tutte le direzioni: dalla fine, dal centro, dall’inizio. E’ un cut up pirotecnico di stili, che vanno dal classico all’epistolare allo sperimentale; è come imbarcarsi nel carrello di un lunapark, dove veniamo schiaffeggiati, cosparsi di ragnatele, accecati da lampi, assordati da grida cavernose. Di sicuro non ci si annoia.

Di seguito pubblichiamo un testo, proprio dello stesso Giulio Mozzi, che potrebbe avere, come sottotitolo, Vita complicata di uno scrittore che non scrive storie (MB).

* * *

Da due anni e mezzo Giulio non inventa una storia. Lui è uno scrittore di racconti, uno che di solito brulica di storie. In nove anni ha scritto sessantaquattro racconti, di varia lunghezza, dalle settanta pagine a tre, mediamente di quindici-venti pagine. Fanno sette racconti virgola uno periodico all’anno, calcola. Zero virgola cinquantanove pressoché periodico racconti al mese. Insomma, scrivendo in certe stagioni di più, in certe stagioni di meno – per esempio, quando lavorava in libreria, scriveva molto durante le ferie – Giulio ha potuto sempre pensare a se stesso come a uno che le sue storie se le pensa, se le rigira in mente, se le scrive: con tranquillità. Agli amici però diceva: «Non mi toccherà mica tutta la vita fare lo scrittore»; suscitando strilli e rimproveri.

Da due anni e mezzo invece Giulio non inventa una storia. Qualche racconto l’ha cominciato: e l’ha interrotto, magari dopo molte pagine, non perché venisse poi male, no, ma perché si rendeva conto di avere già scritta quella storia, magari più di una volta, con travestimenti diversi. E le storie, a un certo punto, vanno ammazzate. Tutto sommato, pensa Giulio, è vero che ciascuno di noi ha solo una, forse due storie da raccontare. Ma comunque, a un certo punto, le storie bisogna ammazzarle. Per l’ennesima volta Giulio inizia a scrivere la storia d’un abbandono, d’un amore odioso, di una repulsione affascinata: scrive cinque pagine, dieci, quindici, fingendo d’essere una donna di trent’anni che scrive al proprio padre, immaginando un padre amante della figlia fin dai primissimi tempi dell’adolescenza di questa, immaginando una figlia prima sedotta e poi spaventata, fuggita, indurita; scrive, Giulio, più di trenta pagine, immaginandosi di essere questa donna, scrivendo attraverso questa donna che immagina di essere parole che lui da solo non sarebbe mai capace nemmeno di pensare; scrive, e un bel giorno butta via tutto. Via. Cestino, Svuota cestino. Perché la storia è sempre la stessa storia, e lui l’ha raccontata così tante volte da saperla raccontare, ormai, se n’è accorto, come col pilota automatico. Datemi la storia d’un amore disperato, possibilmente contro natura di quel tanto, e io darò voce ai suoi attori. Li farò parlare in modo tale da farli compatire e amare. Questo io so fare. Questa è la mia specialità.

In questi due anni e mezzo senza storie – una storia buttata via è una storia inesistente – Giulio ha scritto molto. Ultimamente si è specializzato in testi descrittivi di luoghi. Lo chiamano studi di architettura, aziende di promozione turistica, agenzie di pubbliche relazioni: gli chiedono di andare nel posto tale, di vistare l’edificio tale, di farsi un giro nei supermercati della catena tale, e di tornare a casa con una storia. Giulio dice di sì, sempre; fa quello che deve fare; descrive località turistiche, terreni edificabili, edifici incongrui, punti vendita, cimiteri; a volte è accompagnato da un fotografo, a volte no, a volte è lui che accompagna un fotografo; alla fine il cliente è soddisfatto, quasi sempre. Non sempre: perché qualche assessore al turismo se la prende per un testo che non ha niente di turistico, o qualche agenzia di pubbliche relazioni si scandalizza per un testo che manca di rispetto al cliente. In questi casi di solito non pagano.

Giulio si mantiene facendo un po’ di questi lavori, ma soprattutto con i laboratori di scrittura e narrazione. Ogni settimana, più o meno, affronta un gruppo nuovo. Pensionati che si ricordano ancora il tempo in cui tutto questo che c’è oggi non c’era, prima che tutto quello che oggi non c’è più scomparisse, e vogliono fissare, ricordare, conservare. Giovani mamme che inventano favole e filastrocche per i loro bambini presenti e futuri. Carabinieri convinti che la loro vita sia un romanzo. Ragazzotti che vogliono «diventare uno scrittore» (questi Giulio, se può, cerca di mandarli via). Lettrici accanite curiose di capire come funzionano e «come si fanno» quelle narrazioni che le affascinano così tanto. Ingegneri navali, chimici del bitume, operatori di call center, bibliotecarie, ragioniere iscritte all’ordine dei ragionieri: c’è di tutto, in questi laboratori. Giulio veramente è un po’ stanco di affrontare ogni settimana un gruppo nuovo, di riprendere a rotazione gli stessi argomenti, di ricominciare ogni volta da un inizio; tuttavia non sa sottrarsi, pensa a quanto importante sia stata, per lui, l’educazione al parlare al leggere allo scrivere ricevuta prima in casa, poi a scuola, poi nel lavoro; gli risuona sempre in mente la battuta di don Milani che dice, più o meno: «Tu sai cento parole, il tuo padrone mille; per questo lui è il tuo padrone». Non è altro che questo, il mio lavoro, pensa Giulio, e in effetti è un lavoro che gli piace molto, anche se adesso, dopo quasi sei anni che è il suo primo lavoro, veramente è un po’ stanco.

Gli è successo, in questi sei anni, di incontrare persone che, come lui, avevano il dono. Ormai Giulio usa spudoratamente questa parola: il dono; perché solo questa parola gli permette di parlare della cosa che lui ha, o ha avuta, come di una cosa che ad averla non si ha nessun merito, avendola ricevuta in dono. Giulio sa che il suo dono, quello che ha ricevuto lui, è un dono mediocre; sa che il suo lavoro è farlo fruttare; sospetta di averne cavato ormai tutto il frutto che poteva cavarne; ed è felice, di tutto il frutto che ha cavato dal suo dono. Quando incontra persone che, gli sembra, hanno come lui il dono, Giulio si emoziona. Il suo primo pensiero è che di quel dono, di quel dono altrui, lui deve prendersi cura. Si può dire che a volte Giulio si innamori del dono altrui; che lo curi e si adoperi per farlo fruttare più di quanto, negli anni passati, si sia curato del suo proprio dono. In fondo, nel proprio dono Giulio ha avuto molta fiducia: ciò che vorrà darmi come frutto, ha pensato spesso, verrà quasi da sé; io devo essere soprattutto pronto ad accogliere, ad accettare, a ospitare. Invece verso il dono altrui a Giulio verrebbe da essere invadente, sollecitante, troppo premuroso. Così che a volte sbaglia, esagera, ha troppa fretta, non fa le cose come dovrebbero essere fatte. «Sei una mamma un po’ isterica», gli è stato detto una volta; e sarà stato ben detto. Le persone con il dono di cui Giulio decide di prendersi cura, diventano i suoi amici e le sue amiche. Ogni tanto lui pensa che sarebbe bello, vivere per loro. Ogni tanto pensa che forse queste che lui pensa come amicizie non sono veramente amicizie, perché lui è ossessionato dal prendersi cura; e questo non va bene.

Il terrore di Giulio è: ingannarsi, vedere il dono in chi non ce l’ha. Ha provato questo terrore per qualche anno, perché nessuno dei suoi amici, nel cui dono Giulio credeva fermamente, trovava attenzione presso gli editori. Non essendo capace di dubitare del dono dei suoi amici, Giulio ha dubitato di se stesso. Che cosa posso fare, che cosa posso fare, che cosa posso fare? Certi giorni non pensava ad altro.

Da qualche tempo un editore ha chiesto a Giulio di scegliere dei libri da pubblicare. Giulio ne è stato felice: ha potuto chiamare i suoi amici con il dono, e dire loro: ecco. Qualcuno nel frattempo ha trovata una via per suo conto; qualcuno ha rinunciato; qualcuno si è arrabbiato con Giulio; qualcuno è stato felice di accogliere la possibilità; qualcuno ha detto di sentirsi non ancora pronto. Fatto sta che da due anni e mezzo il tempo di Giulio è sempre più occupato dai libri degli amici, e da due anni e mezzo Giulio non inventa più storie nuove. Giulio non è preoccupato per le storie che non gli vengono più. In fondo a lui importa che i libri esistano, ci siano; non è importante che sia lui o siano altri a scriverli. Se in nove anni ha scritto sessantaquattro storie, può bastare. Gli piace molto discutere fino a mattina con Umberto, scambiare lettere con Laura, telefonare a Maria Luisa, prendere il treno per andare da Giuseppe, leggere le e-mail chilometriche di Livio. In fondo, pensa Giulio, io non faccio niente. Queste persone scrivono i loro libri, e non li scrivono certo perché io li aiuto o li sostengo o gli dico come fare o gli risolvo dei problemi. Farebbero lo stesso, anche senza di me; in altri modi forse, con altri tempi forse; ma farebbero lo stesso. Tutto ciò che io devo fare, è stare lì. Esserci. Io sono quello che ci crede, che pensa che tutto questo abbia senso. Sono quello che può testimoniare: che giocarsi un pezzo della vita su una storia o venti storie o sessantaquattro storie da raccontare, è una cosa che ha senso. Io l’ho fatto, la mia esistenza in vita dimostra che ha senso.

Perché in effetti, ciò che temono gli amici di Giulio, così lui pensa, è di morire. Temono che la loro storia uscirà da loro, andrà per il mondo, e loro moriranno. Anche Giulio, a suo tempo, ha temuto questo. Ma adesso lui è lì, le sue storie sono completamente uscite da lui, non ne ha più nessuna, sono tutte in giro per il mondo, e lui è vivo. Vivo. Vivo. Vivo.

[Gli autori:
Giovanni Agnoloni, Franco Arminio, Mauro Baldrati, Mario Bianco, Valter Binaghi, Adrián N. Bravi, Marco Candida, Riccardo de Gennaro, Arianna Destito, Valentina di Cesare, Marco Drago, Riccardo Ferrazzi, Nunzio Festa, Francesco Forlani, Sergio Garufi, Alessandro Gianetti, Carlo Grande, Franz Krauspenhaar, Marino Magliani, Emilia Marasco, Claudio Morandini, Paolo Morelli, Giulio Mozzi, Giacomo Sartori, Beppe Sebaste, Giorgio Vasta, Alessandro Zaccuri, Stefano Zangrando]

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Incosciente quale evidentemente sono Intervista a Giovanni Turi https://www.carmillaonline.com/2018/04/26/intervista-giovanni-turi/ Thu, 26 Apr 2018 21:13:21 +0000 https://www.carmillaonline.com/?p=45217 di Filippo Casaccia

È un momento di grande fermento per l’editoria indipendente: a fronte di una crisi che riduce progressivamente il numero dei lettori assistiamo invece alla nascita e allo sviluppo di tante piccole realtà editoriali che con passione e competenza alimentano il dibattito letterario, coltivano delle comunità di autori e lettori e sempre più spesso propongono opere di qualità assoluta, facendo un’operazione di scouting che le major sembrano troppo spesso tralasciare. Il recente BookPride di Milano, quest’anno sotto la direzione di Giorgio Vasta, ha dimostrato la vitalità del settore ed è [...]]]> di Filippo Casaccia

È un momento di grande fermento per l’editoria indipendente: a fronte di una crisi che riduce progressivamente il numero dei lettori assistiamo invece alla nascita e allo sviluppo di tante piccole realtà editoriali che con passione e competenza alimentano il dibattito letterario, coltivano delle comunità di autori e lettori e sempre più spesso propongono opere di qualità assoluta, facendo un’operazione di scouting che le major sembrano troppo spesso tralasciare. Il recente BookPride di Milano, quest’anno sotto la direzione di Giorgio Vasta, ha dimostrato la vitalità del settore ed è in questa occasione che ho incontrato Giovanni Turi, direttore editoriale di TerraRossa Edizioni, un esempio emblematico di qualità e agilità.
Giovanni, come sei entrato nel mondo dell’editoria?
Mi ero scritto alla Facoltà di Fisica, poi, per colpa di una lezione del professor Marco Marchi alla quale partecipai erroneamente, decisi di passare a Lettere (triennale), cui sono seguiti la laurea specialistica in Editoria e in parallelo un corso di formazione al lavoro editoriale con stage finale.
E quindi abbiamo perso un fisico e guadagnato un editore… ti sei mai pentito?
Me ne pento ogni volta che faccio dei bilanci (non solo economici), ma mi consolo pensando che probabilmente sarei stato un fisico mediocre, invece come editore sento di poter provare a essere almeno discreto.
Quando hai deciso di diventare editore?
In realtà io avevo deciso di diventare editor di narrativa, ossia di seguire la valutazione e la successiva gestazione dei testi con i rispettivi autori, e solo di questo mi sarei dovuto occupare anche per TerraRossa Edizioni. Quando però mi sono accorto che occorreva assumersi anche le responsabilità amministrative e gestionali, da incosciente quale evidentemente sono, ho accettato la sfida. L’aspirazione è quella di dare voce a chi abbia qualcosa da raccontare e sappia farlo in modo originale, (ri)aprire uno spazio letterario che sembra sempre più angusto: quello della narrativa che si ponga come obiettivo non solo l’intrattenimento, ma anche la sperimentazione stilistica e l’indagine sul nostro tempo.
Cosa intendi per indagine sul nostro tempo?
Sembra una frase a effetto buttata lì, se però mi costringi a ragionarci su… intendo una letteratura che parli agli uomini e alle donne che vivono in un mondo i cui confini sono esplosi nella virtualità, che avvertono come sempre più marcato il divario tra aspirazioni e possibilità, i cui riferimenti culturali, spirituali e politici sono sempre più confusi. Insomma, una narrazione che possa scalfire la solitudine e costringere a guardare oltre tutti gli schermi.
A livello di poetica – visto che sei anche editor – quali sono le prove letterarie che recentemente ti hanno convinto di più?
Ciò che contraddistingue i veri scrittori, secondo me, sono tre doti: la capacità di osservare il reale attraverso un’angolatura inedita, l’abilità nel narrare una storia (non necessariamente chiusa o lineare), la reinvenzione del linguaggio; fermo restando che ogni opera di qualità è anche capace di dialogare con il lettore, di ampliare il suo orizzonte e di irretirlo senza indisporlo o farlo sentire inadeguato. Con troppa frequenza invece si confondono banalità e immediatezza o masturbazioni linguistiche e letterarietà. Dunque, per fare un esempio, relativamente alla letteratura italiana contemporanea, nominerei Works di Vitaliano Trevisan: un romanzo che non solo attraversa la società italiana e le sue ipocrisie, ma soprattutto è dotato di uno stile personalissimo, che travalica continuamente i limiti dei singoli periodi narrativi senza mai dare l’impressione di deragliare. O anche Il giardino delle mosche di Andrea Tarabbia che, a seguito di un accurato studio di documenti e atti processuali, esplora la biografia del serial killer Čikatilo, attraverso l’uso potente della prima persona.
Come editore indipendente quali sono le difficoltà che incontri più spesso?
Le difficoltà principali sono due e non riguardano solo gli indipendenti: la scarsità di lettori (ancor più di quelli che sappiano confrontarsi con qualcosa di diverso dal solito) e il fatto che l’editore è paradossalmente l’attore più penalizzato di tutta la filiera editoriale (librerie e distribuzione possono arrivare a sottrarre il 60% del prezzo di copertina; tasse, stampa, diritti d’autore e collaboratori, se le vendite sono scarse, anche più del restante 40%). In più per le piccole case editrici c’è la difficoltà di trovare spazio nelle librerie e sui media di proprietà dei grandi gruppi editoriali, ma anche di disporre di budget adeguati per la promozione.
Com’è gestito il lavoro editoriale?
Per TerraRossa Edizioni spettano a me selezione degli inediti, editing, spedizioni, scartoffie e coordinare il lavoro degli altri collaboratori: Elena Manzari si occupa dell’ufficio stampa e dei social network, Tiziana Giudice della correzione di bozze, Stefano Savella dell’impaginazione, Francesco Dezio delle illustrazioni; ma ci sono anche altri amici e professionisti che mi danno una mano in vario modo (vorrei nominare almeno Marianna Carabellese e il resto dello staff della Stilo Editrice).
C’è una routine quotidiana?
Non esiste una giornata tipo, anche perché per 4-5 mesi l’anno la mia prima occupazione è quella di guida turistica: come la gran parte degli editori, ho un secondo lavoro, visto che dalla vendita di libri ormai non sopravvive quasi nessuno (e allora occorre inventarsi corsi di formazione e mille altri impieghi).
Quanti libri fate all’anno? Come li scegli?
L’intenzione è quella di pubblicare quattro libri l’anno, in modo da poterli selezionare accuratamente e poi promuovere con dedizione. Li scelgo valutando gli inediti che mi vengono proposti, ovviamente, o sondando cassetti e scrivanie di autori che già conosco e apprezzo.
Finito il lavoro, ti rimane tempo per leggere per il tuo piacere?
Poco in realtà, se non soffrissi di insonnia. Da quando ho preso in gestione TerraRossa, sono comunque sceso da 10-11 libri editi al mese a 5-6: spesso li seleziono tra quelli che mi vengono proposti da autori e addetti stampa per una recensione sul mio blog, Vita da editor, oppure li scelgo in base ai consigli di alcuni amici (reali e virtuali) che stimo, o ai suggerimenti dei rari critici letterari che hanno mantenuto una certa onestà di fondo.
Quali sono le strade per arrivare alla pubblicazione? Cosa consigli a un esordiente?
Considerando la gran mole di testi che vengono proposti, affidarsi a un buon agente letterario può comportare un notevole vantaggio sia per l’autore sia per l’editore, ma chi ritiene che gli inediti spediti alle case editrici non vengano presi in considerazione, si sbaglia. Occorre tempo e se ne ha sempre poco, però; per cui il primo consiglio che potrei dare a un esordiente è di trovarsi un buon agente o comunque di non aver fretta. Se ciò che ha scritto merita, troverà chi lo apprezzi.
Visto il momento di crisi – che sembra ormai una costante – come potrebbe essere aiutata l’editoria?
Se si fosse evitata la costituzione dei grandi potentati editoriali prima e poi l’acquisizione o la costituzione da parte loro dei principali distributori e delle catene di librerie, forse oggi la situazione per gli editori indipendenti sarebbe meno complessa, ma qualcosa a riguardo si potrebbe ancora fare.
Se si incentivassero gli insegnanti a leggere, piuttosto che a compilare moduli e a rispettare desueti programmi ministeriali, forse potrebbero proporre ai propri alunni testi nuovi e più vicini alla loro sensibilità, restituendo alla lettura il suo carattere sovversivo.
Se autori ed editori ricominciassero a credere nelle potenzialità della letteratura, forse in giro si vedrebbero meno parallelepipedi di carta e più libri interessanti.
Cosa invidi alle major dell’editoria? E che cosa gli rimproveri?
Per rispondere devo un po’ generalizzare e semplificare, non amo farlo, ma ci provo. Invidio la possibilità che ciascun loro impiegato ha di occuparsi di ciò che gli compete (e il fatto che percepisca uno stipendio più o meno adeguato), nella piccola e media editoria invece ognuno deve ricoprire più ruoli disperdendo tempo ed energie (e spesso senza alcun ritorno economico). Invidio la loro capacità di influenzare i principali premi letterari e gli spazi di promozione, di dirottare ingenti risorse finanziarie al loro interno, la loro riconoscibilità presso i lettori generici e il loro appeal sugli autori. Rimprovero però la frequente mancanza di un progetto culturale, sostituito spesso dall’idea di presidiare una determinata fetta di mercato. Detto questo, ci sono professionisti capaci, attenti e appassionati anche (se non soprattutto) nelle grandi case editrici.
Quali titoli rappresentano la tua casa editrice? Quali sono le prossime uscite?
Tutti i titoli che abbiamo in catalogo e che pubblicheremo sono e saranno rappresentativi: non mi interessa seguire mode e tendenze, né dare alle stampe testi che immagino si possano vendere ma che non sono coerenti con la mia idea di letteratura. Dunque inviterei a leggerne uno qualunque tra quelli pubblicati da TerraRossa e mi limito a nominare solo l’ultimo: La gente per bene di Francesco Dezio che racconta l’Italia odierna con coraggio e caustica ironia, che denuncia senza mezzi termini l’inadeguatezza della nostra classe imprenditoriale e politica, che sa dialogare con autori come Bianciardi, Volponi, Trevisan.

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